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Autore: Yunomi    19/05/2021    1 recensioni
"aveva fatto l’unica cosa che si può fare quando non hai più nulla né sopra, né sotto, né di fianco: era caduta."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Foglie bagnate
 
 
 
Un vuoto enorme.
Questo le fece spalancare gli occhi su un soffitto bianco e perfettamente illuminato, quella mattina. Niente strisce di tapparella. Niente pianoforti. Solo bianco.
Persefone cercò di sospirare, ma si accorse che il cuore le era salito in gola e le impediva di farlo. Rimbombava lì, così pericolosamente vicino alle sue orecchie, come una piccola bomba ad orologeria.
I capelli, sparsi sul cuscino, parevano i resti di una brutta esplosione.
Persefone si concentrò per raccogliere quanto più ossigeno potesse contenere.
“Dio.”, disse, senza aspettarsi una vera e propria risposta.
Le venne improvvisamente da piangere.
Non ci riuscì.
Chiuse gli occhi.
La sveglia suonò.
Il cuore prese a batterle ancora più velocemente.
Questo terrore atavico che la coglieva allo squillare della sveglia non se lo sarebbe mai spiegato, in questa vita; fatto sta che la faceva tremare fino nell’intestino, e il senso di terrore circospetto che ne seguiva l’abbandonava solo dopo la seconda tazza di caffè. Un controsenso, senza dubbio, ma l’incoerenza dei sillogismi era d’altronde ciò con cui lei carburava. Un delicato equilibrio di spinte opposte e contrarie che la facevano girare come una trottola, in un frullare di gonne e capelli scuri e spessi che le finivano negli occhi.
“A cosa pensi?”
Persefone alzò lo sguardo dalla tazza di caffè – quando si era sostituita al soffitto, esattamente? – all’uomo di fronte a lei.
Prese un sorso. Sorrise debolmente.
“Sono un derviscio, Synyster.”
L’uomo alzò un sopracciglio, e arricciò le labbra. Non era compito suo indagare oltre, per cui non lo fece. Si limitò ad allungarle di fronte un vassoio di pasticceria su cui sostava pigramente un croissant rugoso. “Mangia qualcosa.”
Persefone sospirò, finalmente. “Devo portare il vestito dalla sarta. Non si chiude bene sul davanti.”
“Allora è perfetto così com’è.”, rispose quello con un ghigno. Poi si fermò a fissare una zuccheriera cilindrica decorata con peonie pallide, sentendosi vecchio: alzò lo sguardo verso la ragazza di fronte a lui. I capelli le ricadevano intorno al viso, e gli occhi erano quelli dei cerbiatti terrorizzati ma perfettamente consapevoli di quale sia il loro posto nella catena alimentare. Persefone si strinse il cardigan intorno al petto e Synyster temette per un attimo che stesse per mettersi a piangere. “Brian, in bagno c’è il mio beauty. Ti scoccia portarmi la boccetta di olio essenziale di lavanda?”, chiese Persefone, ficcandosi le unghie nei palmi, sotto il tavolo.
Brian la guardò come se gli avesse appena chiesto di staccarle le orecchie e usarle come presine per il forno.
Sugli occhi di Persefone calò un sipario lucido e trasparente a cui Brian non sapeva davvero come approcciarsi.
“Vado a chiamare Jimmy.”
“Non ce n’è bisogno, io-”
Persefone si interruppe: Synyster si era già alzato.
 
