Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Snehvide    19/06/2021    3 recensioni
Lo sguardo rimbalza sul pavimento, poi sulla la fiamma immobile del lume sul comodino, sulla grande borsa di tela scura che la caposquadra Hange, in pigiama e giacca da camera, ha trascinato con sé prima di abbandonare il suo alloggio e seguirlo.
Su qualunque cosa non siano le labbra di Marco, così costanti nel gracidare quei suoni sconnessi da un lato e poi dall’altro del cuscino che oramai, Jean dubita seriamente siano in grado di formulare qualcosa di concreto.
Di spalle, su di un ritaglio del letto, Hange assorbe quelle parole con la stessa concentrazione di chi tenta di decriptare dei messaggi nascosti, per poi annunciare, contro ogni aspettativa, un insulso ‘è la febbre, Jean’
Già. È la febbre. E anche una valanga di tante altre cose, o meglio, di non-cose – come ad esempio il suo non-più braccio , il suo non-più occhio, il suo non-più-Dio-solo-sa-cosa.
Grazie tante.
[What-if: Alive!Marco] [Jean/Marco] [Hurt/Comfort a manetta]
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanji Zoe, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Never forget we were built to last

- III parte -

 

“Sei riuscito a fargli bere qualcosa?”

Hange batte con le dita l’incavo dell’avambraccio di Marco, ma neanche questo sembra funzionare.

“Un po’—” Jean china gli occhi, “Quasi nulla, in realtà—”

Il silenzio in cui piomba la stanza è interrotto solo dal lieve frusciare dell’uniforme fresca da lavanderia della scienziata, che si muove con una lentezza che non si addice alla frenesia di pochi minuti prima, quando la stanza era sembrata essere lì dall’esplodere.

Hange porta la cinghia emostatica su un punto più alto, ci riprova. Aguzza gli occhi miopi, si china per vedere meglio: il pollice e l’indice sembrano effettivamente aver bloccato qualcosa sotto quella pelle arida, e Jean ne segue tutti i movimenti con la coda dell’occhio, in segreto, come fosse qualcosa che non dovrebbe fare.
Allinea l’ago della siringa, si addenta il labbro inferiore, crede di avercela fatta. Poi però, delusa, è costretta a tornare in fretta sui suoi passi prima ancora di bucare.

 “Andiamo, dove sono finite le tue vene, Marco?”

E Jean, con le unghie conficcate contro la propria nuca e i gomiti fissi sul davanzale, affida una imprecazione all’aria fresca; la stessa che gli pizzica il naso e la gola, e lo aiuta pure a giustificare quegli occhi ancora gonfi e arrossati più di quanto non riesce a fare da sé.

“Trovata!” l’entusiasmo della caposquadra non lo contagia neanche quando la sente esultare, ma lo fa il modo in cui, lentamente il boccheggiare sofferto di Marco cede il posto ad un respiro più regolare, che in qualche modo, sembra riuscire a fa respirare anche lui. Sbircia di nuovo.

“Si era nascosta bene, la signorina. Ma alla fine, sono riuscita a stanarla lo stesso, hai visto?”

Jean affonda di più le dita alla testa.

“Va già meglio, non è vero?” Hange preme un dito contro la giugulare sul collo e una garza nel gomito adesso piegato, e, diavolo – ha quasi l’impressione che Marco le annuisca davvero, quando porta la testa dall’altro lato del cuscino, e tira un sospiro di sollievo talmente lungo e profondo che sembra poterlo liberare da qualsiasi sofferenza.

“Lo so, lo so, è una bella sensazione—” Fiduciosa, la scienziata lascia scivolare le dita tra i capelli di Marco un paio di volte, per poi percorrere con lo sguardo tutto il suo corpo, e Jean non ce la fa a guardare oltre, perché se lo facesse, sarebbe come sentirla passare in rassegna le sue colpe ad una ad una, ritrovandole su quel corpo come trofei.

“Hai fatto un buon lavoro con l’unguento,” dice a un certo punto, e Jean sa che sta spudoratamente mentendo.
Strizza gli occhi forte quando Hange rincara il commento con un ‘dico davvero!’, e ancora più forte quando sente il familiare fruscio del lenzuolo inamidato librarsi nell’aria.
Marco geme. Sibila un ‘no’ spezzato a cui Hange risponde prontamente con l’ennesimo shhh, va tutto bene’.

Ed è troppo.

