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Autore: Crudelia 2_0    25/06/2021    1 recensioni
Oppure: quando Katniss vuole organizzare una festa e finisce per peggiorare la situazione.
|In ogni caso, quel continuo rischiare di rompersi l'osso del collo lo convinse a concentrarsi di più sui suoi passi. Non era sopravvissuto ad un'arena e ad una guerra per morire come un deficiente bendato in mezzo al bosco.
[Storia partecipante alla challenge "Quella volta in cui..." indetta da MissChiara sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beetee, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prompt: "Il tuo personaggio viene condotto, bendato, in un bosco. Cosa sente, percepisce, prova?" 

Note: la storia doveva essere qualcosa di leggero e simpatico, non so come sia diventata questo polentone lunghissimo e intriso di angst. Perdonatemi!  

[Storia partecipante alla challenge "Quella volta in cui..." indetta da MissChiata sul forum di EFP]
 
 Dove splendono le stelle

 

 

Assolutamente no, aveva detto. 
Come poi era diventato un sì ancora gli sfuggiva. Gli piaceva pensare che si era bevuto anche il cervello, ma la parte cinica di lui a cui piaceva sbattere la verità in faccia alle persone era abbastanza consapevole che aveva finito per cedere per tre motivi: era solo, era triste e rimare sobrio gli rendeva le giornate così difficili che spesso non aveva la forza di respirare, figurarsi resistere agli attacchi congiunti di Katniss e Peeta. 
Avrebbe voluto avere dell'alcool per rendere nebulosa quella verità, ma la sobrietà era una strada irta e contorta. Più un labirinto, in realtà. Se avesse ricominciato a bere non ne sarebbe mai più uscito.
Tuttavia, accettare di essere bendato e condotto chissà dove continuava ad essere un'idea stupida. Da ubriaco forse sarebbe stato più furbo e avrebbe detto a Katniss senza mezze parole che era una cretina. 
Altro fatto interessante della sobrietà: la gente aveva dei sentimenti e a lui importava.  
Ancora, preferiva quando beveva così tanto da dimenticarlo.  
Urtò qualcosa con il piede e inciampò. «Che cazzo!», imprecò, abbastanza forte da far risuonare la voce nel silenzio. 
La presa sulle sue braccia si rafforzò e con essa l'impressione di essere condotto al patibolo. «Ricordami perché lo sto facendo, ragazza, o giuro che mi strappo questa fottuta benda in questo fottuto momento». 
Sentì Katniss fare una risatina alla sua sinistra. Avrebbe apprezzato quel suono se non fosse stata lei ad incastrarlo.  
«Fidati di me, Haymitch», rispose, il divertimento palese nella sua voce. 
Haymitch sbuffò. Alla sua destra, Peeta fece lo stesso. Anche bendato, Haymitch poteva immaginare l'occhiata a metà fra irritazione e amore che stava lanciando a Katniss. 
Il fatto che conoscesse così bene le interazioni tra i due ragazzi diceva molto su quello che era diventato — vecchio, triste e solo. 
Inciampò di nuovo e dalla sua bocca uscì una serie di imprecazioni così colorite da far arrossire Katniss. Avrebbe voluto accertarsene togliendosi quella maledetta benda dagli occhi. 
In ogni caso, quel continuo rischiare di rompersi l'osso del collo lo convinse a concentrarsi di più sui suoi passi. Non era sopravvissuto ad un'arena e ad una guerra per morire come un deficiente bendato in mezzo al bosco.  
Concentrandosi poteva sentire che il silenzio non era assoluto: i loro passi frusciavano sulla terra umida, quelli di Peeta leggermente claudicanti e quelli di Katniss così leggeri da essere difficili da percepire; il vento leggero muoveva le foglie degli alberi in un suono leggero e armonioso che ricordava le onde del mare; la terra bagnata dalla pioggia della notte precedente emanava il suo odore caldo e umido che si appiccicava alle narici e ai vestiti.
Un piccolo gemito e la mano sul suo braccio destro si contrasse fino a far male. Si fermarono. 
«Stai bene?» 
«Sì», rispose Peeta, suonando un po' senza fiato. 
Qualche altro movimento. Haymitch sentì la tensione irrigidirgli le spalle e far battere il suo cuore più in fretta. Se fossero stati sotto attacco avrebbe perso tempo a sciogliere la benda e non sarebbe mai riuscito a raggiungere il coltello incastrato tra la cintura dei pantaloni e la sua pelle: sarebbe morto prima ancora di vedere chi li stava uccidendo.
Ma ovviamente nessuno li stava attaccando, le mani sulle sue braccia erano rimaste al loro posto e Katniss aveva ripreso a camminare, tirandolo un po' ma ad un'andatura più lenta.
Altra spiacevole e sconcertante verità sulla sobrietà: mantenere la sua paranoia sotto controllo era molto più complicato (di nuovo, camminare bendato in un bosco non era d'aiuto).
Il cuore gli batteva un po' troppo forte nel petto ed era quasi arrivato al limite della sopportazione. Poteva essere esagerato quando controllava tre volte che la porta di casa fosse chiusa o quando faceva strane deviazioni di ritorno dal mercato perché convinto che qualcuno lo stesse seguendo o quando si svegliava a metà della notte convinto di aver vissuto tutto quanto come allucinazione data dal troppo alcool e doveva controllare i ragazzi ad ogni costo. Katniss lo odiava, specialmente le prime volte, quando bussava alla loro porta come se ne andasse della sua vita. Peeta era un po' più comprensivo: sapeva fin troppo bene come ci si sentiva a svegliarsi senza sapere dove finiva il sogno e iniziava la realtà. 
Questo non gli aveva impedito di dissuadere la sua fidanzata da quell'idea folle.
«Siamo quasi arrivati», lo rassicurò Peeta. La sua angoscia doveva essere evidente.
«Sarà meglio per voi o—»
«Sì sì, zitto adesso», lo interruppe Katniss. «Stai fermo, ti tolgo la benda».
Nonostante fosse Katniss, tutto il corpo si tese quando percepì la sua presenza alle spalle. Era così sicuro di doversi aspettare un colpo che quando la benda cadde e la luce del sole gli colpì gli occhi dovette sbattere le palpebre più volte.
Poi iniziarono le grida e fece tre passi indietro. 


 


Katniss era preoccupata da un po' di tempo, ma era così abituata a sopprimere le emozioni negative che non si era accorta di quanto lo fosse finché la casa vuota la colpì con il suo silenzio e con i granelli di polvere danzanti nei raggi di sole.
«Haymitch?», chiamò, senza aspettarsi una vera risposta.
La sua mente le stava già fornendo i peggiori scenari: se fosse entrata nel salotto vuoto l'avrebbe trovato morto.
Sicuro. Certo. Senza ombra di dubbio.
Peeta le aveva detto che aveva smesso di bere, ma come potevano esserne certi?
Haymitch era stato in grado di nascondere una rivoluzione, una sbronza in confronto non era nulla.
«Haymitch?», chiamò di nuovo. Il salotto era vuoto, nessun cadavere. Il sollievo la colpì rapido, più veloce del pensiero che sì, non era morto nel salotto, ma aveva controllato la camera? O il bagno?
«Haymitch?!», chiamò per la terza volta, una punta di isteria nella voce.
Stava iniziando a salire le scale con l'adrenalina che cominciava a scorrere nel suo corpo quando ciò che l'aveva colpita all'inizio affondò nel suo cervello già offuscato dalla paura: c'era silenzio. Silenzio assoluto, neanche le oche si sentivano starnazzare.
E se le oche erano in silenzio le possibilità erano due: o erano morte o stavano mangiando.
Sperando che fosse la seconda attraversò la cucina tanto calda da rendere difficile respirare e uscì sul retro, saltando i gradini della veranda nella fretta.
Haymitch era in piedi davanti al recinto delle oche, un secchiello vuoto abbandonato al suo fianco e, soprattutto, vivo.
«Haymitch!», disse Katniss, camminando verso di lui a grandi passi e vagamente arrabbiata.
Si bloccò a tre passi da lui, così sorpresa che la rabbia sparì subito.
«Cosa stai facendo?», chiese.
Haymitch si strinse nelle spalle. Non stava guardando le oche, ma il tramonto violento che si stagliava nel cielo.
«Cosa pensi?», chiese sardonico e un po' distante, la voce roca come chi non la usa da tempo.
Si portò ciò che teneva fra le dita alle labbra, ne prese una boccata e soffiò verso l'alto fumo grigio e leggero che si disperse contro il cielo arancione.
«Stai cercando un altro modo di avvelenati?». Era una domanda senza tatto, ma non così strana. Capiva perché Haymitch beveva, lo capiva davvero, ma era abbastanza sicura che Peeta non avrebbe sopportato un'altra abitudine autodistruttiva.
Haymitch fece un sorrisetto con un angolo della bocca. Era ironico senza essere divertito, amaro come solo lui era capace di renderlo.
«Sto ricordando una persona», la voce arrochita si spezzò sull'ultima parola, e Katniss capì che non la stava guardando per nascondere ciò che avrebbe imbarazzato entrambi: aveva pianto.
Probabilmente era Chaff, giunse a concludere. Era l'unico amico di Haymitch e, sebbene Katniss non lo conoscesse così bene, sembrava il tipo di uomo avvezzo a fumare o ad ogni altro tipo di cattivi vizi. 
«È il suo compleanno o qualcosa del genere?». 
Haymitch prese una boccata così lunga che Katniss vide il piccolo cerchio di fuoco avvicinarsi alla sua bocca. Poi gettò la sigaretta a terra e la schiacciò con il piede, passò un altro secondo prima che gettasse la testa indietro e soffiasse fuori il fumo come un gran sospiro.
«Qualcosa del genere», rispose, e non c'era amarezza nella voce, ma un dolore così vivido che Katniss se ne sentì toccata.
Si avvicinò fino a portarsi al suo fianco. Allungò una mano per toccarlo, ma all'ultimo momento ricadde lungo il fianco.
«Peeta cucinerà il tacchino questa sera. Puoi mangiare con noi, sai che fa sempre troppo», si offrì, con più gentilezza di quanta pensasse.
Haymitch si voltò a guardarla per la prima volta e Katniss vide nelle rughe attorno ai suoi occhi tutto il dolore che si portava dentro.
«Sono stanco, Katniss». 
E nel modo in cui aveva sempre capito ciò che intendeva oltre le parole, Katniss capì che Haymitch, stagliato contro il tramonto che si faceva notte, non era stanco di quella giornata, era stanco di vivere.  

