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Autore: wutheringwendy    31/05/2021    0 recensioni
“Nel senso che siamo immacolati. Persone che non si fanno deturpare né violentare da niente e da nessuno. Siamo puri d’animo. Il cinismo e la cattiveria sono sopravvalutati, ormai. La disillusione è diventata mainstream. Ho amici che fanno a gara a chi sogna di meno, a chi dimostra il sarcasmo maggiore. L’atto più provocatorio e sovversivo che si possa fare, di questi tempi, è tornare ad essere piccoli.”
Milton spinse il viso verso di lei e la baciò, tentando di rubare almeno un pezzetto di quella frase. Ma Camille la teneva ben stretta, legata ad un filo lucente nelle profondità della sua mente.
“Sai cosa dovremmo fare?”, sussurrò Camille, facendosi accarezzare il viso.
“L’amore ancora quindici volte?”, rispose Milton, appoggiando il mento sul petto di lei.
La ragazza sorrise. “Non si fa l’amore, Milton. Si prende. Ma comunque non intendevo questo.”
“E cosa dovremmo fare dunque?”
[...]
“Piccola?”, chiamò lui, vedendo che taceva.
Camille si scosse lievemente e se lo tirò addosso. “Nulla.”, disse sottovoce, prima di rapirgli le labbra in un bacio lungo. “Prendimi ancora.”
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“Oh, cazzo.”, disse Camille, mollando di colpo le posate sul tavolo. Milton alzò lo sguardo di scatto, come faceva sempre quando lei emetteva un suono improvviso o si muoveva troppo velocemente. La guardò con preoccupazione, e i suoi occhi chiari si scossero come acqua cristallina turbata da una vibrazione passeggera. Camille inclinò la testa e guardò nel piatto, sconsolata.
“Che hai?”, chiese Milton, allarmato.
Camille sbuffò; alzò lo sguardo su di lui e si allargò in un sorriso inaspettato. Le piaceva vederlo così vigile, quando si trattava di lei.
“Beh?”, incalzò lui.
“Mi sono appena resa conto che sono innamorata di te.”
Milton per poco non si fece sfuggire un’affermazione poco educata – ci teneva ad evitare i turpiloqui, per quanto gli fosse possibile. Si limitò a rilassare la muscolatura e riprese a tagliare la bistecca. “E io che mi stavo preoccupando…”, borbottò.
Camille appoggiò la testa sulla mano aperta e rimase qualche secondo a guardarlo di sbieco: una cascata di capelli scuri scivolò dalla spalla, lasciandola esposta alla luce del lampadario. Milton alzò gli occhi di nuovo, allarmato, stavolta, dal silenzio. “Che hai da guardare?”
“Sei bello.”, rispose Camille con un sorriso zuccheroso. “Non posso guardarti?”
Milton si sentì leggermente in imbarazzo e ruppe il contatto visivo.
Inglesi… pensò teneramente Camille, ravvivandosi i capelli e prendendo il calice.
“Non sei contento che ti trovi bello?”, chiese, languida, prendendo un sorso di vino rosso. Era acidulo e forte, con un sentore persistente di bruciato, tabacco e cuoio. Un vino maschile, avrebbe detto suo padre, che era un uomo, e come tale ragionava per ferree dicotomie: il vestito di raso color perla che lei indossava, tuttavia, lo smentiva su tutti i fronti. Era una vittoria femminile a mani basse, brandita da dita sottili e inanellate che avvolgevano il calice per lo stelo, così il vino non si scalda.
Milton si perse un secondo negli occhi della ragazza, che lo studiavano come se fosse un alce in libertà sotto un cielo verde di aurora boreale. Due buchi neri affilati come coltelli che inconsapevolmente cercava di schivare.
“Ebbene?”
Milton si scosse. “Eh? Ah. Sì, certamente. Sono molto contento.”
Camille rise, scuotendo la testa. Appoggiò il calice e tornò a dedicarsi alla sogliola nel proprio piatto. “Ti imbarazzi quando ti faccio i complimenti. Sembra che ti si spenga il cervello per qualche secondo, e poi diventi tutto rosso. Come un bambino.”
“Non è vero.”
“Sei adorabile.”
“Smettila.”
“Un confettino.”
“Ugh...”
“Un pasticcino alla crema con una fragola sopra.”
Milton distolse lo sguardo, agguantando il calice e nascondendovi dietro un sorriso. Un uomo adulto che si faceva adulare così da uno spruzzetto di sole non stava né in cielo né in terra.
Camille sbatté le ciglia scure un paio di volte e sorrise, vittoriosa. “Alla tua, tesoro.”, disse.
Brindarono, facendo un tin cristallino con i bicchieri, e continuarono a mangiare.
I capelli di Camille emanavano riflessi bluastri, siderali, quasi; le scivolò la spallina e lei la ignorò, creatura lasciva quale era, alzando invece gli occhi verso Milton.
 
