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Autore: Gondolin    03/06/2021    0 recensioni
“E anch'io ho perso un fratello,” aggiunse Linda sottovoce.
“Non era-
“Non dire stronzate.”

Ambientata durante l'indagine su Mikami Teru, durante i 23 giorni di controllo per essere sicuri che Gevanni non sia sotto il controllo di Kira.
[ Stephen/Near ]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gevanni, Halle Lidner, L, Near
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note: Abbiamo deciso (Hikary ed io, non è un plurale maiestatis) che Halle Linder (Halle Bullock) è Linda (una bambina della Wammy's House che appare in ben UNA vignetta nel manga).

Il primo incontro fra Near ed L è ispirato al film Death Note: L change the World.

*


L è morto, viva L. 

 

Near era sempre stato il più tranquillo e beneducato dei Wammy's Children, e ne andava fiero. Con lui, gli sforzi di Watari non erano mai stati vani. Non aveva imparato l'etichetta come una lingua straniera, come avevano fatto molti degli altri. 

E in quel momento era veramente una fortuna. Ci fosse stato Mello, al suo posto, avrebbe già sparato ad ogni singolo schermo per la frustrazione, per la rabbia di vederci riflessa una lettera rubata, di sentire quella voce che aveva sempre voluto dire casa diventare ora giocattolo di un assassino e portatrice di menzogne. 

L non mentiva, non se poteva farne a meno. Near aveva sempre cercato di seguire il suo esempio, ma ora si sentiva rotolare sulla lingua una bugia dietro l'altra senza alcuno sforzo. Questo falso L non meritava la sua onestà, né di giocare a carte scoperte. 

Se fosse stata sua abitudine, Near avrebbe pianto di rabbia. Invece guardava Linda stringere i pugni fino a farsi sbiancare le nocche ogni volta che sentiva gracchiare la statica di quella voce artificiale, e terminava tutte le proprie frasi con un grazie. Perché quel falso L non meritava neanche la sua maleducazione. Non era il ragazzino biondo che con la sua perenne invidia riusciva perfino a fargli perdere le staffe. Non era quella sorta di panda immusonito che, anni luce prima, l'aveva guardato piangere le sue ultime lacrime e a cui Near aveva urlato contro credendolo insensibile. 

No, quest'impostore non meritava neanche la sua rabbia, ma quella Near non riusciva a contenerla negli ordinati recinti della propria mente, chiusi come ceste di giocattoli. Quella strabordava e si insinuava strisciante in ogni suo pensiero. Near, questa volta, avrebbe assaporato la vittoria. La vendetta. 

Mancava poco – questione di giorni. Poteva misurarli in minuti, ormai, ogni secondo un passo in più vicino alla meta. Ed era troppo vicino – questione di giorni. Per la prima volta, Near desiderò di aver potuto essere lui ad agire in prima persona e a mettere in gioco la vita. 

 

Il momento della verità aveva una data e un'ora precisa. Avrebbe dovuto essere tranquillizzante, catartico, la fine della caccia: e si sarebbe scoperto chi era la preda e chi il cacciatore. 

Eppure quella notte Near dovette rigirarsi nel letto e combattere a lungo col cuscino prima di prendere sonno. E anche allora, si svegliò di continuo con la sgradevole e irrazionale sensazione di aver dimenticato qualcosa di fondamentale. 

Alle tre e venti si dichiarò sconfitto e si decise ad alzarsi. Scese le scale che separavano la sua stanza dal quartier generale della task force e non si stupì di trovare le luci ancora accese. 

Linda era seduta a gambe incrociate sul pavimento, la giacca grigio ferro abbandonata su una sedia e le maniche della camicia arrotolate al gomito. Meditava, come Near le aveva visto fare spesso da bambino a Winchester. Ma erano anni che non la vedeva così. Gli portò una stretta di nostalgia che non pensava di poter provare. Farsi prendere da certe debolezze non aveva alcuna utilità. Il passato andava analizzato, se mai, non rivissuto, mai rivissuto. 

Senza aprire gli occhi, Linda gli offrì tre numeri, un loro vecchio gioco, in cui il gioco consisteva, anche, nel non spiegarsi mai le regole. A volte erano l'inizio di una sequenza numerica, a volte parte di una formula, di un'equazione, cifre prese a caso dal pi greco, o qualsiasi cosa avesse la possibilità di distrarre Near per qualche secondo, per lasciargli il tempo di trovare delle parole oltre ai numeri. 

