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Autore: _aivy_demi_    27/05/2021    16 recensioni
Una ragazza sbadata, disordinata e senza alcun pelo sulla lingua.
Un ragazzo famoso, allontanatosi dalla propria città in cerca di qualcosa.
Si incontrano, si detestano fin da subito.
Una simpatica commedia romantica het piena di malintesi, incontri fortuiti (e non), umorismo e una punta di ironia che non guasta mai.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Singing

is the answer

 

 

25 -The meaning of shipping




Raon Lee non amava soffermarsi troppo a pensare su ciò che le accadeva intorno, di fianco e dentro di sé. Raon Lee era una ragazza pratica, lunatica, non sempre incline alla socialità e ai sorrisi di circostanza. Quella volta però si ritrovava in completo stato confusionale, incapace di riuscire a contenere gli eventi degli ultimi tempi: rimuginare sulle proprie azioni e reazioni le riusciva abbastanza bene, doveva fare il punto della situazione prima di ritrovarsi ad annaspare per cercare di restare a galla.
Sua madre, il primo punto, il più dolente ma anche quello lontano. Sua madre era quella presenza che aveva creato un vuoto, una voragine che si era espansa dal petto risucchiando tutto l’odio che la figlia aveva covato per lei dalla prima adolescenza, da quando la donna decise che era giunto il momento di cambiare vita. Lee Min Soo aveva nascosto più che bene ciò che era accaduto, fino a quando non aveva varcato la soglia di casa con un paio di valigie in mano e la promessa di far decidere ai figli a quale figura genitoriale aggrapparsi. Han e la giovane Raon avevano optato per restare in casa Lee, una decisione pilotata dalle circostanze – e da un preavviso inesistente – che portò a un primo punto di rottura. La madre nel corso degli anni s’era impegnata a rattoppare gli squarci che quella decisione aveva creato tra lei ed i ragazzi, un po’ riuscendoci, il più delle volte no. Raon aveva cominciato ad anestetizzare le sensazioni che provava per lei, accantonando tutto il bagaglio emotivo che l’aveva portata all’ansia, alle sensazioni di inadeguatezza e di incapacità di comprensione del rapporto che le legava. Anni di lavoro su se stessa, a sopprimere quelle emozioni che le toglievano il fiato e le tagliuzzavano la gola con rantoli, lacrime inghiottite nell’annaspare in cerca di respiro. Anni. E ce l’aveva fatta, grazie al sostegno di un buon terapeuta, anni di autocommiserazione, e la vicinanza del fratello e del padre.
La rabbia era l’unica cosa che le era rimasta. Raon detestava arrabbiarsi, ma piccoli gesti avventati le donavano tanta di quella soddisfazione che lasciarsi andare all’ira non sempre le dispiaceva. Quando strappò e bruciò tutte le foto stampate che aveva in compagnia della signora Lee, sentì qualcosa sollevarsi e lasciarla andare, come se sulle sue spalle si fosse mosso un volume lieve ma opprimente; aveva respirato a pieni polmoni l’odore di fumo e carta plastificata accartocciata e andata in cenere. Le era servito, ma la macchiolina pulsava sempre lì, nell’angolino della testa, quello dedicato alle cose che non si potevano dimenticare nemmeno con i tentativi più accaniti.
Per Fredrik Åsli, altro nodo, altro motivo per prendere a cuscinate le pareti della camera quella sera – e si era limitata, aveva già rotto due lampade e scheggiato la scrivania sotto alla finestra della camera, negli ultimi scatti d’ira. Il ragazzo aveva quella innata capacità di farle perdere le staffe anche soltanto guardandola o rivolgendole il saluto; era proprio qualcosa di antico, una eredità ancestrale quella di doverlo detestare per ogni singola scemenza. Lo conosceva per fama, come altri milioni di utenti che osservavano, spiavano la sua vita da cantante sui social e ascoltavano le canzoni sulle piattaforme di streaming. Certo non sarebbe mai andata da lui a dire apertamente: sono iscritta al tuo canale YouTube, ti seguo su Facebook e su Instagram, posto le tue foto sul mio profilo personale commentandole e condividendole con il sorriso.
Certo che no, Raon non l’avrebbe mai fatto.
Era cocciuta, e orgogliosa, tanto orgogliosa.
Eppure aveva ben riconosciuto il ragazzo quel giorno, in fumetteria. Incredula forse, anzi, depennando il forse: cosa aveva spinto un cantante talentuoso con una propria band, una minima discografia originale e tante cover di brani indimenticabili a mollare tutto e infilarsi in quella cittadina? Cosa? Pure Raon aveva avuto delle storie che non erano andate a buon fine, come tutti: non credeva certo nell’amore eterno, tantomeno al colpo di fulmine, e sapeva, anzi era perfettamente convinta che qualsiasi cosa sarebbe potuta cominciare e dovuta finire prima o poi. Un amore curato è comunque un amore che si consuma nel tempo, invecchia e lascia spazio al semplice affetto: aveva fatto di questo pensiero un mantra, un balsamo per alleviare il dolore di un rapporto finito, e per spiegarsi ancora una volta il motivo per cui la sua famiglia era andata in pezzi e lei si ritrovasse a un quarto di secolo della sua vita senza aver mai combinato qualcosa di serio dal punto di vista sentimentale. La riflessione che si ripeteva spesso era come l’olio di mandorla per le smagliature: non avrebbe mai funzionato ma ci si ostinava a crederci fino alla fine, per autoconvinzione. L’amore era l’olio alla mandorla di Raon Lee.