“Maledizione,” sbriciola tra i denti e tra i bagliori dietro le palpebre che il vento freddo gli gela, facendo condensare le lacrime agli angoli degli occhi.

“Jean—”

Piega il mento sino a sfiorarsi il petto. Tra poco sentirà Hange ripetergli di nuovo la solita tiritera che gli ha già detto al suo ritorno, quando lo ha trovato di fianco al letto, accovacciato sui talloni, con la testa tra le mani.
E non ha voglia di stare a sentirla ancora.

“Coraggio, vieni qui a darmi una mano con Marco.”

Le palpebre sembrano non bastare più. Porta direttamente i palmi sugli occhi, strozza un singhiozzo.

“Quei punti avrebbero ceduto lo stesso, te l’ho già detto—”

“Aveva detto che non lo avrebbero fatto—” viene fuori malissimo.

“Beh, mi sarò sbagliata. Sarò stata troppo fiduciosa nei macellai di Trost. Hai visto anche tu in che modo lavorano, no? Dai, vieni qui.”

Marco geme, e geme ancora. Ci mette più enfasi questa volta; più energia.
Il tonfo ovattato del lenzuolo che si affloscia sul pavimento lo agita, rendendolo incredibilmente loquace.

“No, non fare così, Marco. Non ti farò del male. Guardo soltanto—”

Jean sorride beffardo.
Hange dovrà impegnarsi molto di più se vuole convincerlo.
Perché gli ha fatto un male cane quando, in preda al panico, lo ha sollevato, smanacciato, spostato senza alcuna delicatezza per avvolgergli maldestramente quel lenzuolo intorno alla vita e tamponare il sangue.
Non credeva fosse umanamente possibile sentire urla peggiori di quelle che gli avevano causato all’ospedale di Trost, ma dovette ricredersi.

“No-n toglierlo, ti prego! Reiner!

“Guardo soltanto, promesso. Guardo soltanto—” ribadisce ancora, pacata e affettuosa come Jean non l’ha mai sentita, ma Marco continua a lamentarsi e delirare con dei picchi che lasciano intendere che Hange stia facendo altro dal semplice guardare così come sostiene, ed è all’ennesimo lamento che Jean si volta di scatto, pronto ad aggredire quella scienziata di merda che si improvvisa medico, anche lì, anche all’istante – perché ci ha già pensato lui con la sua stupidità a massacrarlo, e Marco non può ancora soffrire. Semplicemente, non può.
Lei è qui per farlo stare meglio, non per farlo gridare in quel modo, e cazzo.
Cazzo.

“Bravo, lascialo a me, questo—”

L’ultimo lembo di lenzuolo dalle dita tremanti, Hange lo sfila via solo quando Marco, finalmente, allenta la presa.
Ed è una scena a cui non è preparato; a cui la sua rabbia non sa rispondere.
Come paralizzato, sente il proprio respiro affannoso montare, gli occhi tornare a pungere.
Hange lascia di nuovo scivolare le dita tra le ciocche appiccicose di Marco, e senza attendere che i suoi lamenti si plachino, se ne esce con l’ennesimo ‘Sei stato bravo’, ‘Va tutto bene’, e altre frasi patetiche che Jean non capisce, ma che sfiorano qualcosa dentro di lui, in zone del suo petto che non conosce.

 “N-non abbiamo neanche…neanche parlato—” singhiozza sommesso.

“Che—che cos’ha?” Non sa neanche perché lo domandi. Forse, ha a che fare con quel modo strano con cui Hange ha aggrottato le sopracciglia, e che proprio non gli piace.

“Ha bisogno di te, Jean. Ecco cos’ha.”
Ammette la sconfitta con un sospiro: “Ha paura. È letteralmente terrorizzato. Se non si rilassa, anche l’antidolorifico che gli ho dato sarà del tutto inutile—”

Jean chiude gli occhi. Di nuovo. “Chi avrebbe voglia di vedere colui che lo ha praticamente ucciso—?”

Solo a quella frase Hange solleva il volto, gonfia le guance in un modo con cui era solito a fare anche lui da bambino, poi sbuffa.


“Per quanto ancora hai intenzione di piangerti addosso per questa storia? Non lo hai ucciso. Non è neanche detto sia stata colpa tua se quelle suture sono saltate! E poi, guardalo!” indica Marco con un cenno della mano, il torace lucido di sudore che si abbassa e si alza ad un ritmo spezzato dai singhiozzi, ma tutto sommato, regolare, la fronte aggrottata, ma non più chiusa in quella smorfia di agonia che ormai sembrava esser diventata un suo marchio di fabbrica. “Gli hai anche fatto guadagnare una dose di antidolorifico non prevista, penso sia il primo a ringraziarti!"

