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Autore: Cassidy_Redwyne    11/05/2021    1 recensioni
L’anonima Sheltz Town, dove Rufy e Zoro s’incontrano per la prima volta, è sul punto di diventare teatro di una rivolta.
Per salire di grado Morgan Mano d’Ascia sarebbe pronto a tutto, anche a mettere in pericolo i suoi cittadini attirando una delle flotte più potenti di tutti i mari, interessata all’antico segreto dell’isola, proprio a Sheltz Town.
I cacciatori di taglie di Riadh sono abili, spietati e senza scrupoli. E del tutto impreparati ad affrontare una flotta di tale calibro. Quello che Morgan non ha messo in conto, però, è che pirati e cacciatori di taglie potrebbero mettersi in combutta alle sue spalle. E potrebbero essere gli unici in grado di portare un po’ di giustizia.
***
Per poco non cadde a terra. Spalancò la bocca, la mascella sospesa a mezz’aria.
La faccia squadrata. Gli occhi non particolarmente svegli. I ridicoli capelli biondi.
E l’altro. Capelli corvini e lentiggini.
I pirati a cui aveva intenzione di dare la caccia avevano appena bussato alla sua porta.
***
«Voglio che Zoro si unisca alla mia ciurma» esclamò il ragazzino gioviale.
Riadh strabuzzò gli occhi. «Non se ne parla nemmeno! Giù le mani dai miei cacciatori di taglie!»
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciurma di Barbabianca, Marco, Morgan, Nuovo personaggio, Roronoa Zoro
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO V

“Don’t believe a word
For words are so easily spoken
Don’t believe me, don’t believe me
Not a word of this is true”

 

Aibell deglutì a vuoto.

Erano proprio loro, i due pirati dei volantini. Erano esattamente come nelle fotografie. Marco la Fenice, con quell’improbabile ciuffo di capelli biondi e l’espressione trasognata, una camiciola viola lasciata aperta sul petto tatuato, pantaloni a mezza gamba e sandali; Ace Pugno di Fuoco, con un cappello che gli copriva parzialmente gli sbarazzini capelli mori, la camicia gialla sbottonata sul torace, pantaloni e il fodero di un coltello appeso al fianco.

Aibell poteva vedere chiaramente la taglia che pendeva sulle loro teste, lì fuori dalla finestra, senza neanche un minimo sforzo d’immaginazione, tanto a lungo aveva studiato quei manifesti.

Cazzo. I manifesti.

Con terrore, Aibell si voltò verso il tavolo, ricoperto dagli avvisi di taglia.

Merda, merda, merda.

Lanciò un’ultima occhiata fuori dalla finestra e, nel vedere che Marco la Fenice stava cercando di strattonare il compagno via dall’uscio, il cuore prese a batterle all’impazzata. Non poteva farsi sfuggire quell’occasione. Non sarebbe riuscita a sconfiggerli entrambi in combattimento, per cui doveva giocare d’astuzia. Gli tornò in mente Riadh che la prendeva in giro, dicendole che finalmente avrebbe avuto modo di concludere una cattura, s’immaginò che la vedesse in quell’istante, ma accantonò in fretta e furia quel pensiero. Aveva altro a cui pensare.

Si lanciò verso il tavolo, arraffò tutto quello che riuscì a mettere fra le mani, corse fino allo sgabuzzino sul lato destro della parete, aprì la porta con un calcio e vi buttò tutti i manifesti, le mappe e gli appunti che aveva, in un fruscio di fogli e imprecazioni.

Bussarono di nuovo.

«Cazzo!»

Aibell corse di nuovo verso il tavolo, litigò con il coltello da cucina finché non riuscì a estrarlo dal legno e, dopo averlo abbandonato lì, si guardò intorno con il cuore in gola.

No, no, c’erano ancora troppe cose che non andavano.

Correndo come una forsennata, tornò a prendere il fucile all’ingresso e raccattò tutte le pistole in vista che riuscì a trovare, facendo sparire tutto all’interno dello sgabuzzino.

Quando fu sicura che il suo atrio assomigliasse a quello di una qualsiasi persona civile e non di una sanguinosa cacciatrice di taglie, chiuse lo sgabuzzino a chiave, se la cacciò nella tasca dei pantaloni e corse ad aprire la porta.

 

Marco tirò un sospiro di sollievo. «È evidente che non c’è nessuno.»

Ace gli lanciò un’occhiataccia. «Forse non hanno sentito.»

Fece per bussare di nuovo, ma stavolta Marco lo afferrò per la manica della camicia e lo strattonò via dall’uscio, strappandogli un’imprecazione.

«Che diavolo fai!»

«Ce ne andiamo» borbottò il biondo, allontanandosi e trascinandosi dietro il moro. «Siamo stati anche troppo fortunati.»