Senza considerare la faccenda del bacio, quella l’aveva mandata proprio in bestia. E per ripicca, perché naturalmente a suo parere soltanto un deficiente con una certa carenza di neuroni non avrebbe potuto ricordare di averla baciata; uno così, o un rincoglionito ubriaco. Åsli faceva parte della seconda categoria, e perché no, un po’ anche della prima. Ed era per questo che Raon ancora non aveva letto e risposto ai suoi messaggi, arrivati a diciassette la mattina precedente, per l’esattezza.
L’ultimo nodo cruciale era Tae Kim. Ah, Tae Kim, ragazzo dalle mille sorprese.
Era sud coreano, come lei.
Studiava all’università, proprio come lei.
Amava mangiare cose buone e ridere di tutto, esattamente come lei.
Era perfetto, tanto, troppo, una figura che aveva creato danno ma le aveva dedicato tempo, sorrisi, pazienza, pareva sincero ed entusiasta. E qui si sentiva fregata, perché nonostante non riuscisse a capire il giro di circostanze che l’intero universo aveva creato per farli incontrare, di una cosa era sicura: Tae le piaceva, aveva sempre una parola buona per lei, un’aria familiare data dalle origini comuni (i lineamenti cara, quelli non mentono, si era detta nei giorni in cui era rimasta ferma a casa per via della caviglia) un sorriso che la faceva inspiegabilmente arrossire e dimenticare i malumori del periodo. Stavolta aveva pure recuperato il suo numero di cellulare, e anzi, era stato lui a darglielo. Ok, un contatto condiviso con Aya, ma poco importava. Ce l’aveva, e tanto bastava, avrebbe deciso in seguito cosa farne.
La serata era passata veloce, il ricordo ancora vivido delle pietanze assaggiate, di tutte quelle spezie differenti, il sorriso di Tae, i sapori forti, i profumi caldi e carichi, gli occhi di Tae; ancora Raon ricordava certi disegni dipinti sul muro con vecchie tinte, ne aveva accarezzato la superficie constatando fossero stati fatti a mano con pennelli dalle setole dure e colori un tempo brillanti, colori che si sposavano con la carnagione color miele – che paragone sdolcinato, sembrava un meme vivente a pensarla così, ma non le interessava – dell’altro. La sua compagnia era gradevole, anche se le era parso impiccione e chiacchierone fino alla nausea, ma aveva anche dei difetti, giusto? Tentò di scansarsi dal fascio di luce del lampione che la colpiva dai balconi schiusi, infastidita dall’insistenza di quella stimolazione visiva costante e snervante: lasciò il lato del letto per poi gettarsi con la testa sui due cuscini al posto dei piedi, dimenticando il cellulare attaccato alla presa di corrente, ancora spento dopo qualche ora. Crollò in un patetico dormiveglia fatto di stufato, riso, carni dalle salse appetitose accompagnate da verdure croccanti saltate, inondate di aromi e note di piccante; mugugnò qualcosa di incomprensibile rotolandosi sul materasso e avvolgendosi nel lenzuolo, aveva freddo ma era troppo pigra per recuperare la coperta abbandonata sul pavimento, quindi si raggomitolò facendo affidamento sui vestiti del pomeriggio che ancora indossava.
Pessima idea.
Si svegliò affamata, infreddolita e con un dolore alla cervicale che non la voleva lasciare in pace; spazientita raccattò il plaid dal parquet e se lo avvolse completamente addosso a mo’ di mantello, trovando il tepore di cui aveva bisogno. Andò a sbattere contro il comodino cercando il cellulare per controllare l’ora, imprecò sonoramente con tutta la fantasia che il sonno permetteva, e constatò con uno sbuffo di averlo carico ma ancora spento. Si sedette sul materasso dalle lenzuola sfatte, avvolta dal pile fino a sopra la testa, riaccendendo con noncuranza l’apparecchio.
Gli avvisi di chiamata non si erano sprecati, il bip continuo la spazientì, i messaggi arrivavano da tre conversazioni differenti escludendo le notifiche dei social network: avrebbe voluto prendere ciò che stava stringendo in mano e schiacciarlo sotto la suola di una scarpa, senza alcun rimorso. Memore della mancanza di soldi per comprare un nuovo modello, rinunciò all’idea e cominciò a sfogliare gli avvisi, scavalcando automaticamente quelli di Åsli – pensarci a quell’ora non le avrebbe fatto bene – e concentrandosi sulla chat di Aya, che le aveva rifilato un papiro di 7:03 minuti di registrazione vocale.
«Ma tu sei scema.» Non lo aprì nemmeno, si rifiutava di credere che qualcuno potesse davvero dire così tante cose al microfono di uno smartphone.
L’altro numero interessato era quello della madre, che spediva le maledette “buonanotte” con GIF e immagini colorate di gattini, farfalle e glitter con frasi fatte idiote nel gruppo di famiglia.
Sospirò, raccolse tutta la pazienza di cui era capace e finse di non vedere.
«Non la capirò mai.»
Rimanevano soltanto quei diciassette messaggi, era tentata.
A quell’ora, con una coperta a farle da mantello in pieno stile Compagnia dell’Anello di Tolkien in viaggio sulle catene montuose circondata dalla gelida bufera, non aveva voglia di scoprire novità. Bastò però l’anteprima della conversazione per farle drizzare le antenne, lanciare l’involucro caldo sotto cui si era nascosta fino a poco prima, infilare un paio di All Star, dei jeans sbiaditi, una felpa sotto alla giacca invernale recuperata a caso dall’armadio, e correre giù per le scale incurante della confusione che stava facendo a tarda notte.


