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Autore: Estel_naMar    27/05/2021    9 recensioni
«Quando mi ubrrrriaco tu mi porti sempre a casa, m-m-mi tieni al sicuro e proteggi sempre dal male. Sssssono io quel male?», no Ale, vorrei dirgli. Non sei tu quel male, siamo solo vittime non casuali delle circostanze che abbiamo creato e io… mi sono solo lasciato incastrare da te… e tu… ti sei affidato decisamente troppo a me. E ho tradito la tua fiducia. [...]
«Cosa pensi ti accadrebbe se io decidessi di non risponderti?», gli sbraito alterato.
«Non lo so, probabilmente morirei, ma tanto sono già morto, quindi non importa», scorgo, a un centinaio di metri l’ultima curva prima della sua abitazione, «Ma non è colpa tua, mi assumo io la colpa di tutto»[...]
No, se sei andato la colpa è stata la mia.

✠ Storia partecipante all'Erotic Drama Contest – II edizione indetto da Freya_Melyor sul Forum di Efp
Genere: Angst, Erotico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erotic Drama Contest - II Edizione - Freya _Melyor

Valentine - Travis


 


Requiem

 


 

«Dovrrresti proooprrrio smettere d-d-di venire a-a prendermi»

Scuoto la testa di fronte a tale affermazione: «Dovresti proprio smettere di bere… e di chiamarmi in piena notte»

Alessandro interrompe la sua camminata instabile e si lascia cadere rannicchiato sul gradino marmoreo dell’ingresso di un’abitazione. 

«Ceeeeerto», dice con gli occhi socchiusi muovendo maldestramente il braccio davanti a sé, la mano aperta come a zittirmi, «ma sai… chi altro dovrei chiamare?»

«Non è quello il punto… è che non dovresti ubriacarti ogni cazzo di giorno della settimana», l’irritazione mi cresce dentro vedendolo ancora una volta in quelle condizioni: gli occhi rossi velati da una patina di male di vivere, la giacca macchiata da qualcosa di indefinito, la puzza di ubriachezza, l’incapacità di stare eretto, l’umore ballerino, incoerente e costantemente in bilico tra apatia, esaltazione e malsana aggressività. 

«Piaceva anche a te bere, mi par di rrricordare. Ci siamo conosciuti da sbrrronzi. Sei così noioso adesso. Booooooring», sbiascica puntandomi il dito contro. Incasso il colpo consapevole che sarà il primo di una lunga serie, avendo vissuto innumerevoli volte quel suo perpetuo iter.

Non mi ammutolisco neanche più di fronte alle sue continue battute: d’altronde, so di essere il suo bersaglio preferito, l’unico che può puntare, in effetti, dato che i suoi amici si defilano sempre con largo anticipo non appena fiutano il sorpasso del limite. 

«Mattia… Matti… ti siedi qui con me?», mi porto le mani alle tempie e con nervosismo faccio un paio di circonduzioni con le dita: sono stanco, terribilmente stanco. Mi accovaccio accanto a lui, lo sguardo fermo sul muretto rovinato dall’altro lato della strada. Mi cade l’occhio su una delle varie scritte: “dammi il cuore che ci sputo dentro”. Ah, ilare la vita.

«Dimmi»

«Ci rimpiangi?»

«In che senso?»

«Noi, me… di esserci conosciuti tanto tempo fa»

«Mai»

«Però ti faccio male»

Non è una domanda, ma non posso fare a meno di chiedermi se io debba comunque rispondere. 

«Anche se tu mi facessi morire dal dolore che mi procuri, io sceglierei comunque di restare almeno un altro po’»

Punta i gomiti sulle ginocchia, si porta le mani sul volto e le strofina compulsivamente in su e giù. Poi le stacca, fa un paio di respiri, prova a calmarsi; fallisce miseramente, scoppia in lacrime. 

«Mi dispiace, mi dispiace davvero. Io… Io…», la frase gli muore tra i singhiozzi. Gli cingo le spalle col braccio e porto una mano tra i suoi ricci biondi, con l’altra gli asciugo la soffice guancia priva di barba. 

