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Autore: moira78    28/06/2021    3 recensioni
Festeggiare il compleanno, per William Albert Ardlay, non è così scontato. Durante gli anni la sua vita è cambiata più volte, anche in modo radicale...
Un carrellata di compleanni che è il mio piccolo omaggio al Principe della Collina.
Genere: Commedia, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Candice White Andrew (Candy), William Albert Andrew
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing Moments'
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Ringrazio di tutto cuore Sonietta74 che ha betaletto e "ripulito" minuziosamente ognuna delle 3 parti di questa mini fic da refusi, ripetizioni e qualunque altra cosa potesse appesantire la lettura.
 
28 Giugno 1891: esprimi un desiderio!

Il piccolo William Albert Ardlay, inginocchiato sulla sedia imbottita, guardava rapito la gigantesca torta di compleanno ricoperta di panna e frutta che, in mezzo al tavolo imbandito, sembrava proprio più alta di lui.

Se fino a poco prima si era sentito quasi in soggezione di fronte a tutte quelle persone serie e ben vestite, ora che aveva accanto Rosemary, il papà e Georges che gli sorridevano e lo incitavano a soffiare sulle tre candeline, si sentiva felice e spensierato.

Si raddrizzò il più possibile sulle ginocchia nude sotto ai pantaloni corti, senza quasi più accorgersi che il tessuto ruvido della poltrona pizzicava sulla pelle.

"Coraggio, figliolo, esprimi un desiderio", lo incitò il più anziano, il suo eroe. Il bambino lo guardò: era un po' chino su di lui, i capelli biondi pettinati all'indietro e gli occhi azzurri gentili; spostò lo sguardo sulla sorella maggiore, che quel giorno sembrava molto più grande della sua età con quel vestito da signorina, e su Georges, che rimaneva dritto e faceva un leggero sorriso sotto i baffi sottili.

Amava la sua famiglia, l'amava tantissimo; persino quella zia sempre un po' corrucciata che poche volte lo guardava con affetto e spesso lo sgridava per il suo comportamento: in quel momento era di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo, a testa alta, ma la torta ne copriva quasi per intero la figura.

Non vedeva quasi mai altri bambini, però quelle poche volte che era accaduto gli avevano parlato di qualcuno che doveva essere molto speciale, ma che lui non aveva ancora conosciuto. Ed era certo che fosse milioni di volte meglio di qualsiasi giocattolo e persino di una corsa in mezzo ai prati, cosa che adorava davvero fare.

E fu così che il piccolo Albert, serrando gli occhi e soffiando con forza sulle candeline, desiderò ardentemente una mamma.
 
- § -
 
28 Giugno 1896: compleanno all'alba.

Li aveva sentiti discutere spesso. Anzi, in qualche occasione persino litigare. Le voci dei membri più anziani del clan tuonavano, tuonava la voce grossa della zia Elroy, mentre rimaneva pacata quella di Georges, che sembrava cercare sempre il modo per riportare la calma.

E aveva udito pronunciare il suo nome. Non quello che gli piaceva di più e con cui lo chiamava solo la sorella, ma l'altro, quello che avevano il padre e il nonno prima di lui. Pur essendo ancora troppo piccolo per capire appieno le argomentazioni, aveva colto il senso di quello che stava accadendo, ovvero che gli adulti non sapevano cosa fare di lui.

Qualche giorno prima, aveva visto Rosemary asciugarsi gli occhi con discrezione, mentre usciva da una di quelle stanze dove i membri del clan si riunivano. Aveva intercettato il suo sguardo abbastanza a lungo per capire che aveva partecipato a quel colloquio.

Nonostante fosse rimasta orfana anche lei. Nonostante stesse lottando contro tutti anche per se stessa e per la propria felicità. Albert, infatti, sapeva che la sorella si era innamorata e voleva sposare quello che il clan riteneva l'uomo sbagliato.

Sospirò, girandosi su un fianco nel letto: era il suo compleanno ma nessuno avrebbe festeggiato con il lutto ancora in corso. Il capofamiglia, il suo papà, il suo eroe era morto solo da pochi mesi e la famiglia, superato il primo momento di dolore, era caduta nel caos.

Pur essendo ancora molto giovane, aveva capito che non sapevano a chi affidare il patriarcato. Uno dei suoi precettori gli aveva spiegato che, molto probabilmente, gli affari sarebbero stati messi nelle mani degli anziani ma che lui, quale unico erede maschio, un giorno avrebbe preso il posto di William C. Ardlay.

Suo padre, che aveva visto così poco perché sempre immerso nel lavoro, ma dal quale aveva assorbito ogni singola briciola di affetto e di valore sfruttando i momenti insieme e dilatandoli nel tempo il più possibile. Suo padre, il cui posto era quasi stato preso dal buon Georges, che si sforzava di essere per lui quella figura che mancava.

Albert chiuse gli occhi sull'alba che stava tingendo di rosa il mondo fuori dalla finestra: non sarebbe stato il primo compleanno senza di lui, visto che in più di un'occasione era in viaggio. Ma ne aveva sempre avvertito la presenza con un regalo, un telegramma, un abbraccio, magari qualche giorno dopo.
Oggi la sua presenza non ci sarebbe stata in alcun modo.

Una lacrima solitaria attraversò pigra la guancia e si fermò sul naso; Albert l'asciugò con un gesto stizzito della mano. Gli avevano insegnato a essere forte e coraggioso. Lui glielo aveva insegnato. E lo sarebbe stato, sempre.

Mentre stava ancora decidendo se alzarsi o restare un po' sotto le lenzuola, udì bussare piano alla porta. Si voltò dall'altro lato chiedendosi chi potesse essere a quell'ora: "Avanti", rispose rompendo il silenzio della stanza.

Quello che vide lo stupì, tanto che per un attimo dimenticò i pensieri tristi. La sorella, ancora in vestaglia, stava entrando tenendo in mano un dolcetto sul quale c'era una candelina accesa. Si tirò a sedere, sbattendo le palpebre e aprì la bocca per parlare, ma lei si mise il dito sulle labbra richiudendo la porta dietro di sé.

"Cerchiamo di non fare troppo rumore, Georges mi ha già scoperta ma non ci tradirà. Buon compleanno, fratellino", disse avvicinandosi al letto e posando il dolce sul comodino.