 
“Non ti serve a un cazzo, l’olio essenziale di lavanda.”
Persefone non alzò lo sguardo, perché non le piaceva che il suo capo piegato venisse scambiato per reverenza. Tuttavia, quello che le comparve dall’altro capo del tavolo era un Reverendo, effettivamente, seppur sui generis. Quindi Persefone lo riverì silenziosamente.
“Mi spieghi cos’ha che non va l’olio essenziale di lavanda?”, chiese lei, cercando di ignorare le guance fradice e il groppo in gola che il pianto non era ancora riuscito a sciogliere.
Jimmy le accese una sigaretta e gliela passò come un’ostia. Persefone la prese come un’ostia. “Non sarà il più salutare dei modi, ma di certo è il più efficace, in certi frangenti. Più dell’olio essenziale di lavanda.”
Persefone rise sottovoce e aspirò con un’avidità che sua madre le avrebbe certamente riprovato. Poi pensò che sua madre le avrebbe riprovato anche lo stare seduta in mutande e maglietta intima al tavolo della cucina di un chitarrista metal, in compagnia del di lui migliore amico batterista e tatuato fin nelle cornee. Quindi.
“Meno efficace della droga.”, fece presente lei, infantile, perché la droga non l’aveva mai vista neanche in fotografia. Infatti, Jimmy la guardò con tenerezza.
“Non dire puttanate.”, le intimò lui.
Persefone obbedì, silenziosamente. Non era abituata ad essere additata con quel genere di frasi: di solito era molto attenta a ciò che diceva e a come lo diceva, e questo l’aveva sempre aiutata ad evitare di pronunciare qualsiasi cosa che somigliasse lontanamente ad una puttanata. In compenso, però, ne pensava spesso moltissime.
“Jimmy, ho i piedi ghiacciati.”, disse lei, dal nulla.
Lui si abbassò a guardare sotto il tavolo; si rialzò con uno sguardo di ironico rimprovero. “Sei senza calzini, deficiente. Ci credo che hai i piedi freddi. Vieni qui.”, disse, scuotendo il capo, mentre Persefone si avvicinava a lui e gli appoggiava i piedi sulle ginocchia. James iniziò a sfregarli con le mani, calmo e paziente come la balia che in fondo era.
Persefone si sentiva perduta. Sentiva di aver sempre vagabondato un po’ a caso fino a quel momento, e di essere stata colpita quella mattina di dicembre dall’acre consapevolezza che in realtà non aveva la minima idea di dove stesse andando. Era persa. Vagava nelle catacombe in cui si era sempre diramata la sua vita come una nuvola di nebbia bianca, muovendosi a cavallo di spifferi e correnti d’aria che non si potevano capire né prevedere.
Ora si era fermata. Aveva improvvisamente preso consistenza, e il vento dell’est non la sorreggeva giù; aveva fatto l’unica cosa che si può fare quando non hai più nulla né sopra, né sotto, né di fianco: era caduta.
E ora si guardava intorno alla ricerca di un segnale. Un cartello. Uno Stregatto mellifluo che le indicasse tra mille identici il sentiero da seguire. Al contrario, l’universo le aveva posto davanti un batterista stanco.
“Non dovresti andare alle prove?”, chiese Persefone, piegando la testa di lato.
Jimmy osservò l’orologio al muro. “Non farai tardi?”
“Sai che odio sentirmi rispondere ad una domanda con una domanda.”
“Non sei brava a fare l’adulta indifferente.”
“Hai ragione. Hai sempre ragione. Io, invece, ho l’ansia.”
“Non è così. E’ l’ansia che ha te, perché glielo permetti. Sei troppo permissiva, dovresti puntare i piedi più spesso.”
“Non l’ho mai fatto, nemmeno da piccola quando volevo che mi regalassero il vascello dei pirati della Playmobile, figurati.”
“E invece ti è arrivata Barbie Bordello a Malibu.”
Finalmente Persefone rise. Un paio di lacrime sgusciarono giù e caddero sulle sue mani. “Oh, James…”
Jimmy le sorrise, e si allungò a prenderle le mani, emettendo vari versi da anchilosauro mentre sentiva che qualche vertebra scoppiava. “Ormai sei sul vascello dei pirati, non devi temere più nulla. Perché saranno gli altri ad avere paura di te.”
Persefone tirò su col naso. “E’ per questo che si metteva il teschio sulle bandiere?”
“Proprio così. Ora vai a lavarti via questa espressione da Catherine Earnshaw che lo sai che mi fa marcire il fegato.”
“Pensavo ci avesse già pensato la vodka nel 2006.”, ribattè Persefone, parzialmente sollevata.
“Sono un Prometeo sui generis a cui si rinnova il fegato ogni quindici anni. Ora vai.”
Persefone iniziò a pensare a Prometeo, e poi a quel Prometeo con la donna demone tatuata sulla schiena, quel Prometeo californiano che si impegnava con una naturalezza che probabilmente non aveva davvero ad avvicinare le faglie tra la realtà e quello che reale non è davvero, in cui lei inciampava così facilmente.
Il fuoco che aveva in quegli occhi era quello pacato e gelido dei racconti di divinità scorbutiche, ma lui era anche un uomo, e soprattutto, era un uomo generoso: aveva rubato il fuoco e le stava vicino quando tremava di freddo, in certe pomeriggi in cui leggeva sul divano, e rimaneva con i piedi nudi che illividivano sempre di più, prima di capire che aveva un freddo incredibile e aveva bisogno di una coperta; aveva ingannato gli dèi più volte di quanto non piacesse loro ricordare, quegli stessi dèi ai quali lei invece obbediva senza fiatare, tenendo accesi fuochi nel centro della sua anima che non la scaldavano mai, eppure la consumavano come una sottile candela bianca.  
Prometeo, in questa vita Jimmy Sullivan, le strizzò l’occhio e le lasciò le piedi.
Persefone si alzò e se ne andò in bagno.
 
