Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    03/06/2021    2 recensioni
Non gli piace il mugolio che emette Marco, quando si china sulla sua branda comunicandogli che andrà a parlare con Shadis per farlo trasferire.
Non gli piace perché somiglia ad un Lasciami andare Jean, ripetuto più volte; che si quieta soltanto quando gli posa le labbra sulla fronte, in un saluto che spera -e lo spera tanto da trasformare la sua preghiera in supplica- non sia l'ultimo.
[Scritta per la Spring Break Bingo Challenge, gruppo Facebook Hurt/Comfort Italia]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanji Zoe, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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JeanMarco

What-if

Alive!Marco

Hurt/Comfort

Angst

Sentimentale

Hurt!Marco

Caretaker!Jean

Caretaker!Hanji

 

 

Scritta per la Spring Break Bingo Challenge, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

 

Prompt: Marco non muore. Viene portato nell'ospedale più vicino, operato, ma dichiarato privo di alcuna speranza. L'ospedale di Trost è in tilt, i feriti stanno letteralmente morendo tra atroci dolori, uno dopo l'altro per infezioni e malattie. Jean farà di tutto pur di portare via con sé Marco e curarlo al castello.

 

 

 

 

 

In tilt

 

 

 

“Guardati intorno ragazzo” sbotta il medico di turno. “Stanno morendo uno dopo l'altro e non possiamo fare niente!”

Jean solleva una mano per protestare, ma quello lo zittisce gettandogli tra le braccia un camice insanguinato e afferrandone uno pulito.

“Abbiamo dato al tuo amico una possibilità, lo abbiamo operato, ma non da segni di ripresa. Dobbiamo pensare a chi a maggiori probabilità di sopravvivenza.”

Jean stringe i pugni.

Lo ha seguito per tutta la mattina, incapace di arrendersi, mentre la corsia diventava sempre più affollata, ma persino la sua testardaggine indomita è sul punto di capitolare di fronte ai lamenti strazianti dei feriti in attesa di cure.

Ha visto la morte e le ha dato il volto dei giganti, ma in quell'ospedale, a condurre al capolinea dell'esistenza sono le mani assenti dei medici intenti a salvare il ferito della branda accanto; la differenza tra il vivere il morire, lì e ora, si basa su un crudele ma inevitabile calcolo di probabilità.

“Va bene” sospira Jean. “Troverò il modo di farlo curare altrove.”

 

Non gli piace il mugolio che emette Marco, quando si china sulla sua branda comunicandogli che andrà a parlare con Shadis per farlo trasferire.

Non gli piace perché somiglia ad un Lasciami andare Jean, ripetuto più volte; che si quieta soltanto quando gli posa le labbra sulla fronte, in un saluto che spera -e lo spera tanto da trasformare la sua preghiera in supplica- non sia l'ultimo.

 

***

 

Si umilia con il Comandante Shadis, ma non gli importa.

Quello che conta è che Marco abbia un letto vero in una stanza pulita e non una branda in un corridoio di passaggio; che abbia qualcuno -possibilmente con conoscenze mediche-, disposto a lottare per lui, a dargli la possibilità di riprendersi quel che resta della sua vita, per quanto difficile possa risultare.

Jean lotterebbe per lui contro venti giganti, ma se la chiave per ottenere cure migliori è lucidare con le ginocchia i pavimenti dei suoi superiori, lui lo farà, dovesse anche ingoiare il suo orgoglio fino a strozzarsi.

“Alzati in piedi, Kirshtein” gli dice quello con tono duro. “Non serve a niente inginocchiarsi.”

“Cosa serve, allora?”

Il Comandante Shadis rimane in silenzio per qualche istante, si passa una mano stanca sul viso e sospira lievemente.

“La sua famiglia può chiedere che venga trasferito nell'ospedale più vicino a loro, ma...” inizia, “ci vorrà del tempo e se le sue condizioni sono così disperate da far desist-”

“Non sono disperate!” sbotta Jean. “È sopravvissuto all'intervento! Può farcela , a patto che gli venga data una possibilità.”

“Modera i toni, ragazzo” lo ammonisce serio Shadis. “O le ultime ore del tuo amico le trascorrerai in una cella d'isolamento, invece che al suo fianco.”