«Non preoccuparti di questo adesso», inspiro profondamente, «Vorrei cederti un po’ del mio coraggio e della mia intraprendenza. Perché lo fai? Perché ogni giorno ti riduci così? Cosa ti dà?»

«Dimentico tutto», risponde in un breve sprazzo di serietà, dura molto poco, «E le luci diventano così magiche… Schizzano veloci per aria, in una danza di colori e illusione. Guarda là!», mi indica i lampioni lungo la strada, «Vedi come si muovono? Come si cercano? Come si allontanano per poi divenire una cosa unica laggiù, in fondo alla via… Come noi!»

Sospiro e mi sento svuotato da lui, dall’ennesima notte in cui cerco di capirlo riuscendovi a stento. Vorrei urlargli contro che niente di ciò che fa ha senso: crede di dimenticare tutto, ma trascorre un attimo a rimpiangere la sua esistenza e quello dopo a sorprendersi dell’ordinario. E poi di nuovo nel vortice e poi di nuovo sopra le righe e poi vuole prendere a pugni tutto e poi si sdraia per terra immaginando di volare. Non rispondo.

Osservo, piuttosto, laddove mi dice, non scorgo alcuna danza, né vengo coinvolto dalla sua medesima euforia, però le luci si univano davvero, là. D’altronde, anche due rette parallele all’infinito paiono divenire una sola, quale banalità, quale magro inganno.

Sento il peso dello sguardo di Ale fisso su di me, mi volto: mi scruta con disarmante intensità speranzoso ed esaltato per il nulla. Giuro che desidero davvero credere alle sue parole, con tutto il cuore. Mi rendo conto di non essere capace di vedere quello che mi descrive, eppure, in qualche modo, attraverso la sua persona, i suoi sguardi e le sue espressioni, riesco almeno a comprenderlo. Per l’ennesima volta mi spoglia l’anima con gli occhi, mi denuda e mi fa suo con una facilità che costantemente mi sbalordisce. Mi sciolgo di fronte all’antracite delle sue iridi ridotte a fessure e fremo impaziente perché bramo solo di amarlo con quanta più intensità io possa. Non ho – né ho mai avuto –, nei suoi confronti, quella stessa presa: lui fugge continuamente da me e dal mondo, incastrato tra sogni e incubi, troppo intimorito per prendere le sue manie, gettarle via e riappropriarsi della propria esistenza; gettarle via e mettersi nelle condizioni di respirare. 

Riesco a sostenere il suo sguardo solo qualche secondo, poi mi alzo e mi allontano di qualche passo. Vorrei solo che riuscisse a vedere la meraviglia che lo stupisce tanto in momenti come questo anche il resto del tempo, anche quando non rischia di soffocarsi con il proprio vomito, ma questo non potrà accadere mai, già lo so.

«Ale, andiamo, ti porto a casa», cala il silenzio, riprendiamo a camminare.

 

«Quando mi ubrrrriaco tu mi porti sempre a casa, m-m-mi tieni al sicuro e proteggi sempre dal male. Sssssono io quel male?», no Ale, vorrei dirgli. Non sei tu quel male, siamo solo vittime non casuali delle circostanze che abbiamo creato e io… mi sono solo lasciato incastrare da te… e tu… ti sei affidato decisamente troppo a me. E ho tradito la tua fiducia. 

Vorrei biasimarlo, perché non realizza quanto questo modo di esistere, costantemente in eccesso, abbia un’influenza non solo sulla sua vita, ma anche su quella di tutte le persone che lo circondano… eppure, biasimo solo me stesso per non averlo aiutato abbastanza, per non averlo fermato prima di giungere a un punto irreversibile. 

 

 

 

Mi muovo qualche passo distante da lui, lo osservo traballare sul marciapiede mentre tenta di procedere dritto su una retta immaginaria, le braccia spalancate all’altezza delle spalle, i polmoni ben aperti per accogliere la brezza di una silenziosa notte primaverile. 

