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Autore: Deliquium    16/05/2021    2 recensioni
Lui c'era quel giorno ma se qualcuno dovesse chiedergli cosa accadde non sarebbe in grado di dirlo con certezza. La Verità è una cosa che gli umani bramano con ogni grammo della loro misera esistenza. Uccidono per le Verità. Muoiono per essa. Sacrificano il loro stesso vivere per raggiungere la Verità.
Ma a che scopo? Perché uno dovrebbe voler conoscere la Verità? Chi se ne frega della verità
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: OC (Original Character)
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mitèma del principio (Ares)

Breve storia di come le cose non sarebbero dovute andare, ma sono andate lo stesso.

Ma tutti i sogni
Nell'alba svaniscon perché
Quando tramonta la luna
Li porta con sé
Ma io continuo a sognare
negli occhi tuoi belli
Che sono blu come un cielo
Trapunto di stelle.
Domenico Modugno, Volare.

11 novembre 1958

La mano sollevata come se dovesse afferrare le foglie è una mano le cui dita sembrano già irrigidite dalla morte e Wilmer sa che è solo l'immobilità del dipinto a impedirle di annegare.
«Ofelia. Uno dei quadri più belli di Monsieur Cabanel.» l'uomo che è entrato non è molto alto e la sua figura è resa ancora più tozza da una manciata di chili che la arrotondano. Ha la fronte alta, spaziosa, più per una galoppante calvizie che per un tratto lombrosiano, e un paio di occhiali dalla montatura spessa che incorniciano due occhi azzurri e acquosi.
«Giorgio De Biasi.» Tende la mando appesantita da un anello d'oro massiccio. «Lieto di fare la sua conoscenza. Prego, si accomodi?»
De Biasi indica un paio di poltrone di pelle nera poste in un angolo della stanza e circondate, lungo tre lati, da librerie di legno scuro: quasi una stanza dentro la stanza.
«Immagino che Monsignor Escrivá sia stato trattenuto e che abbia mandato lei al suo posto?»
L'uomo è in piedi davanti a una delle librerie che in realtà racchiude anche una nicchia in cui sono riposte bottiglie di diversa grandezza. Sembra quasi che non lo abbia sentito. L'ampia schiena nasconde i suoi movimenti, sottolineati solo dagli impercettibili sussulti delle spalle. Quando si volta, ha due bicchieri in parte pieni di un liquido ambrato.
«Con rammarico. Con molto rammarico. Liscio, vero?»
Wilmer si sporge dalla poltrona per prendere il bicchiere. Ha un profumo delicato, quasi floreale e il gusto è ricco, a tratti fruttato con un sentore marcato di torba affumicata.
«Come lei ben sa, signor Redeath, la nostra organizzazione è stata fondata da sua Eccellenza per promuovere l'incontro con Dio nel lavoro, nelle attività quotidiane e nella vita familiare e in tal modo contribuire al miglioramento della società.»
«Mi risparmi la lezione De Biasi e veniamo subito al dunque.» taglia corto Wilmer seccato dal tono paternalistico dell'uomo. «Roncalli.»
All'udire il nome del neo pontefice insediatosi pochi giorni prima, al termine di un conclave durato poco più di due giorni, De Biasi tira fuori dalla tasca un grosso fazzoletto e se lo passa sulla fronte asciutta. Più un gesto dettato dal nervosismo che una vera e propria esigenza.
«Sua Eminenza è stato eletto quasi all'unanim-»
«Senta De Biasi mi dica per quale motivo quando guardo quel cazzo di balcone vedo affacciarsi un vecchio prete italiano.» scandisce con lentezza Wilmer.
Sebbene in apparenza Wilmer conservi immutato il suo aspetto aristocratico, imperturbabile, spesso gentile nei modi, alterato unicamente da quelle espressioni di dubbio gusto che, di tanto in tanto, trovano spazio in un linguaggio altrimenti forbito, lo stesso non può dirsi dei suoi occhi, che sembrano risplendere come punte di spada, in un modo che di certo avresti faticato a definire umano. Fissarli era come fissare la morte stessa.
«Sua eminenza ha riscontrato, come dire, alcune opposizioni.»