Quando giunse nel giardino, si sentiva molto meglio.
Aveva fatto una doccia bollente che aveva in parte smussato i freddi crismi che si sentiva da mesi nel petto, nelle mani e nei piedi; giunse dunque in giardino con un vestitino corto e delle ballerine color caramello, e i capelli leggermente bagnati che spruzzavano goccioline vaporizzate.
Si lasciò cadere sul dondolo, e, com’è logico, iniziò a dondolare.
Si accese una sigaretta. Come spesso le capitava, il cuore non accennò a rallentare nemmeno dopo la prima metà di Winston che fumò, come spesso le capitava, troppo velocemente. La mano che reggeva la sigaretta tremava.
Delle dita tiepide e gentili si appoggiarono sulla sua coscia. Persefone si voltò e sorrise alla figura gentile che si era seduto accanto a lei.
“Buongiorno, fiorellino.”, disse la figura, sorridente.
“Buongiorno, Eleusi.”, rispose Persefone.
“Hai fatto colazione?”
“No.”
“Male, malissimo.”, la rimproverò Eleusi, che ovviamente non si chiamava davvero così: aveva tuttavia dovuto farci il callo, non essendosi mai trovata nell’urgenza di chiamarsi da sola, e quindi, per quieto vivere, aveva imparato a rispondere più o meno pacatamente alle invocazioni degli altri.
“Che ci vuoi fare, non ho fame.”, disse Persefone, che invece si chiamava così, ma nel senso che era un epiteto autoimpostosi, e che utilizzava solo nell’intimità delle proprie pareti craniche. A lei, quel gruppo di adulti mai cresciuti con cui si accompagnava riservava una variegata serie di nomignoli e soprannomi, che spaziavano da coniglietto a deficiente o cretina immensa, a seconda di come girava loro la giornata. Ma sempre con estrema dolcezza.
Eleusi scosse la testa ed estrasse, Persefone non seppe dire da dove, un piatto di melone tagliato a cubetti. Glielo porse, materna, mentre le sfilava la sigaretta dalla mano. Un po’ di cenere cadde sulla copertura a strisce bianche e verdi del cuscino del dondolo, ed Eleusi si strinse nelle spalle, colpevole, guardandosi intorno per accertarsi che James non avesse assistito al misfatto.
Ma James possedeva una particolare antenna per i guai: si materializzò di fianco a loro con le braccia incrociate.
“Il mio benedetto dondolo, Eleusi.”, esalò, stanco, allargando le braccia e facendole cadere teatralmente lungo i fianchi.
Eleusi gli scoccò uno sguardo furbo e misterioso, e si strinse di nuovo nelle spalle. “Scusa tanto, amore. E’ proprio un dondolo di merda, però.”
James si lasciò sfuggire una risata leggera, scuotendo il capo, e si sedette tra le due ragazze, avvolgendo le loro spalle con la sua apertura alare da condor. Persefone aveva ancora il cuore che batteva a mille, e per un attimo pensò che stesse per sfondarle lo sterno.
