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Autore: gabryweasley    02/06/2021    4 recensioni
[Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce più la penna]
Natsumi aveva un cassetto, dentro di sé. Da quando si era trasferita stabilmente in America, o forse anche da prima ma non ci aveva mai fatto troppo caso.
Conteneva il suo passato, quello che temeva di portarsi dietro per sempre ma che non poteva comunque dimenticare.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Natsumi Hayama/Nelly
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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{Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce più la penna}



Cassetto

«Richiamalo.»
Le era arrivato alle spalle mentre era seduta sul divano, il telefono in grembo, facendola sussultare. Akito aveva dei passi silenziosi e lei non riusciva mai a sentirlo arrivare. Quando erano bambini gli aveva urlato addosso così spesso per il semplice fatto di trovarselo intorno all'improvviso. Era così strano, adesso, quel senso di pace che provava quando parlava con lui. Oppure era una sorta di tregua silenziosa che avevano? Aveva imparato a conoscerlo in quegli anni di quiete, con l'armistizio in corso, e sapeva che l'arrivo della presa in giro da parte di suo fratello per lo spavento che aveva avuto lei poco prima, era alle porte.
«Che fai?? Mi spii??» Gli aveva urlato, cercando di nascondere lo schermo del suo telefono acceso sulle chiamate recenti.
«Sono ore che sei seduta qui col telefono in mano, non ti spio, fifona! Non ti stai nascondendo». Le aveva risposto, accucciato dietro lo schienale del divano, e lei si era segretamente congratulata con se stessa nel sentire l’arrivo dell’appellativo che le aveva rivolto in quel momento.
«Non è vero… ogni tanto mi alzo. Solo che tu non mi vedi.» Era vero, aveva guardato il telefono, poi aveva cucinato, di nuovo guardato il telefono, poi aveva fatto il bucato, e di nuovo ponderato quella chiamata, seduta sul divano. Senza mai farla.
«Allora?» Akito si era seduto sulla spalliera e ogni tanto le punzecchiava la testa «Richiamalo. Digli che ci torni, in America.»
«Ma tu che ne sai...» Natsumi aveva sospirato, provando a scacciare le dita di suo fratello dai capelli come si scaccia una mosca fastidiosa.
«Sei una babbea. Non saresti dovuta ritornare dopo l’università.»
Il piacere che Natsumi provava nel constatare quanto il loro rapporto fosse maturato era però direttamente proporzionale all’insofferenza che le procuravano i suoi consigli non richiesti. Soprattutto quando si rendeva conto che la sua voce era eco di quei pensieri che lei cercava di nascondere.
Ma dopotutto, seduta sul divano col telefono in mano, celare il suo stato d’animo non poteva venirle molto bene.
«Sono tornata per papà e per te!» Gli aveva urlato. Pentendosi subito delle sue parole.
«Appunto. Non lo volevi.» Akito continuava a parlare, calmo, dalla spalliera del divano, lo vide alzare una mano in segno di ovvietà. «Papà è un vecchio capoccione, e io non te l’ho chiesto.»
Natsumi aveva guardato ancora il display del suo telefono, sospirando.
Percepì appena la figura di Akito che si spostava con un salto dalla spalliera alla seduta del divano, accanto a lei, e accendeva la tv.
«Non funzionerà...» aveva sussurrato, più a se stessa che a suo fratello.
Di sicuro non poteva funzionare. Il suo ragazzo le aveva promesso di fare il possibile per lavorare anche a Tokyo e intanto raggiungerlo di nuovo. Una vita vissuta su aerei che sorvolavano l’oceano a intervalli regolari. America Giappone, Giappone America.
«Non funziona neanche così, mi sembra». Le aveva detto Akito.
Si era girata a guardarlo, illuminato dalla luce azzurrina della tv, e aveva preso in considerazione l’idea di infilargli il telefono giù per la gola e risolvere due problemi contemporaneamente. Resistette, solo per non dover dar conto a nessuno di quell’azione. Sana, e suo padre anche.
Doveva sempre tenere conto degli altri, lo aveva sempre fatto. Sono tornata per papà e per te. Ma Akito aveva ragione, non glielo avevano chiesto. Lui non aveva esitato a tornare in Giappone appena ne aveva avuto l’occasione, il suo posto nel mondo era sempre stato Tokyo e se ne era reso conto che era ancora un ragazzino che non sarebbe mai voluto partire per l’America.