Passò una settimana prima che ne parlasse con Peeta. Non perché non si fidasse del ragazzo, ma perché Haymitch era tornato al suo solito sé strafottente, maleducato e saccente.
Un po' troppo, forse. Abbastanza da dare l'impressione che si sforzasse di essere insopportabile per essere lasciato solo.
Se Peeta se n'era accorto non ne aveva fatto parola con lei.
«Lo sapevi che Haymitch fuma?», chiese un po' all'improvviso. Sperava di cogliere Peeta impreparato e strappargli qualche informazione, ma ovviamente avrebbe dovuto saperlo che non avrebbe funzionato.
Peeta si bloccò un secondo, le mani immerse nell'impasto e sporco di farina fino ai gomiti. Katniss gli teneva compagnia giocando con l'uvetta nella ciotola e mangiando ogni tanto qualche frutto.
«Una settimana fa?», chiese Peeta, cauto, riprendendo ad impastare.
Dunque, lo sapeva.
«Dice che gli ricorda una persona», tanto valeva dire tutto, a questo punto, anche se Peeta non sembrava affatto sorpreso. Riluttante, in realtà, quasi sofferente. 
«Già, posso immaginarlo», sussurrò. 
Quella frase attirò la sua attenzione, ma Peeta la distrasse infornando la torta e sgridandola per aver mangiato metà uvetta con quello sguardo che le faceva sempre cose strane allo stomaco e il pensiero di Haymitch sull'orlo della depressione lasciò la sua mente.
Tornò qualche giorno dopo. Anche se sarebbe più corretto dire che lei si schiantò in una conversazione che le ricordò quanto la sua mente fosse ancora instabile e in difficoltà a ricordare più cose assieme. 
Era tornata presto dalla caccia perché con il caldo che aumentava vagare per i boschi diventava faticoso. Il sole di inizio estate le aveva scottato il collo e aveva una sete terribile. Aveva scelto di entrare dalla porta principale e non dal retro come faceva sempre solo perché in quel modo avrebbe potuto godere di più tempo all'ombra.
Peeta non l'aspettava, e il pensiero di fargli una sorpresa l'aveva rallegrata per tutta la strada di ritorno.
Era una giornata buona, quella, una di quelle giornate in cui si ricordava che c'erano ancora motivi per cui la vita era degna di essere vissuta.
Le voci in cucina l'avevano sorpresa. La voce di Haymitch tranquillo l'aveva sorpresa.
«Se avessi saputo che volevi farmi la paternale me ne stavo a casa mia, ragazzo», stava borbottando.  
Katniss si fermò all'ombra del corridoio, grata della sua capacità di camminare senza far rumore. Era indecisa se uscire di nuovo, salire le scale per la doccia che si era meritata o entrare in cucina facendo finta di niente quando la voce di Peeta la fermò sul posto.
«Non è una paternale, Haymitch. Ti capisco, okay? So come ti senti ma — oh, lasciamo perdere, tanto non mi ascolteresti comunque».
Sentire Peeta arrabbiato era una novità, non capitava mai al di fuori dei suoi episodi. Arrabbiato con Haymitch poi, ancora meno.
Scocciato, infastidito, stanco sì. Arrabbiato no.
Ci furono suoni che non riuscì a decifrare, poi il chiaro rumore di un bicchiere mezzo pieno posato sul tavolo con un po' troppa forza.
«Katniss è preoccupata», disse Peeta. Non era più arrabbiato, la voce era un misto tra irritazione, rassegnazione e pietà.
Come Peeta potesse far trapelare tante cose assieme ancora era un mistero per lei.
Un sospiro udibile, probabilmente di Haymitch. «Ho parlato troppo», confessò.
«Sai cosa ti direbbe? Che—»
Un raschiare di sedia contro il pavimento. Katniss oltrepassò la porta pronta a fermare un attacco fisico. 
«Non—» Haymitch s'interruppe di scatto spostando gli occhi su di lei. Era in piedi e leggermente ansimante, un dito accusatore puntato verso Peeta che lo guardava per niente impressionato. In quel momento di stallo prese un sorso d'acqua dal bicchiere come se fosse la cosa più normale del mondo.
«Chi direbbe cosa?», chiese Katniss, rompendo il momento di tensione ma con tono cauto.
Haymitch abbassò la mano e si sistemò la camicia come per darsi contegno. «Nessuno dice niente», disse con rabbia, girò i tacchi ed uscì dalla cucina sbattendo la porta.  

L'idea le era venuta quasi sotto forma di illuminazione, ecco perché l'aveva accettata come buona.
«È tutto solo poverino», aveva detto una donna proveniente dal Distretto Due ad un'altra mentre erano in fila per comprare la frutta. «Gli faremo una festa quando troverà una famiglia». E anche se si riferiva all'ultimo cucciolo del suo cane, a Katniss era sembrato che il discorso calzasse a pennello anche ad Haymitch.
Tornata a casa aveva gettato la borsa con le mele e con i fichi sul tavolo senza tanti riguardi ed era corsa al telefono.
Non era un'amante delle feste ed Haymitch le odiava, ma se quello serviva a ricordargli che non era solo l'avrebbe fatto.
La prima a cui telefonò fu Effie, sentendosi un po' in colpa perché non la sentiva da un mese ma sicura che la donna non si sarebbe offesa: sapeva che Peeta la chiamava una volta a settimana, anche di più se ne sentiva il bisogno. Non aveva mai investigato oltre sul legame tra i due, ma in quel momento era grata che ci fosse.
Effie rispose con il solito tono allegro, quello che Katniss ormai aveva imparato a riconoscere come finto ma convincente. Scambiarono convenevoli che per Katniss sembravano eccessivi, ma a cui si sottopose volentieri. Quando finalmente comunicò la sua idea Effie rimase in silenzio così a lungo che Katniss pensò fosse caduta la linea. Non sarebbe stata la prima volta, in fondo.
«È per il suo compleanno?», chiese Effie alla fine, sembrando seria per la prima volta dall'inizio della conversazione.
«Scusa?», rispose Katniss, sentendosi stupida. Non aveva pensato affatto al compleanno di Haymitch, non aveva pensato neanche che Haymitch potesse averlo, un compleanno. Ma Effie lo sapeva, ovviamente. Immaginava che erano cose di cui venivi a conoscenza dopo quindici anni di lavoro con la stessa persona.
«Fra due settimane. È il suo compleanno». Grazie al cielo, Effie era troppo gentile o troppo affezionata alle buone maniere per farle notare la sua mancanza.
«Oh, sì. Sì, certo, è per il suo compleanno», rispose Katniss. Come se l'avesse sempre saputo.
Cadde un altro lungo silenzio, come se Effie stesse pensando. «Ma certo che ti aiuterò, cara», disse tornando al suo tono allegro. «Ma sarebbe buona cortesia se chiamassi tu gli invitati. Ti manderò ogni contatto con un elenco dei potenziali invitati e—» e a quel punto Katniss aveva smesso di ascoltare, ma due giorni dopo era arrivata una lettera con un elenco di persone e il numero di telefono affianco.
Katniss aveva fatto un'altra telefonata per ringraziarla. Le sembrava il minimo, l'idea di una festa l'aveva mandata su di giri. 
Ad una settimana di distanza da quello che aveva scherzosamente battezzato il grande evento la lista di invitati si era estesa a quasi la totalità del Distretto, Johanna ed Annie con il piccolo Finn dal Distretto Quattro, Beetee dal Distretto Tre ed Effie e Plutarch dalla Capitale, insieme a due misteriosi accompagnatori. La cosa aveva elettrizzato Katniss come se per tutta la vita non avesse aspettato altro che Plutarch si trovasse una compagna.
Immaginava fosse bello indulgere nella frivolezza, di tanto in tanto.
L'unico che non sembrava felice della situazione era Peeta. Quando gli aveva comunicato la notizia del misterioso accompagnatore di Effie aveva scosso la testa con le labbra strette.
«È una pessima cosa, Katniss, te ne accorgerai», aveva detto, con tono grave da profeta.
«È una festa per il suo compleanno, Peeta. E serve a ricordargli che non è solo e ha degli amici. L'hai detto anche tu che sembra depresso», aveva ribattuto, infervolata.
Peeta aveva aperto la bocca per rispondere, ma non aveva detto niente. Si era limitato a scuotere la testa e a non partecipare a nessun preparativo. Katniss gli aveva strappato la promessa di preparare una torta, ma Peeta aveva messo in chiaro che era l'unica cosa che avrebbe fatto.
Il poco entusiasmo di Peeta non l'aveva scoraggiata: da pragmatica quale era aveva trovato altrove l'aiuto che il suo fidanzato non voleva darle, e l'aiuto era arrivato nel corpo formoso di Melania, la donna con i lunghi capelli neri che arrivava del Distretto Dieci e allevava animali da cortile.
«Non puoi essere seria», aveva detto Peeta quando l'aveva scoperto. Aveva lasciato cadere il cucchiaio nel piatto e piccole gocce di zuppa avevano macchiato il tavolo e la sua camicia.
Katniss l'aveva guardato sconcertata. «Avanti, Peeta, non dirmi che non te ne sei accorto. È interessata ad Haymitch e lui va sempre da lei quando ha problemi con le oche». E, sospettava Katniss, anche per i profondi occhi scuri della donna e l'altrettanto profonda scollatura.
«No, non è –» Peeta si era interrotto e aveva posato la fronte tra le mani. Non si stringeva i capelli come faceva di solito quando si arrabbia a così tanto da confondere la realtà, ma ci andava vicino. Katniss era rimasta in silenzio, immobile, in attesa che lui trovasse le parole.
Non le aveva trovate, alla fine. Si era alzato e aveva passato la notte a dipingere.
Katniss non aveva più detto nulla al riguardo. 

Era stata di Melania l'idea della festa nel bosco. Nessun posto al Dodici era abbastanza grande da ospitare tanta gente e organizzare nel bosco rendeva più facile mantenere il segreto.
Katniss iniziava a pensare che Haymitch, nonostante nelle ultime settimane si fosse ritirato in se stesso, iniziasse a sospettare qualcosa. Era quello che aveva detto a Melania, offrendole un the nella cucina soleggiata e calda e piena dell'odore dei biscotti sfornati da Peeta quella mattina.
«Non temere, cara, apprezzerà comunque il pensiero», aveva risposto Melania, spostandosi i lunghi capelli su una spalla con un gesto che appariva naturale ma metteva in mostra tutto ciò che c'era da vedere.
Era un gesto che faceva spesso, ed ogni volta a Katniss piaceva un po' di meno.
Per quello, e per il fatto che Peeta non sembrasse per niente d'accordo: quando aveva saputo che la donna sarebbe passata per il the aveva sfornato i biscotti, li aveva sbattuti in un piatto e se n'era andato.
«Non ne sono così sicura», aveva borbottato. 
Ma a meno di tre giorni dalla festa era sempre meno sicura di niente: tutto sembrava organizzato perfettamente, grazie a Melania che nonostante il vizio di chiamare chiunque caro aveva fatto davvero un buono lavoro. Ma Peeta era sempre più distante. A Katniss sembrava che la loro ultima conversazione risalisse a settimane prima, e il palese fastidio del ragazzo nei confronti di Melania le lasciava un senso di pesantezza al fondo dello stomaco. 
«Non capisco perché non ti piaccia», aveva sbottato una sera. «D'accordo, è un po' vanitosa, ma ad Haymitch piace e quindi deve piacere anche a noi. O vuoi che rimanga solo tutta la vita?».
Peeta l'aveva guardata con una tale sorpresa che Katniss si era sentita stupida. Poi, come faceva sempre quando si toccava l'argomento, aveva scosso la testa e se n'era andato.
Se questo era tutto l'aiuto che le avrebbe dato, bene.
Non gli aveva parlato per due giorni. 

