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Autore: Koome_94    24/05/2021    1 recensioni
[The Falcon And The Winter Soldier
WinterBaron - Bucky x Zemo]
A sei mesi dagli eventi di The Falcon and the Winter Soldier, Zemo si trova ancora prigioniero in Wakanda, in attesa che alla Raft si liberi il posto che gli spetta di diritto. Shuri, tuttavia, non è interamente convinta che la reclusione possa essere davvero una pena valida per un uomo come Helmut Zemo.
Quando una serie di furti di vibranio scuote il Wakanda e anche nel resto del mondo misteriosi individui incominciano a prendere di mira navi cargo e persino le Stark Industries, Sam e Bucky tornano in azione, preoccupati che dietro ai misteriosi avvenimenti si celi di più e per Shuri è decisamente giunto il momento di ricomporre il vecchio trio.
Zemo non può fare altro che accettare, ma è davvero pronto a rivedere James dopo il loro addio a Sokovia? E Bucky è davvero pronto a tornare ad affrontare il dolore negli occhi dell'uomo che aveva giurato di odiare?
Una caccia al tesoro attraverso l'Europa li metterà di fronte a domande difficili e risposte sconvenienti.
Nel frattempo il passato di entrambi è in agguato.
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, James ’Bucky’ Barnes, Sam Wilson/Falcon, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Some days I’m up, some days I’m down

Some days the world is way too loud

Some days my bed won’t let me out

Lonely Dance - Set It Off





 

 

 

 

Tendenzialmente lasciava che la vita gli scorresse attorno come se niente fosse.

Non aveva fretta, non aveva nessun reale obbiettivo da raggiungere, nessuna corsa contro il tempo che gli facesse sentire nelle ossa lo spasmodico scorrere dei minuti, come se fosse intrappolato alla base della clessidra e la sabbia continuasse a salire ostruendogli i polmoni.

A dirla tutta la vita, l’esistere, gli erano piuttosto indifferenti. Un’azione meccanica come riempire l’infusore e lasciare le foglie di tè a decantare nell’acqua rovente, come sfogliare le pagine di un libro mentre fuori dalla finestra il nubifragio si riversa sulla terra come una punizione divina.

Era per questo che il più delle volte non vi faceva caso, era per questo che in linea di massima riusciva a trascinarsi fra i giorni senza troppi danni collaterali, eppure ogni tanto, quando la sua guardia era bassa e i pensieri non si focalizzavano su qualcosa, si trovava a cedere.

Un inciampo banale, il passo falso di un ballerino alle prime armi, la nota stonata in una partitura che manca di talento.

Erano i giorni di sole a manifestarsi per primi, ed erano anche i più intensi. I giorni di sole avevano il sapore delle risate di Carl, quando si buttava per terra cercando di parare una pallonata diretta fra i due tronchi che aveva decretato essere i pali della porta immaginaria. A lui il calcio non piaceva, ma se suo figlio diceva che sarebbe diventato il primo portiere della nazionale sokoviana con quale autorità poteva opporsi?

Le domeniche pomeriggio recavano tutte il colore del cielo terso e delle strisciate d’erba sui pantaloni.

“Carl, adesso la mamma ci ammazza!” rideva scompigliandogli i capelli castani e pensando che i suoi occhi azzurri ancora pieni della speranza dei bambini erano la cosa più bella che avesse mai visto.

Helena spuntava puntualmente dal portico, le braccia conserte in puro contrasto con il sorriso luminoso che le metteva in mostra i denti dritti e le labbra morbide.

“Quante volte ti ho detto di non buttarti per terra con le ginocchia?” poi si avvicinava a lui e, sotto lo sguardo schifato del figlio, gli posava un bacio leggero sulle labbra.

“Siete inaffidabili.” gli sussurrava piano in un finto rimprovero, la testa appena inclinata in quell’espressione saccente che l’aveva fatto impazzire d’amore fin dal primo giorno.

Per tutta risposta la sollevava di peso e le faceva fare una giravolta, il sole delicato dei primi abbozzi di primavera a carezzarle i capelli sciolti.

“E tu sei troppo pignola.” Replicava con un ghigno, ricambiando il bacio e rinnovando l’espressione schifata sul volto di Carl.