Jean lo odia. Lo odia tanto che lo prenderebbe a pugni fino a spedirlo dritto in quell'inferno che è l'ospedale di Trost al momento, a vomitare bile su un pavimento ricoperto di resti e sangue.

Ma nella sua mente, Marco posa una mano sul suo braccio e scuote la testa.

E il suo Non farlo è talmente autoritario che Jean sente suo malgrado scendere lacrime d'impotenza lungo le guance e Dio solo sa se si odia per questo.

Stringe i pugni e ingoia un bolo di saliva salata.

“Dicono che il Quartier Generale del Corpo di Ricerca abbia un'infermeria talmente all'avanguardia da compiere miracoli” riprende Jean, forzando le corde vocali in un tono neutrale. “Cosa devo fare per accedervi?”

Il Comandante Shadis sembra riconsiderare la propria irritazione.

“Devi ottenere l'autorizzazione del Comandante Smith” gli risponde. “Ma di rientro dall'ultima missione è stata richiesta la sua presenza nella Capitale. Posso parlare con lui al suo ritorno, tra tre giorni.”

“Marco non li ha tre giorni!” grida di nuovo, prima di congelarsi sotto lo sguardo tagliente del suo superiore e alla prospettiva delle sue minacce. “Voglio dire...” si riprende, “con chi posso parlare per accelerare i tempi?”

“Non c'è nessun altro, Kirshtein” lo informa quello greve. “A meno che tu non intenda parlarne direttamente al Comandante Supremo Zackley, ammesso che voglia ricevere un cadetto appena graduato.”

E c'è una tale tensione nel modo in cui Shadis evita il suo sguardo, in cui sembra impaziente di cambiare argomento, che Jean non ha il coraggio di chiedergli per quale motivo non possa intercedere per lui come ha proposto poco prima parlando del Comandante Smith.

“Il Comandante Zackley è qui a Trost?” chiede invece .

“Rimarrà sulle mura di confine, fino a stasera, poi tornerà nei territori interni” chiarisce Shadis, e Jean legge il disagio nella frequenza con cui cambia posizione.

Un campanello d'allarme nella sua testa lo fa quasi desistere dall'urgenza di parlare con Zackley, perché se Shadis lo teme, probabilmente lui dovrebbe esserne terrorizzato.

Ma la voce di Marco, nella sua testa, grida di dolore fino a fargli sanguinare le orecchie e in tutta onestà, non c'è niente che lo spaventi più di perdere Marco.

“Vado a parlargli” decide, e sa di non avere scelta nel momento stesso in cui pronuncia quelle parole ad alta voce.

“Non ti riceverà, ragazzo” lo avvisa Shadis.

“Mi offrirò come merce di scambio” ribatte determinato. “Sono tra i primi dieci cadetti, posso entrare nel Corpo di Gendarmeria ed essere la sua guardia personale.”

Mentre lo dice, si rende conto che non ha molto da offrire. Non ha niente in realtà, a parte se stesso, ma non vuole perdersi in inutili autocommiserazioni, non quando ogni sua esitazione allontana l'unica persona, che abbia mai creduto in lui, dalla possibilità di sopravvivere.

Non perde altro tempo quindi, si mette sull'attenti ed esce dalla stanza prima ancora che il Comandante Shadis abbia il tempo di congedarlo.

 

Quando si chiude la porta alle spalle, il Capitano Levi è di fronte a lui.

“Si può sapere cosa credi di fare, ragazzino?” gli chiede con tono glaciale.

Se non fosse per la fama che lo precede Jean non perderebbe tempo a rispondergli, passerebbe oltre con un cenno del capo e un abbozzo di saluto, invece, con gli occhi del Capitano del Corpo di Ricerca a scandagliare ogni suo minimo pensiero, non si sente autorizzato nemmeno a respirare.

“Intercedo presso il Comandante Supremo Zackley per un amico, Signore” risponde in automatico.

“E pensi che a Zackley interessi la sorte di un cadetto?”

“Quella non interessa a nessuno, a quanto pare” commenta Jean amaramente.

Lo sguardo del Capitano diventa improvvisamente distante, si scosta dalla parete contro la quale stava appoggiato e gli fa cenno di seguirlo lungo il corridoio.

“L'infermeria del Corpo di Ricerca è riservata ai soldati della Legione, e non è sovraffollata come l'ospedale di Trost, che deve occuparsi anche dei civili” lo informa con tono casuale. Non lascia intravedere niente dei suoi pensieri.

