Fanfic su attori > Tom Hiddleston
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Autore: _Recneps    19/06/2021    0 recensioni
[...] i suoi occhi celesti vagano fino a quando due sguardi che non hanno nulla di accidentale s’incrociano, incastrandosi in una muta intesa che ha ancora il sapore di amara testardaggine, sfrontata rabbia e velenoso orgoglio. Ma ci vogliono soltanto pochi secondi prima che entrambi capiscano di aver nuovamente messo in gioco le reciproche difese, la stoltezza che nega a ciascuno di vedere la realtà dell’altro e le confortevoli forme d’astio con cui sventare ogni possibilità di intima comunicazione. Bastano pochi secondi in più, un eccesso di tentennamento da parte di entrambi e la concreta incapacità a tornare sulle proprie strade: uno schiocco spaventosamente chiaro. Tom vede Ris e Ris vede Tom. Non possono far altro che sciogliersi con una scarica di parole che non prenderanno mai forma, con un reciproco e silente perdono. Pensieri trattenuti, ma non abbastanza: iniziano a fluttuare in un che di sospeso di cui entrambi sentiranno, in un modo o nell’altro, la carezza di fumo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Prologo
 
 
Luci soffuse. Corpi sudati. Urla. Il respiro pesante e il sapore metallico del sangue. Ris sorride con la testa china, percependo le spinte di mani estranee. Si lascia cullare per un momento dall’agitazione di quelle dita che le premono sulla schiena, reclamando voraci altro di quel becero spettacolo. I capelli castani le ondeggiano di fronte al viso, improvvisamente troppo pesanti per riuscire ad alzare lo sguardo verso la voragine infernale che continua a inseguire come un cane rabbioso. Le mani sono indolenzite e le gambe – troppo fragili, cazzo, sempre troppo fragili – attraversate da spasmi: uno spaventapasseri crocefisso, sferzato da raffiche inclementi. Un corpo che la supplica di smetterla, ma un corpo che vorrebbe solo mettere a tacere.
Lei sorride ancora e inizia a sentire i pensieri confondersi in un vortice, perdendo lentamente il senso di ciò che la circonda: il rosso delle corde che delimitando quel sudicio palcoscenico; il rumore dei passi della sua carnefice, quella che si è scelta con cura, come tutti i predatori che ha lasciato cadere nelle proprie trame, nei propri miseri intenti; la musica soffusa che proviene dal salone accanto, ignaro di quanto accade oltre la porta di ferro battuto, oltre le tende di velluto, oltre le mani che accarezzano corpi inebriati dall’alcol, sguardi che si cercano per amarsi, vite dolcemente cullate da una notte che rende invincibili ed eterni. Ris non le invidia più, quelle esistenze che cercano sprazzi di gioia illusoria e felicità terrena, quei suoi simili pieni di paure e che, nonostante tutto, continuano a vedere il buono. Ris non ha bisogno di sentirsi invincibile: vuole perdere, perdere fino a stramazzare a terra. Che quel dolore taccia, taccia per sempre, sommerso da lividi e punti di sutura. Che arrivi il colpo di grazia: oh ti prego, fallo ora.
Le palpebre si fanno sempre più pesanti, ma lei solleva comunque gli occhi lucidi, stremati, verso l’espressione confusa della ragazza che ancora tiene la guardia alta, come se Ris potesse – volesse – colpirla da un momento all’altro. 
La combattente ha la fronte sudata e i capelli biondi strisciano alla base del collo, appiccicati come serpi. Illusa: pensava realmente di trovarsi al cospetto di una valida avversaria che l’avrebbe messa a dura prova, o che almeno ci avrebbe provato.
Ris non trattiene una risata amara quando si rende conto, per l’ennesima volta, di aver vinto la sua battaglia personale, incomprensibile agli occhi affamati che la circondano.
La vista inizia a farsi sfocata: il sangue cola copioso dal sopracciglio lacerato, impedendole di vedere con chiarezza l’ingenua rivale abbassare le braccia lungo i fianchi, ora consapevole di essersi messa in gioco per una vittoria che le era stata regalata fin dall’inizio.
Ris fa un semplice cenno con la mano, incoraggiandola al colpo finale. Brama il momento in cui il suo corpo si stenderà sfinito a terra, incapace di sentire o reagire. Lei, così brava ad addomesticare quello sprovveduto istinto di sopravvivenza, vince ancora la sua medaglia, la cintura di chi non teme la sconfitta, il dolore fisico, l’umiliazione, l’incertezza di risvegliarsi e non ricordare, l’eventualità di non riaprire un paio di occhi stanchi, intossicati e ormai folli.
Percepisce le conseguenze del suo raggiro riempire l’aria cupa di quel luogo abbandonato, una scossa elettrica che la diverte ancora di più mentre annega nel bruciore dei colpi incassati, nella confusione dei volti che si sovrappongono, nel vuoto che sfigura la percezione di spazio e tempo.
Le arriva dritto sotto il mento, quel destro misericordioso.
Inizia a indietreggiare malferma e chiude gli occhi ancora prima di lasciarsi cadere, mentre la folla di avvoltoi esplode in un boato. Avverte urla che si sovrappongono e imprecazioni concitate. Le sembra anche di sentire il suo nome prorompere come un tuono, prima che delle mani frenino il suo crollo. Conosce quella presa, l’unica di cui si fida e l’unica a cui ha provato ad aggrapparsi, riconoscendone le buone intenzioni che nega al resto del mondo.
Dita esperte le sollevano le palpebre per assicurarsi che sia ancora cosciente. Lo è, più o meno.
Lo è tanto da riconoscere il volto furente, terrorizzato e deluso di Bruce.
