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Autore: saitou catcher    23/06/2021    3 recensioni
"Erwin sparisce il giorno del funerale come se a cancellarlo fosse stata la pioggia.
A Levi basta un attimo. Un attimo per distrarsi, un attimo per lasciar indugiare lo sguardo sul viso triste di Marie che gli sorride dalla lapide- un attimo per non chiedersi cos’è che provi adesso, se sia un vuoto o un pieno a corroderlo all’altezza dello stomaco- e quando torna a girarsi, il mondo ha cancellato Erwin Smith e al suo posto rimane soltanto pioggia."
Dopo aver portato scompiglio nelle loro vite di adulti, Erwin scompare nel nulla. Levi, come sempre, è deciso a seguirlo. Ma è venuto il tempo delle scelte e di conoscere ciò che si è diventati, anche se può fare male.
[Erwin/Levi- Erwin/Marie- Modern AU- also starring Hange, Papà Smith e un Nile Dawk giustamente alterato- Minilong- 1/2 capitoli- Storia di Catcher]
SOSPESA FINO A DATA DA DESTINARSI
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Parte prima
Serendipità- Di trovare ciò che non si cerca

Erwin sparisce il giorno del funerale come se a cancellarlo fosse stata la pioggia.
A Levi basta un attimo. Un attimo per distrarsi, un attimo per lasciar indugiare lo sguardo sul viso triste di Marie che gli sorride dalla lapide- un attimo per non chiedersi cos’è che provi adesso, se sia un vuoto o un pieno a corroderlo all’altezza dello stomaco- e quando torna a girarsi, il mondo ha cancellato Erwin Smith e al suo posto rimane soltanto pioggia.
Non se ne accorge subito. Ci vogliono un altro paio d’ore, un altro paio di occhiate a quella lapide, i singhiozzi della figlia più piccola di Nile e quelli del bambino in braccio ad Heinrich, perché inizi a dubitare- ma è un pensiero che non ha senso e i pensieri che non hanno senso Levi li butta da parte come i rifiuti, perché non avvelenino l’aria. Ma dopo un paio d’ore si guarda intorno e lui non c’è da nessuna parte, vicino a nessun tavolo, e quindi Levi si dirige verso Hange senza sapere perché, calpestando il pavimento con abbastanza forza da zittire il ronzare dei suoi pensieri.
“Hange” si ferma vicino a lei, alle sue spalle un bambino che piange, o forse sono due “Hange, dov’è Erwin?”
Lei rialza il capo, i capelli più in ordine di quanto non siano mai stati, e corruga le sopracciglia. “Ha detto che sarebbe uscito un attimo” risponde, la voce spessa ed incerta. “Perché, non è ancora tornato?”
Tornato, potrebbe ridere Levi. Ed esattamente, da chi è che sarebbe andato via?

La borsa da viaggio è più leggera di quanto temesse. È abituato da sempre a viaggiare con poco e mentre regola le cinghie dello zaino, cerca di non pensare ad un treno notturno, ad uno scompartimento vuoto, a qualcuno troppo sconosciuto e biondo che gli offriva gli spicci per un caffè, un prezzo ridicolo per il segno che gli è rimasto nell’anima. Porta con sé soltanto quello che gli serve- abiti di ricambio, documenti, soldi, il necessario per cucinarsi da solo, un coltello- e sulla porta di casa, evita lo sguardo di Isabel e Farlan.
“Starò bene” dice. È una menzogna così stantia che se si passa la lingua sui denti può ritrovarci i grani incastrati, ma di merda Levi ne inghiotte da quando è nato, quindi mandiamo giù anche questa. “Tornerò presto.”
“Sono passati due mesi” il tono di Farlan è stanco. Non ha detto nulla, mentre Levi preparava la valigia, e non dirà nulla finché non sarà tornato, ma Levi conosce ogni incrinatura di quel viso come se fosse sua e dentro ad ognuna di esse ci sono i pensieri che Farlan non dice. “Credi che servirà a qualcosa?”
Servirà a qualcosa. È la via maestra che Levi ha seguito per tutta la vita, fino a quando non è salito su un treno notturno e non ha incontrato qualcuno che gli si è marchiato a fuoco tra la pelle e il cuore- qualcuno che forse la pioggia ha cancellato via, ma Levi lo rivuole indietro.
“Non lo saprò finché non ci provo” dice, e con un piede è già fuori dalla porta. “Abbiate cura di voi.”
I singhiozzi di Isabel sono l’unica cosa che potrebbe farlo tornare indietro, ma in qualche modo li ignora. Chissà, forse ce l’ha davvero, la forza di arrivare in fondo a questo viaggio.

