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Autore: Violet Sparks    18/06/2021    36 recensioni
Ushijima Wakatoshi pensa di sapere tutto.
Pensa che la sua vita sia una strada dritta, precisa, incontrovertibile. Un percorso duro, forse, ma perfettamente definito, un segmento geometrico con un punto di partenza e un'unica meta, da tenere sempre a mente.
Ma Ushijima Wakatoshi ha dimenticato che, sopra alla strada, esiste il cielo, con un sole bollente che brucia e illumina e non vuole essere ignorato.
La domanda è: lui sarà pronto ad alzare lo sguardo?
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Una notte come tante, dopo la sorprendente sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi incontra Hinata Shoyo in circostante bizzarre ed è costretto a trascorrere con lui la notte più assurda della sua vita.
Wakatoshi prova una ostilità viscerale nei confronti del piccolo corvo e non vede l'ora di dividere nuovamente le loro strade.
Peccato però, che il mocciosetto non sia del suo stesso avviso.
E stia per stravolgere completamente la sua vita.
[USHIHINA - Ushijima Wakatoshi x Hinata Shoyo]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tendo Satori, Wakatoshi Ushijima
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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LE COSE CHE SO SU DI ME

Prologo
 
 
Proprio quando crediamo di aver pensato a tutto,
l’universo ci lancia una palla curva e dobbiamo improvvisare.
Troviamo la felicità in luoghi inaspettati,
ritroviamo la via che ci riporta alle cose che contano di più.
 
L’universo è così strano,
a volte trova il modo di farci finire
esattamente dove dovevamo stare.
- Grey's Anatomy
 
 
 
 
Wakatoshi lo riconobbe nello stesso istante in cui lo vide, non importava quanto buio fosse il vicolo o quanto sangue ci fosse ad imbrattare il suo visetto da bambino.
D’un tratto i suoi occhi si posarono su quella specie di fagotto piegato a terra, tremante e impaurito, e in un attimo la sua mente fu colta da un lampo.
Quello era Hinata.
Hinata Shoyo.
Il corvetto del Karasuno.
Il germoglio venuto dal cemento che lo aveva sconfitto tre settimane fa.

 
Accadde per puro caso.
Una bizzarra concatenazione di eventi, l’avrebbe definita Tendou, un ridicolo scherzo del destino.
Peccato che Wakatoshi, a tutta quella messinscena del destino, non avesse mai creduto granché.
Aveva sempre preferito soffermarsi su altro – l’impegno, il talento, la disciplina – cose su cui poteva effettivamente esercitare il controllo, di cui era sempre possibile prevedere l’effetto, quale che fosse la reazione che le scatenasse.
Eppure...

 
Sulla strada di ritorno, nonostante l’ora tarda della sera, Wakatoshi aveva deciso di comprare una bibita, avendo finito la propria borraccia già a metà dell’estenuante allenamento cui il coach aveva sottoposto lui e la squadra quel pomeriggio, e sentendosi particolarmente disidratato.
Si era fermato nel primo 24H che gli era capitato davanti, tra i mille tutti uguali per la via del centro ormai semideserta. Aveva acquistato una bevanda energetica all’arancia - l’ultima rimasta nel frigo piuttosto spoglio- dopodiché era tornato sul proprio cammino, la borsa della palestra a ciondolargli su un fianco come una vecchia amica.
Stava quasi per imboccare il quartiere di casa, quando lo aveva sentito.
Un tonfo, seguito da un gemito piccolissimo.
Il rosso del semaforo sopra di lui era scattato, permettendo l’attraversamento dei pedoni, ma Wakatoshi non aveva mosso un passo. Si era voltato su se stesso, semplicemente, scrutando perplesso la semioscurità del vicoletto alle proprie spalle, la bottiglia di plastica ferma a mezz’aria davanti alla bocca, la cinghia della borsa stretta tra le dita.
Poi era successo tutto molto in fretta.
Delle ombre si erano accorte della sua presenza, sebbene lui non avesse detto niente né avesse fatto alcunché per farsi notare. C’era stato un vociare confuso, concitato – chi è quell’armadio? Andiamocene via, ho paura! È enorme, sarà sicuramente un poliziotto! Presto, questo ci ammazza!- poi una fuga rocambolesca tra sacchi della spazzatura e cassonetti rovesciati a terra, verso il lato opposto di quel corridoio di asfalto, tetro e maleodorante.
Quando le ombre si erano dileguate, nel bagliore lattiginoso creato dai lampioni, era rimasto un pulcino dal piumaggio caldo come le lingue di un fiamma, la pelle di neve, il musetto sporco di sangue.
“Hinata Shoyo.”
Japan…”