Fu in quel momento che, con un cigolio che lasciava ben poco all’immaginazione, la porta si spalancò.

Merda.

«Chi siete?»

Marco ed Ace si immobilizzarono.

Davanti a loro, ritta sull’ingresso, era apparsa una giovane donna dai lunghi capelli bruni raccolti in una treccia. Era piuttosto carina, si ritrovò a pensare Marco, con un viso ovale e lineamenti delicati e, a giudicare dall’espressione da triglia lessa di Ace, lì accanto a lui, anche il moro doveva aver pensato la stessa cosa.

Indossava una canottiera nera che metteva in risalto due seni piccoli e sodi, e un paio di pantaloni larghi, da lavoro, che non davano molti indizi sul fisico che vi fosse al di sotto. L’espressione della ragazza era innocente, di genuina sorpresa. Ma a colpire Marco furono i suoi occhi. Erano bruni, ma anche da quella distanza poteva vedere quanto fossero arrossati, come se avesse pianto.

«Ciao!» esclamò Ace, tornando subito sui suoi passi.

Trattenendosi a stento dall’afferrarlo per il colletto della camicia, Marco lo osservò allontanarsi da lui senza che potesse fare nulla.

Sul volto della giovane comparve un largo sorriso. «Ciao.»

«Siamo nuovi di qui» proseguì Ace, salendo i gradini. «Sai, siamo appena sbarcati.»

Marco si morse la lingua, facendosi avanti a sua volta, nel tentativo di salvare la conversazione.

«Volevamo sapere come si arriva in città» disse.

«… se potevamo fermarci per cena» disse Ace nello stesso istante.

I due si scambiarono un’occhiataccia.

La ragazza ridacchiò sommessamente, poi schiuse le labbra in un sorriso. «Certo che potete fermarvi a cena» disse, osservandoli a lungo, prima di aggiungere: «E posso anche spiegarvi la strada per arrivare in città.»

«Sì!» esclamò Ace, facendo un sorriso a trentadue denti.

«Grazie» rispose Marco, azzardando un passo in avanti.

La ragazza si affrettò a farsi da parte per lasciar libero l’ingresso. «Prego, entrate.»

«Abiti sola?» domandò Ace, già sull’uscio, sbirciando all’interno della casa.

La ragazza annuì. «Siete stati fortunati a trovare la mia casa. È l’unica della zona. Cosa ci fate nelle paludi di Sheltz Town?»

Marco si affrettò a seguirli all’interno dell’abitazione, temendo che Ace si lasciasse sfuggire qualcosa. Guardò fuori solo un’ultima volta, verso la fitta vegetazione della palude e le sagome di quella che doveva essere la centrale della Marina, in lontananza, prima di entrare. Erano ancora troppo lontani dalla città.

Chiudendosi la porta alle spalle, la giovane parve notare il suo turbamento e lo scrutò con i suoi occhi tristi. «Va tutto bene?»

Marco annuì piano, fattosi guardingo di fronte a tutto quell’interessamento. Quella ragazza pareva fin troppo gentile nei loro confronti. Per quanto sembrasse sincera, non era abituato a ricevere tutta quell’ospitalità, e sentiva che sarebbe stato meglio rimanere all’erta.

Eppure, forse non c’era nulla sotto. Forse lei abitava davvero da sola, e non c’era nessuno in quella casa pronto a battersi con loro in un fiacco tentativo di accaparrarsi la taglia vertiginosa che pendeva sulle loro teste. Forse quella sperduta ragazza di campagna non aveva la minima idea di chi fossero loro due, troppo isolata per essere a conoscenza della vita di città e degli affari dei cacciatori di taglie.

Poi ricorse all’Ambizione.

«Avete un posto dove stare, stanotte?» sentì che chiedeva ad Ace, che nel frattempo si era già spaparanzato su una sedia, i gomiti poggiati sul tavolo come fosse stato a casa sua.

Marco si guardò intorno, cauto. L’interno dell’abitazione era piccolo e accogliente, per quanto spoglio e trasandato. La porta dava su un atrio di modeste dimensioni, dalle pareti color salmone, nel quale troneggiavano un lungo tavolo di legno tarlato, una brandina poggiata contro il muro, un camino acceso e due armadi sgangherati. Sul lato destro si apriva una stanza che, sbirciando, Marco scoprì essere una piccola cucina, stretta e lunga. Sul lato sinistro, invece, c’erano due porte, poste l’una vicina all’altra. La prima era chiusa, mentre l’altra era aperta per metà e, intravedendo il corrimano di una scala, Marco ipotizzò che dovesse condurre ad una cantina.

«In effetti, no» rispose Ace, pensoso.

