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Autore: FalbaLove    30/06/2021    0 recensioni
-Non potevo darti ciò che volevi- sospirò pregando che queste sue parole fossero portate via dal vento sempre più veloce, ma lui le udì perfettamente, dopotutto a Neji Hyuga non sfuggiva mai niente.
-Tu eri ciò che volevo- sibilò ed un amaro sorriso, carico di rimorso, si dipinse sulle guance pallide dell’Anbu. Svogliatamente si rimise a sedere e, con le dita tremanti, allontanò una ciocca dal suo volto facendola ricadere sulle sue spalle: poi lo riguardò e, nonostante avesse già permesso ai suoi occhi di rispecchiarsi nei suoi, fu come se fosse la prima volta.
-Lo so, ma non sarebbe durato per sempre-
Genere: Malinconico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Neji Hyuuga, Tenten | Coppie: Neji/TenTen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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-Che caldo- borbottò uno dei due guardiani delle porte del Villaggio della Foglia facendo aderire perfettamente la sua schiena allo schienale della sedia. Nonostante la loro postazione fosse adeguatamente riparata da quel sole di prima mattina, l’aria calda e afosa lambiva con insistenza la loro pelle già accaldata. Il ninja seduto alla sua sinistra, nonché suo migliore amico, sbadigliò sonoramente senza staccare gli occhi dal libro che stava avidamente leggendo: poi scostò leggermente la benda che divideva quasi a metà il suo volto.
-Non dovresti lamentarti Izumo, almeno è una giornata tranquilla- rispose Kotetsu ricevendo, per tutta risposta, uno sbuffo dal suo migliore amico. Ma nonostante tutto aveva ragione: quel caldo torrido, di piena estate, sembrava aver fatto desistere qualsiasi persona a dirigersi verso il Villaggio della Foglia e una giornata tranquilla come quella era difficile da ricordare nei mesi precedenti. Annoiato, e ancora accaldato, Izumo permise ai suoi occhi scuri come pece di spostarsi in giro: osservò distrattamente la montagna degli Hokage dove svettavano i volti dei sette Hokage. Nonostante il settimo Hokage avesse assunto la carica solo da pochi mesi ancora gli faceva strano vedere il volto, oramai adulto, di quel buffo e discolo bambino che era stato l’incubo per molti. Un sorriso divertito comparve sul volto lasciandosi, per pochi secondi, inglobare dai ricordi: questo suo momento di tranquillità però durò per troppo poco.
-Che c’è?- sbuffò seccato increspando le labbra in una smorfia per essere stato disturbato da una forte gomitata dell’altro Chunin. Si aspettava una risposta che però non arrivò mai e così si vide costretto a rivolgere il suo sguardo verso Kotetsu.
-Abbiamo visite- fu la veloce risposta che fuoriuscì dalle labbra strette del suo migliore amico mentre, con un veloce segno del capo, gli fece segno di osservare l’ingresso delle porte del Villaggio della Foglia. Lì vi era una figura che fece immediatamente scattare in piedi i due Chunin.
-È un piacere vedere il tuo ritorno, non sapevamo che fosse oggi- parlò per primo Izumo accennando un leggero inchino di fronte al volto celato da una maschera che non passava di certo inosservata a qualsiasi abitante del Villaggio della Foglia e non solo.
-Sono passati alcuni anni dall’ultima volta che ti abbiamo vista- aggiunse Kotetsu imitando il gesto pieno di rispetto del suo migliore amico mentre la terza figura si avvicinò lentamente a loro. Le sue braccia, libere da qualsiasi tessuto, erano abbronzate e muscolose e un vistoso tatuaggio spiccava facendo chiaramente capire a quale Villaggio la figura appartenesse.
-Esattamente sette anni- sospirò la loro interlocutrice mentre le sue dita, lunga e affusolate, si posarono sulla maschera che celava qualsiasi punto del suo volto: la sua chioma, di un castano caldo, vibrò leggermente all’arrivo di un accennato venticello.
-È bello finalmente essere a casa- continuò lasciando finalmente che i raggi del sole illuminassero con forza le sue guance, decisamente più pallide rispetto al resto del corpo, e che i suoi occhi, così simili a quelli di un cerbiatto ma contornati da profonde occhiaie, si illuminassero alla vista dell’unico posto che quell’Anbu potesse chiamare casa.