 
Non appena riconobbe Wakatoshi, Hinata ebbe un sussulto talmente violento che parve rimbalzare nell’aria e finire dritto nella pancia del ragazzo più grande, facendogli perdere un battito. Subito si coprì il viso pesto con le mani, come se potesse in qualche modo nasconderlo, prese ad agitarsi sul posto e “Sto bene! Sto benissimo! Non è successo niente!” si affrettò a dire, la voce distorta dalla ferita.
Cercò di sollevarsi in piedi, sebbene gli tremassero le ginocchia, le braccia, lo scheletro.
Si aggrappò al muro puntando i polpastrelli sul calcestruzzo, facendoli quasi imbiancare dallo sforzo, quindi cominciò a trascinarsi su con tutto l’impegno di cui era capace, con tutta la forza che aveva in corpo.
Ma – era evidente- non era neanche lontanamente abbastanza.
Le sue gambe rigide smisero di collaborare all’improvviso, le sue spalle ossute vibrarono come colte da una specie di terremoto interiore e il suo intero corpo venne attraversato da uno spasmo visibile, fortissimo, il quale lo fece sibilare dal dolore e piegare verso l’asfalto.
Wakatoshi balzò verso di lui di puro istinto, afferrandolo per un braccio appena prima che toccasse terra.
Dentro di sé, sentì montare la rabbia – la solita che lo coglieva quando Hinata Shoyo si trovava nei suoi stretti paraggi- ma scelse di non dire niente.
Perché?
Perché quel mocciosetto testardo e incosciente, doveva sempre combattere? Doveva sempre ostinarsi al di là di ciò che era logico o prudente o consentito? Perché doveva sempre insistere e persistere al di là di quelle che erano le sue ridicole capacità?
Lo riportò seduto contro il muro con uno strattone poco gentile, guadagnandosi dal piccoletto uno sguardo di protesta intenso quanto un impropero strillato a pieni polmoni, quindi si accovacciò di fronte a lui, piegando le gambe e reggendo il peso solo sui talloni.
Perfino così pareva gravargli addosso come un uccello rapace.
“Non ti puoi alzare, smettila.” disse Wakatoshi, secco.
Hinata sbuffò nella sua direzione e scrollò le spalle. 
Da così vicino, era più facile constatare l’entità delle sue condizioni: aveva le labbra spaccate e tumide, il naso pieno di sangue, uno zigomo gonfio, la maglietta bianca della sua scuola - la Karasuno- stropicciata e imbrattata di rosso in più parti. In generale non sembrava avere niente di rotto, tuttavia, dal pessimo stato dei suoi vestiti, probabilmente doveva aver ricevuto qualche colpo anche addosso, sul busto e sulle gambe. La borsa della palestra era aperta, abbandonata su di un lato e il suo contenuto era stato seminato dappertutto lungo il vicolo: le scarpette da pallavolo, l’asciugamano, le ginocchiere, il pallone, perfino la sua borraccia da bambino con sopra i cartoni animati che, ormai senza tappo, zampillava acqua sul bitume scuro come un rubinetto difettoso.
Wakatoshi osservò ognuno di quegli oggetti abbandonati per circa un secondo, cercando di immaginare la dinamica degli avvenimenti, poi tornò sull’uccellino malconcio sotto il proprio naso.
C’era qualcosa di estremamente fastidioso nel vederlo in quello stato, qualcosa che rendeva Wakatoshi nervoso, a tratti vagamente inquieto.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva che gli occhi di Hinata fossero diventati così grandi, praticamente giganteschi.
Non gli piaceva il lieve tremito dei suoi polsi sottili come giunchi.
Non gli piaceva il rosso sgargiante del sangue sul pallore della sua pelle ma, sopra ogni cosa, non gli piaceva quel velo di spavento grezzo, autentico, che chiaramente gli stava ristagnando sul volto.