“Il Comandante Shadis sostiene che non vi si può accende senza il consenso del Comandante Smith” si sente in dovere di ribattere Jean, ma il tono è esitante, sfiora quasi il punto di domanda.

“La Caposquadra Hanji ha pieni poteri in merito alla gestione dell'infermeria” risponde il Capitano. “E il tuo amico avrà più possibilità di vivere di quante che avrebbe in qualsiasi altro luogo, Capitale compresa.”

Jean sente qualcosa di simile alla speranza, fluire tra le crepe che le ultime ore hanno scavato dentro di lui. Il buio del corridoio scema nel chiarore della porta esterna; non si è neanche reso conto di aver disceso quattro rampe di scale.

“Torna in ospedale” riprende il Capitano senza attendere la sua risposta. “Rimani con il tuo amico. Ti raggiungerò lì.”

“Tutto questo in cambio di cosa?” ha il coraggio di chiedergli Jean a voce bassa; ed è consapevole che accetterà qualsiasi richiesta, fosse anche il peggiore dei ricatti.

“In cambio di ciò che hai già sacrificato nella battaglia di ieri” gli risponde invece il Capitano.

E Jean ha la sensazione che abbia provato sulla propria pelle quello stesso sacrificio.

 

***

 

 

Quando torna da lui, Marco è ancora cosciente e molto più agitato di prima.

Jean immagina che il sedativo usato durante l'intervento sia ormai completamente smaltito.

“Ehi” sussurra, posandogli la mano sulla guancia sinistra.

Marco gli lancia un breve sguardo, forse nemmeno lo riconosce. Si agita, si dimena, strizza l'occhio non bendato e una lacrima gli bagna la guancia.

“Marco?” tenta di nuovo.

La sua schiena s'inarca, i denti stridono, si volta verso di lui -la palpebra strettamente serrata- e subito dopo rotea la testa sull'altro lato con un sussulto di dolore.

“Marco, ti prego...” sussurra, la voce sul punto di rompersi.

Non sa nemmeno per cosa sta pregando.

Cerca la mano per intrecciarla alla sua, ma quella di Marco è stretta a pugno attorno al lenzuolo:

Jean può vederne i tendini contratti, le falangi piegate contro il palmo quasi fossero artigli, le unghie a scavare nella stoffa e nella carne.

“È lui il ragazzo che è stato dato per spacciato?” chiede una voce vicino a lui.

Quando alza lo sguardo, la Caposquadra Hanji Zoe è sull'altro lato del letto, intenta a scrutare la sagoma delirante sotto le lenzuola.

Vicino alla porta di accesso alla corsia, il Capitano Levi li osserva con le braccia conserte e la schiena contro la parete.

Jean non sa cosa aspettarsi da loro, ma non ha più carte da giocare in quella mano ormai disperata da cui dipende la vita di Marco.

Il Capitano Levi incrocia il suo sguardo, solleva le sopracciglie e accenna col mento alla donna china sul letto, esortandolo a parlarle.

“Sì” si riscuote Jean. “Ma può farcela. È forte” decreta, con forse più ottimismo di quanto ne permetta la ragione. Perché per descrivere la sagoma agitata di Marco si potrebbero usare diversi termini, ma forte non è tra quelli.

Hanji, comunque, non sembra dare peso alle sue parole: solleva il lenzuolo per controllare le sue ferite e valutarne l'estensione, poi si siede sul bordo del letto e gli posa una mano sulla fronte.

Jean riesce a vedere la sua espressione attraversata da un moto di allarme, dura solo un istante, ma è sufficiente a fargli sputare fuori un gemito sgomento, prima che il volto di Hanji si distenda di nuovo e la sua mano scivoli a tastargli delicatamente il collo e il petto.

“Hai sentito?” mormora poi, rivolgendosi direttamente al suo paziente. “Il tuo amico qui, dice che sei forte e che puoi farcela. Non vorrai deluderlo, vero?”

Marco per tutta risposta accelera il respiro e piagnucola qualcosa che contiene il suo nome.

Jean sospetta che sia l'ennesimo Lasciami andare.

Forse anche la Caposquadra Hanji ha capito, perché di colpo la sua espressione torna seria e Jean trema.