«Possiamo trovare una locanda» si affrettò a rispondere Marco. «Così saremo più vicini alla città.»

«Non state a scomodarvi» disse lei sorridendo. «Potete fermarvi qui. Io vivo sola, qui di posto ce n’è in abbondanza. E poi, non mi dispiace avere un po’ di compagnia.»

Ace stava già annuendo entusiasta e Marco capì che, se avesse voluto andarsene, avrebbe dovuto litigare con lui, che gli avrebbe di sicuro dato contro e, come minimo, avrebbe deciso di rimanere lì per partito preso. Non poteva lasciare suo fratello lì ma, come l’Ambizione gli aveva rivelato, nessuno dei due rischiava granché neanche se fossero arrivati ad uno scontro fisico. Avrebbe escogitato qualcosa senza dare nell’occhio.

Mentre rifletteva, si mise ad osservare distrattamente le pareti, alle quali erano appesi svariati bozzetti di Sheltz Town e l’isola a forma di conchiglia sul quale sorgeva, disegnati a matita, ma la ragazza si affrettò a sospingerlo verso il tavolo, quasi come non volesse che curiosasse troppo in giro.

Mentre lo faceva accomodare, chiese: «Cosa dovete sbrigare in città?»

«Dobbiamo incontrare un amico» si affrettò a rispondere Marco, prima che lo facesse Ace, con un’alzata di spalle. «Ripartiremo presto.»

«Bene» mormorò la ragazza, per poi lanciare un’occhiata ai bozzetti che Marco stava osservando un attimo prima. «Be’, vi accorgerete che avete scelto un luogo piuttosto deprimente per un incontro.»

L’espressione di Ace si fece d’un tratto pensierosa. «Non mi pareva un brutto posto, dalla Mob…»

La gomitata che Marco gli assestò nelle costole lo mise bruscamente a tacere.

«Se ti riferisci a questa palude, non posso darti torto» mormorò, rivolto alla giovane, per poi afferrare un coltello che giaceva nel mezzo del tavolo, come fosse stato dimenticato lì. «Cos’è, hai intenzione di farci fuori?» chiese distrattamente, mettendosi a giocherellare con la lama, curioso della reazione che avrebbe suscitato in lei.

Dopo un attimo di silenzio, la ragazza scoppiò a ridere, gli occhi fissi nei suoi. «Stavo giusto iniziando a preparare la cena. Mi avete interrotta.»        

Ace, che nel frattempo si stava massaggiando il punto in cui lo aveva colpito, alzò di colpo gli occhi. «Cena?»

Lo sguardo della ragazza si spostò rapidamente sul moro. Doveva essersi accorta che a lui non era sfuggito il suo attimo di esitazione, prima che si mettesse a ridere per stemperare la tensione creatasi.

Gli strappò il coltello dalle mani, sempre evitando accuratamente di guardarlo. «Vi va bene della zuppa?»

Gli occhi di Ace si illuminarono. «SÌ!»

 

Recatasi in cucina, Aibell poté finalmente smettere di sorridere come un’idiota.

Non riusciva a stare ferma, tanta era l’adrenalina che aveva in corpo. Accese il fuoco, versò dell’olio in una pentola capiente, vi buttò due agli sbucciati e la pose sul fornello. Le mani le tremavano febbrilmente.

Quella era l’occasione della sua vita. Non sapeva bene come e perché, ma il destino per una volta pareva averle sorriso.

Quanto ai pirati, il moro sembrava un pezzo di pane, ed ingannarlo sarebbe stato facile come rubare delle caramelle ad un marmocchio. Con la Fenice, invece, avrebbe dovuto essere più cauta. Pensava che sarebbe stata una bazzecola ingannarlo, ed invece quei suoi occhi imperscrutabili le erano parsi piuttosto sospettosi. Non sembrava essersi bevuto fino in fondo la favoletta della ragazza che viveva nell’idillio della campagna, e stava ancora troppo all’erta per i suoi gusti, specialmente dopo l’attimo di incertezza che aveva avuto con quel dannato coltello, che adesso giaceva sul ripiano della cucina, a pochi passi da lei. Quando aveva incrociato il suo sguardo, poi, aveva avuto una strana sensazione, come se il ragazzo stesse cercando di leggerle dentro, ma si disse che si trattava di suggestione. Non poteva essere successo sul serio. In ogni caso, a giudicare da come battibeccavano, i due pirati non sembravano andare molto d’accordo l’uno con l’altro, e questo poteva giocare a suo favore.

Diede un’occhiata all’aglio che sfrigolava nell’olio per accertarsi che non bruciasse, e si mise a tagliare a rondelle carote, patate e cipolle direttamente nella pentola. Era così agitata che sentiva che di lì a poco si sarebbe affettata un dito.