Ma era cresciuto, ormai, certe cose non gli servivano più, o almeno così le rispose, piccato. 

Il sorriso soddisfatto di Linda raccontava un'altra storia. Fu un sorriso breve, tirato. Sembrava stanca. 

“Sembri stanca.” 

“Qualcuno di noi ha bisogno di più di due o tre ore di sonno per notte per sopravvivere.” 

“Non ti sei mai lamentata.” 

“Ho ventinove anni, Near,” rispose lei senza traccia di amarezza, “Certe cose hanno il loro prezzo.” 

Near sentì il bisogno di citarle qualche statistica sulla vita media delle donne nel ventunesimo secolo e subito dopo si diede dell'idiota. Non era da lui consolare. Non era da lui offrire vane rassicurazioni, incerte e inadatte alla loro specifica situazione. 

“E anch'io ho perso un fratello,” aggiunse sottovoce. 

“Non era- 

“Non dire stronzate.” 

Era sempre stata la più sboccata di loro, Linda. Dava una pista persino a Matt, il quale, con sommo disappunto di Watari, bestemmiava quando perdeva a Super Mario Smash Bros. Mello, per una sorta di strano pudore tutto suo, se doveva imprecare, lo faceva in russo. 

Ma così brusca, con Near non lo era stata mai. 

“Se vuoi negare fino a soffocarti, libero di farlo. Personalmente, per addormentarmi conto i metodi di tortura, in questi giorni.” 

“Privazione del sonno.” 

“Goccia cinese.” 

“Rimozione delle unghie.” 

“Ruota.” 

“Quello era un metodo di esecuzione,” obbiettò Near. 

“Mi è scappato,” rispose serafica Linda. 

“Dobbiamo essere noi ad arrestarlo. In Giappone non esiste la pena di morte, non può essere l'NPD a portarlo via.” 

Linda restò in silenzio. 

“Non sei d'accordo.” 

“Mi chiedo a che serva. Mi chiedo se sia abbastanza.” 

Forse ha dalla sua una creatura sovrannaturale. Nessuna prigione sarebbe abbastanza sicura.” 

Con un unico gesto fluido, Linda sciolse la posa delle gambe e si alzò in piedi. Ora guardava Near dall'alto. Si disfò la coda e poi fece un cenno del capo in direzione del cucinino col bollitore e il microonde, ricavato in un angolo dello spazio in cui lavoravano. 

Near la seguì e poi si sedette per terra, ginocchia al petto. 

Linda annunciò: “Questa è una discussione da caffè.” 

“Avrei detto da tè verde.” 

Linda rise. “Niente di così serio. E poi ho sonno.” 

La discussione su cosa facevano Matt e Mello in camera da soli era stata da earl grey. Quando Near aveva dovuto annunciare a Linda della morte di Watari e L, le aveva preparato una teiera di camomilla con le sue stesse mani. Era stato tentato di rompere una tazza. Di lanciarla contro il muro e vedere l'espressione di Roger incrinarsi più di quanto non avesse fatto nel comunicare loro di quelle morti. Non si era neanche degnato di avvertire gli altri, quelli che non erano in lizza per la posizione di L. Ma Near era il più tranquillo e beneducato dei ragazzi e certi scatti non erano da lui. Così aveva fatto bollire l'acqua e posato il coperchio sulla teiera con delicatezza. 

Quando Linda aveva detto di volersi iscrivere a Belle Arti, quella volta aveva preparato cioccolata calda per tutti, anche per Watari. Ma lui l'aveva presa bene. Si era sporcato i baffi grigi di cioccolata e poi aveva rivolto alla tazza un sorriso un po' triste. Aveva preso Linda da parte e le aveva detto che non era una macchina. 

“Cosa vuol dire?” aveva risposto lei stizzita. Era stufa di frasi criptiche, di indovinelli. 

“È la tua vita, questa. Hai il diritto... no, il dovere di farne quello che più ritieni giusto. Quello che ti renderà felice, se possibile,” si era guardato intorno, indicando con lo sguardo il corridoio, il giardino appena visibile dalla porta in fondo, la casa nella sua interezza, “Questo posto non sarebbe mai dovuto essere una fabbrica di cervelli. Ho commesso un grave errore se vi ho lasciato credere una cosa simile. Se ho accolto voi è stato perché ho creduto, certo, che poteste un giorno fare del bene all'umanità. Ma non ho mai decretato il come. E soprattutto avrei voluto proteggervi. Vola fuori dal nido, Linda. Ho fiducia nelle tue ali.” 