Arriviamo al giardinetto che ci divide dal parcheggio dove ho lasciato la macchina. 

«Dobbiamo separarci?», mi chiede notandola in lontananza, una nota di tristezza viene tradita dalla sua voce tremolante e dallo sguardo che prima si posa su di me e poi ricade velocemente verso il terreno. 

Mi farà impazzire prima o poi. 

«Cosa stai facendo?», mi viene spontaneo domandargli quando d’improvviso si mette a correre tra gli alberi e i giochi per i bambini. 

«Tergiveeerso. L’ho vista là la tua auto, ma non voglio ancora andare», sorrido: lo capisco totalmente, vale anche per me.

«Mi sembrava di averti convinto dieci minuti fa»

«Eh, ma… una volta che saliremo, arriveremo a casa e poi tu andrai via… N-n-non voglio che tu vada via»

«Anche se andrò, resterò comunque con te»

«Giochiamo a nascondino!»

Non posso combattere l’entusiasmo con cui ha avanzato la proposta, scuoto la testa ghignando tra e me e me, decido di accettare: «Va bene. Una sola partita, conto io»

 

«Uno, due, tre, quattro…», inizio a contare a occhi chiusi, appoggiato alla colonna di fianco alle scalette di uno degli scivoli e lo sento allontanarsi goffamente: senza dubbio è inciampato da qualche parte. Cala poi il silenzio e finalmente percepisco solo il lieve soffiare del vento che mi scompiglia capelli e anima. Il tempo si ferma, vorrei immortalare questo momento: un effimero frammento di serenità in una relazione il cui destino è ormai da mesi spezzato. 

«Trentotto, trentanove, QUARANTA. ARRIVO!», gli urlo iniziando a muovermi alla sua ricerca. Un gioco che è anche la metafora dei nostri giorni assieme: io che lo cerco e Alessandro che si nasconde. Io che lo cerco nella ferrea consapevolezza che lo scoverò e nell’opprimente preoccupazione circa le condizioni in cui me lo ritroverò di fronte e lui che se ne frega e, nel dubbio, continua a bere. 

Mi fermo a scrutarmi intorno: i giochi dei bambini ricordano un piccolo castello. A sinistra, la parte più scoperta destinata a quelli per i più piccoli. Da là, un passaggio sopraelevato si dirama in due stretti ponticelli. Il primo porta a uno scivolo a forma di tubo, luogo ideale in cui nascondersi. Ale sa che quello sarebbe stato, però, un posto piuttosto banale e fin troppo scontato. Salgo e prendo il secondo: arriva dritto fino a una specie di torretta da cui poi discende un ulteriore scivolo dagli accesi colori dell’arcobaleno. Innumerevoli volte le nostre serate senza logica o senso ci avevano portato a sederci là a parlare. Procedo con convinzione in quella direzione. 

 

Lo trovo lì, seduto sul legno, le gambe distese di fronte a lui; sul suo volto riflesse le luci dei lampioni e della luna che passando tra le fessure create dai rami degli alberi tutt’intorno creano delle ombre informi sul suo volto. Appena mi vede gira le gambe verso lo scivolo e fa per scendere, conscio che sarebbe giunto alla colonna dove avevo contato ben prima di me e che ciò gli avrebbe consentito di vincere. 

Gli poggio saldamente una mano sulla spalla e lo blocco dal suo costante fuggire, sedendomi di fronte a lui: «Resta»

Ci ritroviamo così: in un metro e mezzo quadrato di spazio, nella notte più serena da molti giorni a questa parte, le nostre schiene appoggiate alle pareti della torretta, gambe contro gambe, vicini con i corpi, ma soprattutto vicini con la nostra essenza. 

Per un breve secondo mi dimentico della ragione per cui siamo lì, mi dimentico di tutto ciò che si è inserito tra noi, di quello che ci sta distruggendo e quello che invece ci ha già distrutto. 

Porto le mani lungo le gambe e gioco un po’ con le mie dita unite, osservo Alessandro compiere il medesimo gesto. La mia mente salta rapida da un ricordo all’altro nella mia testa, fino a depositarsi su quello vividissimo di uno dei primi momenti intimi che abbiamo avuto, opera delle svariate analogie tra le due situazioni. 