Guardandolo, Albert ricordò che solo pochi anni prima, quando era ancora molto piccolo, aveva desiderato avere una mamma. In qualche modo, l'aveva avuta nella sorella, anche se ora non aveva più il papà. Non sarebbe stato certo un desiderio a riportarlo in vita, ma un sentimento di calore gli inondò il giovane cuore con potenza inaspettata.

"Grazie", mormorò nella penombra regalandole un sorriso e apprestandosi a spegnere la candelina.

"E il desiderio?", lo interruppe Rosemary sedendosi sul letto accanto a lui.

Albert le scrutò per un istante i luminosi occhi azzurri, le labbra incurvate in un sorriso, i capelli raccolti in modo sommario con un nastro. Pensò a Georges che, forse già chiuso in ufficio, non avrebbe mai detto a nessuno che la sorella stava festeggiando il suo compleanno con lui di nascosto, mentre era ancora l'alba.

"Non ho nulla da desiderare, ho già tutto", disse convinto, sapendo bene che sarebbe stato inutile nominare il loro papà rendendo triste anche lei.

Il sorriso sul suo volto si allargò e Rosemary lo strinse in un abbraccio, posandogli un bacio sulla testa e tirando su col naso. Non voleva farla piangere e soprattutto non voleva farlo lui, così cercò di rompere il momento emozionante staccandosi un po' dalle sue braccia e dicendole: "Ehi, ti andrebbe di dividere il dolce con me? Se è ripieno di cioccolata almeno la metà di quanto vedo basterà per tutti e due".

Rosemary ridacchiò, sembrava stupita: "Dovresti mangiarlo tutto tu, visto che è il tuo compleanno".

Albert scosse la testa e spense la candelina, quindi prese in mano il dolcetto e, aiutandosi con il fazzoletto che aveva sul comodino, lo divise in due dicendole: "È bello condividere le cose".

"Piccolo Bert...". Ora le scorgeva quelle lacrime, negli occhi della sorella. Ma non le lasciò cadere. "Mi dispiace di non avere un regalo per te".

"Questo dolce e la tua compagnia sono il mio regalo", ribatté mordendo la sua parte di dolce. Venne invaso dal sapore intenso della cioccolata, chiuse gli occhi e sospirò: "In cucina avevamo una cosa così buona e io non ne sapevo niente?", scherzò.

Rosemary sembrò imbarazzata mentre prendeva un morso molto più piccolo dalla sua metà: "Veramente... non lo avevamo fino a ieri. Anzi, fino a stanotte".
Albert smise subito di masticare, sbattendo le palpebre: "Vuoi dire che lo hai fatto tu?".

"Non si parla con la bocca piena", lo redarguì con dolcezza.

Inghiottì in fretta e ripeté: "Lo hai fatto tu stanotte? Per me?". Il fatto che la sorella gli avesse fatto una sorpresa infiltrandosi nella sua stanza per fargli una mini torta di compleanno era già sorprendente, ma che avesse cucinato il dolce era così... così incredibile!

"Sì, beh, avrai notato che non ha proprio una bella forma e che la cioccolata esce da un lato, ma ho seguito un libro di ricette e non pensavo che avrebbe lievitato abbastanza, ma...". Si interruppe, guardando in basso e arrossendo.

Albert posò con delicatezza il dolcetto e le si accostò per abbracciarla. Non ci pensò due volte a circondarla, emulando il suo gesto d'affetto, respirando il profumo di sapone e vaniglia che emanava. E anche di cioccolata.

"Grazie", bisbigliò con voce appena incrinata.

Fu lei a rompere il momento strofinandogli la mano sulla schiena e dicendo con voce sicura: "Allora, ometto, oggi hai otto anni. Vuoi che ti canti la canzone del compleanno?".

Gli occhi di Albert si spalancarono a dismisura: "Oh, no, non sono più un bambino!", protestò, imbarazzato.

"Dai, non dirmi che non ti piace più! Farò piano", promise facendogli l'occhiolino.

"Ma... ma...". Fu il suo turno di arrossire, però si godette la voce melodiosa di Rosemary intonare 'Happy Birthday', brano che gli avevano cantato in occasione dei suoi cinque anni* e anche nei successivi compleanni.

"Ora mangiamo il dolce prima che la cioccolata finisca per colare ovunque".

Albert le sorrise, sentendosi sereno e grato alla vita per la prima volta dopo settimane di oscura sofferenza: "Papà sarebbe orgoglioso di te", disse prima di potersi trattenere. Forse era un pensiero troppo da adulto, ma ne aveva colto il senso quando lui stesso glielo aveva ripetuto riferendosi ai suoi piccoli progressi nello studio.

Quando aveva imparato a scrivere il suo nome. Quando aveva imparato a leggere. Quando aveva iniziato a studiare le poesie imparandole a memoria. Gli aveva sempre detto che era orgoglioso di lui. E, anche se la sorella non aveva fatto nulla di tutte quelle cose, i gesti e le azioni gli fecero capire all'improvviso il significato profondo di quella parola.

Stavolta, il sorriso di Rosemary fu grande. Stavolta, gli occhi si illuminarono con lacrime di gioia. Stavolta, Albert capì che era diventato davvero un ometto e che, come lei cercava di proteggerlo, da quel momento in poi sarebbe stato in grado di fare altrettanto.

Sarebbero stati uniti da un affetto reciproco, per sempre.
 
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28 Giugno 1903: buon compleanno, signorino William.

Di sicuro lo stavano cercando da ore, ma non gliene importava nulla. Gli dispiaceva solo far preoccupare Georges ma, se lo conosceva bene quanto credeva, avrebbe saputo di certo che era al sicuro tra i boschi di Lakewood.

Lì, nei pressi della capanna, c'erano tutti i suoi amici animali e lì, solo un paio di anni prima, aveva trovato Poupe: le si era subito affezionato ed era diventata la sua migliore amica. In quel momento, l'animaletto stava correndo sul prato per inseguire una farfalla e lui ne osservava affascinato le evoluzioni, seduto con la schiena poggiata al tronco di un albero, le braccia dietro la nuca.

Chiuse gli occhi, immerso nel profumo dell'erba e nel canto degli uccellini, godendosi quel contatto con la natura che lo rigenerava sempre dalle lunghe sessioni di studio. Dalla gola sgorgarono le note di una canzone che nessuno gli cantava più da anni, ma che quel giorno poteva ben canticchiarsi da solo, visto che compiva quindici anni.

Aveva appena attaccato l'ultima strofa, nella quale sarebbe dovuto comparire il proprio nome, quando udì una voce dall'alto pronunciarlo davvero: "Signorino William". Il tono era fermo e c'era solo una sfumatura di rimprovero.