La Linda presente si accartocciò sul bollitore, soffocata per un istante da quel fantasma. Near ebbe la bontà di non commentare. Lei, alla fine, era tornata. Chissà se Watari aveva fatto in tempo a dirlo anche a lui. Vola fuori dal nido, Nate. Ho fiducia nelle tue ali. Chissà se aveva fatto in tempo a dirlo ad L, se c'era mai stato tempo per lui. 

“Non sei una macchina, sai?” disse Linda con tono sorprendentemente fermo, raddrizzando le spalle e sentendosi vecchia. 

Near le rivolse uno sguardo piatto e assai poco convinto. 

Linda sbuffò nella tazza, soffiando via una nuvoletta di vapore. Ci voleva dello zucchero. Per il latte non c'era niente da fare, aveva buttato quella mattina una bottiglia che era ormai diventata formaggio. 

“Hai pensato a cosa dire a Stephen?” 

Stavolta Near sbatté le palpebre, preso alla sprovvista, e Linda si concesse un breve momento di trionfo. Era soddisfacente sapere di essere ancora in grado di sorprenderlo. 

Ma, vedendo che non rispondeva, aggiunse: “Gevanni. Mio dio, non posso credere che tu non sappia il suo nome!” 

“Che tu lo sappia è ovvio, ma nel mio caso non era necessario. Minimizzare i rischi è un'espressione che ti giunge nuova?” 

Linda sbuffò.  “Almeno lui non conosce il mio nome, su questo puoi stare tranquillo. Ma non è questo il punto. What's in a name eccetera, no? Hai deciso cosa dirai alla persona che potrebbe morire tra ventidue giorni per salvare la nostra pellaccia?” 

“Per catturare Kira,” rispose Near in automatico. 

Near.” 

“Non vedo cosa dovrei dirgli,” ribatté Near aspro. 

“Quello che pensi, per esempio.” 

“Temo che non ne capirebbe un decimo.” 

“Sei un vero stronzo.” 

Near incassò in silenzio, incerto su quanto fosse seria Linda. Lei soffiava sul caffè e non parlava più, ma intanto il suo scopo l'aveva raggiunto, la vipera. Aveva aggiunto un altro carico alla sua mente, uno che secondo Near era totalmente inutile; gli aveva lasciato addosso quel fagotto di sentimenti, e che se la sbrogliasse lui. Perché per combattere quelli non puoi creare una task force. 

All'agente Gevanni, Near aveva pensato, ovvio che gli aveva pensato. L'aveva coinvolto nella parte più rischiosa della missione, e non l'aveva fatto a cuor leggero. Ma a Stephen aveva potuto non rivolgere alcuna attenzione – o quasi. C'erano lo sguardo azzurro e spaventato, la minuscola ruga verticale in mezzo alla fronte, il modo di sbuffare davanti ai kanji più antipatici, la gentilezza impeccabile verso tutti gli altri membri della task force e Near stesso. Non bastava certo un nome a coagulare tutto questo in un essere umano compiuto, ma bastava a rendere il tutto più difficile da ignorare. 

Near si rassegnò a sbrogliare la matassa. 

Il mattino successivo, si svegliò sul pavimento (c'era la remota possibilità che persino lui avesse lavorato troppo, ultimamente), ancora circondato dai suoi robot preferiti e con una giacca nera sulle spalle. L'unica persona in maniche di camicia era Gevanni e Near provò qualcosa a metà fra l'irritazione e la tenerezza, quella che siamo geneticamente predisposti a provare di fronte alle proporzioni facciali dei neonati e dei cuccioli, volta a suscitare un istinto protettivo. 

Si alzò e andò a restituire la giacca al legittimo proprietario con un breve ma cortese ringraziamento. Niente era cambiato, se non i numeri sul display dell'orologio. 

“Prego,” rispose Gevanni con un cenno del capo. Non sorrideva (Near si chiese se l'avesse mai visto sorridere e fu sgomento nel realizzare di non avere una risposta), ma non sembrava stanco o preoccupato. 

 

Nei giorni successivi si susseguirono numerose comunicazioni con il falso L. Più passava il tempo, più la pazienza di Near si assottigliava. 