Il giorno della festa si presentò senza nuvole e con un caldo secco che rendeva l'aria irrespirabile.
Katniss passò la giornata da sola, accogliendo chi arrivava dagli altri Distretti e guidandoli all'unica locanda per poi trasferirsi tutti nel bosco, nella piccola radura che avevano scelto. Avevano preparato tavoli con cibi e bevande, tenendo a turno d'occhio il piccolo Finn che cercava di scappare alla prima occasione.
Fare tutto alle spalle di Haymitch fu facile: non uscì mai di casa.
Il treno da Capitol City era previsto per il tardo pomeriggio. Katniss aspettò seduta sulla banchina sotto il sole cocente, quando vide che l'accompagnatrice di Plutarch era Fulvia Cardew scoppiò a ridere in un modo che, a giudicare dalle occhiate che le furono rivolte, doveva avere dell'isterico.
Ma la vera sorpresa fu Effie: Katniss aveva sempre sospettato che fosse bella, sotto tutto quel trucco e le parrucche, ma mai così bella. Con i capelli biondi naturali raccolti con eleganza e poco trucco attorno agli occhi sembrava un'altra donna.
Non che Effie le diede modo di dirglielo: la strinse in un abbraccio da togliere il fiato, le presentò sommariamente l'uomo alto al suo fianco e la spedì a casa a prepararsi.
Katniss fece come le era stato detto, confidando che Peeta avrebbe tenuto fede fede alla parola data e compiuto l'altro compito: preparare Haymitch. 

Il vestito che aveva scelto era semplice, ma era uno delle poche cose che le era rimasta di sua madre. Era di un verde molto chiaro che sembrava soffice, arrivava alle ginocchia e lasciava le braccia scoperte. Si vedevano le cicatrici, ma aveva fatto pace da tempo con le occhiate che la gente rivolgeva loro.
Si sciolse i capelli come ultima cosa, lasciandoli liberi poco sotto le spalle.
Quando scese le scale e vide Peeta attenderla, vestito con pantaloni eleganti ed una camicia azzurra come i suoi occhi, sentì il cuore battere più in fretta.
Per la prima volta da settimane lui la guardava come prima: con così tanto amore negli occhi fino a farla sentire come se fosse lunica cosa preziosa nel mondo.
Dovette deglutire per obbligare il groppo che sentiva alla gola a sparire.
«Wow», disse Peeta prendendole la mano quando lo raggiunse, suonando senza fiato e un po' meravigliato.
«So essere carina anch'io, ogni tanto», rispose, prendendolo un po' in giro.
Se possibile, lo sguardo di Peeta si addolcì ancora di più. «Tu sei sempre carina», sussurrò senza vergogna, nel modo meraviglioso che aveva di mostrare i suoi sentimenti senza paura.
Katniss si sentì arrossire e distolse lo sguardo. Lo schiarirsi di gola poco vicino la riportò alla realtà.
«Sì, sei molto carina, dolcezza. Ora qualcuno mi dice cosa sta succedendo?». 





Travolse Katniss nella fretta e per poco non caddero entrambi. Aveva già la mano sull'elsa quando le parole buon compleanno fecero breccia nel suo cervello. 
Guardò stranito la folla di gente davanti a lui senza riconoscere nessuno, la pacca di Peeta sulle spalle lo radicò alla realtà, ma senza abbandonare la sensazione di trovarsi in un sogno.
«Hai organizzato tutto tu?», chiese, e la sorpresa nella sua voce era evidente anche alle sue stesse orecchie.
Peeta scosse la testa e disse qualcosa che Haymitch non sentì perché in quel momento gli fu messo un bambino tra le braccia e fu stretto dall'abbraccio morbido di Annie.
Fu trascinato in un giro di abbracci che non ricambiava e auguri tra i quali registrò il vecchio detto da Johanna, un occhiolino insinuate dalla donna delle oche che lo lasciò stranito e le strette di mano di Beetee e Plutarch che gli fecero ricordare tempi passati e non sempre felici.
Quando se le vide davanti pensò fosse così confuso da tutta quella gente da avere le allucinazioni.
Eppure lei si avvicinò, con la camminata oscillante che aveva sempre quando indossava tacchi vertiginosi e che aveva imparato a conoscere così bene negli anni.
«Buon compleanno, Haymitch», gli disse quando fu abbastanza vicino, il sorriso sempre a posto sulle labbra.
Baciò l'aria vicino alle sue guance come era consuetudine in città e solo quando sentì il suo profumo capì che no, non stava sognato e dopo tanto tempo ce l'aveva vicina.
Vicina e in salute e splendida nella sua bellezza.
Le sue mani scattarono prima che potesse allontanarsi e la strinse a sé, tanto da circondarla con le braccia e sentire il suo corpo premuto al suo.
Affondò il viso nell'incavo del suo collo, sentendo il cuore battere come un pazzo, tornare intero e spezzarsi di nuovo. «Cazzo, Effie», sussurrò, e sembrò una preghiera e una maledizione allo stesso tempo.
Profumava ancora nello stesso modo, di fiori e frutti esotici, di bellezza lontana e splendente e di amore impossibile.
Spostò leggermente il viso, in modo da avere le labbra premure contro la sua pelle. Quante volte aveva baciato quel punto preciso? Quante volte aveva passato la lingua sulla linea sottile del suo collo fino a mordere il lobo e farla gemere in quel modo che gli faceva sempre dimenticare che esistesse un mondo oltre loro due?
«Cazzo», ripetè. Perché faceva troppo male averla così vicina e sapere che non era più sua — ma non lo era mai stata. E faceva male sapere che lei era lì solo per cortesia, troppo attaccata alle sue buone maniere per rifiutare l'invito ma per niente felice di partecipare. E lui era soltanto un uomo, triste e solo e disperato e dannatamente troppo egoista per non approfittare di quel piccolo momento di sorpresa e stringerla a sé.
Avrebbe fatto ancora più male, dopo.
Effie si divincolò fino a fare un passo indietro. Il sorriso tornò subito al suo posto e sbatté le palpebre in fretta, ma non abbastanza perché lui non si accorgesse che aveva gli occhi pieni di lacrime.  