Nel giro di due mesi, Heinrich Smith è invecchiato più che in sessantacinque anni. Agile non lo è mai stato, ma a vederlo muoversi adesso c’è da temere che si dissolva a poco a poco sul pavimento in un filo di polvere e quando parla, le rughe sul suo viso si fanno marcate come segni di un coltello. Non c’è da stupirsi, si dice Levi- nel giro di due mesi, ha guadagnato un nipote e perso un figlio, e in entrambi i casi non ha ricevuto neanche uno straccio di spiegazione.
Se è sorpreso di trovarsi Levi seduto sulla soglia di casa, non lo dà a vedere. Si limita a porgergli il passeggino da braccio in cui un bambino biondo scalcia e si dimena per armeggiare con le chiavi, e Levi resta immobile ad aspettare che apra, anche se non ci riesce prima del terzo tentativo. La casa è come è sempre stata, polverosa ed ingombra di libri fino all’inverosimile, ma c’è un vuoto che bisbiglia incessante tra un passo e l’altro, un fantasma che sfiora la nuca e chiede: perché non sono ancora qui?
Già. Perché?
Nella piccola cucina, Levi mette su il the, per una volta tanto senza soffermarsi a passare uno straccio sul ripiano coperto di polvere, e il fischio della teiera lo aiuta a distrarsi dal pianto del bambino alle sue spalle, un lamento acuto e sottile che penetra nel cervello come un ago. Si chiede se pianga perché gli manca qualcosa e se sì, cosa: una madre che lo ha tenuto in braccio per due giorni, prima di ridursi a uno strato di niente tra lamiere d’auto? Un padre che è svanito sotto la pioggia, mai stato in questo mondo, l’unica traccia un non cercatemi in inchiostro blu su un foglio bianco appeso al frigo?
Quando versa il the nelle tazze, Heinrich si è preso il bambino sulle ginocchia e gli sta mormorando qualcosa per calmarlo, le parole che si fondono le une alle altre nell’intonazione lenta di una cantilena. Il the è troppo caldo e non c’è abbastanza zucchero, ma Levi lo manda giù lo stesso- il the gli è sempre piaciuto proprio perché scotta e quando ti scorre dentro, per un po’ ti scioglie tutto il gelo che hai tra le ossa.
“È da tanto che non ci si vede.”
In bocca a chiunque altro, sarebbe una banalità, ma Heinrich non è di quelli che parlano per riempire il silenzio. I primi tempi che aveva trascorso in questa casa, dopo il treno notturno, Levi non l’aveva capito- l’aveva anche un po’ odiato, quel sotutto magro e gentile che lo guardava come se le cicatrici sulle sue braccia non avessero alcuna importanza. Quanto si è stupidi, quando si è giovani.
“Avevo altro da fare” Levi si rigira la tazza tra le mani, sbattendo gli occhi per vedere oltre il vapore che gli si deposita caldo sulla faccia. “E non ero sicuro di riuscire a stare qui.”
Se lo sentisse, Farlan gli tirerebbe un calcio sotto il tavolo e Nanaba alzerebbe gli occhi al cielo ed Erwin interverrebbe con quella sua voce profonda a coprire la gaffe con un commento intelligente dei suoi, ma nessuno di loro è qui ed Heinrich conosce Levi da abbastanza tempo da non offendersi nemmeno di fronte alle sue uscite più infelici. E infatti Heinrich non commenta, sospira soltanto, come se con quel suono potesse far uscire via il peso che gli grava sul petto, il vuoto con il volto e la voce di qualcuno che non sanno trovare.
“È buffo che tu lo dica” commenta poi, portandosi la tazza bollente alle labbra senza bere davvero. “A volte, neanche io sono sicuro di riuscire a restare qui.” Sulle sue ginocchia, il bambino si torce e si agita, tendendo le manine paffute verso la teiera bollente. Da che è nato, Levi non l’ha mai guardato davvero, ma ora lo fa, ed è come assistere ad un sortilegio: si chiede se in qualche modo assurdo Erwin non lo sapesse, se in qualche modo non l’abbia fatto apposta, a lasciare loro questo prima di andarsene, un figlio che è suo padre nato di nuovo e stavolta senza pesi.
“Tu hai idea di dove sia andato?”
Lo chiede senza aspettare una risposta, senza crederci davvero. C’è polvere nella cucina di Heinrich, polvere nelle sue mani e nei suoi occhi, e forse, dopo che Levi sarà uscito, polvere sarà tutto quello che resterà, o magari no. Levi non è mai stato bravo, a capire dove avrebbe portato il tempo.
Heinrich scuote la testa. “Potrebbe essere andato ovunque.” Con gentilezza, chiude nella sua mano sporca d’inchiostro quella minuscola del bambino, troppo vicina al calore della teiera. Quante volte deve aver fatto la stessa cosa con Erwin, quante volte l’avrà tenuto lontano da ciò che era troppo pericoloso per lui, ma a un certo punto ha allentato la presa ed Erwin è piovuto via. “In città come nel deserto. Ci sono così tanti posti che diceva di voler vedere, così tante cose che pensava di non aver ancora fatto. E a nascondersi è sempre stato bravo.”