 
-Mi scoppia il cervello- urlò con voce acuta l’unica figura presente nella stanza più alta di tutto il Villaggio della Foglia. Assumendo una espressione assolutamente bambinesca e contrariata, che risvolse ai documenti che fino a poco prima i suoi occhi cerulei stavano analizzando, si alzò dalla sedia increspando gli angoli delle labbra: i segni sul suo volto, una volta derisi ed ora ammirati da molti, si contrassero insieme ad ogni suo muscolo. Poi, spazientito, allontanò con forza il mucchio di documenti e fogli che erano impilati malamente sulla sua scrivania: quelli si riversarono disordinatamente sul pavimento come fossero una cascata. Il ragazzo, perché nonostante la sua carica era ancora tale, osservò il disordine appena creato prima di lasciare che la sua bocca assumesse la forma di un sorriso: una risata contagiosa e divertita si sprigionò per tutto l’ufficio mentre il Genin si piegò in due senza riuscire a smettere di ridere.
-Shikamaru mi ucciderà- sentenziò una volta che riuscì a fermarsi dal ridere e asciugandosi distrattamente con la mano fasciata gli occhi da cui era scappate un paio di lacrime. Indeciso su cosa fare lasciò che il suo sguardo vagasse per tutta la stanza ben illuminata dai raggi solari: ancora pensoso incrociò le braccia al petto dirigendosi verso la grande vetrata che dava su quel Villaggio che l’aveva visto crescere e riscattarsi.
-Sei tornata prima- disse, nel più completo silenzio, alla figura che, zitta, era appena entrata nel suo ufficio dall’unica finestra aperta. La nuova arrivata, che evidentemente non si aspettava che lui la notasse, lasciò scivolare le sue braccia all’altezza dei fianchi.
-Ho concluso la missione prima- rispose seria avvicinandosi alla scrivania e posando il report della sua missione sul tavolo: poi, con gli occhi mezzi nascosti della maschera, fissò indecisa i fogli abbandonati sul pavimento.
-Shikamaru ti ucciderà- sentenziò osservando con insistenza le spalle che la figura bionda ancora le riservata: lui si grattò nervosamente la testa lasciandosi sfuggire una risata nervosa.
-Lo so- rispose divertito finalmente lasciando che i loro sguardi, dopo così tanto tempo, combaciassero.
-Non pensavo che ti fossi già insediato- continuò l’interlocutrice del nuova Hokage facendo alcuni passi indietro e permettendo che l’aria sollevasse i suoi capelli che scendevano dalle sue spalle. Naruto non rispose immediatamente a quelle parole, ma, tornando serio in volto, afferrò con decisione gli unici fogli che sembravano essere in ordine in quell’ufficio e velocemente lasciò che il suo sguardo ricadesse sulle scritte e sulle foto contenute: la nuova arrivata aspettò in silenzio che l’Uzumaki analizzasse il report della sua missione senza lasciare che qualsiasi suo muscolo tradisse il nervosismo che aleggiava nelle sue membra. Non era la prima missione di livello S che aveva svolto come Anbu, era decisamente la più lunga e la più difficile, ma oramai era abituata a riportare con successo i suoi risultati all’Hokage: quello che le faceva strano era che davanti a sé non aveva più il Copia-Ninja, ma bensì quell’amico che aveva visto crescere e diventare un eroe. Faceva strano rivederlo dopo tutti quegli anni e pensò immediatamente che la figura davanti a lei non combaciasse affatto con i ricordi del bambino testardo che rimembrava ancora nitidamente. Naruto sembrò accorgersi degli occhi, ancora celati dalla maschera ma insistenti, che la seconda figura gli stava riservando e, senza nascondere un leggero rossore sulle guance, sollevò finalmente anche lui il suo sguardo.
-Grazie per avermi portato il report della missione che vedo che si è conclusa con successo. Sei congedata per un paio di settimane, immagino che sarai stanca- sentenziò con sicurezza senza tradire alcuna emozione infantile o nervosismo: l’Anbu mimò un leggerò inchino prima di apprestarsi a lasciare l’Ufficio dell’Hokage.