Non c'era alcool sul tavolo e non aveva ancora deciso se fosse una buona o una cattiva cosa. Aveva cercato bene, tra panini dolci e muffin salati, ma la bevanda migliore che aveva trovato era un punch analcolico con un lieve retrogusto di arancia amara.
O forse l'amarezza la sentiva solo lui, c'era anche quell'ipotesi.
Dopo il girotondo frenetico di saluti tutti avevano iniziato a parlare fra loro ed Haymitch aveva trovato un po' di respiro. Un  po', non troppo. Si sentiva sempre i polmoni contratti quando incontrava la sua figura.
Ed era sempre ai margini del suo campo visivo. Non sapeva se era lei a farlo di proposito o lui troppo ossessionato dalla sua presenza o l'abitudine di non tenersi mai troppo lontani, come se quella fosse una delle tante feste a cui partecipavano per i Giochi e presto o tardi Effie si sarebbe toccata la gola in quel modo particolare che usava sempre per comunicargli che uno sponsor stava diventando troppo insistente.
Ma non sarebbe stato lui a salvarla, questa volta.
Ci aveva messo poco a capire che l'uomo alto e biondo al suo fianco era il suo nuovo fidanzato. Aveva fatto male e il cibo che stava mangiando si era trasformato in cenere sulla lingua, ma non aveva davvero mai pensato che lei sarebbe rimasta da sola per sempre.  Era troppo bella perché passasse inosservata agli uomini e troppo intelligente anche per il suo bene.
Ma ciò che davvero lo feriva e lo faceva sentire miserabile non era l'intimità che potevano condividere, il sapere che le mani di quell'uomo le accarezzavano la pelle e la toccavano in tutti quei punti che la facevano piagnucolare dal bisogno. Ciò che davvero faceva ingelosire Haymitch erano i piccoli tocchi distratti tra di loro, il modo in cui lui la cercava con lo sguardo quando era troppo lontana e come lei accettava il bicchiere che lui le porgeva senza neanche controllare cosa fosse, come se già fosse certa che le aveva portato ciò che preferiva.
Provava rabbia all'idea che la loro vita si svolgesse lontano e in modo pacifico, fatta da piccoli gesti e piccole gentilezze che rendevano una coppia solida e duratura.
E il cuore gli si stringeva quando si accorgeva che lui, i piccoli vizi che rendevano felice Effie, li conosceva tutti. 
«Smettila di fissarla», disse una voce affianco a lui.
Haymitch sussultò, convinto che fosse Chaff perché era sempre lui quello che lo rimproverava con quella frase.
Ovviamente, non era Chaff, ma Beetee.
Beetee non era propriamente suo amico, era sempre stato troppo serio per quello. Ma era stato un vincitore per più tempo di lui, avevano condiviso una rivoluzione ed era l'unico sopravvissuto del vecchio ambiente. 
Non era suo amico, non era Chaff e non era i ragazzi. Era qualcuno con cui parlare, e quindi Haymitch disse quello che non avrebbe detto a nessuno ma che gli bruciava la lingua e il cuore.
«Non riesco», ammise, e sembrava un rammarico.
Non che fosse da biasimare: le gambe lunghissime erano messe in mostra il più possibile, il fondoschiena fasciato da pantalinci così aderenti che non lasciavano nulla all'immaginazione. Il vestito continuava fino ad una modesta scollatura sul seno e maniche lunghe strette fino ai polsi che, Haymitch lo sapeva, servivano a nascondere le cicatrici.
Lui non le aveva mai viste, ma quel suo fidanzato sicuramente sì. A quel pensiero la rabbia tornò e si costrinse a bere un sorso dal bicchiere che teneva in mano, quanto meno per nascondere l'istinto di digrignare i denti. 
Beetee bevve un sorso dal suo bicchiere, per niente a disagio con l'ammissione dolorosa dei suoi sentimenti. «Non smetterà mai di far male, te ne farai soltanto una ragione», commentò.
Quello attirò l'attenzione di Haymitch, che lo guardò bene per la prima volta.
Nei mesi trascorsi nel Distretto Tredici si erano avvicinati molto, ma da allora, escluse le saltuarie telefonate di Beetee, non si erano tenuti in contatto. Haymitch aveva comunque la sensazione di conoscerlo in modo intimo, vicino. Probabilmente perché Beetee era stato l'unico a non trattarlo come un malato appena dopo la sua disintossicazione, quando era poco più che uno straccio. O forse perché una notte l'aveva sorpreso a piangere, rannicchiato sulla sua sedia a rotelle e aggrappato agli occhiali come ad un'ancora.
Sospettava che esprimere le proprie emozioni aiutasse a digerirle, Haymitch invece continuava ad ingoiarle finché non gli consumavano lo stomaco. 
«È stato così, per te?», chiese.
Beetee fece un sorrisetto amaro che tutti i vincitori conoscevano. Bevve di nuovo, per prendere tempo.
«A volte», iniziò, sistemandosi gli occhiali sul naso. «A volte invece sembra di avere un cratere al centro del petto».
Un cratere al centro del petto, era una descrizione accurata.
Aveva i suoi sospetti sull'amore perduto di Beetee, ma fare domande prima sarebbe stato pericoloso, chiedere ora indelicato.
Alzò il bicchiere in un brindisi, onorando quelle parole nell'unico modo in cui era capace. 
«Come te la cavi, nel Tre?», chiese dopo un momento di silenzio.
Beetee si strinse nelle spalle. «Qualche progetto qua e là, qualche volta viaggio verso Capitol City. Mi tengo impegnato», concluse.
Haymitch annuì. «Come tutti», concordò distratto. Effie stava parlando con due donne che dovevano essere del Distretto e che Haymitch non conosceva, ma non era una sorpresa la facilità con cui lei faceva amicizia.
«Dovresti parlarle, sai?», chiese Beetee.
Haymitch scrollò le spalle, Chaff gli avrebbe consigliato di ubriacarsi e farsi una sega. 
«L'ultima volta mi ha detto che sono uno stronzo e le avevo rovinato la vita, mi stupisce che si sia anche presentata». E stronzo e mi hai rovinato la vita erano le cose meno brutte che gli aveva detto. Ciò che davvero l'aveva ferita era l'incapacità di Haymitch di esprimere i suoi sentimenti.
Se ci fosse riuscito non le avrebbe spezzato il cuore, se ci fosse riuscito forse non avrebbe passato gli ultimi due anni a struggersi e chiedersi se lei avrebbe mai accettato le sue scuse. 
Beetee aprì la bocca, probabilmente per dispensare un altro consiglio saggio e ragionevole che Haymitch avrebbe disprezzato, ma fu interrotto da uno schiarirsi la gola lì vicino.
«Oh, merda, ecco il Principe Azzurro», disse Haymitch prima di riuscire a trattenersi.
Se l'occhiata di rimprovero di Beetee era un giudizio sul quale basarsi, era la cosa sbagliata da dire. 
Il cipiglio dell'uomo si accentuò ed Haymitch sorrise strafottente. Era disarmante anche per lui accorgersi come il piccolo momento di cuore a cuore che aveva appena vissuto non avesse intaccato per niente la sua armatura di maleducazione. 
L'uomo di schiarì la gola ancora una volta. «Posso avere una parola, signor Abernathy?».
Haymitch non si fece impressionare dal tono cortese. «Beh, sai, è il mio compleanno. Dovresti essere educato e gentile e tutto il resto. È una conversazione gentile quella che vuoi avere?», sorrise innocentemente, come ogni volta precedente la frase no, non ho vomitato io sul tappeto, come puoi pensarlo?
Effie lo odiava.
Fu il turno di Beetee di schiarirsi la gola. «Scusate, mi stanno chiamando», disse, defilandosi. 
Haymitch fece ancora una volta quel sorriso da ragazzo innocente, senza abbandonare gli occhi dell'uomo. Erano determinati come quelli di un uomo d'affari senza scrupoli, ma con un ombra a coprirli come se avesse vissuto un grande dolore dal quale non si era ancora ripreso. Erano cerchiati di nero e di un azzurro intenso, come il cielo d'aprile.
Chiamarlo Principe Azzurro non era sbagliato, dopotutto. 
«Sarò veloce, allora», disse stringendo le labbra come se avesse appena ingoiato qualcosa di acido. «So cosa hai fatto ad Effie e—»
«Hay, hey, frena, amico», lo interruppe Haymitch. «Io—»
«Non sono tuo amico», ringhiò l'uomo facendo un passo in avanti in modo minaccioso. Il corpo di Haymitch si tese, pronto a scattare di fronte ad una minaccia. «So tutto, Abernathy, più di quanto possa piacerti. E ti dirò solo una cosa: avvicinati ancora a lei e sarà l'ultima cosa che farai», gli gettò un'occhiata di disgusto per tutto il corpo, come se Haymitch non fosse neanche degno di ricevere quelle parole. «L'hai già ferita abbastanza, non ti permetterò di distruggere l'ultima cosa che mi è rimasta», concluse abbassando la voce e piantando i suoi occhi in quelli di Haymitch.
Haymitch rimase in silenzio, crogiolandosi nel sale che quelle parole avevano gettato sulle ferite del suo cuore.
Effie non è una cosa, avrebbe voluto urlare. Non è una cosa e non è tua, soprattutto.
Invece tenne la bocca chiusa e continuò a fissare quell'uomo che non si era presentato ma l'aveva minacciato come se non fosse un assassino, come se non avesse ucciso fisicamente altri tributi, mentalmente i soldati che aveva dato l'ordine di eliminare durante la guerra e come se non avesse le mani macchiate del sangue di tutti quei bambini che non era riuscito a riportare a casa.
«Non preoccuparti», disse, sembrando arreso. Avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, qualcosa che l'avrebbe fatto sembrare arguto e intelligente e non così rotto, ma il suo cervello non gli fornì altro che l'immagine di Effie che lo guardava con occhi rossi e gonfi e una disperazione così grande da renderla incapace di parlare. 
L'uomo annuì come se Haymitch avesse acconsentito a chissà quale piano d'azione. Poi come ultima beffa gli rubò il bicchiere dalle mani e gli voltò le spalle.
Haymitch continuò a fissargli la nuca sperando di potergli dare fuoco con il pensiero, ma le spalle dell'uomo continuarono ad allontanarsi, intatte sotto la camicia azzurra di alta fattura.
Una rabbia bruciante iniziò a scorrergli nelle vene e fu felice di avere le mani vuote, perché avrebbe distrutto qualunque cosa gettandola a terra. Solo per ripicca, ebbe voglia di andare da Effie, affondare una mano nei suoi capelli e baciarla fino a toglierle il fiato.
L'avrebbe preso a schiaffi, probabilmente, ma se ne sarebbe preoccupato dopo.
Aveva già calpestato metà della strada nella sua direzione quando si accorse che stava parlando con quel suo fidanzato brioso e pomposo e un sacco di altri aggettivi che finivano in oso
Lui gli dava le spalle, ma lei gli era di fronte ed Haymitch poteva vederla bene in faccia: stava parlando con rabbia, probabilmente sforzandosi di tenere bassa la voce, ma con le sopracciglia corrugate in quel modo che le creava sottili linee sulla fronte.
Chiuse la bocca un momento, forse perché il fidanzato le stava rispondendo, poi ricominciò a sibilare qualcosa con gli occhi socchiusi e con tutto il linguaggio del corpo che urlava disapprovazione.
Haymitch aveva visto così tante volte quel comportamento rivolto verso di lui che non poté fare a meno di intenerirsi. Solitamente la faceva tacere con una battuta così volgere da orripilarla, se erano soli era solito baciarla finché non si arrendeva alle sue mani.
Lei distolse lo sguardo e lo puntò su Haymitch, che sentì il cuore sprofondargli nello stomaco.
Avrebbe dovuto avere la decenza di far finta di niente e andarsene, ma la buona decenza non era mai stata parte delle sue conoscenze. Rimase fermo come uno stupido a fissarla finché l'uomo non seguì lo sguardo di Effie ed individuò la sua figura. I suoi lineamenti si contrassero fino ad indurirsi per la rabbia. Fece un passo nella sua direzione ed Haymitch pensò grazie al cielo, finalmente ho un buon motivo per spaccargli il naso. Ma Effie posò una mano leggera sull'avambraccio del suo principe e lui si fermò.
Rimasero tutti e tre fermi ancora per un momento, come se nessuno sapesse cosa fare. Poi fu Effie a voltargli le spalle, e il cuore malandato di Haymitch si incrinò un po' di più.  