Non da me, si dice Levi e il coltello che porta appeso al fianco è pesante in una maniera che conforta. Da me, mai.
“Allora cercherò ovunque.” Poggia sul tavolo la tazza di the, la prima in vita sua che non ha finito, e si alza. L’espressione negli occhi azzurri di Heinrich è illeggibile, un alfabeto che Levi non ha mai davvero imparato. “Grazie per il the.”
Ha già un piede fuori dalla porta quando si accorge che Heinrich l’ha seguito, quando sente il tocco di quelle dita magre e nervose sulla spalle. È una carezza che a diciannove anni ha respinto come un cane arrabbiato e adesso, a ventinove, è un soffio di calore che gli scorre nelle ossa e nel sangue e gli fa pensare a tutto ciò che ha trovato tra queste pareti, tutto le opportunità in cui è inciampato salendo su un treno notturno al momento giusto.
“Lo riporterai indietro?”
È difficile capire se sia una domanda o una supplica e all’una come all’altra, Levi non è in grado di rispondere.

Fin dal primo momento, Marie era stata in mezzo a loro come un punto interrogativo. Non l’unico e nemmeno il primo- ma di sicuro il più grosso e quello che Levi non poteva cancellare, che non poteva neanche voler cancellare. Solo un cane si sarebbe sognato di fare del male a Marie e Levi era stato un cane in tante cose, ma non in questa.
Marie era rimasta in mezzo a loro fin dal primo momento come un punto interrogativo, lei e le sue torte e i suoi sorrisi dolci, lei mamma un po’ di tutti, ma alla domanda che la sua presenza poneva, Erwin non aveva mai voluto rispondere.
La vuoi? A turno l’avevano domandato tutti senza dirlo, mentre gli anni passavano e loro crescevano e le domande lievitavano come una torta lasciata in forno troppo a lungo. La vuoi abbastanza da rinunciare a qualcosa, da ritagliare i contorni della tua vita in maniera che c’entri anche lei? E se no, cos’è che vuoi, chi è vuoi?
A quella singola domanda Erwin non aveva mai risposto, lui che le domande era così bravo a farle. Porgeva la mano a Marie per aiutarla a scendere le scale e passava ore sveglio ad assicurarsi che Levi fosse in grado di passare ogni singolo esame- forse ai suoi occhi c’era stato un equilibrio, uno che Levi non aveva mai individuato. Prima o poi, si era detto, qualcuno di loro avrebbe dovuto decidersi e provare a far pendere la bilancia invisibile da una parte o dall’altra, e a quel punto avrebbero saputo in che posizione stavano.
Quando era arrivato Nile Dawk, Levi aveva quasi tirato un sospiro di sollievo. Quando Erwin aveva porto a Marie un regalo di nozze, in faccia il più sincero dei sorrisi, aveva pensato che la bilancia si fosse sistemata da sola. Ma alle domande, prima o poi, bisogna dare risposta, e con sorpresa di tutti, non era stato Erwin a pensarci. L’aveva fatto Marie, e la bilancia era andata in pezzi sulle teste di tutti loro.


Il primo posto in cui va a cercare è la Scozia, perché è da quando avevano ventun anni che lui e Erwin parlavano di quando ci sarebbero andati e non l’hanno mai fatto, quindi tanto vale cominciare adesso.
Piove lì, una pioggia fredda e pesante che Levi si sente scorrere nelle ossa persino dopo essersi asciugato, e il modo in cui il proprietario del bed and breakfast ha stretto gli occhi, nel sentirsi chiedere se lì fosse passato qualcuno di alto e biondo, avrebbe potuto farlo sentire in colpa, se fosse stato qualcun altro. Ma Levi è Levi e seguire la scia che lasciano le prede è un’abitudine che non si è mai tolto davvero, per cui non è questo a togliergli il sonno.
Per tutti i giorni che rimane lì, la pioggia non cessa, e se fosse tipo da credere a queste cose potrebbe trovarci un messaggio; che alla fine verrà cancellato anche lui, che tutti gli sforzi che ha compiuto finora per sopravvivere svaniranno nella terra, nell’acqua, nell’aria, ovunque siano andate tutte le persone che adesso non sono più qui. Ovunque sia andato Erwin, che si è dissolto nella pioggia, dopo l’ultima palata che ha sigillato Marie sotto terra.
