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Autore: misslittlesun95    17/05/2021    1 recensioni
Ophelia sta cercando di sopravvivere al dolore più forte di tutti, la perdita di un figlio.
La sua Vivian, dieci anni, si è ammalata ed è morta nel giro di pochissimi mesi lasciando dietro a sé la disperazione di due genitori e di Kelly, la sua sorellina.
Peggio del dolore per sua madre c'è solo l'ipocrisia degli altri, le colleghe che davanti a lei non parlano dei figli, i genitori di altri bambini che improvvisano un tatto che non hanno, tutto quel mondo patetico e incapace di comprendere di cosa davvero avrebbe bisogno.
Si salva il gruppo di supporto guidato da Thomas, che riunisce altri genitori soli, ma non è sufficiente.
Per questo Ophelia inizia, senza neanche accorgersene, a elaborare il lutto con le creature che meno lo conoscono, i bambini.
Alle feste, al parco giochi dove porta Kelly, ovunque un bambino le si avvicini.
Le parole di quelli solitamente definiti "troppo piccoli per capire" sono la strada per non gettare tutto all'aria.
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il bello delle città grandi è che puoi perderti e smettere di esistere.
Potrei andare in giro per New York vestita da deficiente e nessuno lo noterebbe, o passeggiare per lo stesso quartiere cambiando stile di abbigliamento tutti i giorni per una settimana e sembrare sette persone diverse.
Io riconoscerei i passanti, la signora della pasticceria, il giornalaio, loro non capirebbero che sono sempre io che gioco a fare l’attrice.
Sono nata a Brooklyn, cresciuta a Brooklyn ed è qui che vivo, ma potrei giurare di non conoscerne davvero ogni angolo, ogni dettaglio, ogni negozio.
Loro invece mi conoscono un po’ di più, soprattutto tra le quattro vie che raccolgono casa, la scuola, il supermercato e la chiesa.
Per questo il gruppo d’ascolto del martedì, quello da cui torno a casa alle otto di sera con un doppio caffè, è a mezz’ora da qui, perché non vorrei mai regalare il mio dolore a estranei che mi conoscono, che mi vedono in strada la mattina dopo e magari fanno domande e commenti.
Meglio la gente lontana, gli sconosciuti veri, persone che non si sarebbero mai incontrate se la vita non gli avesse imposto il dolore peggiore, la perdita di un figlio.
Charlie, mio marito, non viene mai.
Ci ha provato una volta, poi con la scusa di badare a Kelly ha preferito chiudere il suo dolore a chiave dentro casa.
Qualche volta si apre con me, davanti a una foto, al cimitero o dopo un bicchiere di vino, ma per il resto finge che vada tutto bene e io fingo che questo mi vada bene, anche se preferirei evitare il gruppo di ascolto e parlare con Charlie in ogni momento di Vivian e di quello che è successo.
Ma forse è presto, mi ripeto ogni volta che varco la sala azzurra dove ci riuniamo, forse ha bisogno di più tempo, e quando sarà pronto cercherà lui di parlarne, con me o con altri.
Nel gruppo siamo otto.
Eravamo nove, ma una signora è stata cortesemente allontanata dopo aver detto a una ragazza di ventisei anni reduce dal terzo aborto spontaneo che i suoi figli non erano mai stati “abbastanza vivi da potersi considerare un lutto”.
Grace, la ragazza, era corsa via piangendo.
Thomas, lo psicologo che tenta di dare un senso alla vita, alla morte e al dolore, l’aveva cacciata senza troppi complimenti, perché non era la prima volta che faceva uscite simili ed era abbastanza.
Parlandone mi ero chiesta se non fosse il dolore a prendere il sopravvento sulla ragione e farle dire frasi tanto brutte, ma mi avevano assicurato che no, era stronza anche prima.
Il dolore non giustifica l’essere persone di merda, dice Thomas.
Non con queste esatte parole, a dire il vero, ma il senso è questo. Il lutto si supera anche così, cercando di non diventare peggiori di ciò che eravamo prima per il semplice fatto di soffrire come cani.
Di noi otto rimasti quattro sono due coppie di sposi, una eterosessuale, che ha perso un figlio di diciassette anni in un incidente automobilistico, e due donne, Jane e Soraya, la cui bambina adottiva è morta a cinque anni.
Era stata abbandonata neonata in ospedale del Wisconsin dopo una diagnosi terribile da una madre che preferiva dirle addio dopo pochi giorni che pochi anni, e loro la avevano adottata per darle il meglio possibile in tutto il tempo che avevano a disposizione.
Poi ci siamo io, Grace, Landon che ha perso un ragazzo di vent’anni affogato in vacanza e Dorothy, che è come me.
Sua figlia Eveline aveva l’età di Vivian ed è morta di cancro nel nostro stesso ospedale, circa un mese prima della mia bambina.
Loro però erano lì da un sacco di tempo, lei dice che ci sono state per tutta la vita, e forse è anche vero, mentre la nostra vita si è autodistrutta in appena quattro mesi, da maggio ad agosto. Eravamo pronti a programmare le vacanze estive e invece ci siamo trovati ad organizzare un funerale mentre molti dei nostri amici e parenti erano al mare.
Sono passati sei mesi, in mezzo ci sono stati il primo giorno di scuola senza Vivian, il primo Halloween senza Vivian, il primo compleanno di Kelly senza Vivian e il primo Natale senza Vivian.
A Marzo, il due, ci sarà anche il primo-compleanno-di-Vivian-senza-Vivian, quello in cui avrebbe compiuto undici anni, l’ultimo alle scuole elementari, quello in cui avrei voluto comprarle i primi trucchi e forse anche un cellulare, quello che sarebbe stata una pizzata con le amiche in un tavolo distante dal mio.
Invece nulla.
Mancano venti giorni e mi chiedo come sia possibile che un anno fa neanche sapessi cosa fossero i tumori pediatrici.
Cioè, lo sapevo, ma come lo sa chi vede campagne di raccolte fondi su internet, non come lo sa una madre che ha visto sua figlia morire.
È stata Dorothy a consigliarmi il gruppo, diceva a lei facesse bene, forse perché oltre a sua figlia aveva solo i suoi genitori, due anziani che con la testa ci stanno poco e continuano a dire di sentire la bambina giocare in camera sua.
Io ho Charlie, Kelly, il lavoro, un sacco di gente che mi chiedeva di Vivian quando stava male e che mi chiede di me da quando lei è morta.
Sono circondata da persone che provano a capire quel che sento, da frasi di cordoglio e rassicurazioni o, peggio, da frasi a mezza bocca e gente che evita ogni riferimento ai bambini quando sono in giro, dimenticandosi anche che a casa mia oltre alla stanzetta vuota di Vivian c’è quella piena di sua sorella, che anche io compro vestiti per bambini, giocattoli alle festività o vado a parlare con le maestre ai colloqui.
Mi sono accorta, in sei mesi, che da madre di due bambine vive sono diventata solo la madre di quella che è morta.
O parlano di Vivian o evitano di parlarmi.
E posso dirlo? È peggio di tutto il resto.

 

   
 
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