Oh, cazzo, pensò Milton.
 
 
 
 
She moves in her own way.
 
 
 
Camille tornò dal colloquio di lavoro con il peso dei colloqui di lavoro sulle spalle.
Lasciò cadere le chiavi nello svuotatasche dell’ingresso; saltò fuori dalle ballerine, lasciandole davanti alla porta, a monito general generico del fatto che era stata una giornata pesante.
Trascinando i piedi si diresse in cucina, dove si riempì un grosso bicchiere di succo di mirtillo. Coi fianchi appoggiati al piano cottura, si chiedeva se la vita sarebbe andata mai nel modo in cui avrebbe voluto lei; si rispose di no, ma si augurò che il verso che la vita aveva scelto al posto suo fosse quantomeno un esametro: quello delle tragedie, dell’epica, dei Grandi.
Prese un altro sorso di succo.
Era stanca. No, non era esatto: era stancata. Camille ne aveva sempre fatto un vanto personale di riuscire a tirarsi già dal letto con una certa leggerezza, la mattina: ma l’impegno straordinario con cui il mondo ci si metteva per farle cambiare umore, beh, era quello che la esauriva, in realtà. E non poteva farci niente. Abbassò gli occhi sul bicchiere: il succo di mirtillo le faceva proprio cagare.
 