Jean pensa sia l’ennesimo tentativo di Hange di apparire gentile e risollevargli il morale, ma non ha il tempo di rifletterci più di tanto, perché la scienziata ha già terminato il tempo a disposizione da dedicare ai suoi piagnistei.
Sostituisce la pezzuola abbandonata in un angolo dietro al cuscino con una pulita, la immerge nell’acqua del bacile, tampona la fronte di Marco ripulendola dal sudore.

“Continua tu con le spugnature,” gli ordina, porgendo tutto a lui.

E Jean si avvicina timido, quasi furtivo. Senza incrociare il suo sguardo, fa trovare a Marco la mano che cerca tra le pieghe del coprimaterasso, e si vergogna a morte quando questa si avvinghia a lui come se gli perdonasse più di quanto lui sia disposto a perdonare a sé stesso.
Non emettere alcun suono anche quando la stretta diventa eccessiva, perché Dio – Dio, quanto cazzo scotta.
E quanto cazzo trema.

Hange lo scruta per un po’, e i suoi pensieri sono così appiccicosi che Jean si domanda se non stia già scontando a sufficienza la sua pena per meritare anche questo.
Ma evidentemente, la risposta, è no. Un cenno del mento della caposquadra gli rammenta il comando.

“Le spugnature, Jean.”

Solo quando comincia a fare quanto richiesto Hange porta lontano il suo sguardo inquisitore.

“Sono saltati solo tre, massimo quattro punti da qui, dal fianco”, tornata china sul suo paziente, punta l’indice verso la carne lesa, fa attenzione a non sfiorarla “Ed erano davvero tra le suture più brutte che io abbia mai visto. Credimi, di punti brutti io ne ho visti tanti.”

Jean chiude gli occhi. Prova a respirare piano onde evitare che un nuovo conato possa coglierlo alla vista di quello schifo viscido che ha Marco lì sopra, e che sente un po’ infettare anche le sue carni ogni qualvolta Marco pronuncia il suo nome, probabilmente mentre si domanderà perché sia tornato al suo capezzale ma non lo guardi, si lasci stringere sotto le sue mani, ma non gli rivolga parola.

“Il sangue che hai visto era probabilmente dovuto ad un ristagno, o ad un capillare– non so, non è facile stabilirlo così. Ad ogni modo, adesso non sanguina più.”

“Qual è il da farsi adesso?”

Hange solleva il viso, scrolla le spalle spiazzata dalla domanda.

“Beh, lo ripuliamo e lo ricuciamo. Ma prima di ogni cosa, Marco deve bere. La sua disidratazione è ciò che mi preoccupa di più.”

E Jean ha un sussulto quando la vede sollevarsi di scatto dal letto e avvicinarsi verso una brocca d’acqua calda che ha portato con sé. È camomilla. Ne ha riconosciuto la fragranza morbida della sua infanzia sin dal momento in cui Hange ha fatto ritorno.

“Sollevagli la schiena, facciamogli bere una bella tazza di questa.”

“Cosa—?”

“Ti dirò io come fare, sollevalo.” incalza ancora, per niente sorpresa della sua reazione, mentre si affretta a versarne una tazza.

Jean sente il suo respiro accorciarsi, gli occhi perdere fuoco.

“Dovrei di nuovo—?” si guarda intorno, cerca tra le pareti il fantasma di qualcosa che non sa neanche cos’è. “È uno scherzo?”

“È pericoloso farlo bere da disteso, potrebbe soffocare. Dai, adesso sollevalo.”

“Ha già rischiato di soffocare almeno due, tre volte anche da seduto, e gli ho anche—” deve riprendere fiato, trovare le parole giuste, ingoiare, “—gli sono anche saltati i punti.”

“Ti ho detto che ti dirò io come fare, Jean. Marco deve bere. E deve farlo adesso, o qualunque cosa faremo per lui sarà del tutto inutile, perché morirà. Lo capisci?”