-Tenten- la richiamò il biondo abbandonando i fogli della missione sulla sua scrivania e avvicinandosi a quell’amica di infanzia. La castana, che non udiva il suo vero nome da chissà quanti anni, si fermò immediatamente.
-Bentornata- continuò il biondo grattandosi nervosamente la testa e senza reprimere un sorriso gioioso e contagioso. Le sue labbra schioccarono come cercasse di scacciare una strana tensione che si era creata con quella figura che da troppo tempo mancava dalla sua vita.
-Grazie... Hokage- ribatté lei lasciando che le sue dita finalmente rivelassero il volto oramai abbandonato da qualsiasi accenno infantile o bambinesco. Le sue iridi brillarono illuminate dai raggi del sole mentre i suoi capelli, ricaddero sulle sue guance scavate e leggermente arrossate.
Naruto serrò le labbra quasi lusingato che quella figura del suo passato lo appellasse con quel titolo che aveva così tanto sognato quando era un bambino.
-Ci sei mancata- e prima che potesse aggiungere altro l’Anbu sparì dalla sua vista.
-Che seccatura- tuonò una terza figura che proprio in quel momento si era aggiunta nel suo ufficio. L’Uzumaki deglutì a fatica mentre i suoi occhi, azzurri come il cielo più limpido, osservarono per altri istanti la sua amica allontanarsi velocemente tra i tetti.
-Era lei?- sentenziò la stessa persone che fino a poco tempo prima era vicino alla sua scrivania e che ora comparì al suo fianco. L’Hokage annuì impercettibilmente lasciando che i raggi illuminassero il suo volto leggermente più scavato dalla stanchezza che quel nuovo ruolo gli aveva portato.
-Immagino che tu abbia una spiegazione per questo disordine- continuò svogliato il Nara incrociando le braccia al petto e osservando di sbieco quello che considerava uno dei suoi migliori amici. Naruto serrò le labbra mentre la sua fronte si aggrottò: mentalmente si maledì per non avere una scusa pronta per quello che oramai era il suo braccio destro.
 
 
Il respiro di Maito Gai era regolare mentre il suo petto si alzava ed abbassava: le sue gambe, fasciate da spesse bende, erano distese sul letto mentre un leggero lenzuolo lambiva la maggior parte del suo corpo. Nonostante il Jonin fosse immerso sereno nel sonno, la luce, di quella mattina estiva, si era fatta facilmente spazio nella camera da letto del sensei e illuminava ogni suo centimetro scoperto della sua pelle ambrata: l’aria, calda e afosa, scuoteva con irregolarità le tende che sembravano essere inutili nel cercare di evitare che i raggi solari si facessero spazio nella stanza. Maito Gai bisbigliò qualcosa nel sonno increspandole le folte sopracciglia: il suo volto, maturo e contornato da rughe sempre più evidenti, era calmo e rilassato e qualsiasi cosa stesse sognando non sembrava turbare negativamente il suo cuore e la sua mente. All’improvviso un contatto insolito lo allontanò con dolcezza dal mondo immaginario mentre i raggi solari si fecero sempre più insistenti sul suo volto: assonato e con la vista ancora offuscata, il Jonin socchiuse gli occhi contornati da lunghe ciglia. Era confuso, ogni suo muscolo sembrava turbato da quel risveglio che aveva qualcosa di inconsueto: lentamente lasciò che le sue iridi, nere come la pece, scrutassero la sua stanza senza individuare niente che fosse fuori posto. Lentamente si sforzò di mettersi a sedere mentre ancora non riusciva a separare il sogno dalla realtà. Istintivamente si portò le dita all’altezza della fronte dove era certo che qualcosa, o per meglio dire qualcuno, l’avesse sfiorato: un dolce bacio sembrava ancora ardere di affetto sulla sua pelle, ma Gai si domandò se fosse davvero accaduto.
-Oh- si lasciò sfuggire dalle labbra carnose mentre le sue folte sopracciglia si alzarono: un sorriso, il più grande e luminoso, si dipinse velocemente sul suo volto mentre un profumo agrumato, ma estremamente familiare, avvolse la sua figura.
-Oggi sarà senza dubbio una giornata piena di giovinezza- esclamò carico di entusiasmo mentre il ricordo di due occhi dolci e così simili a quelli di un cerbiatto si mischiarono nella sua mente.