Quando le prime stelle iniziarono a spuntare in cielo e l'aria a diventare troppo fresca per rimanere fuori iniziò una fiera di spostamenti che Haymitch non seguì con attenzione.
Dire che fosse esausto era poco. Si sentiva il corpo pesante, il cervello intorpidito e, come aveva detto Beetee, un cratere in mezzo al petto.
Non sapeva con esattezza come aveva fatto la strada di ritorno — che gli era sembrata comunque molto più corta senza una benda a coprirli gli occhi — e neanche come fosse finito nella casa di Katniss e Peeta notevolmente affollata.
Voleva tornare nel suo confortevole buio e, dopo tanti mesi, sentiva il prurito della sete annebbiargli i sensi. Il the aromatizzato alla menta che aveva bevuto non serviva a niente, se non a farlo correre in bagno più del necessario.
La cucina era così straripata che muoversi era difficile, fu quella la ragione per cui impiegò così tanto a notare che l'unica figura che aveva tenuto d'occhio per tutta le sera non c'era.
La cercò con uno strano panico che non aveva senso di provare, e quasi sospirò dal sollievo quando la vide nel salotto, ferma e sola davanti alla finestra aperta. La brezza della notte le spingeva i capelli attorno al volto e le ciocche bionde le accarezzavano il collo nella più dolce delle tentazioni.
A Haymitch si seccò la gola. 
«Stanca della festa?». La voce gli uscì roca e un po' esitante, ma intrisa di quella morbidezza che sempre la caratterizzava quando erano soli.
Lei si girò nella sua direzione senza sorpresa e senza paura, come se avesse percepito la sua presenza. E forse era così.
«È un po' soffocante», si giustificò, tornando a guardare la notte estiva. 
Haymitch si permise di avvicinarsi. In un'altra occasione l'avrebbe sfiorata, invece cacciò la mano libera al fondo della tesca e strinse le dita per dominare la voglia di toccare la sua pelle.
Le spalle di Effie si tesero visibilmente, ma lei bevve un sorso dal suo bicchiere e continuò a guardare fuori, come se lui non ci fosse. Anche Haymitch gettò un'occhiata all'esterno, ma il paesaggio pacifico non era allettante come la vista di Effie ad un passo da lui.
«È stata una bella festa», disse lei all'improvviso nel tono educato delle chiacchiere da salotto. Haymitch non aveva dimenticato quanto fosse brava nelle intercettazioni sociali, anche con lui.
«Già, chi l'avrebbe mai detto che Katniss sarebbe diventata un'amante delle feste», sbuffò in risposta.
Effie gli lanciò un breve sguardo di rimprovero, se Haymitch non fosse stato così attento al suo viso se lo sarebbe perso.
«È diventata una donna», commentò Effie. C'era forse una punta di tristezza nel suo tono.
«Già», ripetè Haymitch. In quei due anni Katniss aveva ripreso la sua vita in mano ed era finita ad occuparsi di lui più di quanto fosse giusto.
Il silenzio che cadde fra loro non era comodo come lo era stato un tempo. Haymitch poteva ricordare notti intere passate senza dire una parola, perso nella contemplazione della sua pelle nuda e ad aspirare il suo profumo dalle lenzuola. Non aveva mai immaginato che un giorno l'avrebbe vista senza trucco e senza parrucca davanti a tanta gente, erano ancora gli anni in cui si sentiva onorato di avere il privilegio di vederla sotto tutta quella cipria.
Non aveva mai smesso di sentirsi un privilegiato per le sue attenzioni, in verità. Avrebbe dovuto dirglielo, quando ancora ne aveva l'occasione.
«Dormirai qui?», chiese, perché era così stupido da torturati con l'idea di lei addormentata nella casa affianco.
«No, dormiamo alla locanda», rispose tranquilla. «Non volevo che Eustace si sentisse a disagio a casa di sconosciuti».
Eustace è il Principe Azzurro, gli fornì il suo cervello. E non vorremmo mai che gli Eustace di questo mondo si sentano a disagio, aggiunse, crudele.
«Certo», sputò Haymitch, chiudendo la bocca appena in tempo per non farsi sfuggire l'ultimo pensiero.
Effie gli rivolse un'altra di quelle occhiate veloci e prudenti, le stesse che si lasciano a quegli oggetti troppo luminosi che se guardati senza protezioni feriscono gli occhi.
«È stato molto gentile ad accompagnarmi fin qui e gliene sono davvero grata», si fermò un momento, rigirandosi il bicchiere tra le mani. «Non l'ho costretto, ma... a volte è difficile separarsi», sospirò. «Lui è... è l'unico che mi è rimasto», concluse.
Haymitch strinse i denti e distolse lo sguardo. La sottile speranza che aveva tenuto il suo cuore insieme per tutto quel tempo si sciolse in un rivolo acido che fece bruciare la cavità al centro del suo petto tanto da togliere il fiato.
«Divertente», la voce gli raschiò la gola. «È la stessa frase che ha detto lui».
«Davvero?». O era incurante del suo dolore o non se n'era accorta. Entrambi le ipotesi erano terribili e gli facevano venir voglia di rompere qualcosa.
Effie si voltò verso la porta del salotto come se avesse potuto vedere l'uomo attraverso i muri, e c'era una tale tenerezza sul suo viso che al sol vederla Haymitch sentì lo stomaco contrarsi. «Nel suo caso è vero, però», disse, un po' malinconica. «Io almeno ho i ragazzi».
Haymitch deglutì a vuoto. «E me».
Effie lo guardò e questa volta riuscì a catturare i suoi occhi. Al buio sembravano quasi neri, ma Haymitch lesse in loro come se non fossero divisi da due anni di silenzio ma quella fosse solo un'altra notte che passavano sul tetto del Centro di Addestramento, lei con una sigaretta tra le dita e lui con un bicchiere in mano, entrambi persi a contemplare il vuoto delle loro vite.
«Hai anche me. Io... ci sarò sempre per te, dolcezza», il vezzeggiativo gli scivolò sulla lingua quasi a tradimento.
Effie sussultò, se per la familiarità con cui l'aveva chiamata o per le sue parole non avrebbe saputo dirlo. La vide deglutire, un leggerlo movimento della gola che gli fece formicolare le dita dal desiderio. 
«Haymitch», sospirò, abbassando la testa. «Haymitch, non—» le si spezzò la voce e si guardò attorno come se potesse trovare le parole nella stanza buia.
Fece un respiro profondo ed assieme al fiato prese coraggio, quando tornò a parlare la voce era leggermente più salda. «Non devi mostrarti gentile a tutti i costi, Haymitch. Quello che è successo tra noi... La mia è stata una reazione eccessiva, davvero. Avevi detto solo sesso e io ero d'accordo. I patti erano patti e se io ho iniziato a fraintendere è stata una mia svista. Tutto ciò che mi è successo non è stata colpa tua. Ti ho incolpato ed ero arrabbiata e ferita, ma ho riflettuto molto in questo tempo e non è colpa tua, Haymitch. Niente di tutto ciò che è successo lo è». 
Si era dimenticato la sua capacità di dire tante parole tutte in una volta, o come diventava stridula la sua voce quando era un po' in ansia, ma quelle parole gli scavarono dentro a forza posizionandosi da qualche parte fra i resti del suo battito cardiaco.
Il fatto che lei avesse scelto quelle parole specifiche era un chiaro indizio di quanto lo conoscesse.
Si era incolpato?
Sì, incessantemente. Dal momento in cui aveva scoperto della sua prigionia a quando l'aveva vista sporca e ferita sul letto di un ospedale, una piccola cosa rotta che non era stato in grado di proteggere.
Insultarlo e allontanarlo e odiarlo era una reazione più che giusta da parte sua. Se Haymitch fosse stato un uomo migliore l'avrebbe accettato.
«Effie, io—»
«Che sta succedendo qui?».
Haymitch emise un gemito da animale ferito che si perse nel rumore dei passi di Eustace sulle piastrelle. 
Si avvicinò ad Effie e le posò una mano sulla spalla. «Stai bene?», le chiese, guardandola preoccupato.
«Certo», rispose lei, un piccolo sorriso agli angoli della bocca che voleva essere rassicurante, ma era solo triste.
Haymitch lo guardò un momento di troppo, abbastanza perché Eustace lo notasse e trasformasse di nuovo i suoi lineamenti nell'espressione di chi ha appena visto l'insetto più repellente di tutta la terra.
«Pensavo fossimo d'accordo, Abernathy». Aveva la stessa capacità di Effie di mantenere un tono educato anche quando il corpo era infuriato. Evidentemente era un requisito necessario per essere cittadini della Capitale.
«Non ha fatto niente, Stash», lo ammonì Effie con la morbida esasperazione di un adolescente davanti ai comportamenti iperprotettivi di un genitore.
Haymitch non riuscì a trattenersi e si strofinò una mano sul viso stanco, coprendosi gli occhi. Realizzò in quel momento che il bicchiere che stringeva tra le dita era di vetro e avrebbe potuto allungare il braccio e spaccarglielo sulla faccia. Se fosse stato fortunato abbastanza gli avrebbe cavato un occhio e la sua bellezza da Principe Azzurro avrebbe smesso di tormentarlo.
Ed Effie l'avrebbe odiato, ma qual era la novità?
Una risata convulsa gli uscì dal petto senza permesso. Passò accanto a quell'uomo irritante urtando con una spalla e senza scusarsi.
Non salutò nessuno. Quella notte, per la prima volta dopo quasi un anno, si ubriacò fino a svenire.  

Se la luce era un  inidizio doveva essere quasi il tramonto. Haymitch impiegò un po' di tempo per capire perché si era svegliato, poi sentì i passi.
Qualcuno l'aveva chiamato e il suo nome aveva fatto breccia attraverso la cortina di sonno e alcool che avvolgeva il suo cervello. Come fosse finito sdraiato sul tappeto nello studio, poi, non lo sapeva. Neanche ci entrava mai, in quella stanza.
«Haymitch?».
Katniss, allora.
Oltra al dolore al corpo per aver dormito sul pavimento freddo Haymitch non sentiva altro, probabilmente aveva dormito talmente tanto da smaltire la sbornia. Aveva ancora i vestiti della festa, però, quelli eleganti che Peeta l'aveva costretto ad indossare.
«Haymitch, sei qui?».
Haymitch spostò la testa dall'altra parte e fece una smorfia. Guardando attraverso le gambe della scrivania poteva vedere la porta che aveva lasciato aperta.
Chiuse di nuovo gli occhi: se fosse stato abbastanza fortunato Katniss se ne sarebbe andata. 
Ovviamente, non era mai fortunato.
«Haymitch, ti si vedono i piedi», la voce era più forte e i passi fecero scricchiolare il parquet della stanza. «Cosa stai facendo lì per terra? Hai passato tutta la notte e tutto il giorno lì? A Peeta verrà un accidente quando lo scoprirà».
Quando aveva preso il vizio di parlare così tanto?
«Vai via, sto dormendo».
Passò abbastanza tempo senza rumore perché Haymitch si azzardasse ad aprire un occhio. Fu un errore. Katniss lo stava guardando dall'alto al basso con le mani sui fianchi e un vestito arancione.
La vista fu abbastanza sconvolgente da indurre Haymitch ad alzarsi su un gomito e fassare la ragazza a bocca aperta. «Perché sei vestita come una zucca?».
Katniss aprì la bocca e poi la chiuse, si accigliò e gli colpì la gamba con la punta del piede in un gesto stizzito e di ammonimento.
«Non sono una zucca», si lamentò.
Haymitch rise come non faceva da tempo. 
Quando riuscì a riprendersi Katniss era ancora accigliata, ma lo guardava anche come se fosse pazzo.
«Va bene, allora», disse sforzando le articolazioni doloranti e alzandosi. «Sei pronta per una sfilata di moda?».
Katniss sbuffò e poi al suo viso successe una cosa strana, come se non sapesse se essere infastidita, divertita o intenerita.
«No, me l'ha portato Effie».
Haymitch si bloccò e la guardò meglio. Avrebbe dovuto accorgersene, in effetti. L'aveva guardata così tante volte mentre disegnava abiti che avrebbe potuto riconoscere la sua mano ovunque.
«Ovviamente, solo lei poteva fare un vestito tanto —» brutto, stava per dire. Perché era questo che faceva sempre: la screditava.
Nessuna sorpresa che lei lo odiasse davvero, nonostante le parole della notte precedente.
«Sei carina, dolcezza», si corresse.
Katniss lo guardò di nuovo come se fosse pazzo, Haymitch sventolò una mano. «Vado a farmi una doccia». 
«Oh, bene», disse sollevata, seguendolo. «Per fortuna collabori, Peeta pensava avresti fatto storie».
Haymitch la guardò, scocciato perché lo stava tallonando. Le gettò la camicia in faccia, per buona misura.
«Sono ancora libero di lavarmi quando voglio, spero». Si precipitò in bagno prima che Katniss potesse rispondere o lamentarsi per la sua camicia sporca.
«Sì, ma questa sera sei invitato a cena e c'è anche Effie», la sentì urlare attraverso la porta chiusa.
Haymitch non fu abbastanza veloce e il getto d'acqua gelata lo colpì in pieno petto, mozzandogli il fiato e bagnando tutti i vestiti che aveva ancora addosso.
«Cosa?», chiese. Ma gli uscì come un refolo strozzato.
«Cosa?», chiese di nuovo, un po' più forte.
«Muoviti, Haymitch», fu la risposta. La porta tremò sotto un colpo che era forse la pallida vendetta di Katniss, ma Haymitch aveva ormai perso tutto il divertimento.  