«Qualcosa mi sfugge. Mi sta dicendo che Aghagianian non è stato eletto perché qualcuno si è opposto?»
«Non direttamente. Sono state fatte pressioni.»
«Pressioni? Lei» un improvviso colpo di tosse lo costringe a fermarsi. Wilmer serra il pugno. Non era venuto qui per convincere De Biasi. Qualcuno avrebbe risposto di quanto accaduto nei prossimi giorni.
Si alza.
«Pressioni.» ripete. «Lei non ha idea di cosa significhi ricevere pressioni, De Biasi. Lo dica a Monsignor Escrivá.»

Non appena sale sull'auto chiude gli occhi e traee un respiro profondo.
«Signore?»
«Basta così. Andiamo a casa.»
Cosa prova in questo momento? Sta cercando di discernere le sensazioni del suo corpo, ma è qualcosa che non ha mai sentito prima, non in questo tempo, almeno. Non si tratta di dolore, quello no. È più come se il suo corpo si fosse fatto di colpo incredibilmente pesante e fosse schiacciato verso il basso.
Apre gli occhi. L'auto si muove lentamente a causa del traffico che imperversa nelle strade nonostante siano quasi le undici. Ma d'altra parte, Wilmer non rammenta nemmeno un momento in cui quelle strade non siano gremite di auto. Persino di notte, la città è una città insonne e strepita discordante in un agglomerato di luci multicolori.
Torna a chiudere gli occhi e quando li riapre non sa esattamente quanto tempo sia passato. L'auto è ferma, spenta e la voce di Kail gli giunge attutita. Una voce che viene da lontano, da molto lontano.
«Signore, siamo arrivati. Signore.»
Ci mette un po' a capire che, invece, quella voce viene dal sedile del guidatore, proprio davanti a lui.
Scende dall'auto e per fortuna le sue gambe non lo tradiscono, anzi, quell'ora scarsa di sonno che si è concesso involontariamente ha avuto l'effetto di cancellare l'incredibile pesantezza del suo corpo. Per breve tempo, Wilmer lo sa, ma abbastanza per consentirgli di sistemare alcune cose.
Non fa in tempo ad entrare in casa, che un grido lo travolge. Acuto, perforante. Una lancia sonora che gli penetra nelle orecchie e nella testa. Subito dopo, ancor prima che lui riesca a dar uno sguardo a quello che era l'ingresso, un tornado di rosso vestito vortica fino a spegnersi tra le sue braccia.
«Alina!» la chiama Ormond, comparendo nei pressi del grande arco che immette nel salone principale.
La bambina nell'udire la voce del padre, lancia in risposta un urlo ancora più acuto e perforante, prima di scoppiare a ridere e scalciare perché Wilmer la metta giù. Si volta di scatto, non appena i piedini calzati in scarpe di vernice toccano terra e pianta i suoi occhi neri in quelli di Wilmer.
Per un istante, Alina non dice nulla e lascia che sia il silenzio a parlare e a dire tutte le parole che non devono essere pronunciate. Poi sigla il non detto con una mezzaluna di denti da latte e corre via.
Wilmer scuote la testa. Una piega distratta più simile a una smorfia che a un sorriso compare sul suo volto.
«Ogni giorno diventa sempre più ingestibile.»
«Di che ti stupisci, Ormond? Non è forse tua figlia?»
Un'enorme fontana di marmo domina la stanza circondata da una spirale di scale e il gorgoglio dell'acqua s'insinua tra le parole che vengono pronunciate.
Wilmer si inchina al sopraggiungere di Oblivious domandandosi se quel cane non sia diventato troppo affettuoso, ma poi si ricorda di come reagisce agli altri e no, affettuoso non è la parola giusta, fedele forse.
Sì alza in piedi. Oblivious lo precede scodinzolando mentre lui lentamente si dirige verso il suo studio. Ma qualcosa, più una sensazione che altro, lo porta a fermarsi e a voltarsi. Alza la testa. Lei è in cima alle scale. Indossa un abito verde scuro, stretto sotto il seno. I capelli biondi sono acconciati in modo da lasciare il collo scoperto. La mano premuta sul ventre, mentre lentamente discende la scala.