“Jimmy, avresti una sigaretta?”, chiese.
“Prima mangia la tua frutta, coniglietto.”, lo anticipò Eleusi. Jimmy però le aveva già acceso una sigaretta leggera e gliel’aveva piazzata tra le dita.
Eleusi alzò uno sguardo al cielo, che tuttavia non si degnò di abbassarlo su di lei. Non si offese, Eleusi; piuttosto, glissò uno sguardo obliquo verso James, scuotendo lievemente il capo. “Mi fai passare per la cattiva, se continui ad assecondarla in tutto. La vizi troppo.”
“Ma guardala, Eleusi, è un batuffolo di niente che trema nelle sue stesse ossa!”, si difese James, indicando Persefone.
“Appunto! Dovrebbe mangiare più frutta!”, ribatté la giovane donna, guardando James con affetto. Allungò il collo e gli depose un bacio gentile all’angolo della bocca.
“E quindi?”, disse Eleusi, dopo attimi di nulla riempiti dal cigolio del dondolo.
“E quindi cosa?”
“Cosa c’è di nuovo?”
“Nulla, c’è. Ho l’ansia.”, rispose Persefone, finendo la sigaretta e schiacciandola nell’erba.
“Hai l’ansia?”
“Ho l’ansia.”
Ormai la conoscevano molto bene, e sapevano che Persefone non amava particolarmente che le venisse risposto ‘ansia di cosa’, anche se era pressoché inevitabile che quelle parole prendessero forma nelle loro teste.
“Ogni nave dei pirati ha una fattucchiera.”, disse Eleusi, senza una ragione precisa. Persefone la osservò per lunghi istanti: i capelli morbidi seguivano i voleri di un venticello tiepido, e le sfioravano spalle forti e fiere da sacerdotessa.
“Vorrei essere come voi.”, si lasciò sfuggire Persefone, sentendosi improvvisamente la bambina che così tante volte aveva ripudiato, nell’adolescenza. L’aveva scacciata, quella piccola Persefone che rincorreva i cani al parco e fingeva di pescare foglie secche dal rigagnolo d’acqua sporca che lo attraversava: quella che si faceva leggere Moby Dick dal nonno, gli occhi pieni della schiuma del mare che non vedeva mai abbastanza spesso, e i sogni popolati da grossi cetacei pallidi, trafitti dalle fiocine come enormi San Sebastiano marini. Dov’era scappata quella bambina impavida, fantasiosa, che non aveva alcun interesse a partecipare al mondo frenetico e grigio  che la circondava? E perché le aveva lasciato dentro nient’altro che un pugno di foglie bagnate e un paio di ballerine color caramello?
James rise, guardando dolcemente Eleusi, come a voler dire le parli tu, stavolta?
Eleusi sospirò, rasa della stanchezza dei saggi e delle creature spiritualmente superiori, e si alzò dal dondolo. Si avvolse nello scialle e porse una mano a Persefone: “Andiamo a fare una passeggiata al mare, coniglietto.”
 