Non se n’era ancora accorta, ma c’era Milton sul divano, intento a leggere.
Cercò di contenere lo scossone che le prese le viscere appena se ne rese conto, come se stesse vagando in una landa desolata (cosa non del tutto errata) e l’ultima cosa che si sarebbe aspettata di incontrare fosse un altro essere umano. Vivevano insieme da sei mesi e ancora non ci aveva fatto l’abitudine – complice anche il fatto che Milton stesse sempre al buio.
Dopo poco anche Milton alzò lo sguardo dal libro, e incontrò quello di lei attraverso l’arco che divideva il piccolo soggiorno dalla piccola cucina: due punti neri e scintillanti, nonostante il velo di stanchezza esistenziale che li adombrava.
“Ciao. Com’è andata?”, le chiese, con un sorriso nella voce che non era ancora sbocciato sulla sua bocca.
Camille sospirò; appoggiò il bicchiere sul bancone e strisciò i piedi fino al divano. Gli salì a cavalcioni. Chiuse il libro, senza staccare gli occhi da quelli di Milton.
“Ah, capisco.”, disse lui, vaticinando le conseguenze imminenti di quella silenziosa coreografia. Milton sorrideva col tipo di sorriso che aveva anche Peter Pan: un sorriso da ragazzino che si era rifiutato categoricamente di crescere, checché ne testimoniassero i primi fili bianchi che rilucevano nella sua barba.
Camille piegò lievemente il capo di lato, e una cascata di capelli morbidi le scivolò sulla spalla.
“Tu come stai?”, chiese lei, e le suonò innaturale il tono di voce con cui pronunciò quelle parole: faticava sempre a riadattarsi alla normalità, dopo i colloqui di lavoro. Si liberava faticosamente di quei modi affabili che a lei parevano forzati e falsi, così come io o voi ci liberiamo dei jeans dopo una lunga giornata. Intanto, in attesa di scrollarsi di dosso quella patina idrofoba di cui si ricopriva quando aveva a che fare con altre persone, si concedeva di accasciarsi in una espressione neutra che ricordava quella che aveva da bambina, un po’ imbronciata, un po’ capricciosa.
Milton si accomodò con un braccio dietro la testa, guardando Camille torreggiare su di sé. “Bene.”, rispose laconico, mentre la ragazza accennava a muoversi lentamente su di lui. “Capisco.”, ripeté, leccandosi fugacemente un labbro, mentre iniziava a giocare con i lacci del suo vestito.
“Non vuoi nemmeno dirmi se ti hanno preso?”, chiese poi, anche se non aveva così voglia di sentire la risposta. Camille arricciò le labbra in un modo che inviò dardi infuocati nei suoi lombi, e scrollò le spalle. “Preferirei che mi prendessi tu, prima.”, disse solamente; Milton stava già armeggiando con i nastri del suo vestito.
Una camicia volò oltre la sponda del divano, seguita subito dopo da un vestitino a fiori minuscoli; gli occhiali, invece, vennero scrupolosamente messi al sicuro sul tavolino. La ribaltò sotto di sé, scostandole una ciocca di capelli dal collo per poterci affondare i denti; Camille liberò un gemito e gli affondò le unghie nella schiena. Milton non si tolse nemmeno i pantaloni, guidato da un’urgenza destata da pochi minuti, e che tuttavia non era mai troppo difficile da svegliare: si muoveva  costantemente nelle profondità della sua mente, e ogni tanto emergeva tra le righe dei libri che leggeva, sul fondo della tazza di tè che si preparava puntualmente alle cinque – the cliché lives, cosa volete farci – o in mezzo al vasetto di margherite bianche che le portava ogni mese senza una particolare ragione.
 
 

 
 
 
 