Hange non aveva mai alluso a niente del genere sino ad ora; non l’aveva tirata in ballo come opzione neppure per sbaglio.
Ed è proprio questo che, agli occhi di Jean, aveva reso salvifica la sua presenza: con Hange lì, la stanza ticchettava, ma non esplodeva.
Adesso però, è come se quella sacralità fosse venuta meno; come se all’improvviso, forse per dispetto o per capriccio, avesse disgregato la coltre di sacralità con cui aveva avvolto Marco, riportandolo in balia della realtà.

“E poi, sono sicura che Marco farà il bravo bambino e berrà senza fare storie. Non è vero?” tira fuori uno dei suoi sorrisi più fuori luogo mentre si rivolge a quell’occhio che la fissa incerto.
Jean si domanda se non stia prendendo in giro tutti.

“Io non —”

Incespica. La lingua si ferma, poi schiocca sul palato.

“Non posso farlo.”

La frase lo pizzica a tal punto da scappare prima ancora di riuscire a dargli una forma che non suoni irriverente con un superiore.

Hange piega il collo di lato, non ne sembra turbata. Neanche dal modo in cui la sua voce ha tremolato. Ci pensa un po’ prima di sollevare le spalle e stirare le labbra verso il basso in una smorfia di sufficienza.
Guarda Marco, si lascia di nuovo cadere sul suo solito angolo di letto.

“Va bene,” risponde allegra. Poggia una mano sulla spalla integra del suo paziente. “non preoccuparti, Marco. Se il tuo amico qui ha così paura, sarò io a prendermi cura di te.”

Lo raccoglie tra le braccia senza attendere alcun cenno di assenso e in pochi movimenti ben studiati, ne adagia la schiena contro il suo petto.

“Jean—”

La palpebra di Marco batte un paio di volte umida, come se il ritrovarsi a boccheggiare contro l’incavo del collo della caposquadra lo avesse fatto emergere da un incubo in cui non sapeva di essere rinchiuso.
L’iride lucida si muove a scatti, vaga alla ricerca della sua figura, e lo fissa interrogativo, come se gli sfuggisse cosa diamine ci faccia lì impalato mentre lui assorbe il calore di un’altra persona.

Shhh, bevi questa, avanti.”

“J—Jean—” La voce si rompe quando con una smorfia rifiuta di far aderire le labbra alla tazza che Hange gli ha portato alla bocca, e può vederlo, il suo petto tornare a gonfiarsi allo stesso pericoloso ritmo con cui ha preso a fare il suo.
Può vedere anche il modo in cui Hange cinge il suo mento guidandolo verso la tazza, gesto certamente carico di tutte le buone intenzioni del mondo, ma che ai suoi occhi appare minaccioso dal momento in cui Marco tenta di sottrarsi ad esso, e no.

No.

“Aspetti!”

Arriva prima che Hange possa anche riprovarci.
La mano che Jean si sfrega sul viso è l’ultimo tentativo che compie nella speranza di scoprire che è tutto un sogno: il sorriso soddisfatto che ritrova sulle labbra della scienziata quando riapre gli occhi gli consegna l’ultima, impietosa conferma della realtà.

“Hai visto? Te lo avevo detto. Va sempre a finire così” bisbiglia leziosa in un orecchio di Marco, prima di scivolare via dal materasso, cedendogli il posto.

“Fa in modo che tenga la testa piegata in avanti,” raccomanda, ma lo fa dopo un po’.
Per la precisione, dopo che Jean si annoda a Marco con le braccia, la bocca e i capelli, quelli scuri e impiastrati, che si mescolano prima alle sue ciocche rosse, poi alle sue guance rigate, che li aggrovigliano più di quanto non lo siano già di suo, ma non fa niente.

Sente la caposquadra sfiorargli un gomito e pronunciare il fantasma di un ‘fai piano’ quando si accorge anche lei che, forse, sta stringendo un po’ troppo. Perché Marco continua a lamentarsi, e nel suo pianto senza lacrime, storce il naso in un modo orrendo; ma Jean ha bisogno di sentire i sussulti di quella schiena contro il suo petto, ne ha bisogno perché è solo così che riesce a trovare un senso al modo imbarazzante in cui prende a frignare, piegato sulle sporgenze aguzze dell’unica spalla rimastagli.

Hange sospira, il modo in cui sorride tradisce un velo di saggia soddisfazione.
Recupera il mento di Marco nascosto tra i palmi e le labbra di Jean per accostarlo alla tazza e, nonostante il furto, a Jean il gesto non sembra più così ostile come lo era sembrato prima.