«Sei un idiota.»
Esordire con tre semplici parole era stato efficace, nonché divertente: Raon si era beata per un attimo dell’espressione mortificata di Åsli, un misto tra la preoccupazione malcelata e il senso di colpa evidente. Erano giorni che non si vedevano, dopo ciò che era accaduto in casa loro con la signora Lee non si erano più incontrati e il ragazzo non aveva più avuto notizie di lei, della sua salute, di cosa era successo poi con sua madre. Aveva tentato di cercarla, con scarsi, scarsissimi risultati. Stavolta però si trattava di qualcosa di importante davvero, avrebbe scavalcato il muro di indifferenza che Raon aveva sollevato nei suoi confronti.
«Perché non mi hai avvisata prima?» Sapeva non avesse senso una domanda simile, non pretendeva neppure una risposta, era l’unica cosa che era riuscita a formulare prima di entrare, superare l’inquilino e andare verso il salotto. Sua nonna dormiva beatamente sul divano, incassata ad occupare meno di un terzo del tre posti. Beata russava con vigore.
«Ti conviene venire qui.»
Åsli provava una certa soggezione, doveva ammetterlo: Raon era assurda, non era capace di dare un freno a ciò che provava, mai, e lo mostrava senza alcun filtro.
Quanto la invidiava.
Anche se ora ne aveva paura.
«Senti, signor musicista che fa le serenate su YouTube, ti ho detto di venire qui.» Era preoccupata, e a malapena ragionava su ciò che stava dicendo e il modo in cui si esprimeva nei confronti del coetaneo. «Cosa cazzo hai combinato?»
Gola secca, terrore.
«Io? Lei! Non cosa ho combinato io, ma cosa ha combinato lei.» Non era un infame, semplicemente i fatti erano questi: Luciye aveva bevuto insieme a lui, che già era alticcio di suo, si era svuotata del patema che stringeva dentro per poi rovesciare la testa sul divano e addormentarsi di colpo. Non che avesse mostrato qualche sintomo particolare, a parte gli occhi lucidi e il rossore ad accendere il colorito spento tra le rughe; semplicemente il suo istinto l’aveva messo in stato di allerta. Una vecchina che s’era scolata bicchieri dalla gradazione alcolica che viaggiava di norma dai trenta tre ai quaranta gradi poteva sentirsi male. Che ne poteva sapere Åsli? Non aveva mai avuto a che fare con anziani dal gran movimento di gomito.
Raon si gettò a peso morto sull’altro lato del divano: carezzò la nonna, confortandosi nel respiro regolare e nella temperatura corporea nella norma, sospirando un paio di volte e massaggiandosi gli occhi e le tempie. Era stanca, occhiaie scure segnavano il volto niveo mostrando un gran bisogno di dormire. «Non ti hanno mai detto che non si dovrebbe offrire da bere ai vecchi?»
«Puoi farmi spiegare, per favore?»
Lei acconsentì, incrociando le braccia al petto e sporgendosi verso il ragazzo che intanto s’era accomodato sul tavolino della sala, giusto di fronte. «È comparsa qui, ha visto la bottiglia, ha chiesto da bere e si è incazzata perché centellinavo le dosi. Ha cominciato a farfugliare qualcosa riguardo a me e a mia nonna, per poi addormentarsi così, di botto. È da quando ti ha chiamata che è qui, ma tu non hai voluto lasciarla parlare.»
«Ero impegnata a studiare in biblioteca, ma non è questo il punto. Hai rischiato di farle venire un colpo, ti rendi conto?!»