Pochi metri distante da lui, appollaiata su un tetto, Tenten si lasciò sfuggire una piccola lacrima mentre le parole, così sciocche, ma cariche di ricordi, del suo maestro risuonarono nella sua mente: non era cambiato di una virgola in quei sette anni e questa constatazione riempì di felicità ogni singola cellulare che componeva il corpo del ninja. All’improvviso una figura comparve a pochi passi da lei, ma Tenten non sussultò.
Kakashi, il sesto Hokage, la fissò con il suo unico occhio libero e penetrante: aveva il volto celato dalla sua solita maschera, ma la donna fu sicura di vedere un sincero sorriso formarsi al di sotto del tessuto. Poi, silenzioso come era venuto, entrò in caso del suo eterno rivale, o almeno così era come Gai adorava apostrofarlo.
 
 
Un ciuffo biondo calò sulla fronte quasi lattea della donna: Ino, piegata sulle ginocchia, lo scostò con velocità permettendo nuovamente ai suoi occhi, di un azzurro quasi opaco, di concentrarsi perfettamente sugli oggetti che teneva tra le mani. Sicura lasciò che le lame delle forbici tagliassero con un gesto secco gli steli dei girasoli prima di riporti in vaso circondati da delle rose dai colori rosati. Si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto osservando quella che sicuramente era una delle composizioni più belle che vi era nel suo negozio.
-Mamma- biascicò una figura calma e dolce che era comodamente seduta su una sedia: la donna alzò leggermente lo sguardo ad osservare quella testolina contornata da capelli così simili ai suoi.
-Ho finito- continuò pacatamente il bambino lasciando che tra le sue guance paffute e pallide si dipingesse un tenero sorriso. Ino ricambiò quel gesto e si avvicinò al figlio: non riuscì a non trattenere una espressione meravigliata di fronte al bellissimo disegno, decisamente inusuale per un bambino di sei anni, che era posato davanti al suo unico figlio.
-Wow Inojin, è bellissimo- esclamò battendo le mani all’altezza del seno prorompente e sorridendo estremamente orgogliosa.
-Grazie mamma- rispose lui pacatamente e con un tono che avrebbe tradito il fatto di essere figlio di Ino Yamanaka.
-Posso appenderlo?- continuò poi lasciando che dalle sue dita bambinesche cadessero i pastelli che fino a poco prima aveva utilizzato per colorare le tre figure: il suo sguardo, così simile a quello della donna accanto a lui, vagò fino in direzione della vetrina del negozio di fiori.
-Certo, ma stai attento a non lasciarmi le ditate che ho pulito ieri- gli rispose la bionda lasciandolo scivolare dalla sedia con una mano. Il suo tono, autoritario, fece rabbrividire il bambino dal carattere così mite simile al padre: annuì leggermente senza nascondere un leggero intimorimento per la madre. Poi, mentre la Yamanaka, ritornò ad occuparsi dei fiori che, con il caldo che aleggiava quel giorno a Konoha, sembravano chiamare a gran voce dell’acqua fresca, si avviò barcollante verso la porta lasciata aperta. Attentamente osservò la grande vetrina da cui poteva osservare interamente il negozio della madre indeciso su dove attaccare il foglio di carta che considerava il suo più grande capolavoro: una espressione dubbiosa si insinuò tra la sua pelle diafana mentre le tre figure disegnate, due dai capelli di un biondo spento e una dai corti capelli bruni, brillarono grazie ai raggi solari caldi.
-Mamma- sibilò sempre più convinto che il posto perfetto fosse in alto in maniera che tutti potessero vederlo. La donna però non sembrò udirlo e scomparì verso il magazzino. Sospirando deluso ritornò a riversare la sua più completa attenzione al punto, decisamente troppo in alto per un bambino di sei anni, della vetrina. Provò inutilmente ad alzarsi in punta di piedi, ma la ramanzina che sua madre gli aveva fatto poco prima lo fece rabbrividire e staccare immediatamente le dita dal vetro.