Sospirò, interrompendosi e, senza aprire le palpebre, rispose: "È già ora di tornare a casa, Georges?".

"Temo di sì, sua zia è molto in pensiero e il suo insegnante di finanza ha minacciato di licenziarsi se salta un'altra lezione".

Albert sbuffò, facendo un gesto frustrato con le braccia: "Ne avrò saltate al massimo due!".

"Tre con oggi", lo corresse lui.

"E almeno il giorno del mio compleanno avrò diritto a una pausa?", terminò alzandosi in piedi e richiamando Poupe con un breve fischio.

"Signorino William, le ricordo che la sua educazione è indispensabile perché possa prendere le redini della famiglia quando diventerà maggiorenne", gli spiegò con un tono paziente che lo urtò ancora di più.

"Lo so", rispose asciutto passandosi una mano tra i capelli, accogliendo Poupe sulla spalla e lasciandosi annusare il viso da lei.

"E ho atteso comunque il tramonto per venirla a cercare, proprio per lasciarle i suoi spazi. Non è stato facile, mi creda". Quelle parole lo colpirono e si volse di scatto a guardarlo.

La sua figura era sempre impeccabile, l'abito nero stirato alla perfezione anche se doveva aver camminato a lungo nei boschi, per raggiungerlo dove solo lui sapeva si nascondesse. Aveva qualcosa sotto al braccio destro, avvolto da una carta color crema e il viso era composto, i baffi sempre ben curati.

Capì che gli doveva ogni singola ora di quel giorno passato in mezzo alla natura e si sentì in colpa: "Mi dispiace, Georges, ti ringrazio per quello che hai fatto", disse con sincerità, posandogli una mano sul braccio. Ormai era quasi alto quanto lui ma lo considerava davvero come un padre.

"Oh, a proposito", disse inarcando le sopracciglia e prendendo tra le mani il pacco che aveva sotto al braccio, "buon compleanno, signorino William".

Albert rimase senza parole. Georges gli stava facendo un regalo? Da quel che ricordava, era dall'età di cinque o sei anni non riceveva nulla da lui, perché gli anziani della famiglia avevano pensato bene di mettere in chiaro che non era più un bambino e non aveva bisogno di essere riempito di giocattoli. Da quel momento in poi, ogni dono era stato selezionato con attenzione, anche quei pochi ricevuti dopo la morte di suo padre, quando lo avevano nascosto al mondo.

Libri, penne d'oca, oggetti utili alla sua educazione e qualche freddo soprammobile per la stanza. Regali da patriarca che ancora non era.

Solo Rosemary si era premurata di donargli qualcosa realizzato con il cuore, perlomeno finché non era nato Anthony e non si era ammalata tanto gravemente da non potersi quasi più alzare dal letto, prima di lasciarli tutti nel dolore più profondo.

"Ti ringrazio, Georges, non dovevi...", mormorò confuso e commosso, mentre Poupe emetteva un verso stridulo sulla sua spalla, sporgendo la testolina come per guardare anche lei. "Posso aprirlo ora?", chiese.

"Sarebbe meglio", gli rispose guardandolo negli occhi e la curiosità di Albert ebbe la meglio sull'emozione. Sedette a terra per scartarlo e, quando vide la copertina di quel libro con così tante pagine, capì subito che lo avrebbe letto tanto da consumarlo.

"Un libro sugli animali e sulla natura! Georges ma è... bellissimo! Nessuno di quelli che abbiamo in biblioteca ha tante foto! E guarda le descrizioni dei luoghi! Sembra davvero di trovarsi in sud America, in Australia, in Africa...". Si sentiva di nuovo come un bimbetto che avesse ricevuto un bel giocattolo mentre lo sfogliava con avidità, individuando i titoli dei paragrafi che indicavano gli habitat degli animali e la flora tipica del posto.

"Sono felice che sia di suo gradimento, ma sarebbe opportuno che lo lasciasse qui nella capanna, dove può leggerlo con calma nei momenti di pausa, così da non interrompere gli studi", suggerì facendogli nascere una punta di delusione nel petto. Aveva intenzione di leggerlo nell'intimità della sua stanza, la sera, ma così sarebbe stato impossibile consultarlo se non nei fine settimana.

Però non voleva mettere Georges nei guai, così si alzò e annuì: "Va bene, vado a sistemarlo e ti seguo a casa", acconsentì. Fece un paio di passi verso la capanna ma ci ripensò e si volse verso di lui per guardarlo. Sapeva che non era tipo da lasciarsi andare a dimostrazioni d'affetto, tuttavia non poté fare a meno di abbracciarlo con il braccio libero mentre Poupe, forse infastidita dal movimento, saltava giù con uno squittio di protesta.

Lo sentì irrigidirsi alla sua stretta, ma non si sottrasse e borbottò una specie di "non c'è di che" imbarazzato.

Il sole continuò la sua discesa nel cielo, mentre tornavano camminando in silenzio, fianco a fianco. Albert ne assorbì il calore pensando che un giorno, prima di essere rinchiuso per sempre in quella gabbia dorata, avrebbe visitato tutti i luoghi descritti in quel libro. E, se non tutti, almeno la maggior parte.
 
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28 Giugno 1906: alla salute!

"Allora? Parti domani?", gli chiese Jacob posando il boccale di birra con un forte rumore sul tavolo intorno al quale erano riuniti. La schiuma ondeggiò, ma il contenitore di vetro era pieno per poco più della metà quindi non si versò. Albert si chiese se l'amico sarebbe mai riuscito a finirla: lui aveva bevuto solo pochi sorsi dal suo bicchiere molto più piccolo e già si sentiva brillo.

"Sì, domattina vengono a prendermi", rispose guardandosi intorno con aria nervosa. Apprezzava moltissimo che, quella sera, i compagni di corso avessero voluto festeggiare il suo compleanno invitandolo a bere in un locale. Ma se i gestori si fossero accorti che erano tutti minorenni e che provenivano addirittura dalla prestigiosa Saint Paul School, li avrebbero cacciati all'istante: il fatto che non chiedessero i documenti ai più giovani poteva ritorcersi contro di loro al punto da farli chiudere, per non parlare delle rispettive famiglie. Rischiavano l'esilio in casa fino alla maggiore età, come minimo!