Quando lo raggiunge, una rabbia intensa, ma allo stesso tempo trattenuta, ha alterato i suoi lineamenti: le labbra rosse imprigionano due file di denti serrati con forza, gli occhi di smeraldo sono spalancati in maniera innaturale, e tutta la sua persona è attraversata da un leggero tremore incontrollato.
«Ah, la mia splendida moglie che è venuta ad accogliermi non appena mi ha sentito arrivare.»
Viviana fa un passo avanti, gli occhi preziosi conficcati in quelli di lui.
«Questa è l'ultima volta. L'ultima.» dice a bassa voce.
A risponderle solo il basso ringhio di Oblivious che nel frattempo si è frapposto tra lei e Wilmer. Viviana abbassa il capo verso la bestia e una smorfia appena accennata è tutta la sua risposta.
Non serve altro. La sua figura appesantita dalla gravidanza attraversa la porta finestra e scompare tra le rigogliose fronde del giardino tropicale.
Il sorriso che aveva tagliato il volto di Wilmer è rinfoderato di colpo. Senza una parola spalanca la porta che dà sul suo studio e avanza a lunghi passi verso la massiccia scrivania, un tempo appartenuta all'Imperatore Napoleone I. Si toglie la giacca e la lascia cadere a terra, mentre il suo corpo ha ricominciato a opporgli resistenza. Non ha bisogno di altro, ormai sa che gli restano solo poche ore e ne ha avuto la conferma quando ha incontrato Viviana. Si lascia cadere sulla poltrona di pelle mentre con una mano slaccia il nodo della cravatta.
«L'hai vista, Ormond? Non credi che mia moglie sia perdutamente innamorata di me?»
Ormond pare quasi immobilizzarsi, mentre le sue dita si chiudono attorno alla stoffa della giacca che si è inchinato a raccogliere. Per compensare quella manciata di attimi d'arresto, si alza di scatto e per poco non urta il prezioso vaso cinese dono diretto di un imperatore della dinastia Ming.
«Signore, io non cred»
«Sappiamo entrambi quali sono i ruoli che siamo chiamati a interpretare.» lo interrompe prima che termini una frase ovvia.
Non c'è rammarico o rassegnazione nella sua voce. Non un'ombra di una qualsiasi emozione che possa far credere che abbia pronunciato quelle parole con sentimento. Solo una constatazione: asettica, incolore, incontrastabile.
Amore non è una parola che può fiorire tra le labbra di un dio. Passione, sì. Rispetto, anche. Una sorta di simpatia. Anche quello è un sentimento che possono provare. Persino Aphrodite che gli umani considerano una divinità dell'amore è totalmente incapace di amare ed è strano, parecchio strano, che sia proprio lui a pensarlo.
Scuote la testa nel tentativo di scacciare questi pensieri. Forse è la morte che si avvicina a renderlo così sentimentale o forse, chissà, esser vissuto tra gli umani per tutto questo tempo, lo ha corrotto fino a questo punto.
Allunga una mano e tira a sé la scatola posta in un angolo della scrivania. Gli intarsi d'argento raffigurano la Vergine Maria e il Bambino e un'ombra, qualcosa di indecifrabile, passa per un istante sul suo volto. Lui c'era quel giorno ma se qualcuno dovesse chiedergli cosa accadde non sarebbe in grado di dirlo con certezza. La Verità è una cosa che gli umani bramano con ogni grammo della loro misera esistenza. Uccidono per le Verità. Muoiono per essa. Sacrificano il loro stesso vivere per raggiungere la Verità.
Ma a che scopo? Perché uno dovrebbe voler conoscere la Verità? Chi se ne frega della verità.
Basta. Questa volta si impone a sé stesso con maggior forza. Apre la scatola. La fila di sigari sembra non diminuire mai nonostante lui sia un fumatore piuttosto accanito.
«Ormond, prendi quella busta.» dice indicando con un cenno del capo un plico marrone.
Ormond ha iniziato a sbirciare il contenuto del plico: fogli dattiloscritti, ritagli di giornale, relazioni dai titoli pomposi, stralci di conversazioni telefoniche, documenti contrassegnati dalla dicitura Top Secret, immagini satellitari, nomi su nomi. Si sofferma sulla fotografia che ritrae un uomo con indosso una sorta di divisa militare.