Lei ci era rimasta per finire l’università e si era sentita nuova e libera in quei mesi passati da sola, aveva conosciuto Caleb e poi era tornata in Giappone. Come se fosse stata costretta. Come se prendersi cura di sé e lasciarsi andare in quella relazione, non potesse venire prima di ciò che aveva fatto per tutta la vita. Non se l’era aspettato, prima di conoscerlo, di dover convivere con il senso di colpa nei confronti della sua famiglia dato solo dall’aver provato quei sentimenti di indipendenza e dalla voglia di tenere tutto quello spazio per sé.
In America, da sola, il suo passato non esisteva. Lei non era orfana bambina di madre, suo padre non era mai stato male rischiando di lasciarli soli, suo fratello non era mai stato un bulletto ma un ragazzo che aveva salvato un amico da un incidente.
E non aveva mai avuto modo di accorgersene prima, di quanto fosse pesante tutto quel fardello. Era una zavorra di esperienze e ricordi così impegnativa quella che si portava dietro, attaccata al piede, senza accorgersene. Caleb era arrivato, un giorno, a recidere quel filo. E l’aveva vista poi sforzarsi di riallacciarlo, accanirsi nel farlo, fino al suo ritorno in Giappone.
Possibile che dopo tutta quella fatica, ora pensasse di aver preso la decisione sbagliata? Possibile che si sentisse fremere dalla voglia di richiamare Caleb e dirgli che voleva tornare, che si era sbagliata, che lo aveva capito che costringersi a quella partenza dopo l’università era stato infierire anche su di lui. Che quella vita di andate e ritorni su aerei che sorvolavano l’oceano poteva provarla, se l’avessero fatta insieme.
Akito voleva Sana, e voleva Tokyo, e se li era presi senza chiedere a nessuno se andasse bene o no. Le stava dicendo, fra un insulto e l’altro, di essere più simile a lui. Lui che non si era mai sentito a casa dove invece lei aveva trovato il suo posto nel mondo.
«Non ti sei mai sentito a casa, lì. Vero?» Gli aveva chiesto.
Scosse la testa, premendo i tasti sul telecomando e cambiando programmi che non vedeva davvero.
Natsumi aveva riacceso il display, sarebbe bastato un tocco per richiamare Caleb. Akito aveva ragione, nessuno le aveva chiesto di tornare. Eppure sfiorare ancora il telefono per fare quella chiamata sembrava ancora maledettamente difficile. Come se un grosso macigno del quale non riusciva a comprendere la natura la tenesse incollata su quel divano accanto a suo fratello.
«Ci penso io a papà» non si era mosso ma in qualche modo l’aveva capita e le stava dando un ultimo incentivo. La spingeva verso il cambiamento che lei stessa non sapeva di volere.
Akito che la spingeva a tornare in America. Akito che la rassicurava.
Lui e suo padre sarebbero stati bene, poteva mettere sé stessa prima, stavolta. Aveva toccato l’ultima chiamata e portato il telefono all’orecchio.
Guardando la tv, aveva visto il volume che si abbassava mentre i canali continuavano a scorrere senza sosta.

Caleb non era mai riuscito a farsi assumere anche a Tokyo. Natsumi lo aveva visto provarci in tutti i modi, per lei, ma la sua azienda non ne aveva voluto sapere. Andava bene così, aveva trovato un lavoro più stabile anche lei e la spola fra casa sua e il Giappone non avrebbe aiutato la sua posizione. Programmava periodi interi in quella vita che non aveva creduto possibile, ma le era capitata. La vita che alla fine aveva accettato e amato.
Grazie ad Akito. Non c’era giorno in cui nella sua mente non si formulasse quel pensiero nonostante vivesse giornate frenetiche.
Si susseguivano, una dietro l'altra. La sveglia, la colazione, il lavoro, la casa.
Quando la mattina apriva gli occhi, Natsumi faticava a ricordare come fosse arrivata a stendersi nel letto la sera prima. Spesso vaghi ricordi del suo ragazzo e spezzoni di qualche film facevano capolino nella sua mente ancora mezza addormentata, a volte frammezzati da baci appassionati altre da dolci carezze.
Natsumi aveva un cassetto, dentro di sé. Da quando si era trasferita stabilmente in America, o forse anche da prima ma non ci aveva mai fatto troppo caso. Ne aveva parlato a Caleb.