"Ehi rilassati, Albert!". La poderosa pacca sulla schiena gli fece andare di traverso il sorso di birra appena bevuto proprio con l'intento di rilassarsi e cominciò a tossire. Fantastico, era proprio la maniera peggiore di attirare l'attenzione! Il colpevole dell'incidente, seduto a destra, ricominciò con le pacche per indurlo a smettere, ma ottenne solo l'effetto contrario.

"Grazie, me la cavo da solo", disse tra i sussulti con voce strozzata, gesticolando con una mano.

"Oliver, sei il solito manesco!", lo redarguì Jacob strascicando le parole come se fosse sulla buona strada per l'ubriachezza.

"Ma no, è Albert che è troppo delicato", lo prese in giro il ragazzo, inarcando un sopracciglio scuro come i suoi capelli. "Dovresti mettere un po' di muscoli su quelle ossa, magari stando meno sui libri o sopra a un albero e facendo un po' di vera ginnastica. Lo sai che alle ragazze piacciono i fisici prestanti", terminò a voce bassa e con aria complice, accostandosi un poco come se gli rivelasse un segreto.

"Ma la tua è una fissazione!", protestò Albert guardando il soffitto.

"La ginnastica o le ragazze?", chiese lui confuso sbattendo le palpebre e raddrizzando la schiena.

"Entrambe", rise Albert scatenando le risate degli altri.

"Ehi, a proposito, ma tu ce l'hai mai avuta una ragazza?", gli chiese con una gomitata Stephen, alla sua sinistra.

"Io credo di no, a lui interessano solo gli animali e la natura", intervenne Jacob. Poi, come se gli venisse in mente un'idea geniale sporse il dito indice per indicarlo, senza lasciare il manico del boccale: "Lo sai che stanno aprendo un zoo in periferia? Potresti chiedere se ti assumono lì quando avrai finito gli studi, se non ti va di lavorare nelle aziende di famiglia".

Albert rimase affascinato da quella possibilità, anche se pensare agli animali chiusi in delle gabbie lo rendeva malinconico. "Sì, ne ho sentito parlare", rispose giocherellando col bicchiere, grato all'amico per quel diversivo. "Mi pare che lo chiameranno Blue River, o qualcosa del genere. L'inaugurazione dovrebbe esserci...".

"Ma chi se ne importa dello zoo?", lo interruppe Stephen. "Qui vogliamo sapere se sei mai stato fidanzato!", ridacchiò battendo le nocche sul tavolo come per sottolineare l'importanza della domanda.

Albert s'irrigidì, capendo che doveva rispondere. "No", disse, portandosi di nuovo il bicchiere alle labbra e attirandosi esclamazioni di protesta da parte degli amici.

"E dai, Albert, sarai stato innamorato qualche volta! Che mi dici di quella ragazza francese che ti fa gli occhi dolci e sospira ogni volta che ti vede... come si chiama?", chiese Oliver schioccando le dita.

"Amélie", risposero lui e Jacob nello stesso momento. I loro sguardi s'incrociarono e sorrisero. La ragazza dagli occhi nocciola era piuttosto popolare e non poteva dire che gli fosse indifferente, specie perché era abbastanza palese che fosse attratta da lui. Ma era il suo compagno di corso quello davvero innamorato.

"È solo al primo anno, è troppo giovane", ribatté al suo posto, ravviandosi i capelli castani che gli ricadevano sulla fronte in ciocche ribelli. All'improvviso, sembrava di nuovo lucido.

"E credi che qualche anno di differenza possa essere un problema se c'è l'amore?", domandò con tono romantico Stephen alzando le spalle.

"No, ma avere origini inglesi invece che scozzesi sì", rispose enigmatico, tornando serio.

Albert s'irrigidì, poi l'amico scoppiò a ridere e capì che il gioco tra loro era sempre lo stesso. Per il momento, il fatto che la ragazza fosse invaghita di lui invece che di Jacob non aveva intaccato la loro amicizia. Sperò che accadesse mai e che magari, durante l'estate, la ragazza lo avrebbe dimenticato.

"Bene, quindi Amélie è esclusa", continuò Stephen. "Allora? Chi è la fortunata?".

Lui si voltò per guardarlo, allargando le braccia: "Non c'è una fortunata! Devo essere innamorato per forza? Non potremmo solo cambiare argomento?". Sperava di essere bravo a mentire.

Il ragazzo alla sua sinistra si accigliò per qualche istante, come riflettendo, quindi fece spallucce e si arrese: "Bene, allora parlaci della tua fantastica residenza scozzese dove passerai le vacanze. Spero per te che lì ci siano delle ragazze", concluse ridacchiando e trascinando anche gli altri.

In Scozia non c'erano delle ragazze. In Scozia c'era lei, pensò Albert e dovette distogliere gli occhi per non tradirsi. Ellie, dai capelli color mogano che le scendevano sulle spalle in una cascata soffice nella quale voleva solo affondare le dita.

Ellie, che era stata la protagonista dei primi turbamenti e di molti dei suoi sogni.

La gomitata di Stephen gli indicò che fissava la birra da troppo tempo e nessuno avrebbe creduto che si concentrasse solo sulla descrizione della sua residenza scozzese. Per un attimo rimasero tutti lì, in attesa, a fissarlo: tre paia di occhi maliziosi con tanto di sorrisetti complici.

Albert si schiarì la voce: "La residenza è molto grande e c'è un ampio giardino...", cominciò.

"E di che colore ha i capelli?", buttò lì Oliver con tono causale.

"Ross... cosa?!". Dannazione!

"A-ah!", esultò lui indietreggiando con tutta la sedia per puntargli meglio addosso il dito indice. "Hai detto rossi!".

"Mi riferivo... alla facciata della villa". Quell'affermazione suonò quasi come una domanda e si rese conto da solo che si era lasciato ingannare. Fu costretto a raccontare che l'aveva vista solo una volta, un paio di anni prima, in occasione di una vacanza. Omise il fatto che non aveva neanche potuto parlarle e che l'aveva solo scorta da lontano, mentre cavalcava all'amazzone con la scia della sua incredibile chioma che la seguiva come un mantello.

"Quella ragazza non fa per te, William", aveva detto la voce altera della zia Elroy alle proprie spalle, il giorno che lo aveva sorpreso a spiarla dalla finestra. Imbarazzato per essere stato colto in flagrante e anche piuttosto deluso, l'aveva ascoltata spiegargli che apparteneva a una famiglia di nobili decaduti che viveva in una città vicina e che non era all'altezza del patriarca degli Ardlay. "Ma non preoccuparti", aveva proseguito, "quando arriverà il momento ti presenteremo le donne giuste dell'alta società di Chicago e anche di Glasgow, se vorrai".