-Ti serve aiuto?- una voce allegra e improvvisa lo fece sussultare leggermente. Gonfiò le guance voltandosi a scrutare con attenzione la figura che dietro di lui aveva appena parlato: esaminando velocemente la sconosciuta permise al suo sguardo allarmato di spostarsi in direzione dell’interno del negozio ancora vuoto dalla presenza di sua madre.
-Posso aiutarti se vuoi- continuò la sconosciuta abbassandosi leggermente e permettendo che il suo sorriso, decisamente allegro e spensierato, illuminasse le sue guance arrossate. Inojin allontanò una ciocca di capelli dalla sua fronte pallida ancora indeciso se dare confidenza a quella donna che era sicuro di non aver mai visto in vita sua. Poi, però, qualcosa fece illuminare il suo sguardo: la divisa degli Anbu, la squadra che il bambino sapeva perfettamente fosse stata istituita per proteggere il suo Villaggio e di cui faceva parte suo padre, spiccava sul corpo muscoloso e abbronzato della castana e immediatamente i suoi muscoli si rilassarono.
-Potrebbe aiutarmi ad appendere il disegno?- sibilò educatamente indicando con un dito un punto in alto della vetrina: la donna sembrò gioire della confidenza che finalmente il bambino le aveva riservato e tornò a rialzarsi in piedi. Inojin fissò ammirato il tatuaggio del simbolo del Villaggio della Foglia che spiccava sulla spalla sinistra della sconosciuta dalla lunga capigliatura castana. Lei gli prese educatamente il disegno dalle mani e il rotolo di scotch e senza fatica lo appese nell’esatto punto che il Yamanaka le aveva indicato: gli occhi di Inojin brillarono alla vista della figura di lui, sua madre e suo padre che, stilizzati, sorridevano correndo su quello che era un prato erboso.
-Così va bene?- sussurrò Tenten lasciando che il disegno si riflettesse nelle sue iridi castane: non riuscì a reprimere un sorriso sincero di fronte a quel bambino che era il perfetto connubio dei suoi amici d’infanzia.
-Sì, la ringrazio- rispose lui accennando un inchino educato e, preso dall’euforia, rientrò nel negozio.
-Mamma!- urlò senza reprimere una espressione di pure felicità: la donna, appena sentì il figlio chiamarla, spuntò dal magazzino pulendosi il grembiule verdastro pieno di polvere.
-Cosa c’è?- chiese allontanando con la mano lo sporco che rovinava, oltre al grembiule, anche la sua ampia gonna violastra. Poi, una volta che fu soddisfatta di questo suo lavoro, tornò a riversare la sua più completa attenzione al figlio che non accennava a far scemare la sua esaltazione.
-L’ho appeso, vieni a vedere- e dolcemente lasciò che le sue dita scivolassero tra quelle affusolate di Ino trascinandola sull’uscio del negozio. Un sorriso dolce e materno si dipinse sul volto della Yamanaka che scrutò con attenzione i colori pastello scintillare quasi vivi sul foglio di carta: poi, un suo sopracciglio si inarcò con sospetto.
-Inojin, come hai fatto ad appendere così in alto il disegno? Non mi dire che sei salito in piedi sulla sedia perché te l’ho detto milioni di volte che...-
-Mi ha aiutato una ragazza- la interruppe il figlio di Sai rendendosi solamente conto in quel preciso istante che la tanto gentile donna che l’aveva aiutato era come scomparsa. Incuriosito si iniziò a guardare intorno non notando, per una sfortuna, una espressione furente dipingersi sul volto di Ino.
-Una sconosciuta? Quante volte devo ripeterti che non devi mai dare confidenza agli sconosciuti! Poteva essere una ricercata o peggio ancora una donna che ruba i bambini, da te non mi aspettavo un comportamento del genere- riprese furiosa la Yamanaka mentre saette animarono i suoi occhi e ogni suo muscolo si irrigidì continuando quella che sarebbe stata una sgridata che suo figlio avrebbe difficilmente dimenticato. Inojin deglutì spaventato e intimorito, ma trovò un minimo coraggio per parlare.
-Era un Anbu- sibilò abbassando colpevole lo sguardo a terra. All’udire di quelle parole la donna si placò all’istante e la rabbia lasciò posto alla curiosità.