Guarda quelle mani, che vagano sul corpo di Marco senza sosta, tastando le bende, sfiorandone ogni centimetro e l'unica cosa che riesce a pensare è che non vuole che Marco si arrenda, lo vuole accanto a sé.

Vuole avere l'occasione di dirgli che ha bisogno di lui, perché è stato così stupido da gettare al vento quella che ha avuto poco prima che si separassero per combattere.

“Mhmm...” mormora Hanji sovrappensiero e quando alza lo sguardo ha un'espressione stanca, dolente; si toglie gli occhiali per passarsi una mano sul viso.

“Posso dargli un sedativo” decreta poi. “Dormirà per tutto il tragitto, fino all'infermeria del Quartier Generale e anche dopo. Non sentirà niente, ma...”

Non finisce la frase e Jean ha paura di quel vuoto.

“Ma cosa?” incalza.

Hanji si alza e recupera la borsa sul tavolino accanto al letto.

“Ci sono dei rischi” ammette. “Soprattutto nelle sue condizioni.”

Il sangue si gela nelle vene di Jean, il dolore che gli esplode nel petto risucchia come un buco nero tutto l'ossigeno. La sua mente si spegne.

“Vieni qui” gli dice lei con un sorriso mesto, spostandosi indietro di qualche passo. “Salutalo, prima che gli faccia l'iniezione.”

E Jean non può. Davvero non può.

“Farò tutto il possibile per lui” rimarca Hanji. “Te lo prometto.”

Ed è così comprensiva che Jean si sente in colpa, ma vorrebbe comunque urlarle contro, gridarle che non sa niente di lui, di ciò che è in grado di fare, di quanto coraggio e forza abbia dentro.

Ma Marco solleva la palpebra e lo guarda dritto negli occhi.

“J..Jean...” mormora, prima che il dolore lo sovrasti di nuovo con uno stridere di mascella e uno strappo nel respiro.

E sembra così adulto e allo stesso tempo così crudelmente fragile che Jean non sa se proibirgli di morire -come se avesse davvero il potere di accontentarlo-, o se chiedergli perdono per non essere riuscito a proteggerlo.

Infila il braccio sotto le sue spalle e lo solleva insieme al cuscino, perché non vuole fargli male, ma nemmeno vuole che si addormenti -forse per l'ultima volta-, da solo, sdraiato sulla brandina provvisoria di un'ospedale che lo ha già dichiarato morto.

Si siede sul materasso e lo tiene tra le braccia.

Una volta Marco ha fatto lo stesso per lui. Una delle prime notti, durante l'addestramento, quando stanchezza, dolore e tensione erano ancora sensazioni nuove per tutti loro. Jean ricorda i brividi della febbre a scuotergli il corpo, l'odore dell'infermeria e il conforto delle braccia di Marco. Ricorda anche le sue dita tra i capelli e la sua voce: l'aveva accudito per tutta la notte, nonostante si conoscessero appena.

Non sa spiegarsi cosa Marco veda in lui, ma non ha bisogno di logica quando pensa all'ultimo istante che hanno trascorso insieme, prima che il mondo intorno a loro crollasse.

Credo di volerti bene.”

Gli aveva detto candidamente Marco, pochi istanti prima di allontanarsi con la sua squadra, durante l'attacco del giorno prima. E Jean non era riuscito a rispondere, impietrito com'era da quel turbinio di emozioni.

Credo di amarti, in realtà.”

Aveva ribadito per maggiore chiarezza, scoppiando a ridere di fronte alla sua faccia attonita.

Non potevi trovare un momento migliore?”

Era riuscito a ribattere lui dopo un istante.

Marco aveva sollevato le spalle, continuando a ridere.

E cosa sarebbe cambiato a parte il rischio di non potertelo dire affatto, nel caso in cui...”

Si era fermato e aveva esalato un sospiro profondo.

... le cose si mettano male?”

Aveva ragione.

Adesso che lo stringe a sé, dilaniato e febbricitante, Jean si pente di non avergli risposto.

Si pente di non avergli detto che lui sa di amarlo, non lo crede soltanto.

Ma era troppo vigliacco per farlo in quel momento.

E non vuole esserlo ancora.

Glielo dice questa volta. Che lo ama.

E non sa nemmeno se Marco riesce a sentirlo.