Il senso di colpa si schiantò sul capo di Åsli con tale violenza da rischiare di farlo cadere sul tappeto. Era una verità assoluta la sua, aveva tentato di fermarla ma non ne era stato capace. La preoccupazione era parzialmente scemata, lasciando spazio lucidamente alla curiosità.
«Tu invece come stai? Hai bevuto anche stavolta? C’è un gruppo di alcolisti anonimi in città, non lontano dalla stazione dei treni, potrei accompagnartici.» Il tono ironico era palese.
«Non sono ubriaco, se è questo che pensi. Ho bevuto molto meno di lei, fidati, e sembra pure stare meglio di me. Tu?»
«Io cosa?»
Åsli rise la prima volta dopo ore. «Come sta il piede?»
«Ah, quello, è a posto: gonfio, tenuto a riposo qualche giorno, era solo una brutta botta, non potevo rischiare di peggiorare la situazione quindi ho fatto la casalinga. Guarda che preoccuparti per me non è un modo per farti perdonare automaticamente, eh.» Eppure sorrise lei nel dire quelle parole, facendosi subito di nuovo seria. «Ora sto meglio, ho ricominciato a uscire.»
Lui voleva chiedere tante cose, davvero tante, ed aveva cominciato da quella che gli premeva di più: avrebbe voluto continuare e domandare ancora, con il rischio di infastidirla. Che poi, cosa non avrebbe infastidito Raon? Ci provò, era lì davanti a lui, disordinata come sempre, stanca come troppo spesso, ma gli aveva sorriso. Era pur sempre un passo avanti rispetto a tanti insulti ricevuti in precedenza.
«Come mai non mi hai risposto?»
«Senti, ti trovavi tra un buongiornissimo in una chat di donne di mezza età frustrate, e no, non fare domande, e un’amica isterica convinta che la mia vita sia una storia inventata da lei dove tutto deve filare liscio e dove io vengo shippata come una scema con te.»
Åsli tentò di collegare il termine che la ragazza aveva usato nel riferirsi a loro, ma non ci arrivava.
«Non sai cosa significa shippare, beh, meglio. Meglio per me.»
In poco lo smartphone di lui catturò l’attenzione di entrambi e la parola acquisì il giusto significato. Rise, mascherandosi gli occhi con la mano.
«Questa tua amica pensa che noi dovremmo tipo cosa, stare insieme? Non ci conosciamo nemmeno, se non per te che mi hai mandata a fare in culo in fumetteria, o te che mi sei caduta addosso rotolando giù dalle scale, oppure sempre te che mi hai insultata più o meno un numero indefinito di volte. Spiegami, ti prego, perché non ce la faccio a smettere di ridere, in base a cosa lei dovrebbe vederci assieme. Seria, però.»
«Per il semplice fatto che l’enemies to lovers è uno dei suoi filoni preferiti.»
«Ok, non mi serve la traduzione per questo, ma parlate sempre così voi? Sono termini tecnici specifici per gente da…?»
«Da fandom, si dice. Il fandom è… ma che cazzo te lo spiego a fare, sono qui e dovrei essere incazzata nera con te, e invece mi stai facendo ridere tutto il tempo. Mi spieghi come fai?»
Più la sentiva parlare più Åsli cercava di interpretarla: alle volte Raon era cristallina, le sue emozioni si muovevano vorticandole addosso per poi essere sbattute violentemente contro ogni malcapitato che sarebbe stato a tiro, ma con le parole non sempre ci sapeva fare. Inspirò, e un’altra domanda si fece largo, sicuro che avrebbe scatenato una tempesta: lui non aveva comunque nulla da perdere, era lì, lei stava di fronte a poco più di un metro di distanza. «Sono tutte supposizioni le sue, quindi. Il bacio non c’entra niente, allora?»
Silenzio.
Gelo.
Esplosione.

   
 
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