Levi cerca. Tra le montagne e nella brughiera e nei boschi, in tutti quei posti che finora aveva visto nella voce di Erwin, nella maniera in cui i suoi occhi azzurri brillavano alla luce di una torcia troppo piccola, in ogni angolo della terra che Erwin ha scandagliato col pensiero, trascinandolo ogni volta con sé. Andare ovunque ed essere ovunque, Levi. Tra di loro un’unica luce e ombra tutto il resto, un mondo racchiuso nel mescolarsi dei loro respiri; era così che doveva essere, ascoltare un canto dei tempi andati. Hai mai pensato a come sarebbe? No, avrebbe potuto dirgli Levi, avesse mai pensato di averne bisogno. Non mi è importato davvero di andarmene. L’unica cosa che ho mai saputo fare è trovare qualcuno per cui restare. Ci mette quasi un mese a setacciare la Scozia, prima di decidersi ed ammettere: qui, Erwin non c’è. Non c’è mai stato o se n’è andato e Levi rigira tra le dita il coltello che porta appeso al fianco e prova a non pensare. Tra le sue mani, il biglietto per la Grecia pesa quanto un masso.

Non fa nemmeno in tempo a poggiare la valigia che una chiamata di Hange fa squillare il suo telefono- la ventottesima, da che è atterrato.
Levi osserva il telefono vibrare sul letto e si dice che può sempre rispondere un’altra volta. Hange e gli altri conoscono i suoi movimenti, quindi non c’è ragione di affrettarsi. Ma poi ripensa che per perdere Erwin gli è bastato distrarsi un momento, smettere di guardarlo un istante rompendo un’abitudine durata un decennio, e allora è meglio non rischiare: chi sa cosa lo inghiottirà, una volta uscito dall’albergo.
“L’hai trovato?” la voce di Hange gli trapana il timpano senza quasi dargli il tempo di premere il pulsante di risposta e Levi si siede sul letto trattenendo una smorfia. Hange non s’incazza spesso, ma quando succede, gli fa desiderare di avere a disposizione un bunker antiatomico.
“No, altrimenti sarei già tornato” risponde secco. “Sono appena atterrato ad Atene.”
“Ah, buono a sapersi” riesce a immaginarla come se fosse seduta accanto a lui, una linea fatta di braccia troppo lunghe, capelli che vanno da tutte le parti, occhiali che scintillano. Non l’ha persa, ma in qualche modo assurdo, sente che gli manca anche lei. “E stavolta quanto tempo hai intenzione di buttare in questa regina delle cause perse?”
“E io che pensavo che le cause perse fossero la tua specialità.”
“Non fare il furbo, Levi. Non con me.”
In dieci anni che si conoscono, Hange e Levi hanno litigato più volte di quante ne riescano a ricordare. Tutte le volte si sono urlati contro, un paio Levi l’ha spinta troppo forte e le ha fatto male, un paio Hange gli ha tirato un ceffone che l’ha costretto a girare con gli occhi gonfi per giorni. Una sola, l’ultima, lei l’ha guardato con una serietà letale di cui non l’avrebbe creduta capace e detto soltanto: se non ti posso fermare, allora vai. Anche tu, era stato il non detto che aveva squarciato il cuore di Levi come una mannaia, ma non ce l’aveva avuta con lei per quello. Non era colpa sua se, di loro tre, Hange si era dimostrata l’unica col coraggio di urlare quello che sentiva in faccia al mondo.
“Sei ancora lì?”
“Cosa vuoi che ti dica?” domanda a un’altra domanda, il trucco di Erwin che odiava di più, ma tant’è: le risposte le ha esaurite al funerale. “Se è qui, lo riporterò indietro. Non devi preoccuparti per me.”
“Sono arrabbiata, Levi, non preoccupata. Per carente che sia la tua comprensione dell’umana sfera, credo ci possa arrivare anche tu.”
“Allora fattela passare. Io sto bene.”
“Stai bene? Stai bene? Hai mollato tutto e tutti per andare in giro per il mondo, a cercare un tizio sparito nel nulla, senza avere neanche una minima idea di dove possa essere, e mi vieni a dire che stai bene?” nel ringhio che sta emettendo, è quasi impossibile distinguere le parole. “Non mi capita spesso di dirlo a qualcuno che non sia io, ma ti dovresti far controllare.”
“Quindi adesso Erwin è un tizio?” sibila Levi, concentrandosi sull’unica parte di frase su cui può attaccarla. “Non pensavo potessi essere così stronza, Zoe.” “Non sono io che faccio la stronza, Levi. Siamo tutti stravolti, siamo tutti feriti, e nessuno di noi se n’è sparito piantando in asso tutto il resto del gruppo perché era più romantico andarsi a prosciugare di lacrime sulla cima di un monte piuttosto che rimanere a sistemare il casino che aveva combinato. Se Erwin vuole comportarsi da quindicenne petulante, liberissimo di farlo, ma non pretendere che io lo chiami in altro modo.”
Levi stringe il cellulare fino a sentirlo scricchiolare. “Adesso parli come Nile.”
“Strano ma vero, per una volta Nile non ha tutti i torti. Non gliel’ha certo detto il dottore di mettere incinta Marie.”
