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Autore: _Lightning_    16/05/2021    1 recensioni
Con il Giorno della Promessa all'orizzonte, Roy Mustang si ritrova a pensare sempre più spesso a Ishval, ai propri errori, e a cosa gli ha lasciato quel luogo se non ricordi dolorosi e sensi di colpa. Si imbarca così in una lunga reminiscenza con l'aiuto di Riza, fidata compagna di vita, nel tentativo di mettere finalmente a tacere i demoni che gli mordono la coscienza.
Dal prologo: «C’è qualche problema, Colonnello?»
È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni.Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maes Hughes, Nuovo personaggio, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Parte IV
 
Una linea nella sabbia
.3.




?? Giugno 1908
Distretto di Kanda, Ishval
??? Notte

 

Ombre dense si allungano nei miei pensieri.

Come quelle che si disegnavano ai miei piedi al tramonto, mentre camminavo in bilico sui muretti dei terrazzamenti di Bushmills. Le braccia spiegate come un falco a mantenere l’equilibrio, le scarpe con la suola consunta che vacillavano sulle pietre bollenti incastrate a secco. Dalla strada sottostante, Riza rideva come faceva di rado e mi lanciava chicchi d’uva acerbi, senza mai mancarmi. 

Io ridevo con lei e barcollavo, un piede nel vuoto, le mani che mulinavano l’aria, il respiro che schizzava in gola assieme al cuore, sul punto di sbilanciarmi e cadere, cadere...

Cado di schianto sul pavimento gelido, i pensieri che precipitano con me dentro un pozzo nello stomaco. Riapro di scatto le palpebre e rimango accecato dal buio.

Ero a un passo dal baratro. Ho sentito la gravità arpionarmi le budella e trascinarmi verso il basso, a un soffio dal nulla. Accolgo il coacervo di sensazioni spiacevoli con un sollievo dal retrogusto masochista; lieto, per quel singolo istante, di essere ancora in grado di percepirle e di non essere scivolato oltre il velo bigio della morte.

Il sudore freddo mi imperla viscido la fronte. Il caldo della ferita divampa sul fianco, come se una bestia lo stesse masticando a poco a poco, tranciando carne e muscoli e riducendoli in poltiglia. Ogni respiro si raggomitola nei polmoni, si sfilaccia strada facendo tra laringe e trachea ed emerge in un refolo stentato dalle labbra riarse. Fontane e torrenti e cascate costellano la mia mente, acuendo la percezione della lingua gonfia e priva di saliva. 

La febbre mi sta cullando in braccia roventi – mi invita al dormiveglia e al sonno. Con ogni goccia di sangue che trasuda lenta dalla ferita, retrocedo di un passo nella battaglia contro le mie palpebre pesanti. So che, se mi addormentassi davvero, non riuscirei più a risvegliarmi.

Concentro lo sguardo su ciò che mi circonda, sull’ambiente sfregiato dalla guerra che occhieggia dalle macerie e dai resti di mobili fracassati. Nuvole perlacee si trascinano pigre oltre lo squarcio del tetto, annebbiando il cielo. Di tanto in tanto, nella semioscurità che il mio cervello tenta di riempire, fanno capolino i volti devastati di Alena e Jace e il cranio sfondato di Roderick e gli occhi vitrei di Oskar e i corpi mutilati della mia truppa ammassati nella sabbia impregnata di sangue. Premo sulla ferita e il dolore mi dilania, scacciando temporaneamente quelle immagini e riportandomi alla realtà.

Non mi sono medicato. Sono solo riuscito a far coagulare alla buona il sangue in una patina fragile e ferrosa con un cerchio alchemico raffazzonato, ma non oso tentare della vera e propria alchimia organica per timore di peggiorare le cose. Riesco a malapena a muovere il braccio, o a districare le dita in modo coordinato. È come se si fossero svuotate di sangue e linfa vitale, divenendo appendici inerti, fredde. Mi sto prosciugando, una goccia dopo l’altra, l’emorragia che non si è arrestata nonostante tutto.