-Un Anbu?-
-Sì, non aveva la maschera ma indossava la stessa divisa di papà e il tatuaggio sulla spalla sinistra- balbettò lui mantenendo il volto ricurvo e giocherellando nervosamente con le dita. Ino però sembrava completamente rapida dalle sue parole.
-E come era fatta?- domandò abbassandosi e permettendo ai loro visi di rispecchiarsi l’uno nelle iridi dell’altro. Una espressione pensierosa si dipinse sul volto diafano del bimbo che increspò le labbra sottili.
-Aveva lunghi capelli castani e un bel sorriso- sibilò cercando di ricordare quale carattere del viso della ragazza spiccasse di più. Ino, all’udire quelle parole, si lasciò sfuggire un grosso sorriso e si rialzò immediatamente in piedi: dolcemente ricercò con la sua mano quella del figlio trascinandolo all’interno del negozio.
-Forza rientriamo, fuori fa troppo caldo- disse mentre l’allegria riprendeva possesso di ogni suo muscolo. Inojin, insospettito per quel repentino cambiamento di carattere della madre, la seguì in silenzio ancora intimorito che tutto ciò fosse solo uno scherzo.
-Ma non sei arrabbiata con me per aver parlato con quella sconosciuta?- la Yamanaka corrugò la fronte incuriosita di fronte alla domanda del figlio come se si fosse già dimenticata della sgridata epocale che aveva iniziato e non finito pochi istanti prima.
-Oh no, per niente, dopotutto quella non era una estranea- e come se nulla fosse si diresse nuovamente verso i suoi fiori mentre un sorriso, sincero e felice, innalzò spontaneamente gli angoli della sua bocca.
 
 
-E quindi ora Tamaki si è messa in testa di iniziare un allevamento di gatti? Capisci? Io, Kiba Inuzuka detto il Grande Cane Ninja, dovrò ritrovarmi circondato da stupidi e pelosi ... gatti!- ululò disperato lasciando che un venticello caldo scompigliasse ancora ulteriormente la sua chioma indomabile e disordinata: i suoi canini, che fecero capolinea dalle sue labbra sistemate in una smorfia, brillarono permettendo ai raggi del sole di illuminare ancora di più il loro colore bianco. Il suo interlocutore, con gli occhi sapientemente celati da una visiera ottica, annuì impercettibilmente sparando che il silenzio, che da sempre lo caratterizzava, bastasse come risposta alle lamentele del suo migliore amico. Fu talmente bravo che riuscì anche ad evitare che il suo sopracciglio si alzasse ben sicuro di non aver mai udito nessuno chiamare l’Inuzuka il “Grande” Cane Ninja.
-Maestro Shino potrebbe aiutarci a recuperare il pallone?- una vocina flebile e impaurita venne accompagnata da una piccola manina che strinse con forza un lembo della giacca verdastra che, nonostante l’alta temperatura, indossava l’insegnante dell’Accademia.
-Ci può pensare Akamaru- lo precedette il castano facendo un breve cenno all’enorme cane che, senza farselo ripetere, corse per di fiato in direzione del piccolo gruppo di bambini che circondava uno dei tanti alti alberi situato nel giardino dell’Accademia. Soddisfatto Kiba riprese a parlare mentre le urla dei bambini disperati e l’abbaiare del suo migliore amico rendevano quasi impossibile al primo parlare con il suo solito tono al secondo.
-Secondo te dovrei dirglielo? Sono sicuro che se le dicessi che odio la sua idea mi metterebbe il muso per giorni... per non parlare di quanto faccia paura quando si arrabbia- sentenziò il giovane incurvando i bordi delle labbra in una smorfia mentre i segni distintivi, delle zanne rosse del clan Inuzuka, si abbassarono seguendo l’espressione. Shino non parlò nuovamente limitandosi ad annuire impercettibilmente: di quei problemi, principalmente di cuore, non se ne intendeva e trovava anche solo difficile ipotizzare le parole più adatte per confortare il suo vecchio compagno di squadra che non si era fatto scrupoli a sfogarsi con lui nonostante fosse al lavoro.
All’improvviso, prima che le sue labbra si potessero schiudere per dire anche solo una parola, l’abbaiare di Akamaru si fermò all’istante e le grida disperate degli allievi dell’Accademia fecero posto a urla di gioia: Kiba si scostò appena mentre il suo migliore amico tornò tutto contento ad accucciarsi ai suoi piedi. Una espressione confusa si dipinse su entrambi i volti dei vecchi allievi di Kurenai.