«Che profumino delizioso!» sentì Ace esclamare, dall’altra stanza, e sorrise.

«Vedrai» gridò lei in risposta. «La mia ricetta è un portento.»

Specialmente con un certo ingrediente segreto…

Aibell ringraziò il giorno in cui aveva deciso di riporre i veleni insieme alle spezie, nel mobiletto in alto della cucina, sopra la sua testa. Sarebbe stata dura trovare una buona scusa, se avesse dovuto mettersi a frugare nei cassetti nell’altra stanza, sotto gli occhi dei due pirati, alla ricerca delle sue polveri.

Dopo aver finito di affettare le verdure ed aver abbassato la fiamma, Aibell si mise a frugare nel ripiano. Le serviva qualcosa di inodore, potente ed efficace. I due non sarebbero dovuti arrivare all’indomani. Belladonna o cicuta, pensò. In alternativa, poteva servirsi dei semi di mela e di mandorle amare che aveva ridotto in polvere e dalla quale aveva ricavato del cianuro.

Le sue mani si bloccarono quando le dita si strinsero sui coperchi dei vasetti che le servivano, sui quali era stata attaccata un’etichetta, ormai rovinata e sbiadita – fortunatamente li conosceva a memoria – e ne rivelarono l’interno. Erano vuoti.

«Merda!»

«Tutto bene?» Era la voce di Ace.

Aibell imprecò fra i denti. «Sì, sì. Mi sono solo bruciata» disse poi, sforzandosi di mantenere un tono di voce pacato.

Non poteva aver finito tutti i suoi veleni. Non quel giorno. Eppure, non era un’ipotesi così improbabile. Era da tempo che non ricorreva a quegli stratagemmi, e non aveva più controllato le sue scorte.

La mente di Aibell correva veloce. C’erano dei cespugli di belladonna, poco lontano da lì, ma non poteva uscire di casa per andare a raccoglierla. Avrebbe perso del tempo prezioso e rischiato di farsi scoprire.

Poi ebbe un’idea. Prima di metterla in atto, però, Aibell tolse dal fuoco una mestolata di zuppa – la sua porzione – e la mise in un piatto. Se non l’avesse mangiata anche lei, avrebbe certo attirato qualche sospetto.

Sbuffando, si mise poi a frugare con gesti nervosi nel mobiletto tra ciò che le rimaneva. Spostando mazzetti di timo, maggiorana, menta, e dozzine di altre erbe e spezie, riuscì a recuperare un po’ di passiflora, valeriana e camomilla, che si affrettò a gettare nella pentola. Non troppi, realizzò poi, o i due ne avrebbero avvertito il sapore. Avrebbe potuto coprirle con delle spezie, ma in tal caso il biondo avrebbe di certo iniziato a sospettare qualcosa.

Per incrementare l’effetto delle piante, Aibell lasciò cadere nella pentola svariate pasticche di barbiturici, procurate grazie a Riadh, dopo averle pestate nel mortaio. Non troppe, o non avrebbe più avuto nulla da assumere quando lei sarebbe venuta a farle visita nel sonno.

Aibell cominciò lentamente a rimescolare la zuppa, finché la polvere bianca non venne del tutto incorporata nel composto, e sorrise.

Un sonnifero. Non abbastanza generoso per mandarli all’altro mondo, ma sufficiente per stenderli ben bene. Il fatto era che adesso, senza veleni e senza una dose letale di barbiturici, avrebbe dovuto finire lei il lavoro. Pensò d’istinto al suo fucile, chiuso nello sgabuzzino, e sospirò piano.

«Serve una mano?»

Aibell si riscosse di botto. Cacciò tutte le piante e le pastiglie che c’erano in giro all’interno del mobiletto e lo chiuse di scatto, per poi voltarsi in direzione della voce.

Ace si era affacciato nella cucina, sorridendo con aria cordiale, e lei tentò di imitarlo.

«No, non importa» si affrettò a dire, lanciando un’occhiata alla zuppa che andava sul fuoco e al suo piatto, fortunatamente fuori dalla visuale di Ace perché nascosto dalla pentola.

Lui però non accennava a schiodarsi di lì, forse per la fame, e lei non aveva bisogno di ulteriori distrazioni. Il giovane si era messo a giocherellare con la fiamma del fornello e, dopo un attimo di spaesamento, Aibell ricordò che il pirata era soprannominato “Pugno di Fuoco” per una ragione.

«Ecco, magari puoi mettere la tovaglia» esclamò poi, aprendo un cassetto. «Al resto penso io.»