Il mare era freddo e si divertiva a rincorrere l’orlo del vestito che Eleusi indossava, ma si ritirava sempre ossequiosamente quando la donna abbassava lo sguardo verso i propri piedi.
Più la mattinata avanzava, più Persefone sentiva che la respirazione si faceva sempre meno agevole, nonostante la giovane donna che la reggeva per il fianco emanasse un profumo di torta di mele che le faceva ricordare casa – a quale casa si riferisse, esattamente, Persefone non ne aveva la più pallida idea.
Il cielo era spaventoso e discreto come una minaccia che ci si prepara ad annunciare: vortici di nubi si avviluppavano intorno a pochi raggi di sole come rampicanti, cercando di strizzarli come arance, facendo piovere fino all’ultima goccia di luce nel mare.
“Mi dà i brividi.”, disse Persefone, indicando il cielo con il mento.
“E’ solo un po’ inquieto, coniglietto.”, rispose Eleusi, e la voce che uscì dalle sue labbra fu quella del mare che si abbatteva sugli scogli. Potente e inarrestabile. “Ultimamente tutto ti dà i brividi, no?”
Persefone tacque.
Faceva freddo.
“Mi vogliono sempre perfetta.”, esalò, senza nemmeno sapere perché.
“Non ti avranno mai come ti vogliono loro, semplicemente perché non è il modo che ti vuoi tu.”
“Non so come mi vorrei.”
“E’ giusto che tu non lo sappia. E’ salutare.”
“Odio non sapere le cose.”
“Eppure è proprio in quelle cose che non sai che si trova la chiave di tutto.”
Persefone si domandò perché Eleusi dovesse sempre essere così sibillina, poi si ricordò che era per questa ragione che veniva chiamata così: lei e le sue conchiglie nei barattoli, le farfalle inchiodate al muro, le sue lunghe occhiate piene di segreti inimmaginabili che condivideva solo ed esclusivamente con James,  perché era l’unico in grado di decrittarli.
Erano irritanti, a volte, quei due.
Il modo in cui gesticolava mentre parlava con lui spesso pareva quello occulto di un’incantatrice: un fluttuare delicato di dita che materializzava una campana di vetro intorno a loro due, dando una consistenza dura e palpabile a quel cerchio magico che li separava dal mondo, dagli Altri. Erano iniziati al mistero di loro stessi, e il destino era stato abbastanza indulgente, con loro, da permettergli di sfiorarsi, condividersi. Ragazza noi, siamo bugie del tempo, appesi come foglie al vento del Mistral.
Tutto questo Persefone lo guardava con l’ammirazione delle bambine che ascoltano le storie di fantasmi, streghe e pirati. Li osservava, il viso appoggiato sui pugni chiusi, e li ascoltava parlare di libri, di aldilà pagani, di marmellate di frutta, e sapeva che stavano in realtà conducendo un pas à deux dell’anima in un salone da ballo popolato solo di candelabri dorati. Nient’altro. Nessun altro. Si chiese se mai sarebbe riuscita a provare una cosa del genere con qualcuno.
Eleusi si era fermata di colpo: aveva camminato per qualche metro nel mare, e ora l’acqua le circondava le ginocchia. Il vestito galleggiava intorno a lei come quello del fantasma di un affogato, e a Persefone sembrò che la sua pelle diventasse iridescente sotto i raggi pallidi di quel sole surreale. Iniziò a sentire i morsi capricciosi della fame; la vista le si offuscò, e per quanto avesse preferito accasciarsi sulla sabbia si sentì attratta dalla figura di Eleusi in mezzo all’acqua come da una forza a cui non avrebbe mai voluto opporre resistenza.