È un pugno dato in pieno stomaco, un’ondata di nausea che sorge dal fondo e lo ingloba. Non è stata colpa di Erwin, potrebbe ribattere, Marie neanche stava con Nile, quando tutto è successo, ma perché dovrebbe spettare a lui ribattere? Neanche lui sa con esattezza cosa sia accaduto, anche se mille e mille volte ha chiesto, ordinato, implorato Erwin di spiegargli come fossero arrivati a quel punto. Non spetta a lui difendere Erwin, eppure prova l’impulso di farlo, ogni volta, che a minacciarlo siano lame oppure parole.
“Voglio soltanto parlargli, Hange” quasi non si sente, mentre si lascia sfuggire dalle labbra quella confessione, quella preghiera, il cuore che gli allarga nel petto fino a non lasciare posto a nient’altro. “Soltanto quello. Gli chiederò perché se n’è andato, e se- quando lui mi avrà risposto, allora saprò cosa fare. Se… se riportarlo indietro o lasciarlo lì dove si trovi, ovunque sia.”
È una novità per lui, essere così incerto, così pateticamente consapevole del fatto che non ha mai saputo costruirsi da solo una strada: tutte le persone che ha avuto intorno negli ultimi dieci anni, Erwin, Hange, Mike, Nanaba, persino Isabel e Farlan, tutti hanno fissato lo sguardo sul loro orizzonte e raccolto i mattoni dorati per costruirsi una via. Lui no, lui l’orizzonte l’ha sempre visto solo negli occhi di qualcun altro, e ora che quel qualcuno è piovuto via tra l’aria e le nubi, tutto ciò che riesce a scorgere è nebbia.
“Levi” intriso di una dolcezza che scuote più della rabbia, il mormorio di Hange lo fa trasalire dall’altro capo del telefono. “Se avesse voluto farsi trovare, avrebbe fatto in modo che potessimo rintracciarlo. Ci sono persone che non vogliono tornare indietro.”
E Levi sa che, razionalmente, lei ha ragione. Ma è questo il punto, questo è il dilemma, come diceva Erwin tutte le volte, citando un’opera di fantasmi e paesi marci a cui lui non si è mai davvero appassionato: che in tutto questo la razionalità non centra, non c’è mai entrata. E Levi sa, come sa il proprio nome e i battiti del suo cuore, che se Erwin non ha lasciato alcuna traccia, è perché era certo che Levi avrebbe saputo trovarlo lo stesso.

Il figlio di Erwin era nato senza che suo padre fosse presente. A ripensarci dopo, avrebbero potuto vederci un avvertimento, ma le nocche di Levi ancora sanguinavano per i pugni che aveva scaricato sulla faccia di quello stronzo biondo e lo stomaco mandava fitte per essere rimasto vuoto troppo a lungo, quindi se un avvertimento c’era stato, gli era passato sopra la testa e fanculo la preveggenza.
Il figlio di Marie, il quarto che avrebbe partorito, l’unico maschio e l’ultimo che avrebbe tenuto in braccio, era venuto al mondo senza che sua madre avesse la forza di prenderlo in braccio e chissà se era per questo che non aveva pianto poi molto, ritrovandosi nel freddo e nelle luci livide della sala parto; doveva aver capito, in quel modo ancestrale e oscuro dei neonati, che la sua presenza era stata un imprevisto e aveva deciso di non farlo pesare. O più probabilmente Levi si stava facendo tutte le seghe mentali che era riuscito ad evitarsi in ventinove anni di vita, e il marmocchio aveva semplicemente dei cattivi polmoni.
Il figlio di Erwin e Marie aveva visto la luce senza che suo padre fosse presente e senza che sua madre avesse la forza di prenderlo in braccio, lei che aveva messo al mondo tre figlie senza sforzo, la più piccola che si dimenava nella culla chiedendosi dove fosse sparita sua madre. Levi non lo odiava- perlomeno, sapeva di non doverlo fare, qualunque casino avesse condotto alla sua nascita, il moccioso non c’entrava. Però gli si era spaccato qualcosa dentro, quando l’infermiera era entrata nella sala d’attesa e aveva deposto quel fagottino silenzioso tra le braccia tese di Heinrich. Qualcosa gli si era spaccato dentro, lì dove nove anni prima Erwin aveva lasciato il suo marchio dopo il treno notturno, e la cosa peggiore era stata rendersi conto che, in fondo, se l’era sempre aspettato.



Per setacciare la Grecia, ci mette esattamente un mese e due settimane.
La Grecia era un altro sogno giovanile con cui Erwin l’aveva infettato, ma, diversamente dalla Scozia, l’avevano realizzato: a ventun anni, la prima estate che Levi aveva potuto passare senza lavorare, erano partiti, insieme con Hange e Mike e Nanaba, e avevano girato di città in città, di tempio in tempio. Levi si era perso metà delle cose che la guida aveva bofonchiato metà in inglese e metà in greco, ma lo stesso quei dieci giorni si erano stampati nella sua memoria come i migliori che avesse mai vissuto, quelli in cui aveva riso di più, cantato di più, in cui era andato a dormire senza che gli incubi venissero a visitarlo.