Non ricordava di averla messa una volta, da quando viveva lì, ma avrebbe fatto di tutto pur di sbarazzarsi della sua presenza. Avrebbe potuto dirgli di apparecchiare, certo, dato che le posate si trovavano nell’armadio del soggiorno ma, pensando alla quantità di armi e munizioni che c’erano in quei cassetti, insieme a forchette e coltelli, non la ritenne un’idea oltremodo saggia.

«Va bene» rispose Ace, allontanandosi dai fornelli e lanciando un’ultima occhiata colma di desiderio alla zuppa.

Aibell fece per passargli la tovaglia. Fu un attimo, il tempo di sfiorarsi le dita. Un’immagine.
 

Fuoco. 
Urla strazianti.
Guerra che infuria alle loro spalle.
Odore di carne bruciata e di sangue e di morte.

 

Aibell tentennò, e dovette appoggiarsi al ripiano della cucina per non cadere a terra.

Ace, nel frattempo, le aveva dato le spalle ed era tornato nell’altra stanza. Non sembrava essersi accorto di nulla.

Grosse lacrime avevano cominciato a cadere dagli occhi di Aibell, che si affrettò ad asciugarsi rabbiosamente le guance, il corpo ancora scosso dagli spasmi. L’immagine era stata straordinariamente vivida, come se l’avesse avuta davanti, la potenza di quella morte tale da sconquassarle il corpo e l’animo contro la sua volontà.

Cercò di regolarizzare il respiro. Raramente, nelle visioni di lei, le capitava un tale coinvolgimento emotivo, come se fosse stata in qualche modo legata a quel pirata.

Serrò i pugni. Niente di tutto ciò sarebbe mai successo. Il suo sguardo corse al coltello da cucina, ad un passo da lei. La fine di Ace D. Portgas sarebbe stata quella notte.

 

La casa era immersa nel buio. Nessun suono, al di fuori dei pirati che russavano della grossa, giù in cantina.

Musica per le orecchie di Aibell.

La ragazza si alzò dalla branda e avanzò in punta di piedi fino allo sgabuzzino. Avrebbe potuto camminare anche normalmente, pensò poi, dato che, grazie al sonnifero, quei due non si sarebbero svegliati neanche se in mezzo alla palude fosse caduto un asteroide.

I due pirati, con grande piacere di Aibell, parevano aver gradito la zuppa, in particolar modo Ace che, di fronte alla sua faccia esterrefatta, aveva fatto il bis almeno sei volte. Ad un certo punto aveva smesso di contare. Sembrava che il ragazzo non mangiasse da settimane, mentre trangugiava la zuppa e leccava il piatto fino a renderlo immacolato. 

«Fa sempre così» aveva detto Marco, a mo’ di spiegazione, forse notando la sua espressione perplessa, prima di portarsi un cucchiaio di zuppa alla bocca.

Lì per lì, vedendo che il moro le stava finendo tutte le scorte, Aibell aveva provato una punta di fastidio ma, si era detta poi, se fosse riuscita a mettere mano sulla sua taglia, non avrebbe più avuto alcun problema con le proprie finanze. Aveva controllato con attenzione quasi morbosa ogni loro movimento, ed era certa che entrambi avessero assunto una dose di sonnifero tale da non rappresentare più alcun problema.

Aibell cacciò la chiave fuori dalla tasca dei pantaloni e trafficò al buio con la serratura, finché la porta dello sgabuzzino non si aprì. Cercò a tentoni il fucile e, dopo aver richiuso la porta, si assicurò di avere abbastanza proiettili.

Vedendo che in canna le era rimasta una sola cartuccia, attraversò la stanza fino all’armadio. Teneva le munizioni nel cassetto di sinistra, ben nascoste sotto un mucchio di fogli.

Aprì il cassetto con impazienza, cercando il pacco di munizioni a tentoni.

«’fanculo» mormorò.

Non c’erano.

Impossibile. Era certa che fossero lì. Controllò ancora, ricontrollò meglio, poi frugò anche nei cassetti adiacenti, bestemmiò, andò a prendere una candela, tornò all’armadio e ripeté tutto daccapo. Niente.

Aibell levò gli occhi al cielo. Certo, quando i due pirati si erano presentati alla sua porta aveva fatto il colpo del secolo, ma continuava ad incontrare ostacoli lungo la strada. Sembrava che qualcuno, lassù, volesse proprio che lei si sporcasse le mani.

E va bene, pensò, mettendosi il fucile a tracolla e recandosi in cucina a prendere il coltello. Mentre attraversava la stanza, la lama brillò di un bagliore sinistro, illuminata da un pallido raggio di luna che penetrava dalla finestra, ed Aibell si perse nell’osservarla.