“Pensavo alle margherite.”, disse Camille più tardi, a letto, con i capelli sparsi a raggera sul cuscino. La pelle era ancora tiepida dell’orgasmo di prima, e gli occhi erano liquidi. Milton si aggiustò su un lato per osservarla meglio.
“E dunque?”, disse lui, sorridendo lievemente.
“Leuchanthemum vulgare è la tassonomia specifica. Cioè, letteralmente sarebbe volgare fiore bianco.”
Camille si voltò a guardarlo e gli sorrise. “Un po’ come noi due, non trovi?”
Milton aprì leggermente la bocca. “Noi saremmo volgari fiori bianchi? Come le margherite?”
“Certo. Siamo inopportuni e sconvenienti, candidi, puri, e cresciamo un po’ dove cazzo ci pare.”
Milton scoppiò a ridere, rovesciando la testa all’indietro, sul cuscino. Camille sentì un enorme bocciolo di rosa aprirsi proprio nel centro del suo petto, e si immaginò una vita intera dentro quella risata fatta di cristalli: gli poggiò il mento sul petto e lo guardò con due occhi che avrebbero fatto sciogliere un ghiacciaio alpino. 
“Siamo dunque sconvenienti?”, disse lui, riflettendo su come questa digressione botanica potesse allacciarsi all’esito del colloquio. In realtà, non aveva voglia di indagare eccessivamente: l’odore della pelle di Camille lo stordiva, lo faceva galleggiare e lo faceva sentire come se avesse di nuovo trent’anni e una voglia matta di andare al mare.
“Nel senso che non stiamo alla convenienza di nessuno.”
“E cresciamo un po’ dove cazzo ci pare.”
“Mi piace quando dici le parolacce.”
“E il candore?”, chiese Milton, con l’eco della risata ancora incastrata fra le ciglia.
Camille ci pensò su. “Nel senso che siamo immacolati. Persone che non si fanno deturpare né violentare da niente e da nessuno. Siamo puri d’animo. Il cinismo e la cattiveria sono sopravvalutati, ormai. La disillusione è diventata mainstream. Ho amici che fanno a gara a chi sogna di meno, a chi dimostra il sarcasmo maggiore. L’atto più provocatorio e sovversivo che si possa fare, di questi tempi, è tornare ad essere piccoli.”
Milton spinse il viso verso di lei e la baciò, tentando di rubare almeno un pezzetto di quella frase. Ma Camille la teneva ben stretta, legata ad un filo lucente nelle profondità della sua mente.
“Sai cosa dovremmo fare?”, sussurrò Camille, facendosi accarezzare il viso.
“L’amore ancora quindici volte?”, rispose Milton, appoggiando il mento sul petto di lei.
La ragazza sorrise. “Non si fa l’amore, Milton. Si prende. Ma comunque non intendevo questo.”
“E cosa dovremmo fare dunque?”
Lo osservò per qualche attimo: aveva gli occhi di lui così vicini che le sembrava di star spiando nel buco di una serratura. Ridevano sempre, gli occhi di Milton. Era l’incarnazione di quello di cui parlò un tale Italo Calvino un tempo: la leggerezza. Pura e semplice leggerezza d’animo, così banale come concetto eppure così rara. Qualcosa che non combaciava con nessun ideale di felicità fatto di lana caprina, e nemmeno con la serenità che, Camille lo sapeva, si raggiunge solo quando si muore. Era il filo di vento tiepido e costante che faceva ballare la fiamma del suo cuore, e che le prendeva gentilmente la mano quando si incamminava per gli erti sentieri che si diramavano come rami di pruni nella sua mente. La riconduceva alla luce, paziente, e più di tutto lo faceva senza che lei avesse bisogno di chiederglielo.
“Piccola?”, chiamò lui, vedendo che taceva.
Camille si scosse lievemente e se lo tirò addosso. “Nulla.”, disse sottovoce, prima di rapirgli le labbra in un bacio lungo. “Prendimi ancora.”
 
