Never forget we were built to last
- III parte -
“Sei
riuscito a fargli bere qualcosa?”
Hange batte con le dita l’incavo dell’avambraccio di Marco, ma neanche questo
sembra funzionare.
“Un po’—” Jean china gli occhi, “Quasi nulla, in realtà—”
Il silenzio in cui piomba la stanza è interrotto solo dal lieve frusciare dell’uniforme
fresca da lavanderia della scienziata, che si muove con una lentezza che non si
addice alla frenesia di pochi minuti prima, quando la stanza era sembrata
essere lì lì dall’esplodere.
Hange porta la cinghia emostatica su un punto più alto, ci riprova. Aguzza gli
occhi miopi, si china per vedere meglio: il pollice e l’indice sembrano
effettivamente aver bloccato qualcosa sotto quella pelle arida, e Jean ne segue
tutti i movimenti con la coda dell’occhio, in segreto, come fosse qualcosa che
non dovrebbe fare.
Allinea l’ago della siringa, si addenta il labbro inferiore, crede di avercela
fatta. Poi però, delusa, è costretta a tornare in fretta sui suoi passi prima
ancora di bucare.
“Andiamo, dove sono finite le tue vene,
Marco?”
E
Jean, con le unghie conficcate contro la propria nuca e i gomiti fissi sul
davanzale, affida una imprecazione all’aria fresca; la stessa che gli pizzica
il naso e la gola, e lo aiuta pure a giustificare quegli occhi ancora gonfi e
arrossati più di quanto non riesce a fare da sé.
“Trovata!” l’entusiasmo della caposquadra non lo contagia neanche quando la
sente esultare, ma lo fa il modo in cui, lentamente il boccheggiare sofferto di
Marco cede il posto ad un respiro più regolare, che in qualche modo, sembra
riuscire a fa respirare anche lui. Sbircia di nuovo.
“Si
era nascosta bene, la signorina. Ma alla fine, sono riuscita a stanarla
lo stesso, hai visto?”
Jean
affonda di più le dita alla testa.
“Va
già meglio, non è vero?” Hange preme un dito contro la giugulare sul collo e una
garza nel gomito adesso piegato, e, diavolo – ha quasi l’impressione che Marco
le annuisca davvero, quando porta la testa dall’altro lato del cuscino, e tira
un sospiro di sollievo talmente lungo e profondo che sembra poterlo liberare da
qualsiasi sofferenza.
“Lo so, lo so, è una bella sensazione—” Fiduciosa, la scienziata lascia
scivolare le dita tra i capelli di Marco un paio di volte, per poi percorrere con
lo sguardo tutto il suo corpo, e Jean non ce la fa a guardare oltre, perché se
lo facesse, sarebbe come sentirla passare in rassegna le sue colpe ad una ad
una, ritrovandole su quel corpo come trofei.
“Hai fatto un buon lavoro con l’unguento,” dice a un certo punto, e Jean sa che
sta spudoratamente mentendo.
Strizza gli occhi forte quando Hange rincara il commento con un ‘dico davvero!’,
e ancora più forte quando sente il familiare fruscio del lenzuolo inamidato
librarsi nell’aria.
Marco geme. Sibila un ‘no’ spezzato a cui Hange risponde prontamente con
l’ennesimo ‘shhh, va tutto bene’.
Ed è
troppo.
“Maledizione,” sbriciola tra i denti e tra i bagliori dietro le palpebre che il
vento freddo gli gela, facendo condensare le lacrime agli angoli degli occhi.
“Jean—”
Piega
il mento sino a sfiorarsi il petto. Tra poco sentirà Hange ripetergli di nuovo
la solita tiritera che gli ha già detto al suo ritorno, quando lo ha trovato di
fianco al letto, accovacciato sui talloni, con la testa tra le mani.
E non ha voglia di stare a sentirla ancora.
“Coraggio,
vieni qui a darmi una mano con Marco.”
Le
palpebre sembrano non bastare più. Porta direttamente i palmi sugli occhi,
strozza un singhiozzo.
“Quei punti avrebbero ceduto lo stesso, te l’ho già detto—”
“Aveva detto che non lo avrebbero fatto—” viene fuori malissimo.