Non avrebbe mai scambiato il suo fucile per nulla al mondo, certo, e chi s’imbatteva in lei munito di spada era già bell’e morto, ma doveva ammettere che le armi da taglio avevano il loro perché. Come aveva spesso sentito dire da Riadh, ci voleva un certo gusto e una certa fantasia nel maneggiarle, nel sapere dove incidere e tagliare, nel sentire il sangue scorrere sulle mani. Era un’arte.

Quando varcò la soglia della cantina, il coltello in mano e la candela accesa nell’altra, a colpirla fu un odore intenso ed acre, acuito dalla totale assenza d’aria.

Aibell arricciò il naso. Forse c’era un topo morto da qualche parte.

Cercando di ignorare quell’odore pungente, Aibell iniziò a scendere gli scalini che portavano alla cantina, le travi di legno che scricchiolavano sotto il suo peso e la luce tremolante della candela che deformava la sua ombra contro il muro. Il fucile le dondolava sulla schiena ad ogni passo, ed era una presenza confortante.

Trovò i pirati addormentati sulle brandine di fortuna che aveva improvvisato qualche ora prima, in modo da dare ai suoi ospiti almeno la parvenza di un giaciglio. Marco dormiva tranquillo, con il capo rivolto verso il soffitto, rigido come un morto, mentre Ace era a pancia in giù, a bocca spalancata, e russava come un trombone.

Aibell scosse piano la testa, quasi divertita da quella situazione. Si rese conto che, quando avesse toccato il moro, avrebbe di nuovo visto quelle immagini, e di colpo tutta la sua sicurezza vacillò. Poi spostò gli occhi su Marco. Si sarebbe dedicata prima a lui. Per l’altro, sarebbe ricorsa all’unica cartuccia che le era rimasta nel fucile.

Con rinnovata sicurezza, poggiò il fucile e la candela su uno scaffale, abbastanza vicina perché illuminasse la stanza, e si fece vicino al pirata biondo, il coltello stretto in mano. In quel momento, si accorse che quell’odore acre si era fatto di colpo più forte.

Che sia lui che puzza come una fogna?

Trattenendo il fiato, montò a cavalcioni su di lui e gli spinse indietro il mento con la mano libera, cosicché il punto sul collo su cui avesse posato la lama fosse ben visibile.

Poi Marco aprì di colpo gli occhi.

«Cercavi queste, prima?»

Aibell trasalì di botto, il coltello quasi le cadde dalle mani. Nel suo campo visivo comparvero per una frazione di secondo le munizioni che non aveva trovato nel cassetto, e lei tentennò per un attimo. Quel momento di esitazione fu sufficiente perché Marco le tirasse un pugno nello stomaco, mozzandole il fiato, e riuscisse a sgattaiolare via da sotto di lei.

«Brutto stronzo» ringhiò Aibell, balzando giù dal letto e facendo per saltargli addosso.

La rabbia la stava divorando e mille domande le ronzavano per la testa. L’aveva visto mandare giù quella zuppa con i suoi occhi, com’era possibile che…

La consapevolezza le arrivò dritta in faccia come il pugno di Marco, l’odore acre che continuava a tormentarla.

L’ha vomitata.

«Barbiturici, eh?» Marco si abbassò, evitando per un soffio la lama del coltello. «Ace ci è cascato in pieno. Ma, che rimanga tra me e te, lo preferisco di gran lunga quando dorme.»

Essendo disarmato, il biondo era chiaramente in svantaggio, ma non sembrava avere affatto paura di essere colpito. Si lanciò su di lei e la spinse contro il muro della cantina, mandando all’aria dozzine di scatoloni. Rumori di metallo e vetri rotti si sovrapposero per un attimo al russare di Ace, che nel frattempo continuava a dormire beatamente.

Aibell gli piantò il coltello nell’avambraccio nel tentativo di liberarsi, ma Marco non sembrò quasi accorgersene, ed infine lei si ritrovò con le spalle al muro, le sue braccia immobilizzate da quelle di lui, da una delle quali continuava ad uscire un fiotto di sangue.

«Ti ho colpito» gli disse, incredula, tornando a guardarlo negli occhi.

La totale calma di lui la spiazzò. Di colpo ebbe paura di quell’uomo, che non aveva neanche battuto ciglio dopo essere stato ferito gravemente, ma si guardò bene dal darlo a vedere.

«Niente di irreparabile» fece lui, scrollando le spalle. «Non vali neanche una trasformazione» aggiunse, aggrottando la fronte. Poi spostò le mani sul suo collo e strinse.

Aibell boccheggiò, e d’istinto gli piantò il coltello nella spalla, ancora e ancora, la mano stretta spasmodicamente sul manico. Si mise a dare calci contro di lui, mentre infieriva sul suo corpo con il coltello, il sangue che le schizzava le mani e la faccia, ma lui non cedette la pressione di un millimetro. Malgrado le ferite inferte, il suo corpo sembrava fatto d’acciaio, e non risentiva di un colpo.