Continuo ad aggrapparmi alla flebile speranza che abbiano già inviato la pattuglia notturna vedendo che tardavamo a rientrare. Non perlustreranno l’area in cerca di superstiti. Noi non lo facciamo mai. 
Carichiamo i cadaveri su un carro, avvolti in quei teli bianchi e freddi, per poi disporli nelle file interminabili schierate fuori dalla guarnigione, in attesa di essere identificati e seppelliti sommariamente. Secchi di medagliette prive di un corpo costellano quei macabri ranghi. Vengono spedite lettere di cordoglio alle famiglie. Ne ho già compilate diverse, una più asettica dell’altra. I più alti in grado ricevono una bara in cui tornare a casa – quella che potrebbe spettare a me.

Ma forse per un Alchimista di Stato... forse per me faranno un’eccezione e spediranno qualcuno a cercarmi. Ironclad non fa eccezioni né favoritismi, ma il tributo di sangue che verso è troppo alto per lasciarmi morire. Sono pensieri repugnanti come larve infette sottopelle, ma gli unici che mi tengono ancora in vita. Un filo sottile e rosso, teso tra anima e corpo, sul punto di spezzarsi.

Il confine tra sonno e veglia diviene nuovamente sfumato. 
Vedo altre linee, intersecate, geometrie vermiglie che si rincorrono su curve morbide sotto le mie dita; vedo una salamandra guizzante che mi fulmina con occhi di brace, la bocca vomitante fiamme nere; vedo il castano caldo di due iridi lontane, che specchiano l’autunno alle porte sul finire dell’estate – ti prego, non morire

Non muoio, non muoio.

Le tonalità di rosso si sovrappongono e gli intrichi alchemici si condensano nel sangue che mi sgorga dal fianco, dolore liquido e viscoso che rompe gli argini deboli delle mie dita.


Sto scivolando via.

Un rumore di calcinacci smossi riapre uno spiraglio nei miei occhi, che non mi ero nemmeno accorto di aver chiuso. Annaspo aria come se fossi rimasto in apnea e cerco di mettere a fuoco la stanza, catturando la poca luce lunare che vi filtra.

Dalla breccia nel muro sfondato fa capolino un’ombra umana. Mi irrigidisco con uno spasmo. Forse è un ribelle o uno sciacallo – in ogni caso sono inerme, ridotto così. Chiudo il pugno e sento la consistenza umidiccia della stoffa d’accensione impregnata di sangue. Trovo una piccola zona ancora asciutta, in grado di generare scintille, e vi premo sopra il pollice, pronto a sfregarlo. Serro i denti e lo spacco sulla tempia tira, minacciando di riaprirsi.

L’ombra entra nella sala distrutta e si delinea meglio, stroncandomi il fiato: è l’Ishvaliana di poco fa.

Guarda subito nella mia direzione e non provo neanche a fingermi morto. Il mio respiro discontinuo, raschiante nel silenzio notturno, è un indizio sufficiente. 
Mi osserva per un minuto intero, diritta come una statua, fusa con la penombra circostante. Sembra valutare la mia pericolosità, ignara del fatto che sto già addensando l’ossigeno in traiettorie indirizzate verso di lei. Sono traballanti e sottili, ma ancora efficaci.

Incrocio il suo sguardo e rimango immobile, paralizzato in una posizione che non è né di fuga, né di attacco, ma decisamente vulnerabile. Alla prima mossa falsa, sono pronto a incendiare l’aria, anche se il cuore riprende a pulsarmi violento in gola – perché non l’ho ancora fatto? 

Mi umetto senza successo le labbra aride, ma non scocco la scintilla fatale.

Nemmeno quando lei si avvicina, un passo dietro l’altro, i piedi nudi silenziosi nella polvere e sabbia che ricoprono il pavimento lasciando orme invisibili. Si ferma a un paio di metri da me, sempre con movimenti misurati, lenti. Quelli che si compiono attorno a un animale ferito. Fissa la mia mano contratta, solo parzialmente nascosta dalle mie vesti. Corruga le sopracciglia in una smorfia di disappunto che le disegna una linea netta sulla fronte, come se si stesse apprestando a fare qualcosa di sgradevole.