-Hanno recuperato il pallone- sentenziò freddo Shino osservando i suoi allievi iniziare a giocare allegramente, ma Kiba non sembrava altrettanto soddisfatto.
-Non è stato Akamaru a tirarlo giù- sibilò lasciando che i suoi occhi neri e dalle pupille verticali ricadessero sull'animale che era estremamente felice, troppo felice. Il cane, sentendosi chiamare in causa, tornò a risedersi sul manto erboso non riuscendo a trattenere uno sbadiglio: il volto asciutto e con un velo di barba dell’Inuzuka si contrasse con forza al sentire i guaiti di Akamaru. L’Aburame si accigliò leggermente raccogliendo le braccia al petto e percependo che qualcosa stava turbando il suo amico.
-Se non è stato Akamaru allora chi ha tirato giù il pallone?- domandò serio muovendo impercettibilmente la bocca: un sorriso ampio scacciò via qualsiasi sentimento negativo sul viso di Kiba mentre le sue sopracciglia folte si alzarono quasi divertite.
-Semplice, è stata Tenten- e prima che Shino potesse anche solo collegare quel nome alla ragazza dall’abitudine di raccogliere la folta chioma in due panini, la figura dell’Inuzuka, accompagnata da quella di Akamaru, si diresse di corsa verso i bambini che animatamente ripresero a giocare con il pallone.
 
 
-Ancora- urlò una voce mentre queste sue parole furono accompagnate da un potente calcio che il proprietario della voce parò con facilità con il suo avambraccio.
-Ancora!- ripeté l’uomo dalla strana capigliatura mentre il bambino davanti a lui si apprestò a sferrare un ennesimo calcio.
-Pausa?- disse Rock Lee sorridendo soddisfatto al figlio: Metal Lee, con il petto intaccato dal fiatone e dalla stanchezza, annuì impercettibilmente. Proprio in quel momento una terza figura comparve nel loro campo di allentamento: stravolto il bambino si lasciò accasciare sul terreno sabbioso mentre un sapore ferrico solleticò la sua lingua.
-Tieni, bevi- suggerì suo padre chinandosi e passandogli una bottiglia d’acqua che lui accettò di buon grado mentre la figura appena arrivata fece un veloce cenno a Rock Lee il quale, prima di allontanarsi, alzò un pollice orgoglioso al figlio sorridendogli.
Metal Lee sospirò mentre ogni suo muscolo sembrava dolergli come mai aveva fatto prima: quel giorno, come tutti i giorni, erano andati ad allenarsi e nonostante i suoi soli sei anni Metal Lee adorava farlo con suo padre. Lo ammirava, lui era il suo eroe: era uno dei Jonin più rispettati e temuti di tutta Konoha e le abilità nelle Arti Marziali erano conosciute anche al di fuori del Villaggio della Foglia. Da quando era nato Metal Lee aveva sempre sognato di diventare forte quanto lo era lui, eppure un piccolo tarlo sembrava non lasciare mai i suoi pensieri: le sue labbra assunsero una smorfia triste e sconfitta mentre suo padre sembrava essersi allontanato dal suo raggio visivo con il ninja che Metal era sicuro fosse un Jonin. Schioccando la lingua reclinò la testa all’indietro permettendo ai suoi capelli, di un nero brillante e con una pettinatura che molti giudicavano imbarazzante, si mischiarono al sudore che brillava sulla sua fronte. E se non fosse stato forte come suo padre? Se non avesse la forza di volontà necessaria per diventare come lui? La terribile paura che le Arti Marziali fossero troppo per uno come lui sembrava attanagliarli il cuore così giovane. Una solitaria lacrima sfuggì dal suo controllo mentre i suoi occhi, scuri come la pece, fissarono mortificati il terreno: quando percepì chiaramente che non era più solo si asciugò immediatamente il volto.
-Sono pronto a ricominciare papà...- ma le ultime lettere gli morirono in gola notando che il suo interlocutore non era suo padre: anzi, per essere precisi, non era neanche un uomo. La nuova arrivata ignorò completamente lo sbigottimento sul volto del bambino e si limitò a incrociare le braccia sotto al seno.