“Beh,
mi sarò sbagliata. Sarò stata troppo fiduciosa nei macellai di Trost. Hai visto
anche tu in che modo lavorano, no? Dai, vieni qui.”
Marco
geme, e geme ancora. Ci mette più enfasi questa volta; più energia.
Il tonfo ovattato del lenzuolo che si affloscia sul pavimento lo agita, rendendolo
incredibilmente loquace.
“No,
non fare così, Marco. Non ti farò del male. Guardo soltanto—”
Jean sorride beffardo.
Hange dovrà impegnarsi molto di più se vuole convincerlo.
Perché gli ha fatto un male cane quando, in preda al panico, lo ha sollevato,
smanacciato, spostato senza alcuna delicatezza per avvolgergli maldestramente
quel lenzuolo intorno alla vita e tamponare il sangue.
Non credeva fosse umanamente possibile sentire urla peggiori di quelle che gli
avevano causato all’ospedale di Trost, ma dovette ricredersi.
“No-n
toglierlo, ti prego! Reiner!”
“Guardo
soltanto, promesso. Guardo soltanto—” ribadisce ancora, pacata e
affettuosa come Jean non l’ha mai sentita, ma Marco continua a lamentarsi e delirare
con dei picchi che lasciano intendere che Hange stia facendo altro dal semplice
guardare così come sostiene, ed è all’ennesimo lamento che Jean
si volta di scatto, pronto ad aggredire quella scienziata di merda che si improvvisa
medico, anche lì, anche all’istante – perché ci ha già pensato lui con la
sua stupidità a massacrarlo, e Marco non può ancora soffrire. Semplicemente,
non può.
Lei è qui per farlo stare meglio, non per farlo gridare in quel modo, e cazzo.
Cazzo.
“Bravo, lascialo a me, questo—”
L’ultimo
lembo di lenzuolo dalle dita tremanti, Hange lo sfila via solo quando Marco,
finalmente, allenta la presa.
Ed è una scena a cui non è preparato; a cui la sua rabbia non sa rispondere.
Come paralizzato, sente il proprio respiro affannoso montare, gli occhi tornare
a pungere.
Hange lascia di nuovo scivolare le dita tra le ciocche appiccicose di Marco, e
senza attendere che i suoi lamenti si plachino, se ne esce con l’ennesimo ‘Sei
stato bravo’, ‘Va tutto bene’, e altre
frasi patetiche che Jean non capisce, ma che sfiorano qualcosa dentro di lui,
in zone del suo petto che non conosce.
“N-non abbiamo neanche…neanche parlato—”
singhiozza sommesso.
“Che—che cos’ha?” Non sa neanche perché lo domandi. Forse, ha a che fare con
quel modo strano con cui Hange ha aggrottato le sopracciglia, e che proprio non
gli piace.
“Ha bisogno di te, Jean. Ecco cos’ha.”
Ammette la sconfitta con un sospiro: “Ha paura. È letteralmente terrorizzato. Se
non si rilassa, anche l’antidolorifico che gli ho dato sarà del tutto inutile—”
Jean chiude gli occhi. Di nuovo. “Chi avrebbe voglia di vedere colui che lo ha
praticamente ucciso—?”
Solo a quella frase Hange solleva il volto, gonfia le guance in un modo con cui
era solito a fare anche lui da bambino, poi sbuffa.
“Per quanto ancora hai intenzione di piangerti addosso per questa storia? Non
lo hai ucciso. Non è neanche detto sia stata colpa tua se quelle suture sono
saltate! E poi, guardalo!” indica Marco con un cenno della mano, il torace
lucido di sudore che si abbassa e si alza ad un ritmo spezzato dai singhiozzi,
ma tutto sommato, regolare, la fronte aggrottata, ma non più chiusa in quella
smorfia di agonia che ormai sembrava esser diventata un suo marchio di
fabbrica. “Gli hai anche fatto guadagnare una dose di antidolorifico non
prevista, penso sia il primo a ringraziarti!"
Jean
pensa sia l’ennesimo tentativo di Hange di apparire gentile e risollevargli il
morale, ma non ha il tempo di rifletterci più di tanto, perché la scienziata ha
già terminato il tempo a disposizione da dedicare ai suoi piagnistei.