Si chiese se in passato avesse sentito più spesso quei suoni sintetici o la voce di L, e pensò che non avrebbe fatto alcuna differenza. L era il suo lavoro. Forse, in fondo, aveva sempre saputo che sarebbe morto in uno dei suoi casi, e quale fine più nobile che nella lotta contro Kira? Ma era stata pur sempre una sconfitta, un duro colpo a quello che era stato il suo idolo. Near non si dava pace cercando di capire non tanto come, ma perché L avesse sbagliato, e non glielo perdonava. E intanto manteneva rapporti cordiali con il suo assassino. 

Con tutto quell'ingoiare fiele, erano ormai più le notti in cui si arrendeva e tornava a lavorare di quelle in cui riusciva ad acchiappare per la coda il folletto del sonno. 

Una di queste, scendendo, sentì qualcuno che parlava al telefono. Era certo di potersi fidare dei pochi rimasti, ma... cosa poteva essere a quell'ora di notte? Si sforzò di scendere in silenzio, ma Gevanni l'aveva già sentito, e aveva frettolosamente salutato. Non di certo tentando di nascondere la telefonata in sé, quanto, forse, per mantenere un po' di privacy. 

“L'ordine di interrompere tutti i contatti non autorizzati con l'esterno è ancora valido.” 

“Tra quindici giorni potrei essere morto.” 

“Questa rimane insubordinazione.” 

Gevanni, agente modello, trasalì a quella parola, combattendo contro l'istinto di battere i tacchi e mettersi sull'attenti, pronto al giudizio. Ma non cercò di scusarsi o giustificarsi. Near per lo meno poteva ammirare la testardaggine. 

Si sedette in mezzo alla pista del trenino, lasciata a metà appena qualche ora prima, e ne riprese la costruzione. 

“Chi volevi salutare?” chiese, morso dalla curiosità. 

Gevanni apparve sorpreso dalla domanda e da quel Near improvvisamente rilassato. “I miei nonni. Mi hanno cresciuto loro.” 

“Cosa sanno?” 

“Niente,” rispose Gevanni offeso, “Ho telefonato con una scusa.” 

“Alle due di notte?” 

“Li ho mandati in vacanza in Italia. Sono le nove, lì.” 

Near fu soddisfatto dalla spiegazione e smise di parlare. Naturalmente avrebbe controllato i tabulati telefonici, una volta solo: i ventitré giorni non erano trascorsi, poteva ancora succedere qualsiasi cosa. Forse avrebbe dovuto avere paura, eppure si sentiva calmissimo. 

“Lo dicevano spesso, ultimamente, che avrebbero voluto rivedere i luoghi dov'erano cresciuti, prima che fosse troppo tardi. Avevo promesso che sarei andato con loro, ma dopo l'inizio di questo caso ho pensato che fosse il caso di farli partire da soli.” 

Non sapeva nemmeno lui perché stava raccontando quelle cose. Gevanni non era mai stato un tipo loquace, neppure prima di entrare a far parte di quel gruppo di sconosciuti costretti a fidarsi gli uni degli altri di malavoglia, sempre e solo tesi verso la cattura di Kira, senza alcuna distrazione. Forse era lo stress. Forse era stufo persino lui del continuo silenzio, delle lunghe ore di appostamento solitario e della tensione onnipresente al quartier generale. 

“Se sapessi di avere pochi giorni da vivere, tu chi saluteresti?” chiese Gevanni, sorprendendo persino se stesso con quella domanda così diretta. 

Sorprendendo anche Near, il quale, abituato a vedere le informazioni come fili preziosi e letali e non volgare merce di scambio da conversazione, rialzò gli scudi, calcolando quali fossero le probabilità che rivelare qualcosa di sé potesse condurre al suo nome (quasi nulle: Watari si era preoccupato di cancellare ogni traccia dei suoi ragazzi, e Near un certificato di nascita non l'aveva mai avuto) e in questo modo mettere a repentaglio l'intera operazione. 

“Tu non sai di avere pochi giorni da vivere. Le probabilità che sia così sono estremamente basse.” 

Gevanni strinse i denti, facendo un visibile sforzo per non rispondergli male. “Allora diciamo che sto facendo i miei conti considerando ogni possibile imprevisto,” e non poté trattenersi dall'aggiungere: “Questo almeno dovresti apprezzarlo.” 

Near gli rivolse un sorriso come una mezzaluna, tutto denti e niente occhi. “Più di quanto tu non immagini.” 