Glielo sussurra chinando il viso fino a sfiorargli la guancia con le labbra, glielo mormora strusciando il naso contro la sua pelle e qualche lacrima che non riesce a trattenere lo bagna.

“Te lo dirò ancora” aggiunge poi. “Quando sarò sicuro che tu possa sentirmi. Te lo dirò ogni giorno. Tutte le volte che vorrai” promette.

Dalle labbra di Marco non esce un fiato e misericordiosamente nemmeno un lamento; resta in silenzio come se stesse ascoltando. Jean osserva il respiro che gli alza e abbassa il torace e quando Hanji si avvicina con la siringa già pronta stretta nella mano, annuisce in silenzio.

Non lo lascia mentre il sedativo entra in circolo, regolarizzandogli il respiro.

Rimane vicino alla lettiga quando due commilitoni lo trasportano al carro.

Si siede al suo fianco sulle assi di legno, intreccia le dita alle sue e non si muove di lì per tutta la durata del tragitto.

 

***

 

Dorme ancora quando lo sdraiano sul letto predisposto per lui nel laboratorio.

Jean non ha potuto fare a meno di trattenere il fiato per tutto il tempo, né di distogliere lo sguardo dal petto a malapena mosso dal respiro; però ha sospirato di sollievo quando sono entrati nella stanza silenziosa, lasciandosi alle spalle il brusio delle corsie attraversate.

“Me ne occupo io” dichiara Hanji, congedando i suoi assistenti.

Jean sente la tensione allentarsi, perché la Caposquadra del Corpo di Ricerca è senza dubbio una personalità sopra le righe, ma il modo in cui le sue mani hanno sfiorato Marco è molto diverso da quello usato dai medici dell'ospedale di Trost: sotto il loro tocco, Marco non aveva fatto altro che gemere.

Invece con lei continua a dormire, e sembra in pace.

E Jean respira.

Dorme persino mentre gli toglie una alla volta tutte le bende che gli coprono le ferite, dopo essersi lavata accuratamente le mani e averlo spedito a prendere un catino di acqua pulita.

Jean ne è sollevato, perché il corpo nudo di Marco somiglia a quel vecchio pupazzo rattoppato che sua madre si ostina a conservare in ricordo della sua infanzia: con quei punti neri che spiccano sulla pelle pallida per poi sparire laddove la sutura si tende sulla carne gonfia e arrossata.

“Va bene” commenta Hanji incoraggiante. “Sapevamo che un'infezione sarebbe stata la più probabile causa di febbre.”

Quando torna con quanto chiesto, Marco è sempre immobile, il suo volto ancora disteso e Hanji gli sta parlando con tono sommesso.

Jean non capisce le parole, ma si fida di quelle mani che gli accarezzano lievi la fronte.

A Marco sembra piacere, ma forse è solo l'effetto di un sonno misericordioso, dopo ore di agonia.

Continua a dormire anche quando Hanji si alza per aspirare il contenuto di una fiala dentro una siringa e scosta le coperte per iniettarglielo nel fianco.

“Questo combatterà l'infezione” spiega, disinfettando l'area e affondando l'ago.

Marco aggrotta la fronte e biascica il suo nome.

“Va tutto bene” gli sussurra Jean, facendo scorrere le dita tra i suoi capelli. “Va più che bene. Qui dove sei ora, possono curarti.”

Quello non risponde se non con un mugolio spezzato, riemergendo dal sonno indotto, e Jean stenta a credere che quella sia davvero la sua voce: nei tre anni di addestramento non l'ha mai visto piangere o lamentarsi.

Era lui quello debole, in realtà, e Marco la roccia a cui aggrapparsi sempre. Adesso che le parti sono invertite, Jean non è sicuro di riuscire a trovare dentro di sé, la forza per sostenere entrambi.

“J..Jean...?” lo chiama.

“Sono qui” lo rassicura, mentre Hanji comincia a pulirgli le ferite infette. “Sono qui. Come ti senti?”

Ma Marco non risponde. Rotea l'unico occhio in grado di vedere intorno alla stanza e il suo respira si spezza di paura, mentre il dolore si fa di nuovo largo sul corpo martoriato. Jean la vede scorrere sotto la sua pelle, l'onda incandescente di quell'agonia che sembra divorargli le viscere.

“Sei nell'infermeria del Corpo di Ricerca” gli dice, quando diventa chiaro che non dormirà più. “Hanji ti sta curando. Te la caverai.”