Quel giorno, Albert aveva capito ancor più duramente quanto fosse prigioniero della sua stessa famiglia: Rosemary, seppure per poco tempo, era stata felice con l'uomo che amava. Per lui non ci sarebbe stato alcun batticuore, nessuna scelta. Si sarebbe mai innamorato di una di quelle donne altezzose che gli capitava di vedere di nascosto alle feste? Non poteva nemmeno partecipare a quei ricevimenti e solo l'anno prima era persino fuggito, facendo preoccupare a morte Georges.

Se solo fosse stato libero di esprimersi come la bambina che aveva incontrato allora! Non doveva avere più di cinque o sei anni, ma poteva piangere, ridere e chiacchierare senza limiti. Correre libera per i prati, essere se stessa.

E lui, chi era davvero? Una specie di fantoccio, plasmato dal clan, senza una personalità?

"Ehi, amico, tutto bene? Ti senti male?".

Stavolta la sua mente doveva essersi assentata più a lungo in quei pensieri foschi, perché Jacob sembrava davvero preoccupato. Chissà che faccia doveva avere! Rilassò la fronte, contratta in un cipiglio profondo e si sforzò di sorridere.

"Scusate, credo che la birra mi abbia dato un po' alla testa".

"La birra o la rossa della Scozia?", scherzò Oliver facendogli l'occhiolino.

"Se ti rispondo: tutte e due, la smettete di farmi l'interrogatorio?", disse con un sorriso.

"Oh, va bene, il compleanno è tuo e non abbiamo ancora fatto un brindisi!", rispose lui alzando il boccale e invitando gli altri a farlo.

Un po' imbarazzato, Albert li imitò e i bicchieri si unirono in un fragoroso cin cin alle parole: "alla salute!".

Mentre gli amici si alzavano per dargli altre pacche sulle spalle e spintonarlo giocosamente, facendogli gli auguri più sinceri e rumorosi che avesse mai ricevuto, Albert pensò che, dopotutto, era bello avere qualcuno che lo trattasse come pari e lo chiamasse con il nome che amava.

Sospettava che entro l'anno successivo, quando il college fosse terminato, la sua solitudine sarebbe stata ancora più profonda.
 
- § -
 
28 Giugno 1909: regalami la libertà.

Albert chiuse il libro di economia con un gesto stizzito e un forte tonfo, passandosi una mano tra i capelli. Appoggiò il gomito sulla scrivania e il mento sulla mano, guardando fuori dalla finestra: voleva solo uscire fuori e respirare.

Respirare aria pura.

La zia Elroy lo attendeva nella sua stanza entro quindici minuti e lui aveva ripassato mentalmente decine di volte, di notte e di giorno, ciò che le avrebbe detto. Alla fine, il momento della vera libertà era arrivato.

Non la Saint Paul School di Londra, che era una specie di fuga fittizia, sempre con qualcuno a controllarlo da lontano. Non le estati in Scozia, dove aveva dovuto ricacciare indietro a forza il tenero sentimento che a malapena era sbocciato per Ellie Anderson. Non i boschi di Lakewood, dove comunque qualche volta sarebbe sempre tornato.

Ma il mondo nella sua interezza.

Voleva visitare il sud America, L'Europa; diamine, persino l'Africa selvaggia che era quanto di più vicino alle sue corde ci fosse. Voleva sentire il calore delle savane dove, come aveva letto nel libro ricevuto in regalo Georges qualche anno prima, si potevano ammirare i leoni prendere il sole.

Albert guardò con nervosismo l'orologio sulla mensola del camino seguendo il percorso delle lancette, quasi fosse un magico conto alla rovescia. Sperava solo che Georges lo supportasse come aveva sempre fatto e promesso: la verità era che non gli aveva detto quanto lontano volesse spingersi.

Quando le note melodiose dell'orologio indicarono le tre in punto, Albert si alzò. Si allentò un poco la cravatta e sistemò la giacca estiva che gli procurava un caldo infernale. Un piccolo prezzo da pagare per parlare con la zia e avere finalmente il suo regalo di compleanno.

Il suo vero regalo di compleanno.

Camminò lungo il corridoio con il cuore che batteva all'impazzata e, poco prima di giungere alla porta della stanza, vide Georges sbucare, in perfetto orario, dall'angolo opposto. Lo guardò per un attimo, coprendo in pochi passi gli ultimi metri; i loro occhi s'incontrarono di nuovo prima che lui, con una mano, gli facesse cenno di bussare.

Albert fece un respiro profondo, sapendo che stava per affrontare la sua prima, vera battaglia da adulto.

Batté le nocche con discrezione un paio di volte e la voce della zia Elroy lo invitò a entrare. Lo fece, con Georges che lo seguiva.

"Buon pomeriggio, zia", salutò. Lei era seduta sulla sua poltrona preferita, la cameriera stava versando il tè nelle tazze del prezioso servizio cinese in porcellana.

"Buon pomeriggio, caro nipote. Lascia che ti porga i miei più sinceri auguri di buon compleanno", disse in tono formale e con una punta misurata di affetto.
In pochi istanti, la mente di Albert volò agli auguri ricevuti, tanti anni prima, da suo padre e dalla sorella. Persino Georges aveva impresso più spontaneità nei suoi. Ma era come se, crescendo, si stesse già trasformando in quel capofamiglia che volevano e sostituissero il rispetto alle emozioni.

I saluti di rito passarono anche tra Georges e la zia, e Albert attese con pazienza che la cameriera uscisse. Il tavolino nella stanza era in legno scuro e, oltre al servizio da tè, erano stati lasciati alcuni pasticcini. Le tazze fumavano ma nessuno diede cenno di iniziare: era come se quella merenda fosse un pretesto per introdurre il discorso della zia Elroy.

"Bene, William", esordì infatti ponendo le mani ai lati della tazza ma senza sollevarla. Gli occhi grigio scuro si piantarono nei propri e lui si ritrovò a trattenere il respiro. "Da oggi sei ufficialmente maggiorenne, quindi potresti presentarti ai membri del clan e prendere il comando...".

Potresti? La zia aveva detto potresti? Quindi significava che non sarebbe accaduto... All'improvviso, Albert si ritrovò a essere confuso e si voltò verso Georges che sembrava non aver cambiato affatto la sua espressione seria da quando si erano seduti. Pareva persino sereno.