Solo dopo qualche istante metto a fuoco il pugnale ricurvo che stringe saldamente in mano. 
I miei istinti di battaglia si risvegliano e quel poco di adrenalina che mi rimane mi scorre nelle vene mentre il cuore riprende a pompare più vigorosamente. Sento il mio volto contrarsi sotto il sangue rappreso e so di avere davvero l’aspetto di una belva ferita messa all’angolo.

Stringo il pungo, pronto a scoccare la fiamma di avvertimento che avrei già dovuto sprigionare dall’istante in cui l’ho vista. La ragazza nota il mio gesto convulso e abbassa il pugnale, rivolgendo la punta verso di me in una posizione che è evidentemente ostile, ma non mi attacca. 

Forse non sa di cosa sono capace. Non sa che potrei incenerirla in pochi secondi, come ho fatto così tante altre volte con volti così simili al suo – perché non lo faccio? – o forse crede davvero di potermi sgozzare qui ed ora, vendicando i suoi compagni.

Invece, abbassa lentamente il pugnale. La guardo interdetto, la mano morsa dai crampi. Il cipiglio scuro che le incide la fronte non la abbandona, ma ripiega il mento all’indietro scrutandomi meglio, intensamente, con cupa curiosità. La lama del pugnale riluce appena d’argento. Lo rinfodera, con la lama aguzza che stride acuta, inghiottita dalle fauci bronzee di un serpente intarsiato.

Rilascio un respiro flebile e assieme ai polmoni anche il mio guanto si fa molle, dissipando reticoli d’ossigeno pronti a essere innescati. L’Ishvaliana mi riserva un ultimo sguardo tagliente, la mano che scivola via dall’elsa dell’arma, prima di distogliere il suo interesse da me. 

Prende a frugare tra le macerie e i detriti, avendo cura di non voltarmi mai del tutto le spalle. Di tanto in tanto recupera un oggetto, lo ripulisce con un lembo della veste e lo ripone nella sua sacca. Anche se scalza, non sembra curarsi delle schegge e delle asperità del terreno mentre si sposta agile da un capo all’altro del salone. I suoi passi sono sicuri, ma muove il capo in maniera spaesata, come se stesse tentando di raccapezzarsi in un luogo conosciuto. Non posso fare a meno di chiedermi se questa fosse casa sua, prima che le esplosioni alchemiche la sventrassero dall’interno.

Il cuore sembra battermi nelle ossa, facendo vibrare il midollo. Non so neanche dire se sia paura, o il sollievo che la segue, o un misto di entrambe le cose. Sento solo uno di quei battiti che mi affiora alle labbra, chiedendo di essere liberato:

«Perché?»

La mia voce risuona roca, spezzando la cortina di silenzio di questo armistizio indecifrabile. La donna solleva il capo di scatto verso di me. Si rialza in piedi e si fa di nuovo avanti, le spalle e la schiena rigidamente diritte. Mi trafigge con le sue iridi rosse, abissi cremisi che sembrano inghiottire ogni luce, pulsanti di fiamme e sangue.

«Perché non sono un’assassina.»

Nel dirlo, alza il mento e il panno verde le scivola dalla fronte, scoprendo i capelli nivei. Si staglia contro la luce lunare, ogni ombra inspessita in angoli aguzzi, metà corpo inghiottita dal buio come se l’avesse generata. Stringe la sua sacca con dita rigide quasi fossero le spoglie di un nemico appena abbattuto; il suo sguardo si fa più denso, oscillando tra il fiero e il compassato. In lei, scorgo la compostezza eterna e granitica delle statue che ornano i templi ishvaliani, di donne e uomini guerrieri raffigurati vittoriosi.

«Io sì, però.»

«Non sarà il sangue dei miei nemici a liberare questa terra o a riportare in vita chi ho perso.»