«Fidel Castro.» dice Wilmer. «Batista non ha letteralmente più sostenitori e presto lascerà L'Avana.»
«Volete che lo impedisca?»
«No, niente affatto. Io voglio che Castro sia a Cuba entro l'anno prossimo.» Wilmer piega la testa indietro. Il sigaro tra le sue dita si sta ormai consumando da solo. «Castro è un fottuto comunista e questo significa che i russi saranno a due passi dal territorio americano.»
«Se le cose dovessero precipitare... »
«Mio figlio dominerebbe su un mondo polverizzato dal conflitto termonucleare. Apri quel cassetto. In quella scatola troverai tre chiavi ciascuna delle quali apre tre diverse cassette di sicurezza. La prima si trova a Berlino Est. Una volta che sarai entrato in possesso del suo contenuto capirai che cosa fare. Cuba invece è una faccenda immediata e preferirei che te ne occupassi domani stesso.»
«Ma signore, il bambino?»
«Non l'hai ancora capito Ormond? Guardami! Il bambino sta per nascere.» pronuncia quelle parole ridendo.
Ha appena aperto il cassetto della sua scrivania e sta fissando una fotografia in bianco e nero che ritrae Viviana, com'era quando era tornata ad avere solo diciannove anni.
«Distruggila, come hai già fatto con le altre.»
Ormond prende la fotografia senza guardarla e con un leggero assenso del capo si volta e se ne va.
Wilmer chiude gli occhi, il capo reclinato contro la poltrona, le braccia perfettamente allineate sui braccioli.
Tutto quello che poteva fare in questa vita lo aveva fatto. La Redeath Corporation aveva diversificato gli investimenti appena dopo la fine della guerra e aveva inglobato diverse realtà aziendali in settori strategici quali le telecomunicazioni, il settore dell'energia, quello agroalimentare e il comparto farmaceutico. Per quanto riguardava invece la produzione degli armamenti, il suo fatturato negli ultimi cinque anni era addirittura quadruplicato e sarebbe cresciuto ulteriormente grazie agli accordi siglati con gli Stati Uniti per la fornitura di missili nucleari.
In fondo poteva ritenersi soddisfatto, anche se era restato dietro una scrivania. Si congedava da questa vita lasciando alle sue spalle un impero.
Il sole sta volgendo al tramonto quando di colpo Wilmer riapre gli occhi. Si è addormentato nuovamente senza rendersene conto. Un velo di incoscienza indugia ancora per qualche istante sulla sua mente, mentre sbatte lentamente le palpebre per mettere a fuoco quello che vede.
Gli alberi sono anneriti contro un fondo di nuvole grigie contornate di luce. Non vi è vento e l'immobilità dell'aria appesantisce quel breve pomeriggio di novembre. Pochi istanti e il sole sarà sparito del tutto.
Il verso stridulo di una cornacchia richiama la sua attenzione. È stata lei a svegliarlo? Non fa in tempo a formulare questo pensiero che l'uccello si scontra con violenza contro il vetro della finestra.
È in piedi. La dita strette con forza attorno alla spalliera della poltrona.
Se quello è un presagio, in che modo deve considerarlo?
Le lancette dell'orologio fanno uno scatto in avanti e un suono grave rintocca nella stanza richiamandolo alla realtà.
Trae un respiro profondo.
Il momento è giunto.

Quando sale le scale, Wilmer ha la percezione di impiegarci un'eternità. Il suo corpo ha ripreso a rispondergli, ma l'urgenza di raggiungere Viviana dilata ogni attimo rendendolo un lasso di tempo quantificabile.
La porta della camera da letto è chiusa e Wilmer solleva la mano per bussare. Le nocche si arrestano a pochi millimetri dal legno. Nessun suono sembra provenire dall'interno. Wilmer abbassa la maniglia. Il chiarore tenue delle applique di ferro battuto permea la camera e disegna un alternarsi di chiaroscuro. Ma lui non nota quei dettagli. La sua attenzione è rivolta al centro della stanza.