I ricordi erano tutti uguali, differivano per data e per battute, ma il senso profondo di pace che portavano con sé era identico e avrebbe dovuto essere piacevole, lo sarebbe stato, se le circostanze non lo portassero ogni volta a riscuotersi e a fissare in faccia la realtà, grigia, vuota e caotica, senza la minima traccia dei segni d’erba sui jeans o del peso leggero di sua moglie fra le braccia.

Non vi era pace allora, solo lo schiaffo a bruciapelo della vita, solo la crudeltà sfacciata dell’esistere che gli ricordava ancora una volta ciò che aveva perso. Le vertigini erano violente, come lo era l’odio per le lacrime che inesorabili gli apparivano agli angoli degli occhi offuscandogli la vista.

Non piangeva mai, aveva imparato a tenere i sentimenti al guinzaglio, ma trattenerne gli impeti non significava affatto annullarne il dolore.

Quello rimaneva.

Gonfiava.

E la sabbia nella clessidra improvvisamente diventava un problema concreto.

- Questa è proprio un’idea del cazzo, lasciatelo dire! -

Fu la voce di Sam Wilson a riportarlo davvero alla realtà, mentre ricacciava il ricordo da dove era venuto e con un paio di veloci battiti di ciglia si liberava del velo di lacrime che gli aveva appannato lo sguardo.

- Sam, non è che mi faccia piacere, ma è l’unica soluzione. - questa volta fu Barnes a ringhiare la risposta a mezza voce, un sibilo sfuggito ai suoi denti stretti.

Wilson portò lo sguardo su di lui e Zemo si rese improvvisamente conto di essersi perso a metà della conversazione.

- Non mi fido ancora di lui. - sentenziò senza premurarsi di abbassare la voce.

Zemo alzò appena gli occhi al cielo e fece spallucce.

- Onesto. - ammise, beccandosi un’occhiata di fiele da parte di James.

- Bucky, ti ricordo che le Dora lo hanno… - intervenne di nuovo Sam, ma l’altro fu svelto a bloccarlo.

- Le Dora ci hanno concesso un accordo. Shuri è stata chiara la prima volta e cristallina la seconda. Non commetteremo passi falsi. -

Sam si avvicinò a James coprendo la distanza che li separava con un passo e abbassando la voce, in uno sciocco tentativo di segretezza, come se Zemo in piedi accanto a loro non avesse potuto sentirli.

- Se dovesse scappare di nuovo? - gli mise davanti la realtà, ma la risposta dell’uomo li spiazzò entrambi.

- Non scapperà. - fu la sua replica puntuale.

Lo stupido sorrisetto che era nato sulle labbra di Zemo poco prima svanì completamente, sostituito da una linea retta e da un paio di occhi sgranati, feriti.

Non era una rassicurazione, quella che James stava offrendo al suo amico, e non era nemmeno un’assunzione di responsabilità. Era un dato di fatto. No, Zemo non sarebbe scappato. Non gli interessava più scappare. Non gli interessava nulla.

E dopotutto, giunto a questo punto, dove sarebbe potuto andare? Quale luogo avrebbe davvero potuto chiamare casa?

James tornò a rivolgergli un’occhiata veloce e il suo sguardo si soffermò un istante di troppo sul volto pallido di Zemo.

Lui distolse lo sguardo, non gli voleva dare la soddisfazione di vederlo così, consapevole della ragione nelle sue parole. Non gli voleva dare la soddisfazione di cogliere nelle sue iridi castane il riverbero di quelle giornate di sole perse per sempre.

Quel dolore era suo, suo e di nessun altro, e non avrebbe tollerato che James lo inquinasse con la sua falsa comprensione, con il suo eroismo grigio.

Ci fu un momento di denso silenzio nel quale i due eroi si scambiarono uno sguardo nervoso, poi Wilson parlò.

- D’accordo. Ma fate attenzione. E per qualsiasi cosa chiamami. -

James si concesse la prima risata della giornata e Zemo fu distratto un istante dalle piccole rughe che il gesto gli faceva apparire agli angoli degli occhi. Così insignificanti, così umane. Un dettaglio che aveva sicuramente già notato ma che mai aveva registrato davvero.

- Sì, mamma! - ridacchiò, mentre Wilson scuoteva la testa e gli dava una spallata amichevole.

- Allora è deciso, voi vi dedicherete alla pista europea mentre io tengo a bada l’America. Però adesso andiamo a mangiare qualcosa, sto morendo di fame. - propose dopo aver riepilogato con un cenno della testa all’indirizzo di James.