Aibell cominciò a mugolare, le coltellate si fecero meno profonde di quel che avrebbe voluto, e sentì che tutto il suo corpo stava iniziando a tremare. La vista le si annebbiò. Anche se non poteva vederlo, sapeva che la pelle del viso stava cambiando colore, in assenza di ossigeno. Ancora qualche attimo e il suo corpo avrebbe smesso di agitarsi.

«Mal… Maled… Mal…» gorgogliò, prima di afflosciarsi su se stessa.

Udì indistintamente il rumore del coltello che colpiva il pavimento. Poi fu a terra anche lei. Non vedeva niente. Si sentì trascinare per la stanza, poi percepì una superficie rigida contro la schiena e qualcuno che le strofinava qualcosa di ruvido contro la pelle. Capì. Marco la stava legando con una corda ad uno dei pali che sostenevano il soffitto.

Aibell tentò di aprire gli occhi ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a mettere a fuoco. Poteva percepire la presenza del pirata che incombeva su di lei, l’odore del vomito e del sangue, ma si sentiva intontita come se fosse stata sotto effetto di droghe.

Quando dovette aver finito, l’uomo andò a recuperare il fucile dallo scaffale su cui Aibell l’aveva lasciato e si avvicinò di nuovo a lei.

Vedendo indistintamente i suoi piedi muoversi nella sua direzione, una paura sorda le attanagliò lo stomaco e la consapevolezza la fece tornare di colpo lucida. L’avrebbe uccisa.

Marco l’afferrò per il mento, costringendola a guardarlo in faccia. Aibell strinse gli occhi per cercare di metterlo a fuoco. L’uomo non dava alcun segno di cedimento, e le pareva che le ferite che gli aveva inferto – compresa quella sul braccio, di gran lunga la peggiore – non vi fossero più, come se non l’avesse mai colpito. Sbatté le palpebre, l’immagine dell’uomo che le danzava davanti, sdoppiandosi e riunendosi ad ogni battito di ciglia. Non era possibile. Si disse che non era lucida, e che la vista annebbiata le stava giocando qualche brutto scherzo.

«Ho ricevuto l’ordine di non uccidere civili» mormorò il pirata, un’ombra di incertezza che gli attraversava lo sguardo, e il cuore di Aibell prese a battere all’impazzata. «Ma i cacciatori di taglie non rientrano in questa categoria.»

«No!» esclamò lei, precipitosamente, cercando di mettere a fuoco la sua faccia e capire così le sue intenzioni. «Lasciami andare, ti prego. Giuro che non vi darò mai più alcun fastidio» mentì, e simulò anche un singhiozzo nel tentativo di rendersi credibile. La sua mente, nel frattempo, correva veloce. Forse, se fosse riuscita a liberarsi, avrebbe potuto avvertire Riadh – c’era il lumacofono, nell’armadio! – ed insieme sarebbero riusciti ad ammazzarli…

«Vorrei che fosse vero.» Il sorriso mesto dell’uomo la riportò bruscamente alla realtà. «Ma la tua mente è un libro aperto per me.»

Che diavolo significava? Il volto di Marco si era fatto di colpo così inespressivo da sembrare una maschera. Aibell era così concentrata a tentare di decifrarlo che quasi non si accorse del suo fucile puntato contro di lei. Si riscosse solo quando udì il rumore dello sparo.

Il dolore la colpì all’improvviso, propagandosi all’unisono in tutta la gamba. Aibell si trattenne a stento dall’urlare e si morse il labbro a sangue. Lacrime calde cominciarono a sgorgarle dagli occhi.

«Non ti ho colpito l’arteria» le annunciò Marco, distogliendo in fretta lo sguardo per recarsi dal suo compagno, ancora profondamente addormentato. «Ti ho regalato sei ore, o poco più. Puoi ancora salvarti.»

Malgrado gli occhi appannati dalle lacrime, abbassando lo sguardo Aibell poté vedere il buco che il proiettile le aveva aperto nella gamba, squarciandole i pantaloni. Sotto di lei andava formandosi una pozza di sangue. Il dolore era tale che avrebbe voluto urlare a squarciagola, ma si trattenne ancora.

Marco tornò da lei a passo lento, il suo fucile in mano. Teneva Ace sulle spalle.

«Ci hai provato, ma non potevi ingannare la mia Ambizione. Comunque, sei piuttosto in gamba per essere una novellina» fece lui, avvicinandosi sempre di più. «Qual è il tuo nome?»

Per tutta risposta, Aibell gli sputò in faccia.  