Come se sapesse.

"...tuttavia", continuò la zia richiamando la sua attenzione, "sappiamo entrambi che non sei ancora pronto ad assumerti una responsabilità così grande e a mostrarti alla società. I tuoi studi sono completi, ma manchi ancora dell'esperienza necessaria per comprendere appieno i meccanismi delle nostre aziende e degli investimenti. So che Georges ti ha istruito sui rudimenti ma la strada da fare è molta, hai bisogno di essere affiancato e di fare pratica".

"Capisco, zia", ribatté cercando di mostrare un'espressione neutrale, non sapendo bene dove volesse andare a parare. Voleva costringerlo a studiare ancora, nascondendosi come un ladro nella sua stessa casa o in qualche altra università prestigiosa?

"Inoltre", continuò aggrottando le sopracciglia in un'espressione grave, "c'è anche la questione della tua... maturità. Continui a comportarti come un ragazzino capriccioso e questo non è certo il contegno di un patriarca che si rispetti".

Albert s'irrigidì: l'uomo dentro di sé provò un moto di ribellione ma il giovane indomito fece un salto di gioia. "Significa che non sono costretto a salire al patriarcato adesso?". E che non doveva discutere per avere uno o due anni sabbatici?, aggiunse dentro di sé. Ma a quale prezzo?

"No, in un certo senso tutto continuerà come prima ma farai delle esperienze sul campo. Georges ti condurrà con sé per ampliare le nostre società, presentandoti come giovane praticante e tu avrai modo di imparare ed entrare nell'ottica di ciò che sarà il tuo futuro. Se acquisirai un certo... rigore anche mentale, entro due o tre anni al massimo potresti essere in grado di...".

"Avrei un'altra proposta", esordì Albert cercando di controllare il respiro. Gli sembrava di soffocare: fin da bambino lo stavano preparando per quell'unico scopo e adesso veniva fuori che non era ancora finita. Che non era ancora il patriarca. Che non poteva ancora decidere della propria vita. Oppure sì? Forse, dopotutto, quella novità poteva essere sfruttata a suo vantaggio...

La zia inarcò così tanto le sopracciglia, che per un attimo pensò le sarebbero sparite oltre la fronte: "Una proposta?", ripeté come se stesse usando un termine straniero o a lei sconosciuto.

"Sì, zia, una proposta. Oggi è il mio compleanno e compio ventuno anni, la maggiore età. Ti chiedo di farmi un unico dono, in questa occasione: regalami la libertà". Fu più facile di quel che si aspettasse.

"La libertà?". Quella senza fiato, ora, sembrava la zia.

Albert prese coraggio e continuò: "Sì, te l'avrei chiesto comunque ma visto quello che mi hai appena detto le cose saranno più facili. Ecco la mia proposta: io seguirò gli affari con Georges per capire come funzionano le nostre aziende, ma nello stesso tempo sarò libero di fare la vita che desidero quando non ci sarà da lavorare. E questo fino a che non riterrete che io sia pronto per prendere il comando. Che ne pensi?".

Nel momento in cui la zia Elroy si alzò facendo allontanare la sedia con un forte rumore e quasi rovesciandola, Albert capì che era andato bene fino alla domanda finale: quella non avrebbe dovuto porla perché si era scavato la fossa da solo.

"Sei impazzito, William?!", chiese e lui poté vedere ogni singolo tendine del collo irrigidirsi come se volesse uscire fuori dal sottile strato di pelle.
Al contrario di ciò che pensava, Albert avvertì invece una grande calma scendere dentro di sé. D'improvviso, tutto gli fu chiaro come un vetro ben lucidato attraverso il quale vedeva il suo futuro, luminoso e soprattutto suo. Per la prima volta in ventuno anni aveva le redini della propria vita, e le avrebbe tenute salde tra le mani, non permettendo più a nessuno di prenderle per guidarlo.

Mai più.

Con la coda dell'occhio, colse l'espressione di Georges mutare appena: si trattava solo di una tensione impercettibile delle labbra sotto ai baffi, ma lui che lo conosceva bene capì che stava prestando tutta l'attenzione a quel momento cruciale.

"No, zia, non sono impazzito. Ma so quali sono i miei diritti da oggi in poi", ribatté con tono calmo e gentile, alzandosi anche lui e rimarcando così il concetto appena espresso ma senza perdere il sorriso.

"Diritti?!", ripeté lei come se non sapesse più cogliere il senso di alcuna parola.

"Sì, zia. Sono maggiorenne e anche se non sono ancora il patriarca in maniera ufficiale, sono l'unico erede maschio di William C. Ardlay, mio padre. Ciò significa che si avvera la leggenda del vecchio zio William inventata in tutti questi anni: la sua parola è legge e il clan deve solo eseguire". Sapeva che stava calcando un po' la mano, ma era quello che gli avevano insegnato e che, di fatto, accadeva dalla morte del padre.

Quella figura di fantasia, allora, era rappresentata solo da un bambino di otto anni smarrito e disperato per essere rimasto orfano. Oggi poteva prendere vita, come una marionetta che finalmente trovasse una scintilla propria e non fosse più manovrata dal burattinaio. O dai burattinai.

"E cosa vorresti comandare, tu?", sbottò lei battendo un pugno sul tavolo con discreta forza, facendolo quasi sussultare. La stava facendo arrabbiare, ma se avesse fatto marcia indietro sarebbe stato perso per sempre. "Tu, che a malapena ti rendi conto dell'immensa fortuna e della responsabilità che possiedi fra le mani? Tu, che te ne vai in giro per i boschi a giocare con quegli... animali puzzolenti sedendoti sull'erba come un plebeo qualunque?!".

Albert tentò d'ignorare la rabbia e si rese conto che, nonostante ne avesse accumulata molta, poteva controllarla se solo lasciava che la ragione avesse il sopravvento. E la ragione gli diceva che era lui ad avere il coltello dalla parte del manico.

"Mi piace la natura, amo il vento, il profumo dell'erba e il sole. Non ci vedo nulla di strano in tutto questo. Ma so abbastanza di economia e di intermediazioni bancarie per dirti che dovremmo spostare la nostra attenzione sulle azioni del mercato delle automobili". A quell'affermazione, la zia rimase in silenzio. Le sarebbe bastata una minima dimostrazione delle sue competenze per farle capire che non era uno sprovveduto come pensava.