Il freddo gelido dell’Oceano si chiuse intorno alle sue gambe come una tagliola, e il vento le soffiò in pieno volto, strappandole quasi i capelli dalla testa.
Eleusi fissava l’orizzonte con gli occhi socchiusi.
Sembrava stesse pregando.
Persefone si voltò verso di lei, sul punto di chiederle cosa stesse guardando con tale rapimento. La mano di Persefone sfiorò la sua con l’intensità di una scossa elettrica, e a Persefone sembrò che il sole avesse un improvviso calo di tensione.
“Guarda.”, disse silenziosamente Eleusi, allungando un indice all’orizzonte.
Sulla linea pallida dell’orizzonte, un veliero trasparente e avvolto da una cupa nebbiolina ultraterrena si trascinava con le vele gonfiate da venti contrari: eppure, andava.
“E’…”, sussurrò la bambina che era dentro Persefone, gli occhi spalancati come fauci per inghiottire quanto più possibile di ciò che stava vedendo.
La presa di Eleusi sulla sua mano si fece ancora più salda, elettrica, emozionata.
Flying Dutchman.”, rispose Eleusi. Si voltò verso la ragazza, che aveva gli occhi pieni di lacrime.
Dunque non era morta: c’era ancora quella bambina dagli occhi grandi e selvatici che vedeva bandiere col teschio dappertutto: si era solo addormentata nel suo rifugio durante una partita a nascondino che durava da quindici anni, e nessuno aveva avuto la briga di venirla a svegliare. O forse era diventata davvero brava a nascondersi.
Ormai il freddo dell’acqua di quella mattina così strana non lo sentiva neanche più. In realtà, non sentiva più niente: la fame (Eleusi aveva sempre ragione su tantissime cose, ma soprattutto per tutto ciò che riguardava la colazione), il cuore che batteva a ritmo di un ben noto doppio pedale, i capelli che le pizzicavano le spalle. Si perse nella visione del vascello fantasma che scivolava sul filo dell’orizzonte, unica macchia scura in un panorama grigio e lattiginoso. E’ così assurdo credere che la cosa più viva, fra tutto, a volte sia proprio un fantasma?
Pianse, la mano stretta in quella di Eleusi e gli occhi fissi sulla nave dei pirati, e quasi pensò che fosse stata lei a farle questo incredibile, inaspettato regalo. Per lo meno, le piacque crederlo.
“Alla via così.”, fece una voce alle loro spalle. Eleusi si girò: Synyster stava sulla spiaggia a braccia incrociate, e di fianco a lui comparve poco dopo anche Jimmy: Eleusi venne colpita dal dubbio che quella fosse una vista abituale, per loro, intramontabili Captain Hook e Mr Smee che si erano stufati di rincorrere sbarbatelli insolenti e scappare dal Tempo. Il tempo d’altronde è un galantuomo con certi suoi favoriti, e si lascia piegare o spezzare senza lamentarsi da quelli a cui ritiene di aver fatto un torto. Eleusi non era certa di sapere quale fosse il torto in questione, ma le venne da pensare ad un coccodrillo che sputa una mano tatuata aggrappata ad una sveglia, e rise da sola. Glissò lo sguardo su Persefone, e si strinse a lei.
“Su, vieni, coniglietto.”, le disse delicatamente, mentre l’Olandese Volante scivolava oltre la curva dell’orizzonte, diretta verso altri lidi, altre dimensioni. Si vede che la California non aveva un tesoro abbastanza accattivante, ma Eleusi sapeva che non era così.
Persefone si scosse lievemente e si fece asciugare le lacrime dalla giovane donna.
 
