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Autore: Francine    31/05/2021    3 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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3.


 

Ci sono giornate in cui si farebbe bene a ignorare il trillo incessante e fastidioso della sveglia e a girarsi dall’altra parte, dopo aver messo a tacere — con un manrovescio assestato di malagrazia — quell’insistente grillo parlante fatto di lancette, rotelle e ingranaggi. Un cuscino sulla testa, a schermare la luce del sole, e via. E se si perde un giorno di lavoro, pazienza: meglio così, piuttosto che incappare in quello che la nostra coscienza, a modo suo, sta cercando di farci evitare.
Questo era l’atteggiamento di Aiolia, e lo professava con quella testardaggine che lega il folle al martire. Ed ogni volta che aveva uno dei suoi presentimenti — così li chiamava lui; Rodrigo usava un termine ben meno lusinghiero — era capacissimo di starsene con la testa sotto alle coperte fino a giorno inoltrato. Le tre del pomeriggio, ad esempio. Oppure a non alzarsi per niente. Sia mai che urtasse il mignolo del piede contro il comodino, o l’armadietto del bagno, o il divano.
Niente e nessuno poteva convincerlo a fare qualcosa se, per disgrazia, Aiolia aveva percepito un disturbo nella Forza — come lo sfotteva Ruy —: un lungo, lunghissimo brivido giù per la colonna vertebrale, che gli congelava l’anima e gli accapponava la pelle.
Rodrigo non era d’accordo. Non aveva mai creduto ad ipotetici messaggi dell’inconscio o robetta simile, buona per qualche rivistucola New Age da sfogliare nella sala d’attesa del dentista o del centro di assistenza fiscale. Se l’Universo — o chi per lui — avesse voluto inviargli un avvertimento, lo avrebbe fatto parlando forte e chiaro, senza troppi giri di parole o inviando messaggi più che sibillini da interpretare a proprio uso e consumo.
Quelli che Aiolia chiamava presentimenti altro non erano che logiche conseguenze del suo agire. Non c’è niente di strano nel fatto che la professoressa interroghi l’unico allievo rimasto a non essere andato alla cattedra. Succede. Prima o poi, ma succede. E quando è il nostro, di nome, ad essere chiamato, non ci si può stupire. Semplicemente, non lo avevamo messo in conto — e questo ci ha colto alla sprovvista — quando invece avremmo dovuto farlo. E allora no, non saremmo rimasti spiazzati. Saremmo arrivati all’incontro preparati.
Ma Aiolia, che sapeva essere più testardo di un mulo — specie quando le scadenze si avvicinavano impietose senza che lui avesse fatto nulla di quanto richiestogli —, quando ci si metteva, preferiva credere con indefessa convinzione agli ipotetici ed improbabili messaggi che l’Universo manda all’umanità tramite vibrazioni, intuizioni, sincronicità o il sesto senso. Magari pure il settimo.


Così, quando quella mattina scese alla fermata di Abbesses e percepì un fastidio generico — qualcosa che ti chiedi cos’è ed è già passato — , Ruy non lo collegò alle paranoie di Aiolia, ma alla stanchezza. Aveva messo le sue cose quasi alla cieca dentro una sacca da viaggio ed era arrivato a St. Pancras giusto in tempo per l’ultima corsa giornaliera; e fino a quando non aveva posato la testa sul cuscino della chambre d’amis che Milo gli aveva scovato nel cuore di Pigalle, il suo cervello aveva continuato a macinare idee, impressioni, possibilità da mettere per iscritto durante la notte.
Aveva creduto che avrebbe passato le ore serali a fissare i tetti blu stinto di Parigi dall’abbaino della sua stanza; invece, era crollato non appena la sua testa aveva sfiorato le lenzuola fresche di bucato, per risvegliarsi in una stanza che non conosceva, tra i libri di fotografie del padrone di casa e il sole che splendeva nel cielo azzurro polvere.
Così, quando quella mattina posò la mano sulla porta del Verse-Eau e la spinse, Ruy relegò quel lungo, lunghissimo brivido giù per la sua spina dorsale ad un refolo d’aria dispettosa. A quella spossatezza generale che regala un viaggio improvviso.
Ma quando la porta si aprì e gli occhi di Rodrigo spaziarono sulla sala del caffè, quel refolo fastidioso crebbe. Divenne una morsa gelida e stretta, che gli arpionò lo stomaco e risalì lungo l’esofago.
Scappa! Scappa!!, gli urlò qualcosa dentro di lui — il prodromo di un attacco di panico? —; e Rodrigo avrebbe accontentato volentieri quell’istinto se, nel frattempo, una signora alle sue spalle non l’avesse spinto di malagrazia per entrare.
Questa passò, con la sua aria indaffarata e le borse piene di cose, e si diresse al bancone, accomodandosi due sedie più in là rispetto ad una donna — un donnone — dal turbante rosso pompeiano.
Lui rimase lì, sulla soglia, l’aria da triglia, la sciarpa attorno al collo e la maniglia tra le dita. Scappa! Scappa!!, insistette quella vocina. Ma era troppo tardi.
E lo sapevano entrambi.