Finalmente Zemo poté tornare a curvare le labbra verso l’alto e si sfregò le mani una contro l’altra.

- Ecco un’idea veramente valida! - commentò ironico. Gli altri due si sforzarono di fingersi irritati, ma con una punta di trionfo notò che entrambi stavano trattenendo un sorriso. Lo sapeva, gli era mancato lavorare con lui.

- Se permettete, conosco una trattoria niente male che… - incominciò, ma James lo interruppe, le sopracciglia aggrottate in un pensiero che non doveva essere nuovo.

- Ma tu conosci posti dove mangiare in ogni città del mondo? -

Zemo fece spallucce.

- Noi Europei abbiamo la sana abitudine di viaggiare. Si visitano luoghi, si incontrano persone, si conoscono culture. E si scopre persino che Washington non è il centro del mondo. - chiosò serafico, godendo delle espressioni risentite degli altri due.

Il cielo sopra di loro era terso, una tipica giornata di Maggio a Firenze che li aveva circondati di turisti mentre l’arte e la storia d’Europa scivolavano attorno a loro ad ogni angolo, ad ogni crocevia.

Faceva già caldo, e la felpa blu che indossava era sufficiente a difenderlo dai refoli d’aria che di tanto in tanto si infilavano nei vicoli.

Aveva visitato la città più volte da bambino, una delle sue preferite nei lunghi viaggi estivi con suo padre e sua madre e sapeva che non si sarebbe stancato mai delle strade lastricate, delle chiese, dei ragazzini che gli sfrecciavano accanto correndo davanti al duomo con le mani appiccicose di gelato. C’era vita in quella città, c’era una resistenza tenace e arrogante nascosta dall’eleganza dei marmi che gli faceva provare affetto per quel luogo.

Erano già passati sei mesi da Karli Morgenthau, sei mesi da quando James Buchanan Barnes si era presentato davanti alla sua cella a Berlino e gli aveva offerto la libertà. Sei mesi da quando le Dora Milaje lo avevano preso in consegna come un pacco di Amazon da rispedire al mittente e si erano fatte carico di non lasciargli mai più un giorno di tregua.

Lo avevano portato via, ed era stato solo un caso del destino se si era ritrovato a scontare i suoi nuovi giorni di prigionia in Wakanda e non in un carcere di massima sicurezza nel cuore dell’oceano.

Non che il Wakanda fosse meglio, ovviamente. Non che per lui ci fossero differenze.

Quando era arrivato era stato interrogato dalla Regina Shuri in persona, una ragazzina ai suoi occhi, ma una mente geniale al suo udito. Nonostante tutto non aveva potuto impedirsi di portarle rispetto ed era rimasto stupito dal notare lo stesso atteggiamento da parte della giovane.

“Il danno che hai arrecato al mio paese e alla mia famiglia non può essere perdonato, Helmut Zemo.” gli aveva detto, in piedi di fronte a lui con la schiena ritta e lo sguardo duro.

“Mio fratello era un uomo compassionevole e nel suo senso di giustizia non gli interessava capire. Io sono una donna di scienza, e voglio comprendere.”

Era stata di parola. Ogni singolo giorno della sua prigionia, Shuri si era presentata alla sua cella, lo aveva osservato, analizzato, interrogato, ma Zemo non aveva nulla a dirle. Non che volesse fare il prezioso, celarle segreti, tenerla a distanza. Shuri poteva guardare, poteva indagare e aprire il suo animo in due come un’autopsia, dopotutto era di quello che si trattava.

“Perché non ti opponi?” gli aveva chiesto un giorno, stupita da quanto si lasciasse maneggiare senza cenni di fastidio.

“A che cosa?” le aveva chiesto, la voce atona.

Shuri era rimasta in silenzio. Quella era più che sufficiente come risposta. Lo aveva guardato ancora qualche istante. Zemo non aveva l’aria di un suicida. Si rasava regolarmente, aveva chiesto dei libri con cui intrattenersi, mangiava ogni pasto che gli veniva offerto. Ma al di là di quello, il nulla. E la giovane regina si era accorta che mai una volta vi era stata resistenza da parte sua, mai una volta Zemo aveva cercato di sottrarsi al suo fato. Quando le Dora erano andate a prenderlo a Sokovia si era fatto scortare di buon grado, quando lo avevano rinchiuso in Wakanda aveva solo annuito e le sue uniche parole erano state “mi sembra corretto”. Ed era questo che aveva scoperto in lui. Correttezza.