“Adesso bevi, coraggio,”

E mentre Jean si asciuga maldestro le palpebre con le nocche, Marco manda giù un primo sorso dopo un momento di esitazione; i successivi, non hanno bisogno invece di alcun invito.
Una stilettata comparsa dal nulla sembra colpirlo in pieno stomaco però quando Marco comincia a cedere ai primi colpi di tosse. Solo un paio, in realtà. La mano di Hange che preme sulla nuca, e la sua sulla schiena, li fa estinguere prima ancora che Jean si renda conto di aver trattenuto il fiato tutto il tempo.

“Bravo, così. Respira. È già passato—” esorta fiduciosa.

E diamine, quando Marco crolla contro la sua spalla a riprendere fiato dopo aver finito tutta la tazza, Jean ha l’impressione che davvero su quel visetto gonfio, un tempo puntellato da adorabili lentiggini e adesso devastato dalle suture, ci sia un briciolo di colore in più.

“Non abbiamo ancora finito,” annuncia Hange schietta, e Jean non vuole credere che stia riempendo una seconda tazza di infuso – “Continua tu, Jean. Fai modo che ne beva un’altra tazza.”

Dal suo petto, Marco esala un lungo sospiro sconsolato, mentre Jean si trova goffamente ad afferrare la tazza offerta da Hange.

“Ricordati di tenere la testa piegata in avanti. Non farti prendere dal panico in caso cominciasse a tossire.”

Scosta le anche dal bordo del comodino contro cui è poggiata, si dirige verso la porta, e Jean ha già visto quella scena.

“Aspetti, dove—dove sta andando?”

“Vado a prendere il necessario per rimettere a posto quei punti saltati; dovrei averne un kit adeguato nel mio alloggio, o al limite in infermeria. Torno subito, non preoccuparti. Nel frattempo, continua a farlo bere. Voglio vedere quella tazza vuota al mio ritorno”.

Jean caccia fuori tutta l’ansia in un sospiro mentre Marco allunga un lamento umido che ha il sapore di una protesta.

“Niente storie. Solo un’altra tazza.” riprende la caposquadra con finta severità, la mano che poggia sul petto di Marco è quella di un’amica, “Vedi di non spaventare a morte il tuo fidanzatino. Non ho voglia di ritrovarlo a pezzi come poco fa, non posso permettermi due pazienti. Siamo intesi?”

Marco si trincera in una smorfia, nascondendo il volto integro contro il collo di Jean, e a Jean verrebbe quasi da sorridere perché l’ultima volta che ha visto quell’espressione sul suo volto, Sasha gli aveva, per l’ennesima volta, rubato il suo pranzo, ed è lo sprazzo di una normalità che non ha mai immaginato di poter ritrovare proprio qui.


“Jean—” è il richiamo soffocato con cui Marco lo invoca, perché sta provando già da qualche secondo a sollevare il braccio in direzione del suo viso ma non ci riesce, e lui, come un perfetto stupido, se ne sta lì a fissare la porta che la caposquadra Hange ha chiuso alle sue spalle, anziché occuparsene.

È a quel punto che Jean si sveglia, si desta ed ha l’impressione di vederlo per la prima volta dopo tanto tempo.
L’assenza di luce di pochi istanti prima del suo occhio, ha lasciato il posto ad un luccichio diverso, che insieme alla cispa e altra robaccia, rendono Jean per qualche ragione, stupidamente felice.
Abbandona la tazza da qualche parte sul comodino, raccoglie con i pollici un rigagnolo di saliva colato da un angolo della sua bocca, sorride. Sorride, e si sforza di trattenere in petto qualcosa che non sa neanche dire se uscirebbe in forma di risa o di pianto.

“Diamine, Marco—” Jean gli parla nella pelle bagnata della fronte, dove lascia qualcosa che ricorda un bacio e sente il corpo di Marco strattonare per un istante, prima di cedere dolcemente sotto le sue mani.
 E il cuore, che batte contro il suo sterno, Jean lo sente sincronizzarsi al suo.

“Quanto mi sei mancato.”

 

(fine terza parte)

 

NOTE: ECCOLA QUI! La terza parte. Pensavate fosse l’ultima, eh? Beh, lo pensavo (e speravo) anche io. Ma non è così. Sob. Ci sarà una quarta parte, in cui prometto davvero faville. Giuro. Credeteci. Faville.
 
NON CORRETTA, NON BETATA

 

Scritta per la Secondary To Whom? – challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia. Venite a trovarci!

   
 
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