Non gli piaceva perché non era suo, non gli apparteneva, era di troppo.
Era come un lenzuolo abbandonato per sbaglio su una lampada accesa, un ostacolo che ne ovattava la luce e che Wakatoshi avrebbe tanto voluto poter rimuovere, poter scrollare via con la punta delle dita, ma non era possibile ed era così… frustrante.
Quando si parlava di Hinata Shoyo, tutto era sempre terribilmente frustrante.
“Cosa è successo? Chi erano quelle persone?” chiese comunque Wakatoshi.
Il ragazzino abbassò lo sguardo, si rannicchiò nelle sue stesse braccia, “Non lo so, sono sbucati dal nulla! Mi hanno accerchiato e quando ho provato a chiedere aiuto, hanno cominciato a picchiarmi!” raccontò molto lentamente, dovendo fare i conti con lo stato pietoso della sua bocca “Mi hanno rubato tutto, i soldi, il cellulare, perfino la bici…” a quel punto, la sua voce si spezzò e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Wakatoshi si limitò ad annuire in silenzio, mordendosi il retro di una guancia con malcelato disagio.
Non sapeva davvero come comportarsi: Hinata aveva bisogno di cure, ma soprattutto di vicinanza, di conforto, cose che lui non si sentiva certo in grado di fornirgli, considerato che, al di là di una singola partita di pallavolo, non avevano mai condiviso alcuna forma di rapporto.
Anzi.
Hinata Shoyo non gli era mai andato a genio.
Non gli era mai andato a genio affatto.
Una parte nemmeno tanto recondita di Wakatoshi si stava pentendo amaramente di essersi fermato, di non aver semplicemente tirato dritto per la propria strada, invece di seguire quegli strani suoni, ma, adesso che c’era dentro fino al collo, cosa avrebbe dovuto fare? Come avrebbe dovuto comportarsi?
Avrebbe mai potuto abbandonare il ragazzino lì, nelle sue condizioni?
Avrebbe mai potuto girarsi dall’altra parte?
Alla fine, si risolse per fare l’unica cosa sensata che gli veniva in mente in una situazione del genere.
“Hai bisogno di un medico, adesso chiamo un’ambulanza.” affermò laconico, dopodiché recuperò il telefonino dalla tasca dei pantaloni e fece per comporre il numero delle emergenze.
Prima che il suo pollice potesse schiacciare il tasto di chiamata però, il corvetto gli afferrò il polso e lo bloccò.
“Non voglio andare in ospedale, ho detto che sto benissimo!” sbottò con una voce di almeno un’ottava più alta del necessario, salvo poi gemere dal dolore e correre a premersi le labbra martoriate col dorso della mano libera.
Wakatoshi serrò la mascella, profondamente seccato.
“Non stai benissimo, non lo ripetere più.” sentenziò, stanco di quell’atteggiamento del tutto illogico. Provò a sfilare via il braccio, ma Hinata non demorse, al contrario strinse la presa con maggior vigore e infilò gli occhi liquidi nei suoi in una supplica tremolante.
Somigliava a un passero sferzato da una tramontana.
La sua pelle era calda e leggermente sudata, mentre le sue dita erano lunghe, sottili, disseminate di piccoli calli che sfregavano sul braccio di Wakatoshi facendogli il solletico.
Se soltanto avesse voluto, l’asso della Shiratorizawa non ci avrebbe messo niente a levarselo di dosso - gli sarebbe bastato imprimere un briciolo di determinazione nell’atto, strattonare l’arto imprigionato con maggior decisione -  il problema era che Hinata sembrava talmente fragile in quel momento, talmente piccolo, da dargli l’impressione di potersi rompere al minimo tocco, per cui Wakatoshi scelse di rimanere immobile come un blocco di marmo. 
“Non ti devi preoccupare per me!” insistette ancora il piccolo, testardo.