Shuri non era T’challa, non riusciva a perdonare con tale facilità, ma aveva iniziato a comprendere e si era presto resa conto che la reclusione non sarebbe stata di nessun aiuto né a quell’uomo né a se stessa. La vera pena da infliggere a Zemo era la libertà, una libertà privata di ogni senso, di ogni direzione. Quell’uomo che lei interrogava ogni giorno era un involucro, una scatola vuota il cui contenuto si era ormai smarrito per sempre. La vita non gli interessava più, era una banalità, un gesto rituale e meccanico come ogni altro.

E allora con quello lo avrebbe punito, con quello lo avrebbe rieducato.

Costringerlo a vivere sarebbe stato il dolore più grande per il Barone Helmut Zemo.

La prima volta l’occasione si era presentata per caso, non era un’idea che Shuri avesse già incominciato a pianificare, ma quando una serie di sparizioni e strani traffici aveva scosso il Wakanda e si erano ritrovati nella necessità di un aiuto dall’esterno, avevano chiamato Bucky. Più una comodità che altro, perché il Lupo Bianco era loro debitore e non avrebbe fatto chiacchiere, non avrebbe raccontato a nessuno del momento di debolezza del regno, del momento di debolezza di Shuri. Ma i traffici si erano rivelati presto più intricati del previsto, il vibranio che entrava e usciva dai confini senza autorizzazione era legato a nomi oscuri che né Barnes né Wilson, accorso in suo aiuto quasi subito, conoscevano o sapevano gestire. E allora l’equazione era stata semplice, immediata. La punizione aveva trovato un risvolto pratico nell’immediato, e a soli tre mesi e mezzo da quando la porta della cella gli era stata chiusa in faccia, Zemo aveva ricevuto una visita nella quale non avrebbe nemmeno mai osato sperare.

Era stato pericoloso, pericolosissimo, un lapsus freudiano di cui aveva scorto gli effetti nel riflesso sul vetro della cella e di cui si era vergognato oltre misura. Quando aveva incrociato i suoi occhi azzurri, la sua figura snella, i suoi capelli scuri, Zemo si era alzato in piedi e per la prima volta dopo mesi aveva sorriso.

“Ciao, James.”

E per un singolo istante della cui esistenza Zemo era più che certo, anche le labbra di James si erano curvate verso l’alto.

Shuri aveva allora dettato le condizioni del suo rilascio, una libertà vigilata sottoposta all’occhio attento delle Dora Milaje, un servizio da rendere al Wakanda in pagamento del torto arrecato. Zemo non aveva obiettato. Sapeva riconoscere un esperimento, ed era esattamente di quello che si trattava: Shuri lo stava mettendo alla prova, voleva comprendere quanto corretta fosse la sua interpretazione.

“A lavoro concluso tornerai qui, finché non sarà il momento di reindirizzarti ad un luogo di reclusione più consono.”

Ce l’avevano fatta, erano bastati quindici giorni affinché la pista proposta da Zemo si rivelasse fruttuosa e James e Sam riuscissero a mettere le mani sui malavitosi che avevano osato sfidare il Wakanda.

Le Dora erano venute a riprenderselo, puntuali come un appuntamento con la morte, e ancora una volta l’improbabile trio si era separato.

Non vi erano stati grandi discorsi o parole di addio. James era rimasto dall’altra parte del vetro a guardare mentre la porta della cella veniva chiusa, e Zemo gli aveva sorriso. Un addio diverso da quello a Sokovia, ma che a luci spente aveva riversato su di lui lo stesso dolore, la stessa solitudine.

Aveva continuato a sognare Helena seduta al tavolo della colazione, aveva continuato a sognare Carl sdraiato sul tappeto in salotto a giocare con un’X-box mai ricevuta, e di tanto in tanto ai loro volti se ne affiancava un altro, uno nuovo che non aveva mai popolato i suoi sogni. Un volto triste, un volto colpevole nonostante la scelta giusta. Allora Zemo si svegliava, la fronte imperlata di sudore, il profumo del caffè, del tappeto e del dopobarba ancora nelle narici.

Shuri era lì, sempre lì dall’altra parte del vetro, il volto scanzonato teso in una maschera di serietà.

“Parli nel sonno.” gli aveva detto una notte, e Zemo non aveva avuto la forza di reggere il suo sguardo.