E quelle parole aiutano se stesso più di quanto lo facciano con Marco.

Jean non sa cosa riesca a vedere attraverso quell'occhio lucido e arrossato, ma di sicuro ciò che più gli interessa è il suo volto, perché una volta agganciato il suo sguardo non lo molla più.

“Ti voglio bene” gli mormora Jean, senza nemmeno provare imbarazzo per quella voce traditrice che s'incrina sul finale.

Gli viene quasi da ridere per la patetica debolezza che sta mostrando, eppure non gli importa; vede un angolo della bocca di Marco sollevarsi, i muscoli del suo braccio tendersi, la sua mano abbandonare il materasso e Jean è pronto a stringerla tra le sue.

“Non mi lasciare” seguita, mentre se la porta al viso. “Ti prego.”

Marco continua a fissarlo in silenzio, poi alza l'indice e lo posa perpendicolare sulle sue labbra.

“Shhh” gli sussurra con voce roca. “N..non chiedermi cose che non posso mantenere.”

E Jean non crede di poter resistere oltre, si piega sul materasso, la testa nascosta tra le braccia e scoppia in singhiozzi: la mano di Marco si bagna gradualmente sotto le sue lacrime.

Non parla più dopo quello, ma è perfettamente sveglio e di nuovo teso dal dolore.

“Ancora un po' di pazienza” lo incoraggia Hanji, mentre cosparge di unguento le sue ferite. “Dopo ti darò qualcosa per la febbre e starai meglio.”

Jean la ringrazierebbe per tutte quelle premure, se non fosse troppo impegnato a piangere come un poppante: si è sempre odiato per le sue debolezze, l'unico a ritenerle una dote e non un difetto era Marco.

E forse adesso non lo pensa più nemmeno lui.

“Jean” lo richiama Hanji, distogliendolo dal vortice di pensieri che lo ha travolto. “Lui ha bisogno che tu sia forte” gli rammenta.

Jean sa che ha ragione.

Solleva la testa e si asciuga le lacrime con le mani, Marco ha la testa girata verso di lui e l'occhio chiuso, tutte le sue ferite sono già state trattate .

“Devo fasciargli il torace con bende pulite” lo informa Hanji. “Tu e Moblit sollevategli la schiena delicatamente.”

Jean solleva lo sguardo sull'assistente che silenzioso si è portato al fianco di Hanji: non si era nemmeno accorto della sua presenza. Aspetta il suo cenno prima di sollevare la schiena di Marco dal materasso quel tanto che basta a far passare le bende.

L'espressione di Marco si corruga di nuovo, il suo corpo s'irrigidisce, ma Moblit è bravo: posa le mani nei punti giusti pur essendo sul lato ferito e lo sostiene senza fargli male, lasciando ad Hanji margine d'azione, come se l'avesse fatto mille volte.

E forse, pensa Jean, è davvero così, perché dopo aver adagiato Marco sui cuscini, gli basta un unico scambio di sguardi con la sua Caposquadra, per recarsi al tavolo ingombro di boccette e iniziare a dosarne diverse in una ciotola.

“Adesso, da bravo” mormora Hanji, quando la ciotola passa nelle sue mani. “Bevi tutto questo infuso.”

Marco apre l'occhio e gli lancia uno sguardo implorante, Jean ha paura di sentirgli di nuovo uscire dalle labbra quelle parole, quel Lasciami andare agonizzante che gli toglie ogni speranza, per cui lo precede con una carezza sulla guancia e infila una mano sotto la sua testa per sollevarlo quanto basta a non strozzarsi.

“Ti giuro che dopo starai meglio” gli dice, mentre Hanji appoggia la ciotola alle sue labbra.

Marco beve senza distogliere lo sguardo da lui e crolla di nuovo tra i cuscini con un rantolo.

Hanji gli posa una mano dubbiosa sulla fronte, poi si alza per consultare qualcosa dietro la sua scrivania.

“Moblit” chiama distrattamente, “porta al ragazzo un bicchiere di latte e miele.”

Poi solleva la testa e Jean sente lo sguardo della Caposquadra attraversargli la pelle, quasi potesse guardargli dentro. “Portane due” si corregge, prima di affondare di nuovo il naso nei suoi libri.

Moblit, torna pochi minuti dopo, portandone tre.