L’uomo al bancone — capelli smossi ad arte, camicia bianchissima, completo di sartoria e sorriso da tagliola — lo aveva visto. I loro sguardi si erano incrociati e, anche se il suo compare, seduto accanto al donnone col turbante rosso pompeiano, non l’aveva notato — forse era troppo impegnato ad essere meraviglioso per accorgersi del resto del mondo —, oramai la frittata era fatta, cotta a puntino e spadellata con maestria.
E Rodrigo lo sapeva.
Così le sue dita strinsero la maniglia, poi la rilasciarono. Entrò, facendo tintinnare il campanellino, e si sedette al tavolo di fronte alla vetrina, dando le spalle al bancone.
Posò lo zaino e iniziò a pensare.
Il mondo è piccolo, si dice.
Piccolissimo.
Forse un po’ troppo per i gusti di Ruy.
E forse un po’ troppo perché anche Milo — l’impegnato e stranamente sbadato Milo dell’ultimo periodo — non se ne fosse accorto. Specie se la presenza di Ruy gli risolveva due — forse tre — problemi in un colpo solo.


Io lo ammazzo, si disse, le mani strette fino a farsi sbiancare le nocche. Lo ammazzo e nascondo il cadavere dietro il muro di una cantina. E senza barile di Amontillado.


Preso com’era dal pianificare l’omicidio di Milo (in modo lento, raffinato e doloroso. [Per Milo, s'intende]), Ruy non si accorse della figura che si era materializzata accanto alla sua sedia, se non quando percepì un aroma di dopobarba familiare.
Bergamotto. Vetiver. Cuoio.
Aramis.
Represse un sorriso. Certe cose non cambiano mai.
«Scusi, posso?», e senza attendere risposta, l’uomo — lunghe dita abbronzate — prese il giornale ripiegato sul tavolo e lo scorse con aria distratta. Ruy fece per ribattere e aggiungere qualcosa — una spiegazione, una scusa, qualunque cosa — ma l’altro sibilò: «Adesso te ne vai in bagno. La porta verde acqua sulla sinistra. Io lo porto via. Stai lì dentro una decina di minuti. Ci vediamo domani pomeriggio.».
E senza attendere risposta, l’uomo ringraziò, sorrise, ripiegò il giornale posandolo sul tavolo e tornò al bancone.
Ruy non se lo fece ripetere due volte. Lasciò il proprio taccuino accanto al giornale e schizzò in bagno come se gli fosse esploso un petardo sotto la sedia.
Chiuse — sprangò — la porta, aprì i rubinetti e tuffò i polsi sotto l’acqua scrosciante.
Io lo ammazzo, pensò, osservando il proprio viso sullo specchio tondo appeso sul lavabo dell’antibagno. Io. Lo. Ammazzo.
Man mano che l’acqua gli raffreddava la pelle e schiariva le idee, Rodrigo comprendeva la reale entità del guaio in cui era andato a cacciarsi.
Susumella.
Gökotta.

Quei nomi gli erano suonati familiari, ma sul momento non aveva ricollegato tra loro gli indizi. E a voler essere sinceri, come avrebbe potuto?
Era certo che Mu non gli avesse accennato nulla riguardo al fatto che Marco e Yngve avessero aperto un locale ciascuno, nel cuore di Montmartre, ad un tiro di schioppo l’uno dall’altro. O forse Mu gliene aveva parlato, ma lui era troppo occupato a rimettere assieme i cocci della propria vita per prestargli la dovuta attenzione?


Togli quel forse, gli rispose la coscienza, prendendo in prestito la voce petulante di Aiolia. Rodrigo strinse la mascella. Forse lui aveva ignorato quell’informazione, ma Milo no. Milo, come al suo solito, aveva immagazzinato le parole di Mu e le aveva tirate fuori all’occorrenza.
Sì, ma quando avevano aperto i battenti, quei due disgraziati?
Dopo che lui e Aiolia avevano rotto, di sicuro, altrimenti Rodrigo se lo sarebbe ricordato.
Altrimenti avrebbe trascinato di peso Aiolia all'inaugurazione.
O Yngve gli avrebbe tolto il saluto a vita.
Invece, nessuno dei due si era fatto vivo.
Sì, Marco gli aveva mandato un messaggio vocale su Whatsapp appena era venuto a sapere della cosa; e probabilmente era stato il suo di buon senso ad impedire a Yngve di presentarglisi alla porta, armato di una poderosa scorta di bottiglie. Per Yngve la soluzione era sempre la stessa ed era semplice: sarebbe entrato, si sarebbero ubriacati, e Marco avrebbe fatto passare la sbronza a tutt’e due con uno dei suoi caffè — amaro come la vita, nero come il peccato e caldo come l’inferno.
Ma lui, come al solito, li aveva tagliati fuori. La verità è che non ce la faceva. Non ce la faceva a ripetere ancora una volta tutti i perché ed i percome dell’abbandono di Aiolia. Lui stesso non li capiva. E parlare, raccontare, spiegare non l’avrebbe aiutato a fare luce, ma avrebbe riaperto quelle ferite che si era leccato con tanta cura e pazienza, dacché Aiolia aveva preso baracca e burattini, ed era volato a Stoccolma da Quella Là.
«Non posso lasciarla da sola, il giorno di San Valentino...», gli aveva detto, prima di chiudersi per sempre la porta alle spalle. Però, poteva strappargli il cuore dal petto e pulircisi sopra i piedi. Come si fa con le aiuole quando si è pestato uno stronzo.
Si era chiuso a riccio e loro due avevano rispettato il suo riserbo.
Anche perché dovevano essere in ben altre faccende affaccendati, pensò, con una punta di acidità che spiazzò lui per primo.
Sei ingiusto, gli disse l’espressione del tizio dall’altra parte dello specchio. E lui non potè che concordare. Chi li aveva allontanati? Lui, nessun altro. Non poteva avercela con loro se…