“Synyster, pendaglio da forca!”, gli urlò Eleusi in un orecchio, giusto per gustarsi l’impagabile spettacolo di veder sobbalzare un turpe e nevrotico metallaro. “Dobbiamo andare, sottospecie di mozzo.”
“Sì, ma c’è bisogno di offendere?”, fece quello, mentre cercava di riportare il proprio cuore ad un ritmo che non somigliasse così tanto a quello di Second Heartbeat.
“Dobbiamo accompagnare la piccina a casa.”, disse Eleusi, strizzando il lembo del vestito zuppo.
“Di già?”, fece Persefone, imbronciandosi improvvisamente.
“E’ proprio ora.”, rispose James, facendole un buffetto sul naso.
“Dì un po’, Brian,”, proruppe Eleusi una volta raggiunta la porta d’ingresso di casa di Jimmy, “come la suoneresti la chitarra con un uncino al posto della mano?”
Brian ci meditò su per qualche istante. “Al posto della destra o della sinistra?”
Eleusi lo osservò precipitare in un crepaccio di apatia. Guardò Jimmy, che stava semplicemente adorando quel parallelismo senza farsi particolari domande, e poi tornò a guardare Synyster. “Lascia perdere. Sarai Spugna, allora.”
 
 
 
 
 
 
Ma più bello di averti è quando ti disegno
Niente ha più realtà del sogno
Il mondo non esiste, il mondo non è vero
E ho sognato di me
 
 
 
 
 
Coraline si svegliò con la sensazione di aver dormito nella sabbia.
Passò le mani tra le lenzuola, aspettandosi di sentire il pizzicore dei granelli sulla pelle, ma nulla: solo cotone, ancora caldo della notte che si stava concludendo.
La sveglia segnava le sei meno venti; sarebbe squillata nel giro di pochi minuti.
Si tirò a sedere, disorientata, incapace di riconoscere le linee della sua stanza.
Dalle persiane filtrava la luce pallida dei lampioni.
Faceva freddo, e lei era sudata macera.
Non capiva.
Non riusciva a capire.
Un attimo prima era in California, e un attimo dopo era nel suo letto, nelle sue coperte bianche, con la cretina di una sveglia che le fece venire una sincope vasovagale. Come al solito.
Si liberò delle coperte con un’amarezza che non riusciva a collocare in nessuna casella di raziocinio, e saltò già dal letto.
La casa era ancora immersa nel buio, e taceva.
Possibile?, si chiese Coraline, stringendosi in una felpa, mentre metteva su il caffè.
Il cielo era la brutta copia di quello che descrivevano alcune scrittrici inglesi sopra brughiere brulicanti di spettri. Il caffè, decisamente troppo amaro.
Sulla terrazza la colpì, forte come un buffetto sul naso che ancora riecheggiava sulla sua pelle, l’odore di fango umido e foglie cadute: il suo caco, nel giardino, stirava i rami scuri verso il cielo, carico di frutti che avrebbero cominciato a marcire non appena avessero toccato il suolo. I merli che nidificavano nella siepe di edera li avrebbero beccati prima che potesse anche solo pensare di tirare fuori una scala per tirarli giù, comunque, quindi tanto valeva lasciarli precipitare.
La giornata le passò di fronte come un film che aveva già visto e che non aveva intenzione di vedere. Coraline ricordava solo le luci del mondo farsi sempre più calde e soffuse, man mano che la sera calava.
Il profumo della corona di alloro sopra la sua testa, comunque, le aveva veleggiato intorno agli occhi per tutto il tempo.
Nulla. Anche sforzandosi, non riusciva a ricordare nulla.
Il salotto ora era illuminato da una luce arancione che filtrava nel bicchiere di cognac che Lui le aveva piazzato in mano: Coraline indossava un pigiama pesante con minuscoli fiorellini lilla, una corona di alloro in testa e un freddo feroce ai piedi – nudi, ovviamente.
E intanto fuori calavano le ombre.
“E dunque, quando ti iscrivi alla magistrale?”
Coraline si voltò verso Lui come una saetta: il liquido dentro il bicchiere tremò, così come quello degli occhi di lui.
“Non mi iscrivo.”
Lui basì. “Non… non ti iscrivi?”
“No.”, ripeté semplicemente Coraline, sentendo che mancava qualcosa di terribilmente importante, senza sapere cosa. Percepiva i bordi frastagliati di quella enorme lacuna; ne sentiva la consistenza affilata nelle profondità della sua anima. Sapeva che lì mancava qualcosa, proprio vicino al cuore. Eppure non riusciva a capire cosa.