Conteneva il suo passato, quello che temeva di portarsi dietro per sempre ma che non poteva comunque dimenticare. Ci metteva dentro ricordi, sensazioni, e sentimenti legati alla sua famiglia. C’era dentro anche qualcosa di irrisolto, ma lei non riusciva a capire cosa fosse, e tutto questo lo rendeva spesso troppo pesante. Era una percezione, quella, che riportava al giorno in cui era seduta a sul divano con Akito mentre lui cercava di convincerla a richiamare il suo ragazzo. Come se in quel preciso momento, accanto a suo fratello, avesse lasciato sospeso nell’aria qualcosa e non riuscisse a capire cosa.
Caleb riusciva a rendersi conto quando lei non riusciva più a rimettere ordine in quel cassetto, quando i sensi di colpa per quella lontananza, e tutto l’insoluto, tornavano prepotenti in mezzo alle loro giornate portando via “l’irresistibile Natsumi autoritaria”. Allora capiva che lei aveva bisogno di vedere quanto quelle sensazioni che la opprimevano fossero imprecise e si presentava con dei biglietti aerei. Aveva difficoltà a lasciare andare, Natsumi. lasciare Tokyo e anche lasciare lui per rivedere Tokyo.
Era tornata in Giappone diverse volte, alla fine. Ci era rimasta più a lungo quando suo fratello aveva deciso di sposarsi in brevissimo tempo e Caleb l’aveva raggiunta per il matrimonio di Akito e Sana.
Ogni volta che ritornava a casa sua, però, portava di nuovo indietro con sé quella sensazione.
Era in Giappone, quella volta che suo fratello non si era fatto vivo per incontrarla al suo arrivo, e suo padre non lo vedeva da mesi. Quando dalla televisione avevano scoperto della gravidanza di Sana e da lui personalmente della loro separazione.
«Ma sei scemo? Ma come puoi abbandonare tua moglie così?» gli aveva urlato, colpendolo. Lo vedeva, Natsumi. Abbandonato a sé stesso, i capelli più lunghi, un guscio vuoto, l’ombra dell’uomo che fino a pochi mesi prima aveva visto regolarmente insieme a Sana nelle videochiamate. Eppure non riusciva a smettere di urlare e colpirlo. Non aveva senso. Non poteva essere, quello, lo stesso bambino che si lasciava alle spalle anni di bullismo, lo stesso Akito che aveva fatto di tutto per tornare dall’America per Sana, il fratello che la spingeva verso una vita più libera. Non poteva essere lui, che lasciava sua moglie incinta della loro bambina e mancava alla promessa che aveva fatto a lei, di prendersi cura di loro padre.
Aveva come la sensazione che tutto fosse stato una finta, un teatrino messo su per la storia d’amore del secolo e Natsumi, che aveva percepito tutto quell’amore e quel cambiamento, ne era rimasta inebriata e illusa che potesse accadere anche a lei. Che ci fosse almeno un riflesso, nella sua vita, della trasformazione che Akito aveva avuto negli anni.
E poi quella sera suo padre era crollato, Akito era crollato, e lei aveva tenuto insieme pezzi di quella famiglia pregna di sensi di colpa e mancanze senza sapere bene come fare.
La piccola Sari era nata, pochissimo tempo dopo, facendole prolungare quei giorni in Giappone e facendo arrivare anche Caleb. Era venuta al mondo facendo dimenticare ogni difficoltà che li aveva colpiti nei giorni precedenti, come se insieme a lei fosse sceso un incantesimo di pace su tutti loro e Sana non era mai stata lasciata sola e Akito non aveva escluso la sua famiglia dalla sua vita.
Mentre guardava fuori dal finestrino dell’aereo, di ritorno in America e stringendo la mano di Caleb, si era resa conto che quel cassetto dentro di lei era ancora in disordine. L’incantesimo si era già spezzato.

Caleb le aveva chiesto di sposarla qualche anno dopo, davanti a suo padre, durante un altro viaggio in Giappone.
Sana aveva improvvisato insieme a lei e a Sari una canzone e un balletto, Akito e suo padre avevano spiegato al suo ragazzo come colpire nel modo giusto la nuca di qualcuno, usandolo come cavia.
Era stato il suo viaggio più sereno, si era quasi scordata di quella sensazione di irrisolto che si portava dietro ogni volta.
Fino all’ultima sera prima della loro ripartenza, quando aveva visto suo fratello varcare la soglia di casa con un notevole ritardo sull’ora stabilita per la cena, inespressivo. Sana che lo seguiva con aria pensierosa, la piccola Sari per mano.
«Cosa hai fatto?» Gli aveva detto, aprendo la porta.