 
 
 
 
Erano usciti a cena per festeggiare l’assunzione di Camille, qualche giorno dopo: non al cielo, per quel tipo di assunzione bisognava aspettare qualche anno. I santi sono particolarmente invidiosi, non accetta di beatificare una ventiduenne qualunque, seppur avanti di qualche metro rispetto a tutti e più in alto di una buona spanna dalla terra che calpestava.
Lo stesso ristorante dove, quasi un anno prima, avevano avuto il loro primo appuntamento.
“Te l’ho mai raccontato cosa ho detto alla mia amica il giorno che ti ho conosciuto?”, disse Camille, una volta che si furono seduti.
“No.”, disse Milton, anche se in realtà era una bugia: sorrise, sistemando il tovagliolo sulle cosce e versandole del vino frizzante nel flûte, perché gli occhi di Camille si accendevano sempre quando raccontava quella storia.
Infatti, come ogni volta, si accesero.
“Dicevo alla mia amica che avevo un disperato bisogno di coincidenze fortuite. Che ero stufa di dovermi sempre rimboccare le maniche e far sempre succedere tutto da me: lo sai come sono, finisco sempre col ricadere nella pietra d’inciampo che è la cieca fiducia nel Destino, per quanto mi sforzi di essere razionale.”
“Non c’è niente di interessante o romantico nel credere in meccanicismi senza arte né parte che guiderebbero le azioni umane.”, disse Milton, come in realtà diceva sempre, quando Camille raccontava quella storia. La loro storia.
“Ad un certo punto uno ha anche voglia di lavarsene le mani, capisci. Beh, comunque la mia amica mi guardò fissa negli occhi e disse be careful what you wish for ‘cause you just might get it, sai, col modo di fare saccente e insopportabile di chi ha sempre ragione su tutto e lo sa. Bene, ci alzammo dal tavolino di quel bar davanti all’università dove eravamo, non feci a tempo a fare un passo sul marciapiede che un deficiente con la bici mi prese in pieno.”
Milton sorrise, portandosi il bicchiere alle labbra. “Ti rompesti un braccio, una frattura dell’omero, se non sbaglio.”
“E lo sai cosa le ho detto, mentre la gente mi correva intorno e il ciclista indemoniato sbiancava come un lenzuolo, e io non vedevo altro che fringuelli e la Madonna e tutte le schiere dei santi per il dolore?”
Milton lo sapeva perfettamente cosa disse Camille in quella situazione: gliel’aveva raccontato così tante volte, con lo stesso entusiasmo e con gli stessi occhioni da scoiattolo smaliziato che ormai avrebbe potuto citarla a memoria, parola per parola, senza cadere in errore. Eppure, esattamente come le altre volte, appoggiò la testa sul palmo della mano e si lasciò liquefare le interiora da un tiepido conforto, mentre si immaginava tutta una vita intera dentro quegli occhi, sotto quei capelli.
“Che cosa le hai detto?”, chiese, leggendo nel viso di Camilla un adorabile senso di gratitudine per averle concesso quell’ennesima ripetizione.  
“Le ho detto cazzo, Alice. Il Destino ha un servizio di assistenza clienti che davvero ci piscia in testa a tutti quanti.”
 