Eppure, i suoi occhi spalancati saettarono verso Georges come per chiedere una conferma. Lui non si fece attendere: "È vero, signora, ho mostrato a William i rapporti sulle statistiche del mercato proprio in questi giorni e devo dire che la sua intuizione corrisponde in maniera impeccabile a quella di alcuni dei membri più anziani del clan".

Lo stupore lasciò il posto a un'espressione grave, sul volto della zia: "Una buona intuizione non significa che possa decidere...".

Albert odiò che parlasse di lui a Georges come se non fosse presente, quindi riprese in tono educato ma fermo: "Ma posso decidere, zia. Attualmente sono il membro più importante degli Ardlay, la mia carica equivale a quella che aveva mio padre".

Il silenzio calò nella stanza; per Albert sostenere le sue ragioni e lo sguardo della zia fu un peso notevole. Non gli piaceva usare la propria autorità in quel modo, pensava che in futuro l'avrebbe fatto solo se e quando fosse stato davvero necessario. Quel pomeriggio stava difendendo i propri interessi, la sua stessa integrità. Aveva smesso di farsi manovrare: d'ora in avanti sarebbe stato padrone della sua vita. E le stava dicendo, in tono neanche troppo velato, che al momento la propria carica era maggiore della sua.

Le rughe sul volto duro della donna si approfondirono, un rivolo di sudore le attraversò, quindi si rilassarono e con voce più pacata chiese: "Conosci le regole, William, non è vero? Niente colpi di testa. Niente più fughe". Su quell'ultimo concetto gli occhi lanciarono lampi di avvertimento.

I colpi di testa per la zia equivalevano a lasciarsi trasportare da sentimenti amorosi per qualcuna che non fosse del rango giusto. Le fughe invece erano quelle che lo avevano portato fuori Lakewood almeno in un paio di occasioni.

"Conosco le regole", rispose senza promettere nulla. Come poteva garantire di comandare il cuore, seppur fosse rimasto così scottato che non pensava lo avrebbe più lasciato andare con la medesima facilità? E come poteva giurare che non sarebbe andato fin nei luoghi che sognava di visitare, anche se non fosse stata una vera fuga?

La sua risposta non era una promessa, però parve bastare alla zia, che fece un respiro profondo prima di sedersi: "Georges", chiamò chiudendo le palpebre come se non riuscisse a guardare la realtà.

"Signora".

"Ti raccomando William ancora più di prima. Sii il suo tutore e braccio destro finché non arriverà il momento. So che hai già promesso al mio povero fratello ma oggi, a fronte di questa sua richiesta così... particolare, mi trovo a rinnovarla personalmente". La zia riaprì gli occhi. "Avrai cura di lui?", domandò con una punta di preoccupazione.

Mentre Georges le rispondeva di non temere, che sarebbe stato sempre un piacere e un onore, Albert si chiese di nuovo quanto interesse verso gli affari di famiglia e quanto reale trasporto umano ci fosse in sua zia.

Da quando era morta anche Rosemary, pur maturando, gli era rimasta la sgradevole sensazione di aver perso l'ultima persona che gli avesse mai mostrato un affetto vero e disinteressato. Percepiva quello di Georges, ma era così riservato e compìto che non era la stessa cosa. La zia Elroy, poi, aveva un modo tutto suo di comportarsi, viste anche l'età e la maniera di porsi piuttosto fredda.

Uscendo dalla stanza vittorioso e libero come desiderava, Albert capì che aveva già ottenuto più di quanto sperasse e non aveva di che lamentarsi. Finalmente era fuori da quella specie di gabbia dorata: e se la sarebbe goduta, la sua libertà, fino a che fosse durata.
 
- § -
 
 
28 Giugno 1912: resto per il mio compleanno.

Il cucciolo di cervo mangiava dalla sua mano un pezzetto di mela, facendogli il solletico sul palmo ogni volta che la piccola lingua saettava per afferrare un boccone. Era stato molto fortunato ad averlo trovato prima che la ferita s'infettasse.

In apparenza, il cerbiatto era rimasto con una zampa incastrata tra le rocce, dopo essere scivolato sull'argine del fiume. Era solo e non sapeva dove si trovasse la madre, ma per lasciare un cucciolo che a malapena masticava cibo solido doveva essere morta. Per fortuna doveva avere almeno un anno, altrimenti Albert sarebbe stato costretto a cercare del latte fresco e non era semplice visto il modo in cui viveva.

Mentre l'animale gli lasciava la mano e si rannicchiava vicino al fuoco acceso, rifletté che era la seconda volta in pochi giorni che salvava una giovane vita vicino al fiume: la prima era stata quella di Candy.

Dopo tanti anni, aveva finalmente scoperto il nome di quella bambina che tanto lo aveva colpito il giorno in cui era scappato da casa.

Albert appoggiò la schiena al tronco dell'albero e ripiegò le ginocchia intrecciandovi sopra le mani, pensieroso. A volte il destino aveva davvero uno strano modo di agire. La bambina della collina era stata adottata nientemeno che dai Lagan e non era sicuro che fosse una buona notizia, visto quello che gli aveva riferito: veniva trattata come una specie di domestica e non come una figlia.

Anche se la conferma che fosse la stessa ragazzina gli era arrivata dalla spilla che portava al collo, Albert ammise che era difficile dimenticare quel visino pieno di lentiggini su cui spiccavano occhi tanto luminosi. Seppur di colore differente, gli avevano ricordato subito Rosemary e quel particolare gliel'aveva fatta sentire più vicina.

Se la prima volta era stato invaso dall'affetto e dalla simpatia quando aveva paragonato il suono della cornamusa a quello delle lumache striscianti, ora era nato in lui un forte istinto di protezione. Sperava che il trucco della bottiglia funzionasse davvero e che, dal lago, qualunque suo messaggio gli arrivasse fin lì.

Si era detto che, il giorno del suo compleanno, sarebbe partito dai boschi di Lakewood per spingersi più a sud, soprattutto perché nei paraggi aveva sentito alcuni spari dai fucili dei cacciatori e voleva portare gli animali in un posto più sicuro della vecchia capanna.

Ma l'arrivo di Candy aveva cambiato tutto e il sole era appena tramontato sui suoi ventiquattro anni senza che lui si spostasse.

Perché ora aveva un motivo per restare nei pressi di Lakewood.

Sorrise dietro la barba folta al ricordo di lei che sveniva per due volte credendolo un orso o un pirata, ma poi si adoperava per lucidare la capanna da cima a fondo con una spontaneità e una gratitudine che lo avevano commosso.