La prima volta che ha scorto quei lineamenti duri e al tempo stesso rassicuranti era ridotta nelle stesse condizioni: lividi, dolore e sangue. In quella notte, però, non era stata lei a cercare la sua disfatta: aveva conosciuto la sofferenza di chi perde parte della propria anima, sottratta con la violenza di un male primordiale. Era stata soccorsa da Bruce, consapevole di essere stata uccisa per poi venir rigettata nella vita.
E ora si sente sollevare nello stesso modo, trovando in quel riparo di carne e ossa il via libera per le lacrime di cui si vergogna, le stesse che protestano per poter liberarsi dalla trappola di un paio di occhi tumefatti.
Tempo e spazio rimangono inafferrabili, ma il battito frenetico del cuore che avverte tra le mura di quel petto su cui è abbandonata le suggerisce che sta tornando a casa. Forse non è nemmeno il termine giusto a cui dovrebbe pensare, ma è sicuramente ciò che più si avvicina all’idea di una famiglia, di un affetto che non si è ancora stancato di proteggerla, di spronarla, di raccoglierla dalla sua miseria, di credere nella sua forza. Un amore senza definizioni e testardo. Sguardi, carezze e parole che ogni giorno tornano a lavorare su quell’armatura in cui ancora vacilla, troppo spaventata per affrontare quel mondo che si è tinto di disgusto in una notte ormai lontana e sempre troppo vicina.
Perde e riacquista coscienza di continuo, in una lotta sfiancante che non vorrebbe nemmeno portare avanti.
Vede il tettuccio della macchina e riconosce l’odore dei rivestimenti in pelle. Scorge il mondo e i lampioni che illuminano le strade scorrere oltre il finestrino, mentre il profumo di Bruce riempie l’abitacolo, cullandola.
Un attimo – o minuti, ore – dopo percepisce dei colori e un odore familiare, le forme della sua palestra, il cigolio dei gradini di legno che portano all’appartamento di Bruce, il ramo confortevole su cui Ris ha ricostruito il suo nido fin dalla sua ingiusta resurrezione.
Lui si prende cura di lei, come sempre.
Ris non ha bisogno di rimanere all’erta. Il sospetto e la paura tacciono.
Riesce a tenere gli occhi aperti e lo guarda compiere movimenti automatici, entrambi seduti sulle piastrelle fredde del bagno. La testa poggia al bordo della vasca e il suo volto esangue non si piega nella minima smorfia quando il disinfettante si infiltra tra le ferite.
Bruce non la guarda negli occhi, sfinito dall’ennesima delusione. Non lo ammetterebbe mai, ma Ris la vede: lì, in agguato tra le sfumature nocciola dei suoi occhi. Eppure, non si ferma un secondo. La controlla con la precisione di chi è cresciuto prendendosi cura dei propri lividi, passando poi a ripulire le sconfitte di chi passa sotto la sua ala. Ma lei ci è rimasta, sotto quell’ala.
Da tre anni saltella su quel ring senza un orario da controllare, senza dover tornare a casa in tempo per la cena. Lui la allena con la determinazione di un coach che fa a pugni con l’affetto e l’amore troppo simili a quelli di un padre. Quando lotta con i suoi allievi, Bruce la osserva con la speranza di vederla trionfare e la paura che si ferisca, un timore che non aveva mai assaporato e con cui deve ancora prendere le misure. Un’angoscia che lo costringe a negarle lo stesso trattamento che riserva al resto degli scapestrati che bazzicano nella palestra che porta il suo nome: lei lo supplica di organizzarle un incontro, uno di quelli veri, e lui nega, nega e nega ancora.
Ora Ris lo guarda colpevole: lui prova a salvarla fin da quella notte e lei cerca continuamente di cancellare la sopravvivenza che le è stata concessa; o quantomeno di renderla silente. Perché è così dura la risalita, così abbagliante, così rumorosa, così caotica. E lui continua a spingerla un gradino dopo l’altro, impedendole di tornare indietro. Ma lei ci ricasca, qualche volta: arretra di qualche passo quando non la vede, quando è distratto, quando sa che può fregarlo.
Ma, come in quel momento, lui torna a raccoglierla e le dà un’altra spinta.
La riaggiusta come meglio può, la ripulisce dal sangue, la rinfresca con del ghiaccio, le prende la mano e l’accompagna di nuovo su quel gradino.
Non si arrende, nemmeno alle tre di notte dell’ennesima ricaduta: la stende tra le lenzuola di quella camera improvvisata che ha ancora le sembianze di uno sgabuzzino per sacchi da boxe e le passa una mano tra i capelli.
Si accorge, tuttavia, di essere più debole delle altre volte. Fa per voltarsi e rifugiarsi nel suo ufficio fino all’alba, per distrarsi tra conti e programmi lasciati in sospeso, ma si rende conto di non farcela. La guarda dal suo metro e ottantatré, le braccia che penzolano ai lati del corpo e le palpebre a trattenere con forza delle lacrime che non riesce più a soffocare. Poi sente quelle dita sottili avvolte da cerotti prendergli la mano. Lei tiene ancora gli occhi chiusi e Bruce si sente libero di lasciarsi andare. Mentre un pianto silenzioso solca sentieri umidi sul suo viso, si siede accanto al letto, poggiando il capo sul materasso e avvicinando la mano di Ris alle sue labbra. Le lascia un bacio che sa di “ricominciamo domani” e si addormenta in una posizione che il giorno dopo lo farà imprecare.
Le lacrime smettono di correre, ma la sua mano rimane intrecciata alla promessa chi si è fatto, alla vita che non vedrà crollare, alla lotta di cui non ammetterà alcuna sconfitta.
   
 
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