“Non mi sto preoccupando per te. Sto valutando i fatti e sto facendo la cosa più razionale.”
“Non ce n’è bisogno, adesso mi alzo e vado a casa!”
“Non ti reggi in piedi. Non riuscirai mai a tornare a casa da solo, devi essere portato in ospedale.”
Quelle parole parvero colpire Hinata in maniera quasi fisica, perché sobbalzò sul posto neanche se qualcuno gli avesse appena tirato uno schiaffo e sgranò gli occhi nocciola. “Ti prego, io… non mi piacciono gli ospedali, mi fanno paura…” disse quindi, in un sussurro lievissimo che Wakatoshi fece fatica a captare nonostante i pochi centimetri di distanza.
Dinanzi a quella confessione, il più grande non poté impedirsi di aggrottare la fronte, in un misto di perplessità e insofferenza. “È una paura stupida.” affermò, con estrema durezza “Gli ospedali servono a curare le persone, a farle stare bene. Non c’è niente di cui avere paura.”
Un sillogismo perfetto, una costatazione tanto ovvia che Hinata boccheggiò, non sapendo bene come rispondere, e fu proprio allora che Wakatoshi ne approfittò per liberarsi dalla sua presa e schiacciare il tasto di chiamata.
Pensava che la questione si fosse chiusa lì, che Hinata si fosse finalmente arreso all’evidenza della questione e avesse accettato di farsi visitare, invece, non appena il centralino rispose dall’altro capo della cornetta, quello si rianimò all’improvviso, saltò in avanti come una molla cercando di afferrargli il telefono e cominciò a strillare.
“Maledetto Ushiwaka! Ho detto di no! No! Non ci voglio andare in ospedale! Metti giù immediatamente! Metti giù! Metti giù!”
“Stai fermo, per favore.”
“Riattacca il telefono! Riattacca subito!”
Wakatoshi era senza parole, del tutto allibito dai modi infantili, chiassosi e sconclusionati di Hinata Shoyo.
Ad un certo punto, fu costretto perfino ad alzarsi in piedi pur di mettere un po' di distanza fra sé e il terremoto umano che gli si era scatenato di fronte, ma con sua grande sorpresa il moccioso non demorse, lo seguì a ruota, continuando a dimenarsi, a gridare, a inveire, il tutto con una energia dirompente che davvero non capiva da dove stesse tirando fuori, visto che non riusciva a mantenersi dritto fino a un attimo prima.
Mentre forniva all’operatore le informazioni necessarie, sentiva i suoi pugni minuscoli infrangersi contro il suo petto, le sue unghie corte aggrapparsi alla stoffa della felpa che aveva indosso per tirarla, strattonarla, attaccandosi alla stoffa pur di arrivare al cellulare.
Wakatoshi continuò a parlare senza lasciar trapelare niente, in modo chiaro, preciso, privo di inflessioni.
La verità era che nessuno di quei colpi lo stava davvero scalfendo davvero. In confronto alla sua ingente stazza fisica, la forza di Hinata Shoyo appariva quasi ridicola, il suo accanimento non era altro che goffo, imbarazzante, patetico.
Eppure, era esattamente per quello che Wakatoshi stava ribollendo dalla rabbia.
Quando chiuse la chiamata, si voltò verso il ragazzino lentamente, ma inchiodandolo con uno sguardo così carico di ostilità che quello si placò all’istante, senza che Wakatoshi dovesse proferire una singola parola.
“Io… io…” balbettò in difficoltà, mentre lasciava andare la felpa e retrocedeva di qualche passo, a capo chino “Tu non capisci, Japan… non puoi capire…”
“Sei un bambino.”
L’asprezza nella risposta dell’asso dovette arrivare nel petto del corvetto con la spietata precisione di una freccia, perché sussultò sul posto e riservò al più grande un’espressione ferita “Non mi conosci! Non puoi parlarmi così! Non sei tanto più grande di me! E poi io n-“