Gli aveva detto che erano uguali, entrambi soli e senza una casa.

Albert capì all'improvviso che, oltre alla propria libertà, nella vita avrebbe potuto avere anche un altro scopo prima che i doveri della famiglia lo risucchiassero del tutto: rendere felice la piccola Candy.

Non sapeva ancora in che modo o con quali mezzi, ma per la prima volta desiderò qualcosa che non lo riguardava direttamente.

Il suo sorriso.

Quel sorriso così limpido e spensierato che gli parlava di una ragazzina forte nonostante le avversità. Quel sorriso che aveva un valore inestimabile proprio perché nato tra le rocce come un fiore orgoglioso.
 
- § -
 
28 Giugno 1915: un lunedì come un altro.

Il sole che gli colpiva gli occhi lo costrinse a svegliarsi, anche se non ne aveva troppa voglia: in realtà, quella stanza era così calda, che a malapena l'aria che entrava dalla finestra socchiusa era sufficiente a renderla accogliente.

Si era addormentato molto tardi, nonostante la testa sembrasse volergli scoppiare e adesso non sapeva neanche che ore fossero. Si sedette sul letto e gli parve ironico che in quella specie di magazzino avessero piazzato un calendario ma non un orologio. Scoccò un'occhiata e si rese conto che era il 28 Giugno, un lunedì: ecco perché ancora non era arrivata.

Sapeva che ormai, da quando si era diplomata, era l'unica a occuparsi di lui. Nonostante ciò, da quanto gli aveva riferito, il lunedì mattina aveva comunque delle incombenze da svolgere in reparto.

E se ancora non era arrivata a svegliarlo con la sua dirompente allegria, significava che era presto. O che non sarebbe venuta.

Quell'improvvisa consapevolezza gli fece correre un brivido lungo la schiena: sapeva che la dedizione di Candy nei suoi confronti sarebbe stata una cosa passeggera, il tempo di ristabilirsi e uscire dall'ospedale. Ciononostante si sentì come se stesse precipitando nel vuoto, in maniera simile a quando tentava di ricordare il suo passato e gli sembrava di essere risucchiato da un buco nero.

Fece un profondo respiro, alzandosi per guardare fuori dalla finestra: il sole non era molto alto. Dopotutto, non aveva dormito quanto credeva. In compenso, i sogni agitati nei quali correva senza una meta erano tornati. In quegli incubi sapeva che c'era qualcosa di urgente e importante che doveva portare a termine, ma non sapeva di cosa si trattasse e questo non faceva che aumentare la sua ansia.

Sedette sul letto, frustrato, passandosi una mano tra i capelli e poggiando i gomiti sulle ginocchia. Candy gli aveva offerto un nome. Candy gli dava sempre una speranza. Ma, soprattutto, Candy gli regalava quei sorrisi e quell'allegria che a lui mancavano totalmente.

Faceva fatica ad ammetterlo, ma se non ci fosse stata lei, forse si sarebbe lasciato morire.

Che senso aveva vivere la vita di un uomo senza passato che, oltretutto, veniva trattato come un delinquente? Come poteva trovare il suo posto nel mondo se tutti, tranne lei, lo guardavano con sospetto? Ma Albert, come lo chiamava Candy, non poteva e non voleva restarle aggrappato ancora a lungo.

Più tempo fosse passato e più sarebbe stato difficile lasciarla. Sapeva che era necessario per il suo bene: non aveva nulla da offrirle, se non un cuore che si gonfiava, ogni giorno di più, di un sentimento proibito che era quanto di più dolce si meritasse un uomo come lui.

E non era una mera questione di differenza di età, anche se dubitava di avere più di trent'anni.

Candy era una ragazza piena di vita con un futuro luminoso davanti, si meritava qualcuno che potesse darle delle certezze, una posizione, una famiglia...
Lui era il signor "Nessuno" proveniente da un incidente ferroviario in Italia che, a parte la parola "Chicago" nel suo delirio, non aveva altro a identificarlo. Poteva essere nato in quella città o essere davvero un malavitoso che avesse affari lì.

Non avrebbe potuto mai rovinare la vita di una ragazza così speciale lasciandosi andare ai sentimenti. Né il suo cuore le apparteneva se non come paziente che somigliava a suo fratello. In parole povere, aveva la dedizione di Candy, la sua pietà, magari anche un po' di affetto. Ma non avrebbe mai potuto sperare in nulla di più.

"Forse dovrei andarmene oggi stesso", mormorò lanciando l'ennesima occhiata al calendario. Sarebbe stato perfetto: lei era impegnata in un'altra ala dell'ospedale o forse non sarebbe persino più andata da lui.

Albert rimase per lunghi istanti col viso rivolto verso quel pezzo di carta fissando la data con le mani giunte davanti alla bocca, forse riflettendo, forse persino pregando Dio di dargli quella forza. Ma le dita divennero gelide, nonostante il caldo, al solo pensiero di separarsi da Candy e si accorse con stupore che le lacrime gli stavano salendo agli occhi appannandogli la vista. Li chiuse, lasciandole scivolare lungo le guance nella loro amara carezza e capì che non era pronto.

Non ancora.

Oppure era già andato oltre. Quando aveva permesso al suo cuore di provare tanto trasporto per lei? Possibile che, da quel pomeriggio di alcuni mesi prima, voltandosi mentre fissava l'esterno con aria assente da quella stessa finestra, avesse posato lo sguardo sull'unica ragione di quella vita vuota che aveva?

Albert si passò le mani sul viso, scuotendo la testa: alternava momenti di fragilità come quello, ad altri nei quali era davvero determinato a vagare per il mondo in cerca di se stesso. Lontano dalla Chicago che tanto aveva invocato. Lontano dagli occhi gelidi delle persone che lo additavano come spia.

Lontano da Candy.

Però non sarebbe stato oggi. No.

Oggi aveva ancora bisogno di dissetarsi con la sua voce fresca e ridente, di specchiarsi nei suoi prati verdi più brillanti del sole stesso e assorbire da lei quella voglia di vivere che a volte gli mancava enormemente.

Non sapeva cosa gli avrebbe riservato il destino, una volta lontano, ma di una cosa era certo: non l'avrebbe mai dimenticata.
 
- § -

* Secondo Wikipedia la canzone Happy Birthday fu composta nel 1893 da due sorelle originarie proprio degli Stati Uniti
 
   
 
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