Era scattato qualcosa dentro di lei, vedendo Akito in quello stato, un sopracciglio tumefatto e ricucito. Il disordine nel suo cassetto era sfuggito di mano e tutto quello che cercava di tenere conservato e fuori dalla vista era di nuovo davanti ai suoi occhi, come se non fosse cambiato nulla.
C’era di nuovo tutta la loro infanzia che esplodeva in ogni angolo della sua mente, i ricordi come lapilli che la colpivano.
Sei un demonio.
Il rapporto costruito con Akito negli ultimi quindici anni che si sgretolava, come un castello di sabbia travolto dalle onde e dall’incuria dei passanti.
Non c'era più l'America, l'università, Caleb, il suo matrimonio imminente, la nuova vita che continuava a prendere forma. Era di nuovo la piccola Natsumi che, in quella famiglia rotta, cercava di salvare qualcosa senza riuscirci davvero.
Akito che rincasava tardi per non vederla, Akito che mangiava fuori casa, Akito che commetteva azioni imperdonabili.
Era tutto di nuovo davanti a lei, in quel livido rigonfio sul suo volto.
«Cosa hai fatto?» Gli aveva chiesto. Eppure c'era qualcosa di sbagliato. Di nuovo, aveva usato parole sbagliate. Come anni prima, quando lui l’aveva spinta a lasciare il Giappone. Sono tornata per papà e per te. Non era riuscita a controllarsi.
«Non ho fatto niente». La guardava e parlava, sforzandosi di restare calmo, lanciando occhiate da lei alla piccola Sari. Come faceva a controllarsi in quel modo dopo essere stato aggredito da lei stessa? Lo vide prendere il corridoio verso la sua vecchia camera da letto e lo seguì senza pensarci troppo.
«Hai un occhio gonfio...» gli disse mentre lo seguiva, cercando di non urlare troppo.
Akito che ricattava i suoi insegnanti, Akito che non chiedeva mai scusa, Akito che aizzava i suoi coetanei.
Lo sentiva districarsi, quel senso di non risolto che sentiva ogni volta che ripartiva per casa sua, mentre si chiudevano la porta alle spalle. Arrivava nella sua testa, guardando suo fratello, dapprima come un’eco di un tamburo in lontananza fino a diventare più forte, sempre più energico.
«Hai fatto a botte Akito?» la sua voce era troppo alta, per sovrastare quel rumore che sentiva solo lei. Aveva visto gli occhi di suo fratello aprirsi in un'espressione meravigliata e poi guardarla rassegnati.
«Ho dovuto difendere Sari!» Aveva cominciato a spiegarle. «Tutti i bambini… un pazzo squinternato era venuto in palestra a cercare Sana...»
Akito che era stato in pericolo ma pensava a Sari per prima e cercava di non turbarla. Akito che, attaccato da sua sorella, non aveva reagito.
Natsumi si era sentita travolta da quelle parole, dal suo essere così cieca, sempre, davanti ai tasselli che non si incastravano bene nella sua vita ideale. E vedere il sopracciglio tumefatto di suo fratello era proprio quello, qualcosa che la riportava indietro di anni e non le permetteva di godere a pieno della sua attuale vita.
«Gli ho dato il beneficio del dubbio, e mi ha fatto questo. Mi ha colpito lui!» aveva continuato, indicando il taglio sull'occhio «Allora l'ho steso e ho chiamato la polizia.»
Stringeva i pugni e faceva respiri profondi, guardandola, poi aveva tirato un calcio al letto e si era seduto all'angolo del materasso, le mani appoggiate sulle ginocchia, il capo chino. «Ho esitato. Non volevo turbare i bambini. Sari… tutti loro, hanno pensato fosse una messinscena.»
E, nella testa di Natsumi, il tamburo continuava a suonare, ad ogni colpo una consapevolezza sempre maggiore.
Non aveva riguardato il prendersi cura di suo padre, quel senso di colpa che sentiva quando si allontanava dalla sua famiglia, riguardava in parte Akito. Riguardava lei, soprattutto.
Era tutto chiaro adesso, davanti all'evidenza di quello che era appena successo. Lei che lo aggrediva, come sempre, ma senza ascoltarlo prima.
Ne era sicura. Le doleva la testa, stordita da quella certezza, mentre guardava Akito respirare in modo convulso mentre di certo si dava colpe per quello che era successo. Mentre accettava l’ennesima aggressione di sua sorella, sicuro di meritarla a causa del suo passato.