Si fermò a nutrire le oche che agitarono i becchi contro di lui in un rumoroso rimprovero. 
Forse, gli venne in mente, Effie non sarebbe stata presente. Era uno scherzo crudele di Katniss, perché doveva essere partita quella mattina insieme a tutti gli altri.
Lasciò il secchio abbandonato vicino allo steccato, attraversò la terra di nessuno che separava il suo cortile da quello dei ragazzi e salì i gradini della veranda con lo stomaco che si chiudeva per l'anticipazione. Non che si diede il tempo di crederci: se lei non ci fosse stata la delusione l'avrebbe ferito troppo, e già non vedeva l'ora di tornare ad affogarsi sul fondo di una bottiglia. 
Aprì la porta con troppa forza solo per bloccarsi sul posto: una mano sulla maniglia, un piede dentro casa e l'altro fuori.
Effie era lì. Indossava un vestito azzurro a metà coscia che le lasciava le braccia scoperte, da dove si trovava Haymitch poteva vedere il contorno traslucido di una cicatrice che spariva sotto la manica. Si era voltata al forte rumore e ora lo guardava con occhi grandi come piattini, azzurri e spaventati.
Haymitch deglutì a vuoto.
«Sei qui», mormorò.
Temeva fosse un'allucinazione del suo cervello, ma al suono della sua voce lei si mosse tirando a sé ciò che stava estraendo dal forno e chiudendo lo sportello con un colpo del fianco.
«Certamente, non potevo perdermi una cena cucinata da Peeta», rispose con il suo tono allegro e la voce stridula. Se aveva capito l'implicazione della sua frase o l'emozione nella sua voce non lo diede a vedere, raccolse uno strofinaccio e si pulì le mani.
Haymitch si accorse di essere ancora immobile e fece un passo in avanti, entrando finalmente nella cucina e chiudendosi la porta alle spalle.
«Pensavo fossi partita con il treno questa mattina», disse, osservandola aggiungere un piatto alla pila già presente sul tavolo. Tipico di lei, comportarsi come se quella fosse casa sua.
«Quelli erano i piani», canticchiò. «Ma Peeta mi ha chiesto di fermarmi e non ho saputo dirgli di no. È passato davvero troppo tempo dall'ultima volta che li ho visti».
Lo so, due fottuti anni, pensò. Ma non lo disse.
Forse avrebbe trovato un altro commento pungente da sbatterle in faccia, ma Katniss entrò in quel momento.
«Ciao, zucca», la apostrofò.
«Non sono una zucca! Effie, diglielo anche tu», Katniss gli tirò un pugno sulla spalla passandogli accanto. «È arancione come il colore preferito di Peeta», aggiunse, quasi come un ripensamento.
«Non hai bisogno di indossare il mio colore preferito per piacermi, Katniss», disse Peeta, spuntando dal corridoio.
Effie sorrise deliziata, Katniss arrossì, Haymitch alzò gli occhi al cielo.
«Tutto questo romanticismo prima di cena farà venire il voltastomaco», borbottò, a tutti e nessuno.
«Non ti farebbe male imparare, Haymitch», commentò Effie, e senza degnarlo di un'occhiata lo sorpassò e si diresse verso la sala da pranzo.
Haymitch rimase pietrificato, chiedendosi se la vena di amarezza che aveva sentito nella sua voce se la fosse soltanto immaginata.
Peeta gli lanciò una lunga occhiata di rimprovero, poi sparì nel corridoio.
Ad Haymitch non rimase che seguirli.  

La cena iniziò in un clima teso ed imbarazzante. Non c'era vino sul tavolo: i ragazzi ancora non sapevano della sua totale disfatta sul fronte sobrietà. O forse Peeta aveva intuito qualcosa, e quella era la ragione per cui lo guardava corruccciato.
Comunque, le cose iniziarono a sciogliersi durante la portata principale, e giunti al dolce la conversazione scorreva tranquilla.
Sembrava una normale cena tra amici, e fu per quella ragione che Haymitch afferrò la caraffa e riempì il bicchiere di Effie quando lo vide vuoto, come aveva sempre fatto. Era una piccola tenerezza che le riservava perché sapeva quanto lei si sentisse lusingata dalle piccole attenzioni, lievi dettagli che ad un occhio esterno sarebbero passati inosservati.
Fu quando la sentì trattenere il fiato che ricordò che non era più lui l'uomo incaricato a quelle premure.
Rimase immobile a darsi dell'imbecille con la caraffa sospesa, tanto intento ad ignorare gli occhi di Effie che sentiva sul viso per accorgersi dell'acqua che stava traboccando.
«Haymitch?», chiese Peeta.
«Oh, merda», imprecò, sbattendo la brocca sul tavolo. Le posate tintinnarono nei piatti vuoti e nella stanza cadde il silenzio.
La macchia di umidità più scura sulla tovaglia bianca si allargò lentamente, un po' come le sue colpe. Qualunque cosa avesse fatto adesso sarebbe stata inutile: la macchia non sarebbe scomparsa, l'acqua non sarebbe tornata nel bicchiere, i sentimenti di Effie non sarebbero cambiati.
Sentì qualcosa muoversi a metà strada tra il petto e lo stomaco, forse una risata, forse un singhiozzo.
«Scusate, ho bisogno d'aria», disse con voce roca, scappando prima di cadere a pezzi.  

Avrebbe voluto correre a casa come il codardo che si sentiva, ma un conato gli serrò le viscere e fu costretto a piegarsi in due, afferrando la balaustra con le mani per non cadere a terra. Prese grandi bloccate d'aria, come faceva nei primi periodi dopo la sua arena quando era costretto a domare attacchi di panico imprevedibili. 
La sensazione era pressappoco la stessa. Il sangue gli ronzava nelle orecchie e macchie nere gli danzavano davanti agli occhi.
Un altro conato gli sconquassò lo stomaco, abbastanza forte da fargli capire che il bicchiere di coraggio liquido che aveva ingollato a stomaco vuoto era stato una pessima idea. Caracollò giù per i pochi gradini della veranda, fu solo per miracolo che non cadde ed evitò di rompersi l'osso del collo. Ebbe appena il tempo di spostarsi di lato prima che il suo stomaco decidesse di ribellarsi del tutto e svuotasse l'intera cena.
Quando non gli rimase che bava da sputare rimase con le mani sulle ginocchia a riprendere fiato. Quasi dodici mesi di sobrietà non gli avevano fatto bene: una volta era molto più bravo a sopportare quegli inconvenienti. Forse avrebbe dovuto considerare l'idea di non tornare sul sentiero dell'autodistuzione.
O forse solo evitare l'alcool. Poteva sballarsi, come i vincitori del Sei, o fumare fino a disintegrarsi i polmoni.
Ci avrebbe messo troppo. Ciò che davvero desiderava era l'oblio offerto dai suoi liquori.
«Vaffanculo, che merda», inveì, asciugandosi la bocca con il dorso della mano. 
Si raddrizzò, aggrappandosi al legno all'altezza delle sue spalle perché si sentiva le ginocchia instabili.
«Pensavo avessi smesso di bere».
Haymitch si strofinò gli occhi, con un gemito più addolorato che frustrato. In quel momento gli venne in mente, con una chiarezza che poche volte aveva sperimentato, l'immagine di suo nonno. Era un uomo alto, con le mani rovinate dagli anni passati a lavorare in miniera e i capelli lunghi che era solito portare legati con un laccetto di cuoio. Era stata l'unica figura paterna per Haymitch e suo fratello. Con la vecchiaia aveva sviluppato una tosse catarrosa, e per coprirne il sapore persistente aveva preso l'abitudine di masticare foglie di menta. 
Con gli occhi della mente, Haymitch lo vide infilarsi una manciata di foglie in bocca, masticare fino a farle diventare un grumo appiccicoso e poi alzare un dito per attirare l'attenzione prima di proclamare una delle sue massime con cui li faceva crescere.
Quelli che gli Dei vogliono distruggere, prima li rendono pazzi, aveva detto una notte.
Haymitch pensava di essere già considerevolmente distrutto e abbastanza pazzo, avrebbe voluto che gli Dei, chiunque fossero, iniziassero ad accanirsi su qualcun altro.
«Proprio tu fra tutti avresti dovuto saperlo», rispose con voce impastata. 
Effie non rispose, ed Haymitch alzò lo sguardo. Aveva le braccia attorno al busto, come per proteggersi dal freddo.
Lei aveva sempre freddo.
Senza dire una parola camminò fino ai gradini e si sedette. Era un gesto carino: avvicinarsi a lui ma senza impegno. Ad Haymitch si strinse il cuore a vedere quanto lei lo conoscesse ancora bene.
«Le stelle sono così belle, qui», sospirò Effie.
Haymitch seguì la direzione del suo sguardo e si perse nella marea di puntini luminosi contro il mantello nero della notte. Non si era accorto fosse così sereno.
«In città non si vedono così bene», continuò.
Haymitch tornò a guardarla. «Lo so», rispose.
E lo sapeva davvero. Avevano passato troppe notti sul tetto, fianco a fianco, perché lui non lo sapesse.
«Non pensavo te ne fossi mai accorto», Effie incontrò i suoi occhi con un sorrisino mesto.
Mi accorgo sempre di tutto, con te. Ma ingoiò anche quello. Fece invece due passi avanti, uscendo dall'ombra e avvicinandosi. Se avesse steso un braccio avrebbe potuto toccarla.
Spinse le mani nelle tasche.
«Come stai, dolcezza?», chiese, la voce che si arrotondava sulle vocali con tenerezza. Era un tono che riservava solo a lei, chissà se l'aveva mai saputo.
Effie sbatté le palpebre e fece vagare lo sguardo prima di riportarlo su di lui. «Ci sono giornate buone e giornate meno buone», rispose, vaga.
Haymitch annuì, non c'era definizione migliore di quella.
«Perché non ti dai la possibilità di ricominciare, Haymitch?».
«Come hai fatto tu?».
Era stato cattivo, se ne pentì subito.
Effie sbuffò una risata sardonica che non le si addiceva affatto. Haymitch soffocò l'istinto di allungare le mani e solleticarla in tutti i punti che sapeva l'avrebbero fatta ridere.
Soffriva ancora il solletico, vero? Certe cose non sarebbero dovute cambiare.
«Da qualche parte bisogna iniziare, non possiamo passare la vita a scavarci la fossa», lo rimproverò.
Giusto. Con lei sarebbe stato più facile, però.
Senza alcool non era capace ad alzarsi ogni mattina e camminare sotto il peso dei suoi errori.
«Posso sedermi affianco a te?», chiese. Tempo prima non le avrebbe mai fatto una domanda del genere, l'avrebbe anche baciata senza prima indugiare.
Aveva perso quella libertà insieme al diritto di stringerla a sé quando preferiva.
Il viso di Effie si addolcì e un brivido corse lungo la sua colonna vertebrale.
«Ma certo», rispose, ed Haymitch si sedette al suo fianco, vicino ma non abbastanza da sfiorarla, e rimasero in silenzio a guardare le stelle.  