Sostituisce la pezzuola abbandonata in un angolo dietro al cuscino con una
pulita, la immerge nell’acqua del bacile, tampona la fronte di Marco
ripulendola dal sudore.
“Continua tu con le spugnature,” gli ordina, porgendo tutto a lui.
E Jean si avvicina timido, quasi furtivo. Senza incrociare il suo sguardo, fa
trovare a Marco la mano che cerca tra le pieghe del coprimaterasso, e si
vergogna a morte quando questa si avvinghia a lui come se gli perdonasse più di
quanto lui sia disposto a perdonare a sé stesso.
Non emettere alcun suono anche quando la stretta diventa eccessiva, perché Dio
– Dio, quanto cazzo scotta.
E quanto cazzo trema.
Hange
lo scruta per un po’, e i suoi pensieri sono così appiccicosi che Jean si
domanda se non stia già scontando a sufficienza la sua pena per meritare anche
questo.
Ma evidentemente, la risposta, è no. Un cenno del mento della caposquadra gli
rammenta il comando.
“Le spugnature, Jean.”
Solo
quando comincia a fare quanto richiesto Hange porta lontano il suo sguardo
inquisitore.
“Sono
saltati solo tre, massimo quattro punti da qui, dal fianco”, tornata china sul suo
paziente, punta l’indice verso la carne lesa, fa attenzione a non sfiorarla “Ed
erano davvero tra le suture più brutte che io abbia mai visto. Credimi, di
punti brutti io ne ho visti tanti.”
Jean chiude gli occhi. Prova a respirare piano onde evitare che un nuovo conato
possa coglierlo alla vista di quello schifo viscido che ha Marco lì sopra, e
che sente un po’ infettare anche le sue carni ogni qualvolta Marco pronuncia il
suo nome, probabilmente mentre si domanderà perché sia tornato al suo capezzale
ma non lo guardi, si lasci stringere sotto le sue mani, ma non gli rivolga
parola.
“Il sangue che hai visto era probabilmente dovuto ad un ristagno, o ad un
capillare– non so, non è facile stabilirlo così. Ad ogni modo, adesso non sanguina
più.”
“Qual è il da farsi adesso?”
Hange solleva il viso, scrolla le spalle spiazzata dalla domanda.
“Beh, lo ripuliamo e lo ricuciamo. Ma prima di ogni cosa, Marco deve bere. La
sua disidratazione è ciò che mi preoccupa di più.”
E
Jean ha un sussulto quando la vede sollevarsi di scatto dal letto e avvicinarsi
verso una brocca d’acqua calda che ha portato con sé. È camomilla. Ne ha
riconosciuto la fragranza morbida della sua infanzia sin dal momento in cui Hange
ha fatto ritorno.
“Dovrei di
nuovo—?” si guarda intorno, cerca tra le pareti il fantasma di qualcosa che non
sa neanche cos’è. “È uno scherzo?”
“È pericoloso
farlo bere da disteso, potrebbe soffocare. Dai, adesso sollevalo.”
“Ha già
rischiato di soffocare almeno due, tre volte anche da seduto, e gli ho anche—”
deve riprendere fiato, trovare le parole giuste, ingoiare, “—gli sono
anche saltati i punti.”
“Ti ho detto
che ti dirò io come fare, Jean. Marco deve bere. E deve farlo adesso, o
qualunque cosa faremo per lui sarà del tutto inutile, perché morirà. Lo
capisci?”
Hange non aveva
mai alluso a niente del genere sino ad ora; non l’aveva tirata in ballo come
opzione neppure per sbaglio.
Ed è proprio questo che, agli occhi di Jean, aveva reso salvifica la sua
presenza: con Hange lì, la stanza ticchettava, ma non esplodeva.
Adesso però, è come se quella sacralità fosse venuta meno; come se
all’improvviso, forse per dispetto o per capriccio, avesse disgregato la coltre
di sacralità con cui aveva avvolto Marco, riportandolo in balia della realtà.
“E poi, sono
sicura che Marco farà il bravo bambino e berrà senza fare storie. Non è
vero?” tira fuori uno dei suoi sorrisi più fuori luogo mentre si rivolge a
quell’occhio che la fissa incerto.
Jean si domanda se non stia prendendo in giro tutti.