 
 
 
“Le calle.”
Camille mollò il sedano che stava affettando e il coltello, e per poco questo non cadde a terra. Milton trasecolò, maledicendo la dannata abitudine della ragazza di stare sempre a piedi scalzi.
“Un giorno di questi ti dovrò portare al pronto soccorso per farti riattaccare un dito del piede.”, rispose lui, guardandola con una punta di ironica riprovazione.
Camille si voltò con una faccia furba. “Le calle, amore.”, ripeté lei, tornando poco dopo ad affettare le verdure.
Milton si alzò dal divano, abbandonando Proust per la quindicesima volta da quando, quindici anni prima, si era impuntato di voler leggere tutta la Recherche; in fondo non è che gli fregasse qualcosa della duchessa di Guermantes, della principessa di Sassonia o delle elucubrazioni sulle tisane di tiglio. Dunque ciabattò fino in cucina, stringendo la vita della ragazza e studiando da sopra la spalla di lei la sua tecnica di affettatura di sedano. Produceva un rumore fresco e netto che era l’assoluta manifestazione uditiva del significato di casa.
“Hai deciso, quindi?”, chiese Milton, scostandole i capelli su una spalla e baciandola alla base del collo. Per un attimo non si sentì più il rumore del coltello che affondava nei gambi di sedano. Camille aveva chiuso gli occhi. Appoggiò il coltello di lato e spinse il bacino un po’ indietro.
“Credo di sì.”, disse, voltandosi verso Milton con uno sguardo che sbrogliava tanti segreti quanti ne ingarbugliava. Uno sguardo terribilmente suo, da folletto, o da fata imbronciata, da saggia pestifera che non chiedeva mai scusa per nulla. Si fece scivolare gli slip lungo i fianchi, le cosce, i polpacci, tenendo gli occhi fissi dentro quelli di lui. Milton soffiò una breve risata, affondando le dita dentro di lei e bevendo il lungo gemito che zampillò dalla sua gola. Il provocatore che cede alla provocazione.
“Bene, dunque. E calle siano.”, disse lui, prima di sfiorarle la pelle tesa del collo con le labbra. Aumentò l’intensità con gesto esperto del polso e Camille spinse il tagliere con il sedano più in là, gettando la testa indietro.
“Non è affatto una scelta originale, me ne avvedo.”, ribatté lei, aggrappandosi con forza alle spalle di lui ancora avvolte nella camicia.
“No, infatti.”
“Però le calle mi piacciono tanto.”
“Mh-mh.”
La sentiva stringersi intorno alle sue dite, e il suo profumo di doccia appena fatta sfrigolò nelle sue narici, rendendogli difficile concentrarsi sulla conversazione che la ragazza sembrava voler continuare, tra un gemito e un sospiro. Era sempre così con lei: una razionalità selvatica e a tratti folle, inconsueta, che non si lasciava piegare entro nessuna categoria normalizzante e che, anzi, obbligava gli altri a contorcersi in pose innaturali per tenere il passo. Camille era in grado di guardarti con due occhi scuri e densi delle più indomite passioni, e continuare a parlarti di sedano o bouquet nuziali senza perdere un colpo.
“Perché sono il fiore della purezza e del sesso.”
Milton non era così complicato: la girò sul bancone ed entrò in lei, tagliandole di netto un gemito in fioritura nella sua bocca.
“Ti piacciono le calle?”, chiese lei, mordendosi forte un labbro. La presa delle mani di Milton sui suoi fianchi si fece più stretta, più possessiva, e la voce di lui giunse alle sue orecchie accaldate come una pioggia ristoratrice.
“Mi piace tutto quello che piace a te. Mi piaci tu. Potresti venire all’altare con un mazzo di carciofi, e io l’adorerei come adoro te.”, soffiò lui, mentre le guance si incendiavano e Camille sorrideva, allungando un braccio all’indietro, verso il suo collo, per tirarlo contro le proprie labbra.
Il sedano finì per terra, il coltello pure, e Milton si lasciò sfuggire una colorita imprecazione, temendo per i propri trillici e quelli di Camille – che, dannazione, era sempre scalza.
Quando finì, le appoggiò un bacio lungo come una canzone in mezzo alle scapole. Le abbassò la maglietta, le infilò le mutande. Si aggiustò gli occhiali. Camille era rossa come la prima pesca dell’estate e i capelli ripiegavano a una a una ogni singola legge del cosmo.
Milton le disse che era bella.
Glielo disse anche qualche mese dopo, con lacrime che non poteva trattenere e che scendevano lungo il suo viso inciampando in qualche ruga appena spuntata, vedendola avanzare verso di lui lungo la navata con un mazzo di carciofi puntellato di margherite tra le mani, in un abito bianco e corto, estivo, e i capelli scuri sciolti, pettinati stavolta.
“Sei matta.”, le disse Milton, asciugandosi un occhio, mentre Camille passava il bouquet di carciofi alla damigella, la sua migliore amica di una vita che non aveva smesso di seguirla in qualsiasi cosa, su qualunque strada, intramontabili corsare e terrore atavico di ogni uomo per bene.
“Sei matto tu a sposarmi.”, rispose Camille, che sembrava così perfettamente a suo agio con gli occhi di tutti puntati addosso, come se in realtà non ci fosse granché di cui stupirsi.
Milton l’aveva investita con la biciletta in un pomeriggio caldo di settembre, e non le aveva fratturato solo il braccio. Le aveva aperto una crepa enorme e frastagliata proprio al centro del petto, e si era premurato da quel momento in poi di non lasciarla mai vuota.
La riempiva, soffiava dentro di lei come un vento estivo e quello che ne usciva era la musica della saggezza dei sedicenni; entrava in lei, e lei spendeva come mille splendidi soli, accecante e ultraterrena, imbattibile perché finalmente aveva trovato verso chi indirizzare quel confuso cozzare di sentimenti che le avevano sempre portato più guai che altro.
 
La sposò, come in realtà l’aveva già sposata nel momento in cui era impallidito come un lenzuolo, e l’aveva accompagnata al pronto soccorso in ambulanza, e le aveva stretto la mano mentre le sistemavano le ossa prima dell’ingessatura e lei lo ricopriva di improperi come se si conoscessero da una vita, e poi lui le aveva comprato un gelato alla menta che faceva veramente schifo; e aveva iniziato a portarle mazzi di peonie, sigarette, consigli non richiesti ma assolutamente indispensabili, brioche a letto, pigiami in bagno, baci sulla fronte, battute sarcastiche. E aveva deciso che non avrebbe mai più voluto smettere.
L’amore, insomma.
Tutto l’amore.
 
 
 
 
 
My heart is my armor
She's the tear in my heart
She's a carver
She's a butcher with a smile
Cut me farther
Than I've ever been

 
 
   
 
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