Haymitch aveva da anni l'abitudine di dormire alle prime luci dell'alba, quando il sole scacciava le tenebre. A volte capitava però che si addormentasse con il buio, negli ultimi tempi era migliorato con i tentativi di una vita regolare.
Non più, da quella notte.
Continuava a fissare le stelle chiedendosi se a parecchi chilometri di distanza lei stesse guardando lo stesso cielo.
Probabilmente no, aveva altro da fare.
Sebbene non fosse ancora ricaduto nella spirale della dipendenza non nascondeva più le sue bevute. Anche Katniss se n'era accorta, e la pietà con cui lo guardava gli faceva pensare che Peeta avesse capito più di quanto avesse dato a vedere e avesse parlato fin troppo.
Era per quello che gli aveva urlato contro. Quello, il fatto che fosse brillo e così stufo di sentirsi il cuore a pezzi.
La discussione si perdeva nel fumo della sua mente, ma ricordava di aver accusato Peeta di essere uno stronzo e il ragazzo l'aveva rimproverato di piangersi addosso. Se n'era andato sbattendo la porta e non si era più fatto vedere.
Vero anche era che Haymitch non usciva da casa sua da una settimana.
«Esco, invece», aveva sostenuto appena un momento prima.
«Andare a dar da mangiare alle oche non conta, Haymitch», rispose Katniss, mezza infilata nel frigo. Stava ordinando un contenitore con qualche tipo di cibo.
Haymitch chiuse gli occhi, nel silenzio che seguì sapeva già che domanda gli avrebbe fatto.
«Non hai mangiato nulla».
Si era sbagliato allora: quella non era una domanda.
Si strofinò la bocca. Sebbene avesse un bicchiere pieno e mezza bottiglia vuota davanti la sete non era sparita. Una parte di lui sapeva che era perché non era di alcool che aveva bisogno.
La porta del frigo di chiuse ed Haymitch non ebbe il coraggio di guardare Katniss che spostava una sedia e prendeva posto di fronte a lui.
Si sentiva vergognosamente vicino alle lacrime, aveva l'impressione che se avesse parlato le emozioni trattenute per anni sarebbero strabordate e avrebbe pianto per tutto ciò che aveva accumulato, dalla perdita di Effie fino a tornare indietro alla perdita di sua madre.
«Che sta succedendo, Haymitch?», chiese la ragazza. 
Era una domanda con più tatto di quanto si sarebbe aspettato.
Aprì la bocca per rispondere niente, invece si sentì articolare parole che si mettevano in ordine di volontà propria.
Una volta iniziato non fu in grado di interrompersi, e raccontò ogni cosa: ricordò la prima volta che l'aveva vista e odiata, così ingenua ed elettrizzata per mandare a morte dei bambini; ricordò la prima volta che cambiò idea sul suo conto, quando la sentì consolare un tributo fino a convincerlo che lei credeva nella sua vittoria; ricordò i primi anni ad insultarsi e gridarsi contro e — e non era così che erano finiti a letto insieme, in primo luogo?
Aveva finto per anni che lei non fosse altro che un modo per ravvivare le notti, ma adesso, raccontando tutto ed ignorando il rossore alle guance di Katniss, dovette ammettere che il primo a cadere, da qualche parte lungo la strada, era stato lui.
L'unico errore di Effie era stato quello di non riuscire a nascondere i suoi sentimenti, quel ti amo che gli aveva sussurrato tra collo e spalla quando aveva capito in cosa era coinvolto.
Forse lei l'aveva capito, come sarebbe andata a finire. O forse il destino era crudele e la sua dichiarazione doveva arrivare proprio la notte in cui i ribelli avrebbero messo in atto il loro piano.
Haymitch l'aveva allontana. Crudelmente e senza pietà e terrorizzato che qualcosa sarebbe andato storto e non l'avrebbe più vista e l'ultima cosa che lei avrebbe saputo di lui era che l'aveva usata solo per svuotarsi le palle.
Non era andata in modo poi tanto diverso, alla fine.
Contemplando il fondo del bicchiere come se contenesse le verità del mondo, Haymitch sentì un peso abbandonare le sue spalle. Alzando lo sguardo verso Katniss si accorse che lei aveva gli occhi pieni di lacrime.
Effie aveva ragione, era diventata una donna. Tra le chiamate del suo dottore e l'influenza di Peeta aveva trovato un equilibrio in cui vivere le sue emozioni non la spaventava così tanto da chiudersi in una gabbia di mutismo e apatia.
Katniss allungò una mano ed Haymitch strinse i denti, perché sentiva la gola chiusa e gli occhi bruciare. In quel momento di emotività condivisa, sentì tutto l'affetto che provava per la ragazza come se fosse sua figlia.
«Se Effie è il tuo dente di leone non dovresti lasciarla andare», gli disse con voce arrochita dalle lacrime.
Haymitch chinò la testa fino a posare la fronte sulle loro mani intrecciate e, nonostante si sentisse come un bambino sorpreso ad essersi bagnato i calzoni, pianse.  

Il telefono suonò a vuoto finché non cadde la linea.
Haymitch imprecò, sbatté l'apparecchio sul ricevitore e ricompose il numero. A metà degli squilli e un numero imprecisato di imprecazioni dopo, una voce rispose.
«Pronto?».
Haymitch si corrucciò. «Beetee?», chiese, mentre il rumore di qualcuno con il fiato grosso gli riempiva l'orecchio.
«Sono io, chi parla?».
Haymitch sbuffò, metà divertito e metà infastidito. «Haymitch», rispose.
«Oh, Haymitch, scusa», un rumore gracchiante coprì la sua voce per qualche secondo. «Ero nell'orto».
Il cipiglio di Haymitch si fece più profondo. «Hai un orto?». Nella sua mente nacque l'immagine di Beetee avvolto da freschi ambiti bianchi di lino e un grosso cappello di paglia rotondo. Non aveva mai visto un abbigliamento del genere, forse glielo aveva descritto Chaff come tipico del suo Distretto.
«È un mondo costruttivo ed affascinante, dovresti provare, sai? Sto costruendo delle serre che mi permetteranno di—»
«Sì sì, ho capito, ho capito», lo interruppe. Se non l'avesse fato Beetee si sarebbe imbarcato in un discorso senza fine di cui Haymitch avrebbe capito a malapena la metà delle cose.
All'orecchio, disturbata dalle scariche elettriche, gli giunse la risata un po' imbarazzata dell'uomo.
«Va bene, ho capito, non mi hai chiamato per sapere dei miei esperimenti», una pausa, Haymitch sentì un tonfo e un sospiro. Immaginò Beetee togliersi il cappello che forse non aveva e sedersi. «Come posso aiutarti?».
Haymitch si leccò le labbra, senza sapere come formulare la frase. «Ho bisogno di un favore», si risolse a dire. 
«Ma certo, ti ascolto», la voce di Beetee aveva assunto quel piglio particolare che aveva sempre quando si concentrava.
Haymitch si schiarì la gola. «Vorrei...» esitò. «Vorrei chiederti se puoi darmi il nuovo indirizzo di Effie».
Nel suo orecchio rimbombò il suono del respiro di Beetee, ed Haymitch quasi immaginò gli ingranaggi della sua mente girare per trovare un modo abbastanza delicato per dirgli che non poteva farlo.
Chiuse gli occhi, preparandosi al colpo.
«Sarebbero informazioni private», gli disse.
Haymitch si allungò per afferrare la bottiglia d'acqua che aveva poggiato sul davanzale della finestra. Ne prese un sorso. Era calda, fece una smorfia.
«Il suo numero di telefono, allora? Ho provato a chiamarla a quello vecchio, non esiste più», non si arrese. Notò compiaciuto che la sua voce non vacillò, nonostante si sentisse scoraggiato. 
Dall'altra parte ci fu il romuore di ticchettii, come di tasti premuti in fretta.
«Le hanno sequestrato la casa. Posso provare a recuperare il suo indirizzo, ma non garantisco nulla», spiegò. «Il sistema informatico è migliorato parecchio con la nuova amministrazione».
Haymitch lasciò il fiato che non si era accorto di aver trattenuto. «Grazie, Beetee, sei un amico».
«Non è nulla, ma — Haymitch?».
«Sì?».
«Non fare stupidaggini, per favore».  

Beetee richiamò tre giorni dopo, senza buone notizie.
Dopo aver posato il telefono Haymitch si disse che non era importante, che quello era il destino — o gli dei, maledetti — che gli diceva di lasciar perdere.
Con grande dignità mangiò la sua cena, si fece una doccia e si preparò per andare a letto. Bevve mezza bottiglia del primo liquore che gli capitò sotto mano solo per aiutarsi a prendere sonno, si disse.
Invece di salire le scale per la sua stanza uscì di casa.
Peeta era nel giardino, e davvero Haymitch non voleva sapere perché il ragazzo stesse raccogliendo fiori a quell'ora.
«Cosa stai facendo?», gli chiese Peeta, i pantaloni sporchi di terra e una linea di pittura verde sulla guancia.
«Vado a prendere a calci in culo gli dei», rispose.
Solo dopo si accorse che quella era una risposta da ubriaco.
Alla stazione comprò il primo biglietto per la capitale che riuscì a trovare — non me ne frega un cazzo se è un treno merci, dammi quel fottuto biglietto o giuro che chiamo Plutarch Heavensbee e vi faccio chiudere questa baracca merdosa!, la ragazza gli aveva venduto il biglietto con il labbro inferiore che tremava.
Solo dopo ore di viaggio, quando la stanchezza era ad un livello invidiabile, Haymitch realizzò che tutta quella rabbia era soltanto il suo stupido modo per proteggersi dalla paura. Finché l'alcool in corpo gli aveva dato coraggio gli era sembrato tutto profondamente sensato, ora iniziava ad avere dei dubbi.
Più si dava il tempo di pensare, più il terrore gli stringeva le viscere. Nel tentativo di calmarsi prese un grande respiro, poi iniziò a stilare un elenco, logico e conciso, che avrebbe seguito passo a passo.
Settantacinque ore dopo posò piede a Capitol City, e la voglia di vomitare fu il suo primo istinto.
Considerò l'idea di visitare Plutarch, ma la scartò: voleva evitare che la sua vita privata diventasse in circo mediatico.
Si diresse al vecchio appartamento di Effie, e nell'attesa seguente il suono del campanello Haymitch notò che aveva cambiato lo zerbino.
Prima ne aveva uno ridicolo, con la scritta benvenuto di un rosa accecante e la capacità di pulire da solo le suole delle scarpe. Ora, con lo stomaco sotto i piedi, Haymitch si accorse che gli mancava.
La porta si aprì sul corpo di una donna dalla pelle scura e molto incinta. Haymitch fece un passo indietro, sorpreso.
«Scusi, Effie Trinket vive qui?».
Il viso della donna fu sfigurato dalla rabbia e dal disgusto. Gli sputò sui piedi, poi gli chiuse la porta in faccia. 