Ma senza le persone a dargli significato, un posto è soltanto un posto e Levi vaga tra colonne bianche e alberi di ulivo come farebbe un fantasma, sfiorando tutto senza lasciare un segno su niente. Di tanto, gli sembra di scorgere una capigliatura bionda e allora il respiro gli si attorciglia per un attimo in gola, in guizzo che è meta speranza e metà terrore e che alla fine si spegne sempre nel sapore bluastro della delusione.
Dove sei? Lo chiede alle colonne del Partenone che si stagliano contro il cielo nel loro candore acceccante, stampata contro le palpebre l’immagine di Erwin appoggiato contro il marmo, oro e azzurro come il cielo incendiato al tramonto. E non riceve risposta.
Perché non riesco a trovarti? Lo ringhia contro gli ulivi che otto anni fa li hanno ospitati alla loro ombra, ed era stato sotto a quegli alberi che aveva capito, davvero capito, cos’era a smuovergli l’aria dentro ogni volta che guardava Erwin e immaginava di posare le labbra sull’ombra che gli macchiava la gola. Ma trova solamente silenzio.
Torna indietro, prega a quell’altare che avevano visitato una volta in una chiesetta di montagna. Erwin non credeva agli dei e Levi li ignorava, ma adesso darebbe qualsiasi cosa per poter credere, per poter lanciare una supplica da qualche parte con la certezza di vederla atterrare. Torna indietro.
Da chi, non ha il coraggio di specificarlo.


Finché non sale sull’aereo, il suo telefono continua a squillare. Levi ne ignora il vibrare più a lungo che può, soprattutto perché ha visto chi c’è dall’altra parte e non ha nessuna voglia di starlo a sentire. La verità è che adesso non è sicuro di dove andare e non lo vuole ammettere- atterriamo in Danimarca, si è detto prenotando il volo, poi si vedrà.
Si decide a rispondere dopo aver trascorso due ore all’aereoporto, il sapore plasticoso di un panino da quattro soldi che gli inacidisce la lingua. Se già solo un anno fa gli avessero detto che sarebbe finita così, si ritrova a pensare dardeggiando di occhiate assassine il tabellone delle partenze, avrebbe riso fino a non respirare, ma ha imparato da tempo che, in fatto di risate, alla vita spetta sempre l’ultima.
“Meno male, almeno tu non sei sparito nel nulla.”
Anche in circostanze normali, parlare con Nile Dawk è piacevole quanto ritrovarsi un intero ripostiglio di scope infilato su per il culo e in questo momento, con un cerchio alla testa dovuto alle ore di volo, è un fastidio moltiplicato per cento. Levi non si sforza neanche di nascondere l’astio che lo pervade. “Che cazzo vuoi, Dawk?”
“Solo sapere come procede la tua ricerca” la sua voce è coperta da un tramestio di sottofondo, forse rumore di pentole che vengono spostate, a cui si aggiunge la vocina quieta di Sophie, la figlia maggiore di Nile, che chiede al padre qualcosa che Levi non afferra. Già solo pensare a lei è sufficiente perché Levi senta riemergere il bisogno prepotente di ritornare indietro nel tempo e raddoppiare i pugni che ha scaricato sulla faccia di Erwin la sera in cui tutto è venuto alla luce. Sophie è una bambina così dolce, così fiduciosa: una piccola copia di Marie che guardava Erwin con occhi adoranti fino a che la sua famiglia non è andata in pezzi.
“Non l’ho ancora trovato” si limita a dire, masticando le sillabe e gettando un’altra occhiata al tabellone della partenze: in cerca di cosa, potrebbero chiedergli, e lui non saprebbe rispondere nemmeno stavolta. Ormai, è una costante della sua vita. “Se è Hange che ti manda, dille che è inutile starmi addosso. Quando l’avrò rintracciato, ve lo farò sapere. Fino a quel momento…”
“Quando l’avrai rintracciato” lo interrompe Nile “fagli sapere che, se vuole farsi vivo, è il caso che si sbrighi. Non so se gli interessi, ma qui siamo preoccupati per Heinrich.”
È un fulmine fatto di ghiaccio che si schianta nella sua spina dorsale e lo inchioda al suo posto; è un’onda che travolge tutto, sensazione e suono e colore, e trasforma il caos di un aeroporto nel brontolio lontano di una tempesta che non si decide a scoppiare.
“Preoccupati?” abbaia, stritolando il telefono contro l’orecchio. “Per che cosa? Che è successo?”