«Be’, me lo sono meritato.» Marco si asciugò il viso e un sorriso triste si delineò per un momento sulle sue labbra. «Se Ace fosse sveglio, ti ringrazierebbe per l’ospitalità» aggiunse, incamminandosi sulle scale.

Aibell si lasciò cadere contro il palo, le lacrime che continuavano a scorrerle lungo le guance. Udì i gradini scricchiolare sotto il peso dei due pirati, sperò ardentemente che almeno uno cedesse e li facesse cadere, ma non accadde nulla. Ascoltò i passi di Marco che solcavano la soglia della cantina e attese che attraversassero l’atrio, proprio sopra di lei, e si facessero sempre più lontani.

Aspettò e aspettò ancora, mentre la rabbia la consumava quasi quanto il dolore del proiettile penetratole nella carne. Il sangue le ribolliva nelle vene. Quello stronzo. Quel maledetto stronzo.  

Aibell serrò i pugni. Se fosse riuscita a liberarsi, quell’idiota dai ridicoli capelli biondi l’avrebbe pagata cara.

E sarebbe riuscita a liberarsi.

La paura tornò ad attanagliarle lo stomaco, seppure per un altro motivo. Non osava usare i suoi poteri in combattimento, non vi ricorreva mai ma, se stavolta non l’avesse fatto, sarebbe morta di certo.

“Puoi ancora salvarti”, le aveva detto il pirata. Certo, come no. Nessuno passava mai per la palude di Sheltz Town e nessuno si sarebbe accorto della sua assenza, se non forse Alma e Riadh, ma era notte fonda. Lei non aveva modo di contattarli e, se anche i suoi amici avessero notato la sua assenza, non si sarebbe mobilitati fino all’indomani mattina. L’avrebbero trovata morta lì.

Aibell alzò gli occhi verso il soffitto. Forse sarebbe morta comunque. Se tutte le fondamenta avessero ceduto nello stesso istante, sarebbe rimasta schiacciata tra le macerie. E, se disgraziatamente avesse fatto cadere la candela, avrebbe dato fuoco all’intera abitazione e le esalazioni l’avrebbero uccisa.

Sospirò amaramente. Non aveva altra scelta.

Chiuse gli occhi, serrò i pugni, si concentrò sul dolore più forte che poté. E urlò.

 

 
Sognavo questo capitolo da anni, non sto scherzando. Mi faceva così ridere l’idea che questi due finissero ospiti di una spietata cacciatrice di taglie che ci scrissi persino un tema al LICEO (la professoressa mi fece pure i complimenti per la fantasia, ignara di tutto).
 
Come vi è parso? Del tutto inverosimile? OOC oltre ogni limite? Non lo so, però spero che vi abbia divertito quanto ha divertito me scriverlo. Aibell ci prova, ma ovviamente nulla può contro la forza e l’Ambizione di Marco, che la smaschera in quattro e quattr’otto (ma decide di stare al gioco perché non vuole vedersela con Ace). Una doverosa precisazione: quando i due lottano nello scantinato, tecnicamente le rigenerazioni di Marco dovrebbero essere talmente repentine da non far stillare una sola goccia di sangue (almeno, è così che ci vengono mostrate), ma mi sono presa una licenza poetica perché volevo far scorrere del sangue in questa cantina. Non fateci caso, ho dei problemi.
 
Altra cosa che mi tormenta: Marco può rigenerare le proprie ferite, ma può anche guarire dalle malattie, dagli avvelenamenti e… dai farmaci? Non ero sicura che potesse neutralizzare l’effetto dei barbiturici grazie ai suoi poteri, così, nel dubbio, ho fatto sì che vomitasse la cena (niceeee). Però è un dubbio atroce che ho, e forse correggerò il capitolo in futuro. Il fatto che abbia qualche remora nel voler sparare ad Aibell (CICCINO <3) lo trovo in linea con il suo personaggio e con lo spirito della sua ciurma… però non potevo neanche renderlo troppo misericordioso, dopotutto lui ha percepito le sue intenzioni omicide, le sue bugie, e lei stava praticamente per sgozzarlo ç-ç Però spero di aver fatto intendere che non gli ha fatto alcun piacere farlo!
 
Non dimentichiamoci, ovviamente, che Aibell è venuta a conoscenza di un’importante verità su Ace! :P Perché, poi, ha avuto questa reazione da fangirl? Scopriremo che è in qualche modo legata a lui (e non solo). Ma per il momento è interessata solo alla sua testa, quindi si fa poco e nulla di quest’informazione.
 
Ringrazio Fenix per la sua recensione (grazie, grazie, grazie!) e chi segue la storia silenziosamente.
 
Al prossimo (improbabilissimo) capitolo,

Cassidy.

  
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