“E’ tardi, perché non dormi?” le aveva chiesto, sorpreso e infastidito nel rintracciare nella sua voce un’eco lontana di sincera preoccupazione. Perché Shuri era una bambina e lui avrebbe potuto essere, se non suo padre, per lo meno suo zio. Perché Shuri, tenace come una roccia e regale come una dea era esattamente uguale a lui.

La ragazza aveva sorriso, un sorriso falso che aveva appreso proprio da lui.

“Credevo che comprendere ciò che ti ha mosso mi avrebbe dato pace.”

Era stato il turno di Zemo di sorridere amaro, scuotendo la testa e mettendosi a sedere sul letto. Scoprirsi simili era stato terribile, con la morte e la vendetta a separarli, trasparenti come il vetro.

“L’intelligenza non è un dono.” aveva sussurrato, e qualcosa gli aveva stretto lo stomaco quando la ragazza aveva completato la sua frase parlando all’unisono con lui.

“E’ una condanna.”

Nelle settimane successive le visite di Shuri si erano fatte più scarse, fino a quando un giorno la ragazza non era tornata alla sua cella con un ghigno che lo aveva messo sull’attenti.

“Questa volta è stato lui a richiederti.” gli aveva sussurrato all’orecchio mentre camminavano assieme verso la sala del trono. Zemo non era certo di aver compreso, ma l’aria nei polmoni aveva comunque deciso di rimanere intrappolata a metà della sua trachea, bloccandogli respiro e battito cardiaco.

Quando aveva incontrato ancora una volta lo sguardo triste di ciò che restava del Soldato d’Inverno aveva socchiuso la bocca e un “ah” ne era sfuggito assieme al respiro trattenuto.

“Conosci le regole.” e con quella velata minaccia, ancora una volta, Shuri lo aveva lasciato andare alla sua condanna.

E adesso eccoli a Firenze, seduti in una trattoria con un piatto di pasta davanti a decidere quale sarebbe stata la loro prossima mossa.

- Non lo so, Pepper ha detto che il trasporto doveva essere segreto, e le persone che ne erano a conoscenza sono tutte morte nell’attacco. - spiegò ancora una volta Sam, indicando il cellulare abbandonato sul tavolo come a confermare le sue parole.

Tre giorni prima una nave era stata affondata al largo del porto di Boston da ignoti dopo che la merce a bordo era stata trafugata. Ufficialmente trasportava litio, ma la vera natura del cargo era vibranio accordato in precise quantità con il governo wakandiano. Si trattava di un nuovo progetto per la sicurezza contro i mass shootings nelle scuole che aveva suggerito Peter Parker, ma nessuno era stato informato della vera natura dell’operazione ed era improbabile che qualcuno avesse tradito dall’interno.

Restava il fatto che i colpevoli delle precedenti sparizioni erano tutti al sicuro dietro le sbarre in Wakanda, ed era inspiegabile come questo e altri colpi fossero andati a segno senza che vi fosse alcuna traccia di chi li aveva portati a termine.

L’opinione pubblica aveva iniziato a definirli gli Wraiths, senza volto e senza consistenza, come spiriti immuni alle ricerche dei comuni mortali.

Per questo il Governo aveva incaricato Sam e James di occuparsi della questione e per questo James aveva pensato di andare a scomodare nuovamente Zemo. Dopotutto chi meglio di lui avrebbe potuto aiutarli a rintracciare dei fantasmi?

- E’ evidente che in un modo o nell’altro devono avere accesso alle informazioni riservate. - constatò James per poi risucchiare uno spaghetto senza grande eleganza e beccandosi un’occhiata di malcelato rimprovero dal suo sorvegliato.

- Forse sono hacker. - suggerì lui per distrarsi dall’orribile visione di Barnes che continuava a mangiare la sua pastasciutta in quel modo barbarico.

- E’ delle Stark Industries che stiamo parlando. - replicò quello, versandosi un altro bicchiere di vino mentre Zemo si rendeva conto da solo dell’assurdità del suo tentativo.

- Il punto non è come lo hanno fatto, ma perché. Abbiamo più di trenta attacchi mirati a cargo fra gli Stati Uniti e l’Europa negli ultimi due mesi, e inizio a pensare che ci sia un legame con i furti di vibranio ai quali abbiamo lavorato l’altra volta. Chiunque sia questa gente sta mettendo da parte materiale per creare qualcosa. - continuò Wilson, gli occhi scuri attraversati da una vena di non indifferente preoccupazione.