Viviana è in piedi. Le gambe divaricate, le ginocchia leggermente flesse. Stringe con forza la camicia da notte. Lo guarda. Le labbra serrate, gli occhi sbarrati rivelano un'ombra di terrore.
Chiude di colpo gli occhi. I bei lineamenti si increspano in una smorfia di dolore.
Wilmer sente dei passi avvicinarsi alle sue spalle.
«Quando sono iniziate le contrazioni?» domanda Ormund mentre lo oltrepassa.
«Circa un paio di ore fa. Ma sono troppo intense.»
«Ne siete sicura?»
«Non è la prima volta che partorisco Ormond, lo saprò bene.» la voce che esce dalle sue labbra è un basso ringhio trattenuto.
Wilmer chiude per un istante gli occhi. Di colpo il gelo ha iniziato a scorrere nelle sue vene e deve concentrarsi con tutto sé stesso per impedire al suo corpo di tremare.
Il lieve guaito di Oblivious lo riporta nel presente. Il cane è seduto ai suoi piedi e lo osserva come se fosse in attesa di risposte.
«Venite con me. Dobbiamo raggiungere la Torre.» Ormond ha cinto le spalle di Viviana e la guida verso la porta.
Wilmer allunga la mano. Il pelo di Oblivious è liscio e setoso al tocco e la bestia mugola soddisfatta. Poi lentamente li segue, accompagnato dal fedele animale che gli cammina al fianco.
La Torre è stata eretta sul lato orientale e svetta sull'intera dimora come vestigia di un passato lontano. Una scala che corre a spirale lungo l'intera parete conduce verso l'alto all'unica stanza presente. Non ci sono ascensori che possano agevolare la salita e i gradini sono erosi dal tempo in diversi punti.
Viviana sale lentamente, la mano stretta al corrimano. Alle sue spalle Ormond si assicura che non cada.
Wilmer invece si mantiene a distanza. Dalle feritoie gli giunge il rumore della pioggia e il suo odore pungente.
La stanza in cima alla Torre è uno spazio circolare che occupa l'intera superficie disponibile. Lungo tutta la circonferenza si aprono ampie finestre dalle quali al momento non si riesce a vedere nulla, se non l'oscurità della notte.
Si volta.
«Tu resta qui».
Chiude la porta, lasciando Oblivious fuori dalla stanza.
Viviana e Ormond hanno raggiunto quello che a tutti gli effetti è un altare di pietra arrossato in più punti da macchie di sangue, le più recenti vecchie quanto lo stesso Wilmer. Accanto a loro riconosce sotto i manti incappucciati, Enio, Bia, e Cratos.
Enio e Bia si posizionano rispettivamente a destra e a sinistra dell'altare, mentre Cratos si erge ai piedi di Viviana. Le stesse posizioni attorno allo stesso altare da oltre duemila anni.
All'improvviso, un urlo lacerante fuoriesce dalla bocca spalancata di Viviana. Wilmer barcolla come se di colpo il pavimento sotto i suoi piedi si fosse fatto di gelatina. Si appoggia al muro prima che un violento colpo di tosse lo costringa a piegarsi. Quando osserva il palmo della sua mano lo vede arrossato dal sangue. Chiude gli occhi e appoggia la testa contro la parete.
Viviana urla e Wilmer sente come se qualcosa dentro di lui venisse lacerato.
Apre gli occhi. Lei è seduta sull'altare, i capelli madidi di sudore le si sono incollati al volto. Enio e Bia si limitano a sorreggerla, mentre Cratos resta immobile, lo sguardo fisso, attende la venuta del suo nuovo signore. Nessuna misericordia per sua madre, nessuna gentilezza.
Wilmer si volta a fatica e per un istante osserva il proprio volto, quasi come se faticasse a riconoscerlo. Il vetro gli restituisce un'immagine confusa in cui spicca la luce irreale degli occhi, quel bagliore da uccello notturno. Le luci illuminano il giardino sotto di lui e nella pioggia il profilo degli alberi sembra argentato. Qualcosa attira la sua attenzione e per un attimo ha l'impressione di scorgere una enorme cornacchia appollaiata su un ramo. Ma è solo Alina che sta muovendo le braccia e anche se non può sentirla, Wilmer sa che sta ridendo e urlando alla pioggia.