C’è odio, nella sua voce. Ma è distante, un’eco che rimbalza da una vallata all’altra, perdendo vigore. Un odio stanco, alimentato da rabbia esausta.

Uno spillo rovente si conficca nel mio cuore nel sentirla parlare così. Furiosa con la vita, con me, con chi le ha strappato tutto, ma determinata a non fare lo stesso, ad ergersi sopra al sangue. Come fa questa donna a mantenere ideali simili quando stiamo sterminando il suo popolo? Quando tra pochi giorni potrei riprendere a bruciare innocenti? Il mio sguardo si fissa sul mio guanto macchiato di sangue.

«Perché tu, piuttosto,» prosegue lei, adirandosi d’un colpo e avanzando di mezzo passo. «Ho visto cosa hai fatto là fuori. Perché prima non mi hai uccisa?»

Non posso far altro che sgranare leggermente gli occhi.

Lo sapeva, quindi? Sapeva che ero un Alchimista di Stato, ed è comunque tornata qui a... a fare cosa? Uccidermi? Sfidarmi? I pensieri mi mulinano in testa, vertiginosi. Si tingono del bianco di occhi spenti e del rosso vivo di vite riversate nella sabbia, e vengono infine calamitati da quella semplice domanda.

Perché?

Non ho una risposta così pronta come la sua. Non ho affatto una risposta.

Perché... sono stanco. Stanco di sfregare la stoffa d’accensione e, con precisione scientifica, appiccare il fuoco a persone e case in un inferno di urla. Stanco di sopravvivere, dopo aver visto la mia truppa decimarsi un uomo dopo l’altro, un amico e compagno alla volta fino a perderli tutti. Stanco di credere alla favola che l’alchimia serva a fare del bene – quale?, mi chiederebbe Riza.

È un sogno meraviglioso.

Il respiro mi si blocca in gola, denso, salato. Lo era.

Ti affido la mia schiena.

Le parole per rispondere all’Ishvaliana non mi appartengono nemmeno del tutto. Si sono cristallizzate in una mattina di novembre, disperse dal vento infido assieme alle foglie avvizzite. Un sogno effimero in cui, però, ho creduto. In cui Riza ha creduto.

Perché l’ho promesso.

Perché oltre le tenebre c’è ancora luce, forse, ma devo far scoccare io la prima scintilla.

«Non hai ucciso tu i miei compagni,» dico invece, tirando le labbra in quello che non è un sorriso, piuttosto una smorfia sardonica. «Ho già fatto abbastanza.»

È una mezza verità, dopotutto. Non ho esitato a trucidare i responsabili. Percepisco quello squarcio nero dentro di me allargarsi un poco nella lucida consapevolezza che, no, non esiterei nemmeno adesso. Taccio i miei veri pensieri. Sarebbe ipocrita e meschino fingere che vi sia una qualche comunanza tra noi, di fatto vittima e carnefice, invasore e invasa. Qui l’unica a potersi arrogare una vendetta è lei. Ne sono freddamente conscio.

A quell’affermazione lei mi fissa, gli occhi leggermente sgranati, non un muscolo a muoversi sul volto. Per un istante, credo che stia per rinnegare i suoi propositi rispetto al non uccidere – ma la ruga che le segna la fronte si spiana appena, attenuando di una tacca la durezza dei suoi occhi. Non so come, ma ha colto qualcosa di troppo, in ciò che ho detto, oltre la voce sfibrata dal dolore e dalla tensione. Forse la stessa stanchezza che attanaglia anche lei.

Annuisce, un cenno impercettibile che le fa vibrare la gola.

«Sarà Ishvala a decidere di te,» sentenzia infine, tirandosi di nuovo il panno sul capo. «Il suo è il giudizio più severo, ma anche il più giusto.»

E con quel verdetto, smette di trafiggermi con lo sguardo.