James abbassò lo sguardo sul suo piatto di pasta, le sopracciglia aggrottate e le labbra appena sporte in un’espressione concentrata.

- Che sia un’arma o qualcos’altro non possiamo permetterci un’altra Karli Morgenthau. - sussurrò.

- O un altro Thanos. - aggiunse Zemo con un’alzata di sopracciglia, sorseggiando il suo Chianti come se avesse appena commentato il tempo atmosferico.

Gli altri due si voltarono di scatto in sua direzione, gli occhi sgranati di orrore.

- Non si può ricreare il Guanto, senza le Gemme dell’Infinito… - incominciò Sam.

- Non si poteva nemmeno ricreare il siero. Eppure chissà quanta gente ha trovato un hobby in quei noiosi cinque anni. - ribatté Zemo, leggermente aggressivo nonostante la solita nonchalance nella sua voce.

Trovava allucinante come gli eroi tendessero sempre e comunque a sottovalutare la pressione a cui era costantemente sottoposta la gente comune.

- Quindi cosa proponi? - intervenne James.

La sua domanda cadde nel vuoto come un sacrilegio. Wilson inarcò le sopracciglia con aria quasi offesa, mentre lo stesso Barnes tornava a dedicarsi al suo calice di vino per non dover sostenere gli sguardi degli altri due.

Zemo lasciò che un sorriso gli squarciasse l’espressione.

- Propongo di incominciare la caccia al tesoro dall’indizio più recente. Sam continuerà le indagini fra Boston e New York e io e te vedremo cos’ha da raccontarci la bella Firenze. Nessuno può sparire del tutto: per funzionare i gruppi sovversivi hanno bisogno di fare rete, ma un segreto è tale solo se non è condiviso con nessuno. - continuò, il ghigno sempre più ampio sul suo volto.

- Ci vorranno secoli per trovare la falla nel loro sistema. - obiettò Sam.

- Se nessun governo è riuscito a trovare niente dubito che per noi sarà diverso. - aggiunse, scoraggiato, ma il sorriso era ancora ostinatamente aggrappato alle labbra del suo interlocutore.

- Fortunatamente ho pazienza. Ed esperienza. Non disperare, Sam. Ci vorrà qualche tempo, ma avremo i nostri risultati. -

Il resto del pomeriggio trascorse in una quiete nervosa, ciascuno dei tre immerso nei propri ragionamenti. Sam armeggiava spesso con il cellulare, i messaggi a vibrargli in continuazione nella tasca della giacca di pelle, e James sembrava completamente perso in chissà quale pensiero complicato.

Di tanto in tanto gettava un’occhiata veloce a Zemo, per sincerarsi che fosse ancora con loro, ma in linea di massima era rimasto piuttosto silenzioso per il resto della giornata.

Di certo erano stati entrambi sorpresi quando Zemo, che guidava il terzetto, li aveva portati in un supermercato a fare la spesa.

- Questo fa parte delle indagini? - era stata la domanda perplessa di Wilson.

Lui si era limitato a replicare con una leggera risatina, mentre infilava con aria in apparenza distratta un pacco di biscotti al cioccolato nel cestello e proseguiva lungo la corsia alla ricerca di quello che individuarono come un barattolo di Nutella, pronto a finire accanto ai sacchetti con le verdure e a un paio di scatole blu di pastasciutta.

- Non so quali siano i tuoi piani, ma io e James rimarremo in città ancora qualche giorno, e il mio frigo è vuoto all’incirca da otto anni. Perciò gradirei avere qualcosa di commestibile con cui riempirlo finché dovremo rimanere a Firenze. - aveva risposto godendosi appieno le facce dei due.

- Hai una casa anche qui? Pensavo avremmo dormito in albergo! - aveva esclamato James.

- Beh, la sua famiglia è nobile… - era stata la risposta canzonatoria di Sam.

Meno di dieci minuti dopo, con un paio di sacchetti della spesa ricolmi e l’andatura decisa, Zemo li fece sgusciare al di là di un portone scuro al numero 2 di un vicolo che conduceva direttamente in Piazza della Signoria.

Salirono le scale senza fiatare e digitando un codice su un tastierino il padrone di casa aprì la porta.