Il gioco tra le sue mani si spezza e ciò mi riporta a questo illusorio presente. Ne sposta una con titubante decisione verso la mia gamba e con le dita inizia a creare dei lenti cerchi sulla mia coscia. Non azzardo alcun movimento, mentre dentro ho il cuore e lo stomaco in subbuglio che rotolano nel mio corpo e mi sgomentano. In preda all’agitazione per la piega non prevista che la situazione sta prendendo continuo a torturarmi con affanno le mani. Mi rendo conto che Ale non avanzerà ulteriori mosse: è sbronzo, ma sufficientemente consapevole di non aver diritti su di me. La palla è la mia, lui me l’ha lanciata e ora attende di scoprire cosa io voglia farne. 

 

Un’audacia che di solito non mi appartiene mi invade e pervade. Volto la mano destra verso di lui, lasciandola poggiata sulla mia gamba, il palmo rivolto verso l’alto. Sembra poco, ma è fatta. Lo guardo, mi guarda. Siamo spaesati, siamo persi, da sempre e per sempre distanti, ma in questo ritaglio stranamente e imprevedibilmente vicini. 

Ci osserviamo per quelli che paiono infiniti secondi, stavolta nessuno dei due distoglie gli occhi dall’altro. Di nuovo mi spoglia, mi denuda e mi fa suo; per la prima volta percepisco di star facendo lo stesso. Lo vedo fremere in ansia, ancora in attesa, ancora preoccupato che quel che desidera non giunga.

Ale ti darei più di così, se ne avessi ancora la possibilità.

Mi muovo rapido verso il suo volto, incrocio e unisco le nostre labbra in un vorticare di lingue e sensazioni ben oltre il nostro controllo. Mi stacco e prendo un respiro profondo, vorrei che ci facessimo nostri al di là della notte, che potessimo tornare a condividere la banalità del quotidiano. 

«Sai che ti amo più di ogni altro uomo, più di ogni altro individuo?», mi domanda tra un ansimo e l’altro. In risposta mi lascio cadere all’indietro e gli permetto di avanzare sopra di me, di toccarmi, di riscoprirmi, di prendermi il cuore in mano, pur conscio che mi ci sputerà dentro, proprio come suggeriva la scritta sul muro.

«Matti… Matti t-t-tu mi ami?», SI, ma dalla mia bocca non escono suoni. Frenato il mio amore, mi impongo di non frenare il momento. Lo bacio con molta più passione, le sue labbra hanno il sapore dolce e pungente dell’anice. Merito e colpa della sambuca, presumo. Lo assaporo, lo assaporo più che posso. Lui poi si stacca e scende sul mio collo. Non riesco più trattenere i miei ansimi e le mie voglie. 

Sorride malinconico, ma lo ringrazio perché sceglie di ignorare la mia mancata risposta. Con delicata esuberanza mi toglie la maglietta e percorre con la bocca il mio petto lievemente sudato. Me lo bacia con tormento, attento a non tralasciarne neanche una parte e una volta terminato scende giù fino alla mia più sincera eccitazione. Gioca con me, con arroganza e destabilizzante premura, gioca una volta per tutte, come faceva quando era mio, come quando ero suo. Buffo quanto voli il tempo. Con le braccia mi avvolge il corpo e mi stringe quanto più forte possibile, come a cercare di restituirmi un affetto che di solito sono io a donargli… questo è chiaramente un sogno.

Si stacca da me: «Non hai idea di quanto io ti apprezzi per tutto ciò che hai fatto per mesi per me, di quanto grato io sia, ma…»

Lo interrompo. Tu sei la mia rovina, già lo so. Non voglio sentirlo adesso. Lo prendo, trascino verso di me e faccio mio. 

In un miscuglio di ansimi, respiri e paure, ci uniamo. Il cielo brilla e ci illumina; oltre noi, la notte tace.