Se Beetee non era riuscito a trovarla non c'era modo che ci riuscisse lui.
Seduto su una panchina con un panino mezzo mangiato e un bicchiere di caffè, Haymitch pensò sembrasse uno di quei barboni tristi agli angoli delle strade. 
Posò la fronte sui pugli chiusi, i gomiti che puntellavano dolorosamente sulle ginocchia, e stracciò l'elenco mentale che si era fatto.
I suoi bisogni primari erano in realtà una doccia, del cibo e almeno otto ore di sonno, ma non se ne preoccupò. Spuntò tutte le persone che potevano dargli qualche informazione, e quando si soffermò sulla faccia giusta scoppiò a ridere per non averci pensato prima.
Una donna gli passò affianco, lo guardò come un matto e attraversò la strada.
Haymitch non ci fece caso, era abituato anche a quello. 

Venia rispose alla sua chiamata come se fosse un caro amico che non sentiva da tempo. In realtà, Haymitch non pensava di aver scambiato con la donna più di tre frasi in tutta la sua vita.
In ogni caso, gli diede ciò di cui aveva bisogno, e nel tardo pomeriggio finalmente Haymitch raggiunse la sua meta.
Si sentiva profondamente stanco, ma non si diede il tempo di indugiare e premette il campanello con un dito che tremava solo leggermente. 
Quando la porta iniziò ad aprirsi il suo cuore tremò, solo per fermarsi quando vide la faccia insopportabile di quell'odioso Principe Azzurro.
Un gemito esasperato gli rombò nel petto. «Che cazzo», imprecò.
L'uomo inarcò un sopracciglio. «Già volevo sbatterti la porta in faccia, questo non aiuta».
Haymitch strinse i denti, piantò i suoi occhi in quelli dell'altro e si costrinse a non urlargli in faccia tutto ciò che pensava.
«Voglio parlare con Effie», dichiarò.
«Sì, allora, fammi pensare...», si portò una mano al mento con atteggiamento beffardo. «No».
Haymitch sbatté il pugno sulla porta prima che l'altro potesse chiuderla.
«Non puoi decidere per lei, non sei il suo protettore», ringhiò. E aveva detto protettore, ma l'impressione era che quell'uomo si comportasse come un fottuto fidanzato possessivo.
«Ma certo che lo sono, sono suo fratello!».
Haymitch si bloccò, il cuore cominciò a batterli contro le costole. «Cosa?», raspò.
L'uomo si approfittò della sua debolezza e fece per chiudere la porta.
«Vaffanculo!», imprecò Haymitch, lanciandosi con la spalla contro il legno. «Non mi interessa se—». 
«Stash, chi è?». 
Entrambi si bloccarono un quella posizione ridicola contro la porta, uno che spingeva per chiuderla e l'altro per tenerla aperta.
«Nessuno!», gridò Eustace nello stesso momento in cui Haymitch urlò «Sono io!». Haymitch vide la sua mano posarsi sul braccio dell'uomo, poi lei comparve e i suoi polmoni decisero di smettere di funzionare.
Indossava una maglietta larga color panna, i capelli sciolti sulle spalle e gli occhi sempre così blu da far male.
«Haymitch», disse sorpresa, con le sopracciglia inarcate. Nel secondo successivo i suoi occhi si allargarono nella realizzazione e si portò una mano alla bocca. «Oh, cielo, sono i ragazzi? È successo qualcosa? Stanno male? Perché nessuno mi ha chiamato? Devo—»
«No, no, non sono i ragazzi», la interruppe Haymitch, alzando una mano che però lasciò cadere nello spazio vuoto tra i loro corpi. «Stanno bene, non è successo niente», la rassicurò.
Effie prese un respiro profondo per calmarsi, poi abbassò le mani continuando a tenerle intrecciate. «Perché sei qui, allora?», chiese.
Haymitch aprì la bocca per rispondere e poi la richiuse. I suoi occhi saettarono verso l'uomo che lo guardava truce dietro la spalla di Effie per poi tornare subito a lei.
«Vorrei parlarti», disse, cauto.
Effie sbatté le palpebre. «Ti ascolto».
Haymitch guardò di nuovo l'uomo. «Va bene», disse, più a se stesso. «Va bene», ripetè. «È giusto, va bene. Io vorrei... Uhm — chiederti scusa».
Effie si accigliò. «Ti ho già perdonato, Haymitch, te l'ho detto».
Haymitch si strofinò la bocca. «No, non è quello. Io–»
«Hai bisogno di bere?», lo interruppe.
«No, non — che cazzo, Effie, voglio farlo bene! Solo — merda». Si passò una mano sul viso, sugli occhi. Lei non disse niente ed Haymitch prese fiato, preparandosi al discorso che aveva fatto nella sua mente sapendo che non sarebbe mai riuscito a pronunciarlo.
«Ho fatto un gran casino», iniziò, tornando a guardarla. «Non solo ultimamente, ma — tipo sempre. E...», sospirò, «Mi dispiace per tutto. Tutto. Tu, io, quello che abbiamo fatto... Se le cose fossero andate diversamente... Tu — tu non hai idea di quanto sia difficile costringermi a smettere di pensare a te, a volte, a quello che ti ho fatto passare e come sarebbero le cose se fossi stato meno stupido. La verità è che non riesco a fare niente di giusto senza di te e io — oh, merda, ti prego, non piangere. Ti prego, so che sto facendo un pessimo lavoro, ma—»
«Sei uno stupido, Haymitch Abernathy», singhiozzò Effie. Grosse lacrime gli colarono lungo le guance e lei le spazzò via con rabbia. «Sei un tale stupido! Se mi avessi detto tutto questo prima-», la voce le morì per un singhiozzo tanto forte da scuoterle le spalle.
«Lo so, pensavo — non importa. Ti prego, non piangere, non sopporto vederti così», mormorò con voce che si addolciva. E non riuscì più a trattenersi: allungò una mano e le accarezzò una guancia, togliendo con il pollice le lacrime che erano simbolo della sua incapacità.
«A volte penso che ciò che provo per te sia troppo, troppo forte. E non riuscirò a tenerlo tutto dentro di me e cadrò a pezzi», mormorò, costringendosi ad ammettere i suoi sentimenti.
Effie singhiozzò ancora una volta, per un secondo lo fissò con i suoi occhi arrossati e luminosi come fanali e, senza che Haymitch se ne accorgesse, gli gettò le braccia al collo.
«Sei un deficiente, Haymitch. Ti amo anch'io», confessò contro il suo collo.
Haymitch accolse il suo slancio e lo assecondò alzandola da terra. La strinse così forte da farle male, se la premette contro il corpo e affondò il viso nei suoi capelli biondi come da tempo aveva soltanto osato sognare. Si accorse che stava continuando a mormorarle all'orecchio parole rassicuranti finché lei non smise di singhiozzare, accarezzandole la schiena e la nuca.
Effie si staccò da lui il lo spazio necessario ad afferrarlo per il colletto della camicia e trascinarlo in un bacio che sembrava una punizione. La bocca si schiantò sulla sua e per la prima volta da anni ad Haymitch sembrò di tornare a respirare.
«Ti amo anch'io», ripetè Effie, ed Haymitch la strinse un po' di più, promettendosi che mai più nella vita l'avrebbe lasciata andare. 
Passarono minuti durante i quali non si preoccupò di nulla se non di sentire il suo corpo.
«Pensavo che il Principe Azzurro fosse il tuo fidanzato», confessò dopo un po', pur sapendo che quel dettaglio non l'avrebbe giustificato e l'avrebbe fatto apparire ancora più idiota.
Effie toccò il suo collo con la punta del naso, apparentemente incapace di lasciarlo andare. «Il Principe Azzurro?», chiese.
«Tuo fratello», chiarì Haymitch.
Effie rise di quella risata un po' isterica tipica delle persone che hanno appena pianto. «Sei uno stupido, Haymitch», disse di nuovo.
Haymitch aggiustò la presa sui suoi fianchi e le posò un bacio esitante sul lato del collo, accorgendosi che erano rimasti soli e incapace di dire da quanto.
«Lo so, dolcezza», mormorò, e poi baciò via le sue proteste, riprendendo confidenza con le labbra che aveva temuto di non poter mai più accarezzare.  

Effie si svegliò di soprassalto, il corpo ricoperto di sudore freddo e il cuore furioso nel petto.
Mentre l'incubo si dissolveva dalla sua mente si accorse di essere sola nel letto vuoto. Posò i piedi sul pavimento freddo e recuperò una maglietta da terra, infilandola in fretta.
Nel salotto le luci erano spente, ma in cucina il neon sopra il lavello era acceso. Effie entrò nella stanza, a quel punto non sorpresa di trovarla vuota, si riempì una tazza con l'acqua ancora calda che trovò sul fuoco e prese una bustina di the che mise in infusione mentre si dirigeva verso la porta sul retro.
Haymitch era seduto sugli scalini, una tazza dimenticata tra le mani e il capo reclinato a guardare il cielo. Quando la sentì voltò lo sguardo nella sua direzione.
«Scusa, non volevo svegliarti», disse.
Effie scosse la testa, avvicinandosi e rannicchiandosi al suo fianco. Nonostante indossasse soltanto i pantaloni Haymitch era ancora caldo di sonno.
«Incubo?», le chiese, avvolgendola con un braccio per tenerla stretta.
«Non conta più», sospirò soddisfatta, poi lo guardò maliziosa. «Bei segni che abbiamo qui, signor Abernathy», sorrise accarezzando con la punta delle dita i segni violacei dei morsi sulla spalla e a lato del collo.
Haymitch la guardò con uno sguardo di rimprovero che avrebbe funzionato meglio senza il sorrisetto compiaciuto sulla bocca. Non disse niente, però, limitandosi a prendere un sorso di the dalla tazza.
Effie si accucciò un po' di più, godendosi la sensazione delle dita tra i suoi capelli, il calore del the nello stomaco, l'aria fresca che le accarezzava le gambe e la luce delle stelle a rendere infinito il mondo sopra di loro.
C'era stato un tempo in cui si era sentita distrutta, triste e sola, ma serate come quella le facevano apparire tutto lontano. Non avevano smesso come per magia di litigare, urlarsi contro e dire cose di cui si sarebbero entrambi pentiti, ma avevano trovato un equilibrio. Traevano conforto dalle piccole cose quotidiane, dal caffè condiviso al mattino alla certezza che alla sera si sarebbero addormentati nello stesso letto.
«Ti amo», mormorò Haymitch, premendole un bacio contro la fronte.
Effie sorrise, inspirando l'odore caldo di Haymitch, e si permise di vivere la vita che non aveva mai creduto di meritare. 
   
 
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