“Niente di particolare. Ma ormai non è più un giovanotto e l’ultima volta che è andata a vederlo, Nanaba ha detto che le è sembrato piuttosto giù di corda. Ho provato a dirgli di lasciarmi il bambino, almeno qualche giorno, ma non mi ascolta.”
Il bambino. La mente di Levi si fissa su quella parola, così impersonale, così distaccata, e non gli sfugge la difficoltà di Nile nel mantenersi neutro. Uno strano calore gli si agita in fondo allo stomaco, una sensazione acida e scomoda su cui non si vuole soffermare, perché, per quanto sembri assurdo, sa anche troppo bene cosa passa per la testa di Nile in questo momento e non glielo rivelerà mai.
“Credevo non volessi averci niente a che fare” dice, forse più a sé stesso che al suo interlocutore. All’altro capo, Nile sbuffa in quel modo che gli da l’espressione di chi ha appena succhiato un limone.
“A differenza di chi entrambi sappiamo, io mi assumo le mie responsabilità.”
Silenzio. Levi si domanda cosa rispondere, se dovrebbe rispondere qualcosa, ma è più stanco adesso di quanto sia mai stato in questi ultimi mesi, e dopotutto, chi è lui per dire che Nile non ha ragione? Un anno fa, avrebbe giurato di conoscere Erwin più di chiunque altro. E ora che cosa gli resta di quelle certezza, ora che tutto ciò che amava è scivolato via nella pioggia?
“È il fratello delle mie figlie” la voce di Nile lo riscuote dai suoi pensieri, incerta come non l’ha mai sentita, la voce di chi ha perso tutto il suo mondo nel giro di un secondo e lo stesso ha dovuto alzarsi ogni mattina. “È l’ultima cosa che Marie ha lasciato a questo mondo. Gli ultimi mesi che siamo stati insieme, dopo che era tornata da me, mi ha chiesto di prendermene cura. Non posso… non posso volergli bene, non come meriterebbe, e non posso fargli da padre, non- non ne ho la forza e non è il mio ruolo. Ma non posso neanche odiarlo. L’unica cosa che ha fatto è nascere.”
Sono parole che potrebbe dire Levi. Sono le parole che Levi ha pensato senza volerlo ammettere, quella notte all’ospedale, con le nocche che ancora pulsavano per il pugno dato ad Erwin, con il cuore spaccato dentro e i cocci che sfregavano tra loro. Nel caos dell’aeroporto, Levi chiude gli occhi.
“Mi dispiace per Marie” mormora, la prima volta che lo dice ad alta voce. “Credimi, mi…”
“Allora riportalo indietro” lo interrompe Nile. “Se non per suo padre o suo figlio, almeno per te stesso. Non possiamo recuperare quello che abbiamo perso, ma dobbiamo badare a quello che ci rimane. Digli questo se lo trovi” un’esitazione appena accennata “e già che ci sei, tiragli un bel pugno in faccia da parte mia.”
Con sua enorme sorpresa, Levi scoppia a ridere.
“Contaci, Dawk” ed è arrivata ora di uscire dall’areoporto e vedere cosa c’è al di fuori. “Contaci.”

“Tu credi che sia possibile trovare qualcosa solo nel momento in cui si è smesso di cercarla?”
Glielo aveva chiesto l’ultima sera che erano stati insieme, mentre si preparavano a chiudere Marie sottoterra e Levi, come al solito, non aveva risposto. Aveva imparato a distinguere le domande che Erwin faceva agli altri da quelle che poneva a sé stesso e in ogni caso, non avrebbe saputo che cosa rispondere. Che era possibile? Che l’avevano vissuto? Che era salito un treno notturno soltanto per scappare da Kenny ed era inciampato in qualcosa- qualcuno- più importante di tutto il resto della sua vita?
Aveva alzato lo sguardo dal bicchiere che teneva tra le dita, pieno a metà di un liquido che neanche riconosceva più e che gli aveva ricoperto la lingua di una patina pesante e dolciastra. La stanza era immersa nell’ombra e di Erwin era visibile solo il profilo, stagliato contro la finestra, lo stesso che Levi aveva contemplato fino a scolpirselo nella memoria. Lo aveva guardato e sentito tra le dita il peso di tutto ciò che non aveva mai avuto il coraggio di fare.
“La chiamano serendipità” aveva continuato Erwin, la voce bassissima, la mano destra che si chiudeva in un pugno come per afferrare, stringendo solo il vuoto. “Chissà se una cosa del genere esiste davvero.”
Levi non aveva aperto bocca. Avrebbe potuto e, se l’avesse fatto, avrebbe avuto così tante cose da dire- poteva sentirsele in gola, nel petto, tra le ossa, chiuse fra tutti i sogni e i pensieri che non avevano mai visto la luce- ma non l’aveva fatto. Persino adesso proteggere Erwin rimaneva l’istinto più forte di tutti. Anche- soprattutto- da sé stesso.