«Mattia»

«Ale»

Ci sussurriamo flebilmente all’apice del nostro ricongiungimento, poi anche noi tacciamo. 

Il mio nome, pronunciato dalla sua voce, è tornato ad avere il suono armonioso e soave di quando ci eravamo conosciuti: una tenerezza, quella con cui mi nominava, che avevo relegato agli angoli più remoti della mia memoria, tanto era che non la udivo. 

L’aveva da tempo sostituita con prepotenza e aggressività: ero divenuto la valvola di sfogo verso la quale rigettare tutto lo schifo che sentiva di essere appoggiandosi alla giustificazione che io fossi colui che interrompeva le sue notti di frenesia. 

Rimango immobile a terra qualche attimo mentre lo scopro a prendere lo scivolo e allontanarsi da me senza degnarmi di ulteriori sguardi. Adesso, mio malgrado, lo riconosco.

 

 

 

Mi allaccio la cintura: «Ale, devi metterla anche tu»

«No, non mi interessa»

«Non è una domanda. Devi metterla»

Sbuffa, non mi aveva più rivolto neanche una singola parola, quale era il suo problema adesso? Si aggancia la cinghia contrariato.

«Che c’è? Perché non sei ancora partito?», mi domanda agitato.

«Che c’è? Che c’è mi chiedi? Se ti sembra che sia tutto normale, non lo so, vedi tu»

«Parti»

Scuoto la testa confuso e rattristato. Come mio solito, incasso e incasso ancora. Accendo l’auto ed esco dal parcheggio, potessi vorrei spezzare il volante.

«Cosa pensi di aver ottenuto dopo quello che abbiamo fatto?»

«Come scusa?»

«Sì, so che ti aspetti qualcosa adesso. Ma lascia che te lo dica: non cambierà niente», non ho alcun dubbio a tal proposito.

Mi fermo al semaforo: non ho mai avuto la fortuna di beccare la linea verde, maledizione. Sento la frustrazione crescere, un macigno nel petto che mi ostruisce i polmoni.

«Ok»

«Ok? OK? Ok»

Ingrano la prima e riparto.

 

Con le dita della mano destra inizio a ticchettare nervosamente sul cambio. Vorrei schiaffeggiarlo, non posso schiaffeggiarlo. Ma quanti anni ha? Ma perché dobbiamo sempre ritrovarci a questo punto?

«Smettila»

«Smetti di essere un coglione del cazzo e forse io smetterò di picchiettare con la mano»

Con la coda dell’occhio lo vedo gonfiare il petto e respirare in modo affannoso. Conoscendolo, il suo volto avrà assunto un colore un po’ più vivido e rossastro.

«Mi hai davvero dato del coglione del cazzo? Perché sei qui se sono così tanto un coglione del cazzo?»

«Perché rischi ogni cavolo di notte di venir arrestato, di fare un incidente, di scatenare qualche rissa, di addormentarti chissà dove o letteralmente soffocare nel tuo vomito – visto che ti è effettivamente accaduto. Perché tu mi chiami e io sono preoccupato per te e non riesco a dirti di no perché nonostante tutto ti amo, ecco perché», gli sputo in faccia il mio rammarico, la mia desolazione, il mio amore per lui sottoforma di gesti – ricambiato solo con parole che alla fine dei conti hanno il peso e il valore di una foglia secca spazzata via da quella raffica di vento che è la sua persona. 

Imbocco la cupa provinciale che ci porterà dritti a casa sua. Intorno a noi distese di campi e buio assoluto.

«Non ho più bisogno di te che mi fai da balia, dovresti smettere di preoccuparti o tormentarti per quello che potresti o non potresti fare in certe circostanze»

«Sì, ma ti ricordo che tu mi hai chiamato, quindi forse, in effetti, avevi bisogno di me», sottolineo basito di fronte alle sue contraddizioni e alla sua capacità di scegliere quasi a comando come approcciarsi a me e a noi. Una doppiezza d’animo, la sua, di cui probabilmente non mi capaciterò mai. 

«Cosa pensi ti accadrebbe se io decidessi di non risponderti?», gli sbraito alterato.