 

Non restava che aspettare. C'erano moltissime cose in cui Near eccelleva, ma aspettare era decisamente in fondo alla lista. Se ci fosse stato un corso di quieta attesa, Near sarebbe stato rimandato a settembre. Non che dall'esterno si percepisse lo scompiglio interiore che gli causava. Forse passava da un gioco all'altro più rapidamente del solito, forse le sue torri di dadi erano più instabili, ma normalmente nessuno avrebbe fatto caso a queste cose. 

Solo che Gevanni sembrava avere un settimo senso specifico per Near e non era mai stato così scandalosamente ovvio. Near si meravigliava del fatto che non se ne accorgessero tutti, persino il falso L, o che non gli telefonasse Roger per ricordargli di non fraternizzare con colleghi e sottoposti. Il fatto era che Near non stava facendo assolutamente niente. Era Gevanni che gli portava nuovi pezzi per la pista del trenino prima ancora che lui li chiedesse, che sembrava dormire persino meno di lui e finiva col preparagli la colazione quasi ogni mattina, che toglieva di mezzo i lego sparsi prima che Near ne calpestasse qualcuno e che lo seguiva con uno sguardo preoccupato, come se si aspettasse di vederlo andare in pezzi da un momento all'altro. Era snervante. 

Quella mattina Near aveva disposto tutti i suoi pupazzetti in formazioni a triangolo, come i birilli al bowling, per poi abbatterli metodicamente con delle biglie. Era supino sul pavimento, di fronte ad una parete in modo che le biglie ci rimbalzassero contro e gli tornassero indietro. Ora cadevano tutte le figurine, ora ne restava in piedi qualcuno: a volte era Near stesso, a volte Kira, a volte altri ancora. Cercando di abbattere X-Kira con un lancio ad effetto, la biglia colpì troppo forte e sgusciò via. Sul bordo del campo visivo di Near, una mano la afferrò. Si sedette, fissando Gevanni in attesa che gli venisse restituita la biglia, ma questi se la infilò in tasca e gli sorrise con aria perfettamente innocente. 

“Colazione? Sono arrivati i bagel freschi stamattina.” 

“C'è anche del salmone?” chiese Near socchiudendo gli occhi sospettoso. 

“Per chi mi hai preso? Ovvio che c'è.” 

Near decise di lasciarsi corrompere. “Col formaggio, ma senza cetrioli.” 

“Eresia,” sibilò Gevanni, ma non discusse ulteriormente l'ordine diretto di un superiore. 

Prima di pensare al cibo, però, Gevanni accese la macchina del caffè. Poi si mise ad affettare i bagel con lo stesso impegno e precisione che aveva messo nel falsificare il Death Note. La parte superiore e quella inferiore erano esattamente dello stesso spessore, in modo che nessuna delle due si tostasse troppo o restasse cruda rispetto all'altra. 

Poco dopo li raggiunse Linda. Guardò la brocca del caffè ormai piena, poi Gevanni e sospirò. “Da sposare.” 

Linda,” rispose lui, allungando esasperato l'ultima sillaba. 

“Dovresti far contenta nonna Chiara, sistemarti,” lo prese in giro lei. 

Gevanni nascose la faccia fra le mani, riconsiderando tutte le scelte di vita che l'avevano portato fino a quel preciso istante. 

“Su, su,” fece Linda, dandogli dei lievi colpetti su una spalla con la mano libera, mentre con l'altra stringeva possessiva una tazza fumante. 

Near li osservava a metà fra la fascinazione e l'orrore. Immaginò che fosse quella la ragione per cui sulle strade si formavano code di curiosi nella corsia opposta ad un incidente. 

“Se vuoi posso fingermi di nuovo tua moglie,” offrì Linda. 

Stavolta anche Gevanni rise, anche se sommessamente. “Non credo che mia nonna ci cascherebbe.” 

Naturalmente Near sapeva che avevano già lavorato insieme. Era per questo che Gevanni era stato invitato a far parte di quel gruppo scelto, unico fra gli agenti a ricevere una simile richiesta. Ma non aveva mai pensato che potesse esserci un rapporto così amichevole fra loro. In quei mesi erano sempre stati freddamente professionali fra loro oltre che con gli altri. Forse l'attesa stava logorando anche loro. O forse, una vocina fastidiosa gli suggerì, lui non aveva mia degnato di attenzione certi dettagli non necessari al caso, e adesso si sentiva tagliato fuori da... qualsiasi cosa fosse quella. 