Non riuscì a terminare la frase.
All’improvviso, il suo corpo minuto tremò come fosse stato colpito da una potente scarica elettrica che lo fece guaire dal dolore. Barcollò all’indietro fino a cozzare la schiena contro il muro sucido, si piegò sulle ginocchia e sputò un fiotto rossastro di sangue e saliva.
“Ti sei aperto la ferita sul labbro. Ti avevo detto di non agitarti.” affermò quindi Wakatoshi, severo, non riuscendo per la seconda volta a dissimulare la propria irritazione.
Non si era mai sentito così in tutta la sua vita.
Era sempre stato un ragazzo paziente, equilibrato, controllato nelle sue emozioni e nelle sue decisioni.
Non aveva mai perso la calma di fronte a niente e a nessuno, nemmeno di fronte agli avversari più scorretti e meschini, quelli che dall’altra parte della rete gliene dicevano di tutti i colori, minacciandolo, insultandolo, mossi dalla solita dose di frustrazione e d’invidia verso la sua forza invincibile.
Solo Hinata Shoyo possedeva la capacità di smuoverlo in quel modo.
Solo quando lui gli stava davanti -con quella sua espressione caparbia e impunita - Wakatoshi avvertiva il malsano impulso di colpire qualcosa, ripetutamente, a suon di pugni. Il desiderio impellente di distruggere le cose e poi disfarle e poi rimetterle nell’ordine che avrebbero dovuto avere.
Il bisogno di voler forsennatamente dimostrare qualcosa.  
Tuttavia.
“Siediti.” ordinò Wakatoshi e prima ancora che Hinata potesse obiettare, solo a vederlo sfarfallare le ciglia nella sua direzione, interdetto, gli circondò la vita con un braccio, lo spostò di peso e lo fece mettere seduto contro il muro. Come era prevedibile, il corvetto si agitò nella sua presa cercando di sgusciare via, di divincolarsi, ma a un certo punto, semplicemente sospirò e si lasciò manovrare da lui, tenendosi alle sue spalle, gli occhi nocciola sfiniti e bagnati di lacrime.
Vibrava come una foglia nel gelido inverno.
Teneva le mani raccolte a coppa sul muso per raccogliere il sangue, aveva piegato le ginocchia verso il petto e se ne stava ricurvo, rannicchiato neanche cercasse di scomparire.
Wakatoshi lo osservò in silenzio, sentendo qualcosa di indefinito gravargli dentro, all’altezza dello sterno, tuttavia decise di non soffermarcisi. Piuttosto, si accovacciò nuovamente di fronte a Hinata, aprì il suo borsone della palestra e ne estrasse il primo indumento pulito che gli capitò a tiro: una maglietta di ricambio che non aveva utilizzato durante gli allenamenti.
Quando gli afferrò il mento per rivolgerlo nella sua direzione, il corvetto spalancò gli occhi e lo guardò in un misto di terrore e sorpresa, neanche si aspettasse che Wakatoshi volesse fargli del male. Si rilassò soltanto nell’istante in cui l’altro ragazzo gli scostò le mani con un movimento gentile ma fermo, e al loro posto premette la stoffa intonsa del proprio indumento.
Il bianco del tessuto, in contrapposizione al sangue e allo sporco del viso del più piccolo, gli causarono un brividio lungo la schiena.
“No… non c’è bisogno…” borbottò Hinata, la voce impastata dal dolore e dalla stoffa morbida sulla sue labbra.
Si girò dalla parte opposta nel tentativo di scansarsi, tuttavia Wakatoshi glielo impedì categoricamente, stringendo le dita sulla sua mascella.  
Era la prima volta che lo toccava in maniera così diretta.
“Non parlare.” ordinò l’asso della Shiratorizawa, poi emise un lungo sospiro.
Le lacrime di Hinata, che d’un tratto cominciarono a bagnargli le nocche, sembravano bollenti come lava.