“Amore, ne abbiamo parlato…”, cercò di riportarla alla ragione Lui, appoggiando i gomiti alle ginocchia e spingendo il viso verso di lei. Coraline fece uno sbuffo stizzito: quanto odiava il suo atteggiamento paternalistico, come se si sentisse in dovere di sottolineare pacatamente qualsiasi cosa.
Lì, lì, Cora. Hai sbagliato a vivere proprio lì. Ti amo.
Calò il cognac sotto il suo sguardo atterrito e si alzò dalla poltrona. “Credo che andrò a letto.”, annunciò, senza sentire il pavimento sotto la pianta dei piedi.
“Ma Cora, sono appena le undici. Pensavo che volessi…”
“Non pensare che volessi. Ti prego, ti scongiuro, non pensarlo mai più. Non penso nemmeno io a cosa voglio, oramai. Vai a casa. E’ una giornata così. Mi sono persa indietro un pezzo di me stessa piuttosto importante e vorrei provare a cercarlo.”, chiosò Coraline con poca pazienza. Lesse uno sbigottimento ferito e preciso come il taglio di un bisturi nello sguardo di Lui: Lui che non le prendeva mai i piedi tra le mani per scaldarglieli, o che non le tagliava mai la frutta la mattina. Lui che le diceva solo mettiti i calzini o stai mangiando malissimo, in questo periodo. Certe differenze sono così sottili che in quegli interstizi potrebbero nidificare interi universi. Certi margini, certi toni, certi sguardi, certi occhi portano nel loro quasi tutta la distinzione che porta a scegliere una strada piuttosto che l'altra. E' difficile scegliere, nella vita, ma in realtà neanche così tanto. E' più questione di mille scuse e giustificazioni campate per aria per forzarsi dentro una determinata scelta, piuttosto che seguire quello che la saggezza atavica della pancia suggeriva. Mentre si infilava sotto le coperte, Coraline pensò che il segreto di tutto dovesse essere nella sfumatura, e si sentì più vicina ad Eleusi, improvvisamente.
Si tirò a sedere di scatto.
Sentirsi più vicina a chi?
Scosse la testa. Una foglia di alloro scese a pizzicarle una guancia.
Si tolse la corona e la appoggiò ai piedi del letto, e le sembrò di essere un Neil Perry al contrario: e per quanto sentisse che una parte dentro di lei stesse iniziando a marcire, e infestasse la sua testa dell’odore dolciastro e nauseabondo delle arance che muffiscono lentamente, allo stesso tempo si fece strada dentro di lei un profumo di foglie bagnate.
Melone tagliato di fresco.
Spiagge. Spiagge di pirati.
Capelli bagnati.
Le palpebre erano diventati così pesanti; era così stanca, e se ne rendeva conto solo in quel momento.
Coraline non sapeva che avrebbe dormito per due giorni di seguito.
Che sua madre avrebbe chiamato la psicologa in preda ad una nevrosi e che suo padre avrebbe gridato ai piedi del letto per tentare di svegliarla. Mi ricordi molto qualcuno, mamma. Un chitarrista. Un chitarrista metal e stronzo.
Che Lui si sarebbe più volte infilato sotto le sue coperte per dare un po’ di calore a quel corpo che amava davvero solo quando si mostrava nelle sue debolezze e fragilità, mai nel suo fulgore inattaccabile. Oh, come la amava quando pensava che avesse bisogno di lui. Non avrebbe capito mai.
Tutto questo Coraline ancora non poteva saperlo. Forse non avrebbe mai voluto proprio saperlo.
Ora le interessava solo la sfumatura azzurrina che occupava il suo campo visivo, ben chiuso a tripla mandata dietro le palpebre; erano iridi che avrebbe riconosciuto sempre.
Occhi celesti. Furbi e stanchi. Eterni.
Occhi di Peter Pan.
 Anche Lui aveva gli occhi azzurri, ma erano azzurro piscina all’aperto chiusa per il maltempo.
Gli occhi a cui pensò Coraline un attimo prima di addormentarsi, invece, erano occhi dello stesso azzurro delle navi pirata all’orizzonte, viste dalla spiaggia.
 
 
 
 
 

 
Sognavi di essere trovata
Su una spiaggia di corallo
Una mattina dal figlio di un pirata,
Chissà perché ti sei svegliata?

 
 
 





 A Lui, il bambino perso sulle scale che non leggerà mai niente di tutto questo, e a lui, J. Ovviamente.
 
 
   
 
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