- Non mi aspettavo un sistema di sicurezza così moderno in una casa così antica. - commentò Sam, addentrandosi nel salotto luminoso e andando a sbirciare fuori dalle grandi finestre che davano sulla piazza.

- La ristrutturazione del palazzo è stata recente, 2013, se non sbaglio. Le famiglie più benestanti della zona avevano preso a richiedere questo sistema e ci siamo adeguati. - spiegò andando a riporre la spesa fra il frigo e la credenza.

- In fondo al corridoio ci sono due stanze per gli ospiti e il bagno, sistematevi pure, io intanto preparo del tè. -

Cenarono poco più tardi, mentre il cielo si tingeva di rosa, stormi di uccelli lo attraversavano diagonalmente e dalle finestre aperte saliva il fresco della sera e la quiete dopo una giornata caotica.

Dopo aver mangiato Sam si era ritirato in camera sua borbottando qualcosa e Zemo si era premurato di lavare i piatti, mentre Bucky prendeva posto sul divano e accendeva la televisione.

L’aveva guardata in silenzio, probabilmente tentando di intuire il senso del film dalle immagini, mentre di tanto in tanto il padrone di casa gli lanciava un’occhiata da sopra le spalle, il rumore lieve dell’acqua a cascata nel lavandino a coprire di poco i dialoghi in Italiano.

Zemo si chiedeva cosa capisse di quello che vedeva e pensò che avrebbe potuto spiegargli che premendo un paio di pulsanti sul telecomando avrebbe potuto impostare la lingua originale, ma qualcosa della sua espressione concentrata era per lui impagabile.

Forse erano gli occhi, appena stretti nel tentativo di individuare qualche parola dal labiale degli attori, forse era il modo in cui i suoi lineamenti marcati creavano un gioco di ombre sul suo viso aiutati dalla luce ormai svanita del tramonto interamente impallidito, forse era la mano di vibranio, inconsciamente stretta attorno al bracciolo del divano quando le scene si facevano più intense.

Forse era tutto quello, o niente di ciò, ma Zemo si accorse che gli sarebbe dispiaciuto interrompere quel momento, incrinare l’equilibrio di quel quadro. Gli era sempre piaciuto osservare, fin da bambino, e avere un soggetto così interessante era un’occasione da non lasciarsi sfuggire.

- Che cosa c’è? -

Un piatto gli sfuggì dallo strofinaccio con cui lo stava asciugando e lo recuperò prima che cadesse a terra per puro miracolo. Lo aveva colto di sorpresa.

- Niente. Perché? -domandò con finta disinvoltura.

James era interamente voltato verso la cucina, ora disinteressato al film. Continuava ad esserci un’ombra misteriosa acquattata nelle sue iridi, un sentimento che Zemo non sapeva decifrare e che lo metteva a disagio.

- Mi stai fissando da cinque minuti. Potresti almeno chiudere l’acqua se hai finito di lavare. -

- Non senti i dialoghi? - lo schernì, sperando che l’attacco diretto potesse distoglierlo dalla domanda iniziale.

James scosse la testa e sbuffò e Zemo seppe di averla scampata.

- Ragazzi, sono riuscito a prenotare il biglietto per domani mattina. Ho l’aereo per New York prestissimo, quindi direi che ci salutiamo adesso. - Sam fece la sua comparsa dal corridoio prima che altre parole potessero essere sprecate, e segretamente Zemo gliene fu grato.

- Sei sicuro che non vuoi che ti accompagniamo all’aeroporto? - si premurò di domandargli l’amico, alzandosi in piedi e abbandonando definitivamente la tv.

- No, Bucky, non ti preoccupare. Prendo un taxi e poi avrò otto ore di volo per continuare a dormire. - lo rassicurò prima di voltarsi da Zemo e inclinare appena la testa di lato, probabilmente incuriosito dal rubinetto ancora aperto nonostante tutti i piatti fossero spariti dalla circolazione.

- Prendi l’aereo? Pensavo ci saresti andato volando. Tu, intendo. - commentò, chiudendo finalmente il rubinetto e riponendo anche l’ultimo piatto nella credenza.

- Puoi andarci con le tue ali? O se ti addormenti muori? - continuò per immenso fastidio di Wilson.

Innervosito da quelle domande platealmente idiote, strinse i pugni lungo i fianchi e a sua volta scosse la testa, la mascella contratta.