Si comportava così perché lei non aveva fatto altro per tutta la prima parte della loro vita. Lo aveva incolpato per ogni cosa. Di essere nato, perfino.
Lo aveva fatto crescere in un mare di disperazione, per una vita che non era mai abbastanza per nessuno di loro, mentre affogavano senza saper nuotare, senza scialuppe.
Akito che faticava a tenersi a galla in quella distesa d'acqua che erano le sue paure. Akito che viveva dandosi colpe per ogni cosa, al quale lei stessa ne aveva appena data un'altra.
Gli aveva insegnato a farlo lei. Una colpa dietro l'altra, come colpi di un cannone, lo stesso che stava colpendo lei.
Si era seduta accanto a lui e aveva allungato una mano sulla sua, stringendola. Non si era mai resa conto davvero, prima di quel momento, di quanto le sue parole lo avessero influenzato, di come le aveva usate, come spade. Colpendolo più volte, ripetutamente.
Se non fosse arrivata Sana, se Akito fosse rimasto solo e in balia di sé stesso, sarebbe diventato quello che lei gli aveva detto che era. Non sarebbe seduta accanto ad un giovane padre di famiglia, men che meno accanto a un sensei.
«Scusami» gli aveva sussurrato. Aveva risolto quel disordine che aveva nel cassetto. «Scusami Akito, sono stata terribile...»
Si era girato a guardarla incredulo, come se non fosse riuscito a cogliere bene le sue parole. Ed era bastato un attimo a Natsumi, incrociare gli occhi di suo fratello così vulnerabili al ricordo di quanto accaduto nelle ultime ore, per far crollare definitivamente la diga che tratteneva le sue lacrime. Era certa di ripartire per l'America senza il peso di quel cassetto, adesso. Di poter vivere pienamente quella vita nuova che faticava a conciliare con quella vecchia.
«Non te l'ho mai detto, che mi dispiace...» Aveva capito cosa c'era da risolvere a Tokyo. Il senso di irrisolto e incompiuto che sentiva e quella sensazione di dover fare di più per la sua famiglia. Era quel rapporto con Akito maturato per metà e solo dalla parte di lui, mentre lei aveva continuato a urlare, a sparare sentenze.
Invece, tra un singhiozzo e l'altro, Natsumi aveva sentito il braccio di suo fratello circondarle le spalle e lei si era lasciata avvicinare, abbracciandolo a sua volta.
Akito che spesso metteva gli altri prima di sé stesso, Akito che cambiava. Natsumi che, finalmente, se ne accorgeva.





Ciriciao! :)
Allooooora, vediamo un po’ di spiegare questa fic. E’ nata qualche settimana fa. Anzi no, ha cominciato a premere nella mia testolina qualche settimana fa, mentre riflettevo sul bullismo, e ha visto la luce definitiva nei giorni scorsi.
I miei pensieri l’hanno presa larga, all’inizio, passando per tutti gli accadimenti nel primo volume di Kodocha finché poi non si sono focalizzati su Natsumi, e lei non ne voleva sapere di lasciare la mia testa. Aveva qualcosa da dire e voleva farlo tramite me. Mi ha torturata, era un chiodo fisso e da qui il soprannome che le dà Caleb, “irresistibile Natsumi autoritaria”.
Non è stato comunque facile scriverla, perché nonostante la sua presenza fissa nei miei pensieri, non mi faceva capire cosa volesse da me. Se ne vergognava. Alla fine ho capito che voleva fare quello che non ha mai fatto e cioè chiedere scusa a suo fratello.
La sensazione che ho avuto io leggendo Kodocha è stata di una sorella che, dopo lo sceneggiato di Sana, ha abbassato i toni in casa ma ha messo la testa sotto la sabbia cercando di non vedere. Ecco perché in America, secondo me, si è sentita diversa.
Altro appunto doveroso: l’episodio offscreen dello stalker in palestra. E’ un episodio che fa parte di una long mai pubblicata, arenata e senza titolo, e che probabilmente non vedrà mai la luce, ma quello che accade in quei capitoli ha definito e continua a definire molto delle pubblicazioni che io e Deb facciamo separate e insieme.
Insomma, il sopracciglio ricucito di Akito riporta Natsumi indietro anni luce nella storia della sua famiglia, il motivo che ha provocato quella ferita invece le fa aprire gli occhi sul suo comportamento nei confronti di suo fratello.
Spero che abbia senso anche per voi, così come ne ha per me!
Questo è quanto, passo e chiudo! :D
Mano sul cuore,
Gabry





   
 
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