Viviana urla. Lui si volta. Le pareti sembrano vive e le fiamme che ardono nelle torce appese si agitano come se volessero raggiungere l'altare. Di colpo, Obliovius inizia ad abbaiare e a raschiare contro la porta, ma Wilmer è troppo debole ormai.
Viviana urla. Ormond è inginocchiato e le sta dicendo qualcosa ma Wilmer non riesce più a distinguere le parole. Un vento di fiamma si agita nella stanza, investe ogni cosa con urla atroci: rabbia, violenza, orrore. Tra le ombre dei cappucci, i volti di Enio e Bia sono segnati dal sorriso.
«Non ora, maledetti. Non è ancora venuto il momento» grida Ormond scacciando quelle presenze come se si stesse liberando di insetti fastidiosi. La Furia indugia, sembra intenzionata a piombare verso l'altare quasi come se volesse stappare via il bambino dal ventre della madre.
Loro lo farebbero, è il pensiero che lo sfiora.
Io lo farei.
«Ti prego. Ti prego. Non farlo nascere. Non farlo nascere.»
Viviana si oppone alla sua stessa natura. Ma ormai è tardi. Ormai le cose non possono più essere fermate. Lei si torce. Implora tra le urla. È lui che guarda. È lui che implora.
Wilmer fa un passo, ma le gambe ormai non lo reggono più. Cade in ginocchio mentre il suo corpo sussulta sotto l'impeto della tosse. Il suo petto è in fiamme. Non si cura più del sangue che gli imbratta le mani, le labbra. Non ne ha più la forza. La vista annebbiata gli impedisce di vedere quello che sta accadendo e attorno a lui tutto quello che ode sono le urla attutite di Viviana.
Era tua madre. Un pensiero. Una maledizione. Wilmer non saprebbe dirlo e in fondo, ha forse importanza? Hanno detto che era un dio sanguinario e che nelle sue vene scorrevano fuoco e ferro. Hanno detto che era un dio stupido, accecato dalla furia della battaglia.
«Cosa credevi che fossi, padre?» non è certo di averlo gridato. Ormai non è più certo di niente. La morte. Eccola la morte. Il demone che lo affianca sul campo di battaglia. La morte rossa che cammina sulle ossa e lascia impronte di sangue.
Perché gli dei non sono sempre quello che sembrano, e nello stesso dio può nascondersi la luce e il buio, la furia cieca e l'intelletto sottile. E una dea può tessere per amore e punire per invidia, così come un dio può cavalcare furioso o attendere che le stelle si colorino di rosso.
«Mio signore. Mio signore.»
Chi lo chiama? Ah, giusto. Il compagno di ogni battaglia.
«Il suo nome. Dite il suo nome.»
Non sente più nulla. Non vede più nulla. Ma le sue labbra danno fiato al nome che si è scelto e mentre un dio muore, il grido di un nuovo dio prorompe nel mondo.

Note dell'Autrice - in Sincretismo anni fa ho, per così dire, buttato i semi per quanto riguarda Ares. Gli ho dato un nome, Martin W. Redeath (dove la W sta per Wilmer), l'ho messo a capo di una multinazionale, l'ho reso uno che produce e vende armi, perché ai tempi avevo un'idea ben precisa sul Dio della Guerra, nel senso che volevo che fosse adatto ai tempi. Un tizio vestito da oplita che minacciava morte e sangue ringhiando non era molto nelle mie corde.
E Martin è ricco da far schifo quindi dovevo un attimo giustificare da dove gli venissero tutti questi soldi.
E poi è un dio, diamogli natali mitologici.

Questa è opera di fantasia.
Saint Seiya, i suoi personaggi e ogni richiamo alla serie citata appartengono a Masami Kuramada. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma solo come omaggio da parte di un fan. Tutti i personaggi, gli episodi e le battute di dialogo sono immaginari, e non vanno riferiti ad alcuna persona vivente né intesi come denigratori. In particolare, i personaggi, le ambientazioni e le situazioni da me create, mi appartengono; per poterli utilizzare altrove, o per riprodurre questa storia o parti di essa è necessario il mio consenso.

   
 
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