- Bucky, fermami o lo ammazzo. - sibilò, ma il collega non lo assecondò, anzi, scoppiò a ridere buttando la testa all’indietro, i denti scoperti e le spalle scosse dalla risata.

- Sei uno stronzo. - soffiò Sam come un bambino offeso.

Zemo si unì lieve alla risata, quasi timidamente, indeciso se Barnes si stesse prendendo gioco dell’amico o di lui stesso e troppo distratto da quel suono inaspettatamente cristallino per poter prendere una qualsiasi risoluzione in merito.

- Comunque la mia era una curiosità lecita. Mi chiedevo se quei marchingegni avessero una sorta di pilota automatico o se fossi costretto a decidere la rotta ogni volta. - rettificò, lungi dal voler creare tensioni proprio alla vigilia della partenza.

Sam sembrò accettare quella specie di cessate il fuoco e si strinse nelle spalle, di nuovo il ragazzo allegro e conciliante di sempre.

- Il problema è l’autonomia. Il motore non resiste per otto ore senza ricarica. -

- Mh, sì, comprensibile. - gli concesse.

- Certo con un jet privato ci metteresti meno. - aggiunse.

Sam alzò la testa di scatto, la speranza nei suoi occhi.

- Mi presteresti il tuo jet? -

- No. -

Un’altra ondata di risate da parte di James gli rese difficilissimo mantenere l’espressione impassibile, tanto che fu costretto a voltarsi con la scusa di asciugare un po’ d’acqua schizzata fuori dal lavandino per evitare che Wilson scorgesse il suo ghigno.

- Amico, se dai retta a me la chiudiamo qui e ce ne andiamo a dormire, potrai dare la colpa al jet lag e nessuno oserà contraddirti. - lo prese in giro James e Sam sbuffò sonoramente.

- L’idea di mollarvi da soli fino a data da destinarsi non mi piace per niente. - sentenziò piatto, ma chiaramente non offeso con l’amico.

Quello gli circondò le spalle con un braccio e prese a sospingerlo delicatamente verso il fondo del corridoio, dove le porte delle loro stanze adiacenti li aspettavano aperte.

- Se avremo fortuna ci rivedremo prima del previsto. E lo sai, appena troviamo una pista ti avvisiamo. - lo rassicurò.

Gli disse qualcos’altro a bassa voce che Zemo non comprese, ma dovette essere una battuta perché fu il turno di Wilson di scoprire i denti in una risata sentita.

Li guardò abbracciarsi e battersi un paio di cameratesche pacche sulle spalle prima che entrambi, dopo avergli frettolosamente augurato la buonanotte all’unisono, sparissero ciascuno nella propria stanza.

Improvvisamente la quiete del salotto vuoto gli parve una staffilata a tradimento di silenzio assordante, il cielo fuori dalla finestra gli sembrò vuoto e insensato come le rovine di una chiesa sconsacrata e la televisione accesa senza nessuno a guardarla gli diede indietro l’immagine di una famiglia che non esisteva più.

Con un sospiro tremolante aggirò la penisola della cucina, raccolse il telecomando dal divano e spense la tv, andando a chiudere le finestre e lasciando il mondo fuori.

Il giorno dopo Sam sarebbe partito per gli Stati Uniti e lui e James si sarebbero ritrovati soli alla ricerca di un mistero che non aveva forme né indizi.

Soli, per la prima volta da Sokovia.

Il rumore della vibrazione del cellulare con cui gli avevano permesso di partire attirò la sua attenzione e si trascinò a passo improvvisamente stanco verso la penisola, dove l’apparecchio giaceva abbandonato da quando erano entrati in casa.

Sbloccò la testiera e l’anteprima del messaggio appena ricevuto gli fece impercettibilmente stringere la presa attorno al cellulare.

“Ricordati i patti.”

Shuri aveva deciso di assillarlo anche a distanza.

Sospirò ancora, e digitò una risposta veloce.

“Non scapperò.”

Inviò e non si stupì nemmeno quando la giovane regina gli rispose con una gif.

Non scapperò. Non era forse quello che aveva detto di lui James quel pomeriggio?

Con le luci accese e le porte chiuse, mentre fuori frotte di ragazzini in aria di vacanze si sedevano a schiamazzare sotto la Loggia, casa sua gli sembrò più vuota che mai.

Spense la luce e anche lui si diresse in camera da letto.

Chissà cosa avrebbe sognato quella notte.

 

   
 
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