“Io non —”
Incespica. La
lingua si ferma, poi schiocca sul palato.
“Non posso
farlo.”
La frase lo
pizzica a tal punto da scappare prima ancora di riuscire a dargli una forma che
non suoni irriverente con un superiore.
Hange piega
il collo di lato, non ne sembra turbata. Neanche dal modo in cui la sua voce ha
tremolato. Ci pensa un po’ prima di sollevare le spalle e stirare le labbra
verso il basso in una smorfia di sufficienza.
Guarda Marco, si lascia di nuovo cadere sul suo solito angolo di letto.
“Va bene,” risponde allegra. Poggia una mano sulla spalla integra del suo paziente.
“non preoccuparti, Marco. Se il tuo amico qui ha così paura, sarò io a
prendermi cura di te.”
Lo
raccoglie tra le braccia senza attendere alcun cenno di assenso e in pochi
movimenti ben studiati, ne adagia la schiena contro il suo petto.
“Jean—”
La palpebra di Marco batte un paio di volte umida, come se il ritrovarsi a
boccheggiare contro l’incavo del collo della caposquadra lo avesse fatto
emergere da un incubo in cui non sapeva di essere rinchiuso.
L’iride lucida si muove a scatti, vaga alla ricerca della sua figura, e lo
fissa interrogativo, come se gli sfuggisse cosa diamine ci faccia lì impalato
mentre lui assorbe il calore di un’altra persona.
“Shhh, bevi questa, avanti.”
“J—Jean—” La voce si rompe quando con una smorfia rifiuta di far aderire le
labbra alla tazza che Hange gli ha portato alla bocca, e può vederlo, il suo
petto tornare a gonfiarsi allo stesso pericoloso ritmo con cui ha preso a fare
il suo.
Può vedere anche il modo in cui Hange cinge il suo mento guidandolo verso la
tazza, gesto certamente carico di tutte le buone intenzioni del mondo, ma che
ai suoi occhi appare minaccioso dal momento in cui Marco tenta di sottrarsi ad
esso, e no.
No.
“Aspetti!”
Arriva
prima che Hange possa anche riprovarci.
La mano che Jean si sfrega sul viso è l’ultimo tentativo che compie nella
speranza di scoprire che è tutto un sogno: il sorriso soddisfatto che ritrova
sulle labbra della scienziata quando riapre gli occhi gli consegna l’ultima,
impietosa conferma della realtà.
“Hai visto? Te lo avevo detto. Va sempre a finire così” bisbiglia leziosa in un
orecchio di Marco, prima di scivolare via dal materasso, cedendogli il posto.
“Fa
in modo che tenga la testa piegata in avanti,” raccomanda, ma lo fa dopo un
po’.
Per la precisione, dopo che Jean si annoda a Marco con le braccia, la bocca e i
capelli, quelli scuri e impiastrati, che si mescolano prima alle sue ciocche
rosse, poi alle sue guance rigate, che li aggrovigliano più di quanto non lo
siano già di suo, ma non fa niente.
Sente la caposquadra sfiorargli un gomito e pronunciare il fantasma di un ‘fai
piano’ quando si accorge anche lei che, forse,
sta stringendo un po’ troppo. Perché Marco continua a lamentarsi, e nel suo
pianto senza lacrime, storce il naso in un modo orrendo; ma Jean ha bisogno di
sentire i sussulti di quella schiena contro il suo petto, ne ha bisogno perché
è solo così che riesce a trovare un senso al modo imbarazzante in cui prende a
frignare, piegato sulle sporgenze aguzze dell’unica spalla rimastagli.
Hange
sospira, il modo in cui sorride tradisce un velo di saggia soddisfazione.
Recupera il mento di Marco nascosto tra i palmi e le labbra di Jean per
accostarlo alla tazza e, nonostante il furto, a Jean il gesto non sembra
più così ostile come lo era sembrato prima.
“Adesso bevi, coraggio,”
E mentre Jean si asciuga maldestro le palpebre con le nocche, Marco manda giù
un primo sorso dopo un momento di esitazione; i successivi, non hanno bisogno
invece di alcun invito.