“Sicuro che non posso reclutarla, questa nonna? Sembra una veramente tosta.” 

Gevanni scosse il capo e posò di fronte a Near un piattino col bagel al salmone affumicato già avvolto per metà in un tovagliolo. 

Linda seguì il tutto con uno sguardo da cecchino e poi prese di mano il coltello a Gevanni ed iniziò a prepararsi la colazione. 

“Vuoi...” 

“Faccio io,” tagliò corto lei. 

 

Mancavano tre giorni, sette ore e una manciata di minuti. 

“Le persone a cui avrei detto addio sono già tutte morte.” 

Nel silenzio della sala, le parole di Near sbatterono contro gli schermi spenti, echeggiarono violente e quasi eclissarono l'esclamazione di sorpresa di Gevanni. 

“Mi dispiace.” 

“Quasi tutti,” ammise Near, “Linda ed io siamo cresciuti insieme.” 

Di nuovo Gevanni rischiò di strozzarsi nell'aria che stava respirando. 

“E se morissi senza salutarla sarebbe capace di evocare il mio fantasma ed essere lei ad infestare il mio aldilà.” 

Gevanni aggrottò la fronte con fare sospettoso. “Quella era una battuta.” 

Near sbuffò e alzò gli occhi al cielo. “L'umorismo è segno di intelligenza,” si sentì in dovere di aggiungere. 

“Anche catturare criminali internazionali.” 

“Anche.” 

Il robot arancione con la testa quadrata sbatté contro Optimus Prime in un cozzare di plastica dura, mentre un Ufo Robot piuttosto malridotto osservava tristemente da bordo campo. 

 

“Giuro,” sussurrò Linda infuriata, “Che se non fai qualcosa prima di subito, ti farò rimpiangere di non essere morto d'infarto.” 

“La cosa non ti riguarda!” rispose Near, alzando persino il tono. 

Linda indietreggiò, scrutandolo torva, a braccia conserte. “Sai cosa penso?” 

Near continuò imperterrito a costruire un fortino di cuscini sul proprio letto, nascondendosi dietro le pieghe del piumone. “È una domanda retorica e me lo dirai lo stesso, che io lo voglia o no.” 

Nella stanza silenziosa si udì distintamente il digrignare di denti di Linda. Poi prese un respiro profondo. E un altro. Ecco perché aveva iniziato con la meditazione, anni prima. 

“Penso,” esordì Linda, sedendosi sulla poltrona di fronte al letto e incrociando elegantemente le caviglie, “Che tu stia cercando di proteggere prima di tutto te stesso,” alzò una mano, palmo verso l'esterno in un gesto pacificante, “Il che è comprensibile. Giusto. Ma in questo caso, credo che tu stia sbagliando su tutti i fronti. Se dovesse morire domani, riusciresti a vivere con il rimpianto? Se non per lui, per te stesso. E se dovesse sopravvivere? Cosa vuoi ricordare, per il resto della tua... della vostra vita?” 

Near voltò lo sguardo, fissando ostinatamente il muro alla destra di Linda. Ma il suo scopo l'aveva già ottenuto, la vipera. 

(In pochi sapevano che gli animali preferiti di Near erano i serpenti.) 

Gli mandò su Gevanni senza aspettare un ordine diretto. 

Questi mise la testa nella porta con fare esitante. “Near?” 

Near, in piedi in mezzo alla stanza, gli fece cenno di entrare. 

“Se sto superando i limiti, hai il permesso di mandarmi a quel paese e non ci saranno conseguenze,” annunciò Near, perché anche se per la prima volta in vita sua non aveva idea di quello che stava facendo, sapeva benissimo di essere ancora un diretto superiore di Gevanni e sapeva anche di aver già perso sin troppi dettagli a causa del suo credersi al di sopra dei rapporti umani. 

Fece un passo avanti, pensando che se avesse avuto il coraggio per questo, fronteggiare Kira sarebbe stato un nonnulla. Priorità. 

Gevanni restava immobile, ma sembrava volesse sorridere. Near gli mise le braccia intorno al collo e si alzò sulle punte dei piedi per raggiungere le sue labbra e baciarlo piano. 

“Ultimo bacio per un condannato?” chiese Stephen, tremando appena. 

“Non dire stronzate.” 

Stephen lo strinse forte a sé. 

 

  
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