“Va a dormire” aveva bofonchiato, le sillabe lente ed impastate. “Domani sarà una giornata lunga.”
“Sì” aveva replicato Erwin a mezza bocca. C’era un bagliore nei suoi occhi, ma Levi non sapeva distinguere se fosse dovuto all’unica lampada accesa oppure se fossero lacrime. Era in grado di piangere, Erwin? In dieci anni che si conoscevano, non l’aveva mai fatto. E nei tre giorni trascorsi da che Marie era morta, non aveva quasi pronunciato parola.
“Grazie.”
Aveva creduto di esserselo immaginato. Lo avrebbe creduto per molto tempo ancora, dopo il funerale, dopo la Scozia, dopo la Grecia.
Grazie, e per che cosa? Perché non sono mai riuscito ad andarmene? Perché da te, in qualche modo, ho sempre accettato tutto, anche quello che non avrei perdonato a nessun altro? Perché sai che da me potrai sempre tornare? Grazie per cosa, Erwin?
Non si era deciso a chiederlo. Dopotutto, non era neanche certo che l’avesse detto davvero. Aveva chinato il capo, perché era più facile scrutare il fondo del proprio bicchiere che Erwin.
“Va a dormire” aveva ripetuto.
Non aveva ricevuto risposta ed era questa, era questa la ragione, il motivo per cui avrebbe deciso di andare a cercarlo: perché l’ultima cosa che Erwin aveva detto non era stata addio.


Avrebbe dovuto immaginare che, in questo come in altre cose, Erwin avrebbe visto più lungo di lui.
Cammina per le strade di Amsterdam senza prestare attenzione a quello che ha intorno, il coltello un peso confortante sotto la stoffa del giacchetto. È qui da quasi una settimana, e tanto per cambiare, non ha trovato nulla: sta cominciando a chiedersi se non dovrebbe dare retta ad Hange, rassegnarsi all’evidenza e riprendere la sua vita come se niente fosse. Ma è una domanda oziosa, perché se va via senza aver tentato tutto il possibile lo rimpiangerà per sempre e se c’è una cosa che Levi detesta sono i rimpianti.
Serendipità. Vuol dire trovare qualcosa senza averla cercata e Levi non ha mai creduto una cosa del genere potesse esistere- c’è un sempre un motivo, anche se lui non lo sa vedere- fino ad oggi. Fino a quando non sta semplicemente camminando per la strada, guardando dritto davanti a sé, e poi improvvisamente si ferma e sente, prima ancora che chiami il suo nome, prima ancora che una voce più familiare della propria lo afferri alle spalle: il filo che tiene l’altra metà dalla sua anima dà uno strattone e Levi sa, prima ancora di girarsi, chi è che troverà a guardarlo.
“Levi?”
È una domanda, ma non è sorpresa. E come potrebbe esserlo, quando hanno passato anni a stringersi dentro un filo che non si è più rotto, quando Erwin conosce ogni sfumatura di Levi e Levi ogni crepa di Erwin, quando l’ultima cosa detta è stata grazie e non addio. Come potrebbe essere sorpreso, Erwin, che fra tutti sia stato Levi a venirlo a cercare, che fra tutti Levi l’abbia saputo trovare: non ci si stupisce del sole che sorge.
E neanche Levi è sorpreso, di aver ottenuto ciò per cui ha lottato in questo modo, di aver riafferrato Erwin solo nell’istante in cui ha mollato la presa. Al suono del suo nome, si gira a guardarlo e fa male come imprimersi negli occhi il sole.
“Erwin” replica soltanto. “Ti devo un pugno in faccia.”
Serendipità è trovare qualcosa senza prima cercare. Cosa fare con ciò che hai trovato, non te lo dice nessuno. Forse, questo è il momento per scoprirlo.


Devo ammetterlo, fa un po' strano tornare sul fandom di AoT dopo l'amarezza che mi ha causato il finale, ma quando l'ispirazione chiama è sempre il caso di seguirla, e dopotutto neanche Isayama è riuscito a rovinarmi Erwin e Levi, quindi eccomi qui.
Questa storia- che è la prima parte di una minilong di due capitoli di cui il secondo è già in lavorazione e che spero di completare e postare quanto prima- è un po' diversa da quello che pubblico di solito e neanche so da dove mi sia uscita, esattamente. È stato un misto fra la mia voglia di scrivere una Au, la mia voglia di angst e la mia voglia di inserire la Erwin/Marie da qualche parte, e non l'ho neanche davvero pensata, l'ho buttata giù molto come veniva e neanche so che cosa sia il risultato. I miseri della vita- e del fanwriting XD.
Ciò detto, spero che abbiate apprezzato questo primo capitolo e mi farebbe molto piacere che lasciaste un parere, così da sapere com'è andato questo esperimento.
Alla prossima!
Catcher
  
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