Lo bevono insieme, quel latte caldo. Marco appoggia la tempia al suo torace, mentre lo fa e sospira lievemente, sfinito, ma meno agonizzante di quanto lo sia mai stato negli ultimi due giorni.

“Dormi ora” gli mormora Jean cullandolo appena, mentre la sua palpebra arrossata si abbassa sotto il peso di tutto ciò che ha sopportato.

E forse è un incosciente, forse se ne pentirà, ma con il corpo vivo di Marco tra le braccia, Jean sente di nuovo prevalere la speranza.

 

 

 

Il mattino dopo arriva troppo presto.

Jean non è pronto a tornare nella realtà, non dopo aver sognato il momento in cui ha visto Marco per la prima volta, il giorno in cui si è arruolato come cadetto.

Il giorno in cui lui solo è stato capace di leggere ogni sua paura sotto l'ostentata spavalderia che aveva eretto a sua difesa.

E gli ha dato la mano.

E la sua borraccia.

Perché ovviamente Marco sapeva che aveva la gola arida per la tensione.

Lui sa sempre tutto.

Apre gli occhi, quando delle dita lievi gli sfiorano la mano.

Marco è sveglio, la schiena sollevata da diversi cuscini e lo sguardo molto più limpido del giorno precedente, Hanji, dall'altro lato del letto, ripone la siringa che ha appena usato e si concentra sul suo battito cardiaco, posandogli due dita sul collo.

“La febbre è ancora alta” decreta, “ma stai reagendo bene al farmaco che ti ho iniettato. Te la caverai.” conclude allegra.

Jean, che ha dormito seduto per terra e con la testa nascosta tra le braccia sul bordo del materasso, a quelle parole si riscuote.

“Marco?” lo chiama con voce carica di speranza; stringe la mano che poco prima gli ha sfiorato il braccio e quello sorride. Non riesce a fare molto altro.

“È fuori pericolo?” chiede a Hanji.

“L'infezione è seria” gli risponde lei onesta, “ma la soluzione che gli sto iniettando è efficace. Ed è migliorato rispetto a ieri.”

Gli porge un piatto pieno di frutta e una ciotola di latte.

“Fai in modo che mangi qualcosa” gli dice, alzandosi per recuperare alcuni strumenti dal tavolo da lavoro. “Devo visitare gli altri feriti” aggiunge prima di uscire dalla stanza.

Mentre la porta si richiude, scorge la figura del Capitano Levi nel corridoio.

Nella breve occhiata che si scambiano, Jean cerca di comunicargli il grazie che ha sulla punta della lingua e che non vuole uscirgli dalle labbra, ma il Capitano gli volta le spalle come se non gli importasse.

“J..Jean...”

La voce flebile di Marco lo richiama. Si siede sul letto e gli posa una mano sulla guancia.

“Ehi” gli risponde con un sorriso lieve. “Come ti senti?”

“C..confuso” ammette quello, mentre il suo volto si piega di dolore al solo tentativo di articolare delle parole corrette.

“Non sforzarti” lo prega, accarezzandogli lo zigomo con il pollice.

Jean sa che una decina di punti gli tendono la pelle, sotto le bende del viso, eppure tenta comunque di stirare le labbra in un abbozzo di sorriso, mentre chiude la palpebra e appoggia la guancia con fiducia alla sua mano.

“Oh Marco” mormora, chinandosi per depositargli un bacio sulla fronte.

È sempre caldo, constata. Troppo.

Afferra un panno bagnato dal bacile accanto al letto e gli rinfresca la parte del viso che non è coperta da bende.

Marco lo lascia fare, senza proferire parola. Getta un unico sguardo al moncone del braccio destro e trattiene il fiato.

“J..Jean” inizia titubante. “Sento ancora i denti che...”

S'interrompe quando il fiato gli manca, un tremito di terrore gli vibra sulle labbra.

Jean non riesce neanche a immaginare quanto debba essere terribile venire divorati a metà e sopravvivere.

Cerca la sua mano, intreccia le dita alle sue e con l'altra gli accarezza i capelli.

“Sei al sicuro ora” sussurra. “E presto starai bene. Te lo giuro.”