«Hai intenzione di allagare tutto il quartiere?»


Rodrigo sbatté le palpebre e nel suo campo visivo apparve una mano — forte, affusolata, nervosa, unghie corte e curate — che chiuse con un gesto deciso i rubinetti. Alzò lo sguardo e nello specchio apparve il viso del proprietario di quella mano — un ragazzo alto, magro, pelle chiara, capelli legati in una coda distratta e occhi di un blu impossibile.
Non aveva un’espressione amichevole. Tutt’altro.
«Allora?», gli chiese il tizio, la porta della toilette socchiusa dietro di sé, una bottiglia arancione in mano, e il piglio di chi pretende delle spiegazioni e le pretende subito.
«Scusami. Non sapevo che fosse occupato...»
«Stavo sistemando la toilette», rispose il tizio riponendo la bottiglia arancione in un armadietto sotto al lavabo. Lo chiuse a chiave e poi si lavò le mani. «Qualche imbecille ha gettato troppa carta igienica.»
«Mi spiace», rispose Ruy. Come se fosse responsabile dell’accaduto. «Scusa per prima. Non ho dormito bene e avevo bisogno di...»
«Suppongo che adesso ti sia passata. Giusto?»
Non era una domanda.
«Giusto.»
«Perfetto. Ora, se permetti, dovrei tornare di là...», e Rodrigo si fece da parte. Il ragazzo gli passò davanti sfilandosi una bandana dalla tasca dei pantaloni e annodandosela in testa.
Aprì la porta, lasciandolo da solo a solo con il proprio riflesso e la certezza di aver appena fatto una colossale figura di merda. Cominciamo bene. Cominciamo benissimo…
Sospirò. Sbuffò. Raccolse il coraggio ed uscì dal bagno.


Nessuno sembrò aver fatto caso a lui.


Raggiunse il tavolo su cui aveva abbandonato il taccuino e lo zaino, e si lasciò cadere sulla poltrona alta davanti alla vetrina.
Quanto cavolo sono rimasto chiuso lì dentro?, si chiese, buttando un occhio all’orologio dello smartphone. Quasi dieci minuti. Dovevano essersene appena andati. Marco era stato di parola. Altrimenti Yngve avrebbe usato la sua testa per sfondare la porta, pensò.
Aprì il taccuino, sfilò la penna dall’elastico tubolare e tamburellò con il cappuccio sulla pagina bianca.
Cominciamo malissimo.
E Rodrigo stava seriamente pensando che avrebbe fatto meglio a comprare un croissant, uscire, tornare nella propria stanza e fare una lunga, lunghissima telefonata con Milo. E nel caso più che papabile che Milo si fosse fatto negare, avrebbe chiamato Shaina. E avrebbe spiegato a lei i motivi delle sue dimissioni. E buonanotte ai suonatori.


«Salve! Cosa prendi?»


Accanto a lui si era materializzata una ragazza. Capelli castano chiaro, sorriso gentile e mani dietro la schiena. Ed un’inquietante somiglianza con il tizio che aveva incontrato in bagno.
«Un croissant e un caffè. Ma fammeli da asporto, grazie.»
Questo avrebbe voluto dirle. Invece sentì la propria voce rispondere: «Ho una fame da lupo. Tu che mi consigli?».
Lei sorrise, sfilò dalla tasca del grembiule un taccuino e una penna e rispose: «Io ti consiglierei la colazione completa. Caffè, spremuta e croissant. Ma se hai davvero una fame da lupo, forse sarà meglio aggiungere un rinforzino. Può andare?».
«Eccome.»
La ragazza annuì e disse: «Arriva», prima di tornare al bancone e lasciarlo ad osservare la piazza nella tranquillità di una mattina di fine gennaio.


   
 
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