«Non lo so, probabilmente morirei, ma tanto sono già morto, quindi non importa», scorgo, a un centinaio di metri l’ultima curva prima della sua abitazione, «Ma non è colpa tua, mi assumo io la colpa di tutto. Ti ho mentito e illuso, alla fine avevi ragione tu e non sono mai cambiato», mi dice volgendo la testa verso di me, un sorriso amaro sul volto. Poi, sposta rapidamente il braccio sul volante e gli dà uno scossone.

«Ale che cav-», perdo il controllo dell’auto, lo guardo senza capire, poi il niente. 

 

 

No, se sei andato la colpa è stata la mia.

 

 

 

Mi sveglio di colpo, le lenzuola umide a causa del mio più profondo rimpianto che tanto lacera e tormenta i miei sonni sono divenute un tutt’uno col mio corpo: vorrei alzarmi, andare in bagno e sciacquarmi malamente la faccia, ma mi impediscono il movimento. Afferro il cuscino sotto la mia testa, vi immergo il volto e urlo dentro più forte che riesco.

Ho provato a lungo a dissuaderlo, ma alla fine Alessandro si è adagiato davvero nel paese delle meraviglie tanto agognato senza lasciare la minima traccia, se non il mio cuore incurabile. A lungo ha provato a cancellare il suo passaggio nel mondo, a lungo mi ha trattato come una stampella a cui rifilare tutto il peso delle proprie angosce, incolpandomi e incolpandosi per il solo fatto che io non desistessi. Volevo continuare a esserci; anche adesso, anche dopo tutto il dolore che mi ha causato… Se mi avesse fatto morire, a causa di tutte quelle situazioni che non mi appartenevano, ma che ho scelto di condividere con lui; a causa di tutte quelle notti passate a disperarmi per la persona che amavo, ma che non riusciva ad amarsi altrettanto… sarei potuto morire lì al suo fianco, troppo consumato dalla sua presenza estenuante… sarei potuto morire, ma…

Non lo avrei lasciato solo, 

Sarei rimasto lì, ancora per un altro po’.

 

Eppure, un giorno, per afflizione, per sfinimento, per il troppo amore per la mia vita, prima che per la sua, ho scelto di non rispondere. 

Ale non ha più chiamato. 

Qualche ora dopo scoprii essersene andato solo, in un angusto e sporco bagno di un bar qualunque dove era malamente svenuto, soffocato nel suo stesso vomito.

 

Sorrido malinconico al crudele ritorno di questa consapevolezza e incasso il colpo, l’ultimo di questa lunga serie. 

 

Piango anche le lacrime di cui non dispongo. 

Mi giro da un lato, chiudo gli occhi, provo a ignorare il senso di colpa opprimente e tornare a dormire.

 

Sono accanto a lui e lui accanto a me, ancora per altro un po’.



 



 

 

Look at me!

Come si suol dire... Chi non muore si rivede e quindi eccomi qua.

Un ringraziamento speciale, ovviamente, va a Freya, la quale - per la seconda volta oltretutto! - mi ha aiutata, con il suo contest, a portare a termine qualcosa dopo mesi di lavori incompiuti - anche se stavolta la parte erotica è moooolto soft :P

Adesso qualche specificazione: mi sono appoggiata a due canzoni, la prima (Valentine - Travis) di cui trovate in link in alto che era anche il mio "obbligo" e Bosco dei Placebo. La trama si delinea interamente a partire da questi due brani, i cui testi sono spezzettati all'interno della narrazione.

Non so se l'epilogo sia sufficientemente chiaro, ma ho sparpagliato durante tutto ciò che lo precede piccoli indizi rispetto alla realtà delle cose. Il titolo stesso è uno si questi, tipo. Sono volutamente velati e confondibili all'interno delle varie situazioni e dialoghi, mi auguro, però, che a posteriori si notino ahahah


Grazie a chiunque sia giunto fin qua, a chi lascerà un'opinione e a chi invece non lo farà.


Alla prossima,

Bongi 

 

 

 

   
 
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