C'è qualcos'altro in bilico sulle sue labbra: quel Ti amo anch'io che non gli ha saputo dire al momento giusto e che spera si visibile nella carezze in punta di dita che gli lascia sulla pelle insieme alla frescura del panno, nel cuscino supplementare che gli sistema dietro la schiena solo perché è più morbido degli altri e in ogni cucchiaio che gli avvicina alle labbra.

 

Dorme per gran parte del giorno, alternando pochi momenti di veglia ad un sonno agitato; non delira, ma continua a lamentarsi più di quanto Jean sia in grado di sopportare.

“Hanji, ti prego” la supplica, mentre tenta allo stesso tempo di blandirlo con carezze e di asciugargli il sudore dal volto.

“È rischioso Jean” risponde lei. “Non quanto la prima volta, ma non è ancora abbastanza forte da reggere un'altra dose di sedativo.”

E Jean non può fare altro che infilare il braccio sotto il cuscino di Marco, stringerlo a sé ed avvicinargli alle labbra gli infusi che Hanji gli porge di volta in volta, alternati a qualche cucchiaio di brodo.

 

***

 

Si risveglia che albeggia appena.

La stanza è silenziosa e le finestre socchiuse hanno dissipato l'odore pungente del disinfettante.

Marco dorme ancora tra le sue braccia, un lieve strato di sudore gli ricopre la fronte inumidendo le bende, ma il respiro è regolare e l'espressione serena.

“Marco?” lo chiama incerto, perché negli ultimi tre giorni ha perso l'abitudine alle belle notizie e ogni minimo cambiamento lo preoccupa.

“Marco?” chiama ancora, e c'è un lieve movimento contro il suo torace, un sospiro profondo prima che la sua palpebra cominci a fluttuare.

Jean ha contemplato il suo risveglio molte volte prima d'allora.

Sdraiato nella branda accanto alla sua, nel dormitorio dei cadetti, ha osservato l'alba direttamente sul suo volto, aspettando il momento in cui ogni sua lentiggine sarebbe stata di nuovo visibile sulla pelle chiara.

Ha imparato a riconoscerne le fasi, il modo in cui il suo corpo si muove sotto le coperte quando riemerge dalla stato onirico, in cui il respiro cambia, ma per quante volte l'abbia visto non è mai davvero pronto al momento in cui Marco gli rivolge il primo sguardo del mattino.

Quello che ha di fronte, comunque, è il più bello di tutti.

“Jean?” mormora, la voce roca dal disuso.

“Buongiorno...” gli risponde con tono mosso d'emozione.

Gli ravvia i capelli e la fronte sotto la sua mano è fresca.

Non fosse per l'odore della sua pelle, inconfondibile nonostante il sudore e gli unguenti, Jean penserebbe di star sognando, ma la mano di Marco si solleva strusciando leggera contro il suo torace e si posa sulla sua guancia.

Gli sfiora la pelle intorno agli occhi, che Jean non dubita sia scura e pesta dalla stanchezza e dalle lacrime.

“Ti ho fatto preoccupare?” gli chiede poi con quel tono semplice e onesto che lo spiazza fin dal primo giorno.

“Da morire” gli risponde lui, e non sa se ridere o piangere.

Marco deve aver visto anche ciò che la paura ha lasciato sul suo volto, perché il suo sguardo diventa se possibile ancora più dolce e la sua mano gli accarezza affettuosa la guancia.

“Mi dispiace” sussurra.

Jean scuote la testa, la mano di Marco sulla sua guancia la segue, rifiutando di lasciarlo.

Vorrebbe dirgli che non deve scusarsi per cose di cui non ha colpa e che in realtà è lui a doversi dispiacere di molte cose, prima fra tutte la sua mancanza di coraggio.

Vorrebbe guardarlo dritto in faccia e dirgli che lo ama, che lo ha amato fin da quel primo giorno, quando in piedi sotto il sole cocente gli ha dato la mano e la sua borraccia, ma Marco lo precede.

“No” gli dice triste. “Non più. Non così” e accenna con la testa al lato destro del suo corpo.

Jean sbatte le ciglia incredulo, socchiude le labbra e realizza che dalle sue parole, da quello che dirà in quell'esatto istante, dipenderà il loro futuro insieme.

Raggiunge la mano ancora posata sulla sua guancia e la stringe.

“Sì” mormora portandosela alle labbra. “Ora più di prima.”

 

 

 

Fine.

 

 

 

 

  
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