Una stilettata comparsa dal nulla sembra colpirlo in pieno stomaco però quando
Marco comincia a cedere ai primi colpi di tosse. Solo un paio, in realtà. La
mano di Hange che preme sulla nuca, e la sua sulla schiena, li fa estinguere
prima ancora che Jean si renda conto di aver trattenuto il fiato tutto il
tempo.
“Bravo,
così. Respira. È già passato—” esorta fiduciosa.
E diamine, quando Marco crolla contro la sua spalla a riprendere fiato dopo
aver finito tutta la tazza, Jean ha l’impressione che davvero su quel visetto
gonfio, un tempo puntellato da adorabili lentiggini e adesso devastato dalle
suture, ci sia un briciolo di colore in più.
“Non
abbiamo ancora finito,” annuncia Hange schietta, e Jean non vuole credere che
stia riempendo una seconda tazza di infuso – “Continua tu, Jean. Fai modo che
ne beva un’altra tazza.”
Dal
suo petto, Marco esala un lungo sospiro sconsolato, mentre Jean si trova
goffamente ad afferrare la tazza offerta da Hange.
“Ricordati di tenere la testa piegata in avanti. Non farti prendere dal panico
in caso cominciasse a tossire.”
Scosta
le anche dal bordo del comodino contro cui è poggiata, si dirige verso la
porta, e Jean ha già visto quella scena.
“Aspetti, dove—dove sta andando?”
“Vado a prendere il necessario per rimettere a posto quei punti saltati; dovrei
averne un kit adeguato nel mio alloggio, o al limite in infermeria. Torno
subito, non preoccuparti. Nel frattempo, continua a farlo bere. Voglio vedere
quella tazza vuota al mio ritorno”.
Jean
caccia fuori tutta l’ansia in un sospiro mentre Marco allunga un lamento umido
che ha il sapore di una protesta.
“Niente storie. Solo un’altra tazza.” riprende la caposquadra con finta
severità, la mano che poggia sul petto di Marco è quella di un’amica, “Vedi di
non spaventare a morte il tuo fidanzatino. Non ho voglia di ritrovarlo a
pezzi come poco fa, non posso permettermi due pazienti. Siamo intesi?”
Marco
si trincera in una smorfia, nascondendo il volto integro contro il collo di
Jean, e a Jean verrebbe quasi da sorridere perché l’ultima volta che ha visto
quell’espressione sul suo volto, Sasha gli aveva, per l’ennesima volta, rubato
il suo pranzo, ed è lo sprazzo di una normalità che non ha mai immaginato di
poter ritrovare proprio qui.
“Jean—” è il richiamo soffocato con cui Marco lo invoca, perché sta provando
già da qualche secondo a sollevare il braccio in direzione del suo viso ma non
ci riesce, e lui, come un perfetto stupido, se ne sta lì a fissare la porta che
la caposquadra Hange ha chiuso alle sue spalle, anziché occuparsene.
È a
quel punto che Jean si sveglia, si desta ed ha l’impressione di vederlo per la
prima volta dopo tanto tempo.
L’assenza di luce di pochi istanti prima del suo occhio, ha lasciato il posto
ad un luccichio diverso, che insieme alla cispa e altra robaccia, rendono Jean
per qualche ragione, stupidamente felice.
Abbandona la tazza da qualche parte sul comodino, raccoglie con i pollici un
rigagnolo di saliva colato da un angolo della sua bocca, sorride. Sorride, e si
sforza di trattenere in petto qualcosa che non sa neanche dire se uscirebbe in
forma di risa o di pianto.
“Diamine,
Marco—” Jean gli parla nella pelle bagnata della fronte, dove lascia qualcosa
che ricorda un bacio e sente il corpo di Marco strattonare per un istante,
prima di cedere dolcemente sotto le sue mani.
E il cuore, che batte contro il suo
sterno, Jean lo sente sincronizzarsi al suo.
“Quanto mi sei mancato.”
(fine terza parte)
NOTE: ECCOLA QUI! La terza parte. Pensavate fosse l’ultima,
eh? Beh, lo pensavo (e speravo) anche io. Ma non è così. Sob.
Ci sarà una quarta parte, in cui prometto davvero faville. Giuro. Credeteci.
Faville.
NON CORRETTA, NON BETATA
Scritta
per la Secondary To Whom? – challenge del
gruppo Hurt/Comfort Italia. Venite
a trovarci!