 
L’ambulanza giunse qualche minuto dopo e il sollievo che provò Wakatoshi nel vedersi sottrarre la responsabilità del ragazzino, non aveva eguali nella storia.
I paramedici fecero alzare Hinata dal marciapiede molto lentamente, lo condussero nel retro dell’ambulanza, dove lo avvolsero in una pesante coperta celeste, dopodiché passarono a esaminare le sue condizioni con estrema cautela: come Wakatoshi aveva sospettato, aveva riportato un bel numero di ecchimosi ed escoriazioni, una contusione al naso e un taglio profondo al labbro che avrebbe avuto bisogno di qualche punto ma, nel complesso, non pareva aver riportato danni gravi.  
Ad ogni modo, lo avrebbero portato in ospedale per i dovuti accertamenti e tutte le medicazioni necessarie.
Sotto le luci intense del vano posteriore dell’ambulanza, i paramedici elargivano a Hinata sorrisi calmi e rassicuranti, lo aiutavano a ripulirsi le mani e il viso, gli dicevano parole di conforto, carezzandogli i capelli con movimenti pacati. Anche il poliziotto accorso insieme a loro – un uomo giovane, sulla trentina- gli parlava con dolcezza, mentre continuava a fargli domande sull’accaduto, prendendo appunti su un taccuino di cuoio.
Solo Wakatoshi rimaneva piantato sul marciapiede, a qualche metro di distanza, incapace di muovere i piedi e allontanarsi da quella scena, sentendosi un pesce fuor d’acqua.
Aveva ancora la maglietta macchiata del sangue di Hinata stretta tra le dita.
“Signor Ushijima Wakatoshi?”
Una voce incerta lo distolse dai suoi pensieri.
Wakatoshi volse la testa di lato: sotto il suo naso, una ragazza minuta coi capelli castani legati in una coda e un paio di occhiali squadrati e bordati di nero, lo fissava dal basso della sua statura col collo niveo talmente teso da lasciar trasparire le linee viola delle vene.
Sembrava intimorita da lui, neanche fosse al cospetto di una bestia feroce pronta di attaccarla.
Succedeva spesso.
Wakatoshi ormai ci era abituato.
“Sì, sono io.” rispose comunque, accennando un inchino verso di lei.
Il paramedico indietreggiò di istinto, ma poi si schiarì la gola e cercò di ricomporsi. “È davvero una fortuna che lei sia arrivato a salvare il suo amico. Quei tipi avrebbero potuto fargli molto male.” affermò, gentilmente, accennando perfino un lieve sorriso.
Wakatoshi si limitò a sbattere le palpebre, “Noi non siamo amici ed io non l’ho salvato. Mi sono semplicemente girato.” disse, del tutto atonale.
La giovane lo fissò vagamente stranita, inclinando la testa verso la spalla, come se la stretta logica di quelle parole la lasciasse comunque perplessa. “Ad ogni modo…” continuò, incerta “mi chiedevo se potesse seguirci in ospedale.”
“Perché?” fu la domanda fulminea dell’asso “Non sono un suo familiare e ho già detto tutto quello che sapevo all’agente e agli altri paramedici.”
“Sì, sì, certo! Ed è stato davvero molto gentile!”
“C’è altro che devo fare?”
“No, tendenzialmente no… il fatto è che…” la giovane donna abbassò il capo, dondolò il peso da un piede all’altro con una certa agitazione, poi si arrischiò a lanciare a Wakatoshi un’occhiata furtiva da sotto le ciglia chiarissime “Il fatto è che Hinata è ancora molto spaventato, signor Ushijima, anche se cerca di non darlo a vedere.” spiegò, sospirando “Non riusciamo a contattare i suoi genitori in alcun modo e non avendo più il cellulare, ha perso tutti i contatti. È da solo, e credo che non gli piacciano molto nemmeno gli ospedali. So che non siete amici, ma a quanto pare vi conoscete e… beh, io… io credo che lo tranquillizzerebbe avere accanto un volto a lui… famigliare…”
Il respiro di Wakatoshi si arrestò, mentre il suo cervello incanalava una ad una le parole del paramedico.
Si girò verso Hinata.
Per l’ennesima volta in quella serata, sentiva se stesso diviso da istinti contrastanti, emozioni violente ma contrarie che lo tiravano da una parte e dall’altra, scombinando quell’equilibrio che aveva sempre fatto parte della sua persona.
Il lato di lui più razionale gli suggeriva semplicemente di andarsene, di declinare educatamente la richiesta del paramedico e mettere più distanza possibile tra sé e quel ragazzino turbolento con gli occhi troppo grandi, capace di dargli sui nervi come nessuna cosa al mondo, eppure, c’era qualcosa -un istinto sottilissimo come un prurito- che gli impediva di muoversi, di distogliere lo sguardo, di far finta di niente.
Di tornare sulla sua strada.
“Va bene.” pronunciarono le sue labbra, prima ancora che la sua testa avesse davvero generato una decisione. “Vengo anche io in ospedale.”
 