Riprende a rovistare tra macerie e calcinacci con metodica calma e minuziosità, senza tralasciare alcun cumulo di detriti o pertugio inghiottito dai crolli. Quel tramestio di cocci e calcinacci smossi è ipnotico. Mi ritrovo a socchiudere le palpebre quando la ferita torna a pulsare, azzannandomi con denti di ferro che mi trascinano via, verso l’oblio. Riaffioro alla superficie della coscienza solo quando ogni rumore cessa, ammantando di nuovo la notte di silenzio.

L’Ishvaliana è ferma, sulla soglia della breccia d’uscita da quel sepolcro. Mi fissa, di nuovo, il volto illuminato fievolmente dalla luna. Non capisco se sia più vecchia di me, o se sia solo la guerra ad aver inciso più scalfitture sul suo viso ovale.

«Siamo miseri esseri umani. Granelli di sabbia nel deserto del dio Ishvala.» Fa una pausa e dietro la fierezza tagliente di quelle parole sento un dolore sordo, vivo. 
«Ma un misero essere umano può ancora compiere le sue scelte. Tu, stanotte, hai compiuto la tua scegliendo di non uccidermi.» Mi punta l’indice sottile contro, nel gesto statuario di un giudice solenne che addita un colpevole. «Hai tracciato una linea tra te e gli altri, per quanto fragile. Io ho solo scelto di fare lo stesso.»

E, con un ultimo sguardo pungente scoccato come una freccia, sgattaiola via, oltre le macerie e nella notte.

Rimango lì, stordito, con la mente che si allontana dal corpo e ronza in circolo attorno a quelle parole come una mosca fastidiosa stordita dal caldo. Chiudo gli occhi, intorpidito. Il ronzio diventa più forte, mi fa vibrare i timpani. Muovo una mano inerte a scacciarlo – e sono di nuovo nello studio afoso del Maestro Hawkeye, con un moschino irritante che mi tormenta e Riza che sbircia da sopra la mia spalla mentre ripasso le formule alchemiche per la lezione del giorno. C’è odore di legno vecchio e pergamene, di terra scottata dal sole e di gelsi in fiore – o forse è il profumo discreto di Riza.

Mi impegno, una riga dopo l’altra, per quel sogno così vago e fumoso che però sembra bellissimo a entrambi mentre lo racconto entusiasta. Non importa dargli contorni precisi, finché rimane nel futuro, una semplice mèta da raggiungere, magari insieme.

Non ci sono linee. Né tracciate nella sabbia insanguinata, né impresse sottopelle a gravare sulla schiena. Solo quelle dei quaderni su cui scrivo i miei sogni ancora limpidi e quella dell’orizzonte, così vicina che mi sembra di toccarla già.

 

 



Fine Parte IV



 


Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
Un po’ in ritardo, ma ecco il nuovo capitolo ♥

Spero che abbiate apprezzato il confronto che vi ho proposto. Nella bozza originale doveva accadere tutt’altro, ma essendo vecchia di almeno sei anni ho deciso di rivederlo in toto e di rendere più "diretta" tutta la scena. Verrà ovviamente ripresa in futuro ;)

Piccolo annuncio: sto seriamente pensando di traslare la storia in terza persona. Avevo un preciso progetto quando, all’epoca, l’ho impostata in prima, ma essendosi modificato in corso d’opera non ha più quel carico di significato originale.
Interrogo voi lettori: sarebbe uno shock se, dal prossimo capitolo, si passasse alla terza persona? Ovviamente provvederei poi a modificare  capitoli precedenti.
Non sono solita chiedere di "decidere" ai lettori, ma in questo caso, trattandosi di un cambiamento sostanziale che riguarda la forma, e non il contenuto, mi interessa molto conoscere la vostra opinione ♥

Ah, se ci fate caso, per descrivere l’Ishvaliana in una determinata scena ho preso a ispirazione i quadri di Caravaggio Davide con la testa di Golia e Giuditta e Oloferne. Perché? Perché no, suvvia ;) (e perché è bello ficcare ulteriori sfumature di significato implicito nelle scene).

Grazie a tutti voi che leggete e commentate questa storia!

Alla prossima, spero prestissimo,

-Light-

 

   
 
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