 
 





 
NOTE AUTORE
  • ATTENZIONE! La storia non segue la linea temporale dell’opera originale! Lo scontro fra il Karasuno e la Shiratorizawa è stato disputato nel mese di giugno/luglio, dunque gli eventi del prologo si svolgono all’inizio delle vacanze estive. Il campo della Shiratorizawa in cui Hinata si autoinvita e viene relegato al ruolo di raccattapalle ha una durata di quattro settimane.
  • Wakatoshi definisce Hinata piccolo, ragazzino etc. perché è così che lui lo vede, sia a livello caratteriale che a causa della loro differente stazza fisica (ricordiamo che fra loro ci sono quasi 30 cm in altezza e soprattutto 33 kg di muscoli di differenza!). Come ben sapete, i due sono quasi coetanei, hanno poco più di un anno e mezzo di differenza.
  • Per la trascrizione del nome di Hinata, è stata scelta la versione Shoyo (e non Shōyō o Shouyou) per questione di semplicità.
 
ODDIO RAGAZZI! CI SIAMO, NON CI CREDO!
Scusate lo sclero, ma era da un po' che avevo in ballo questo progetto e vederlo finalmente pubblicato mi riempie di adrenalina! Mi rendo conto che la USHIHINA non è una coppia particolarmente seguita nel fandom di Haikyuu, eppure io me ne sono innamorata non appena ho visto la terza stagione e sono convinta che abbia un sacco di potenziale!
Il fatto è che, mi interessava molto studiare il personaggio di Ushijima Wakatoshi -di solito così serio e stoico- e trovo affascinante vederlo alle prese con Hinata Shoyo, la persona a lui più antitetica del pianeta!
 
Credo che Hinata scateni qualcosa nel suo animo, tiri fuori delle parti recondite, degli istinti che nemmeno Ushijima comprende a pieno e vorrei tanto essere in grado di analizzare e raccontare questa crescita!
Ci riuscirò? A voi l’ardua sentenza!
Sappiate che focalizzarsi sull’introspezione di Ushijima non è affatto facile ^^’’ mi sto facendo mille pare mentali! Spero di non andare troppo OOC con lui e mantenermi quanto più in linea possibile col canone, ma mi sto addentrando in luoghi oscuri e inesplorati, quindi diciamocelo apertamente, questo rischio c’è! U.u
 
Okay, adesso la smetto davvero!
A presto!
 
Violet Sparks
 
   
 
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