-Stai piangendo- sibilò quasi divertita inarcando un sopracciglio. Metal Lee arricciò le labbra e strinse i pugni davanti al volto: non capiva cosa ci fosse di tanto divertente.
-No, non è vero- rispose quasi mortificato di essersi dimostrato debole di fronte a quell’estranea. Era talmente tanto immerso nei suoi pensieri che non si era neanche accorto che quella donna davanti a lui non era un semplice ninja.
-Una volta un uomo, dall’aspetto stravagante, disse ad un ragazzino così simile a te che tutti gli sforzi sono inutili se non si crede in sé stessi- mormorò la donna chinandosi e avvicinando il viso a quello del bambino: un rossore accentuato colorì il volto di Metal Lee imbarazzo nel trovarsi a pochi centimetri da una figura del sesso opposto. Poi, senza che neanche se ne rendesse conto, la sconosciuta sparì e lui si ritrovò nuovamente solo: avrebbe giurato che tutto quello fosse solo una stupida allucinazione scaturita dalla stanchezza quando si accorse che nella sua mano sinistra vi era qualcosa.
-Scusami Metal, ma mi è stata riferita una notizia dall’Hokage. Il mio corpo arde di passione e giovinezza al solo pensiero di riprendere il nostro allenamento- suo padre, trafelato, ricomparì a pochi passi da lui mentre la mente del bambino era ancora estremamente confusa, sbigottimento che crebbe ancora di più osservando che gli occhi di Rock Lee erano lucidi, come se avesse pianto. Poi si rese conto che stringeva ancora qualcosa di sconosciuto tra le mani.
-Allora è vero, è davvero tornata- bisbigliò l’uomo lasciando che il suo sguardo ricadesse sull’oggetto che aveva il figlio. Metal Lee osservò incuriosito il kunai che stringeva tra le dita fasciate, sicuro di non averne mai posseduto uno prima d’ora, mentre suo padre si accasciò a terra: calde lacrime scivolavano veloci sulle sue guance scavate mentre un sorriso, il più grande e felice che lui avesse mai visto, era in perfetto contrasto.
 
 
 
-Sakura, Choji non c’era bisogno che mi aiutaste- sibilò Hinata osservando i due amici che, a pochi passi da lei, erano indaffarati in cucina. La sala della casa Uzumaki era avvolta da una miriade di odori deliziosi che si mischiavano perfettamente.
-Non dirlo neanche Hinata, era il minimo che potessimo fare visto che sei stata tu ad avere l’idea di riunirci tutti qui questa sera-
-Senza bambini, solo adulti- ci tenne Choji ad aggiungere alle parole di Sakura. Le sue guance, paffute e arrossate dal calore dei fornelli oramai accesi da ore, si alzarono accompagnando un sorriso mentre si asciugò un alone di sudore che impregnava la sua fronte. La Hyyuga sorrise dolcemente sedendosi su una delle tante sedie distribuite caoticamente per quel salone. Osservò in silenzio l’Akimichi assaggiare soddisfatto il sugo che ribolliva e poi, pensieroso, allungò la mano per afferrare il contenitore del sale di fronte al sapore troppo insipido. Sakura, invece, afferrò una ennesima carota che iniziò a tagliare con ritmo regolare.
-Sono contenta di essere riuscita a convincere tutti a venire, è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti tutti- sibilò la Hyuga lasciando che una espressione dolce e calma prendesse vita sul suo volto dal colorito latteo. Era stato difficile trovare un giorno che andasse bene per tutti i loro amici di infanzia, ma, faticosamente e insistendo, era riuscita a radunarli tutti. Sakura le sorrise in risposta stando attenta a non avvicinare troppo la lama del coltello alle sue dita.
-Tra il lavoro in ospedale e Sarada non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che ho avuto una serata libera- sbuffò allontanando il ciuffo da davanti al volto: poi si accinse a far cadere le verdure perfettamente tagliate nella padella. Hinata annuì educatamente stando ben attenta a non lasciarsi sfuggire il nome di una delle due figure che mancava all’appello: Sasuke Uchiha era in viaggio oramai da mesi e neanche sua moglie sembrava conoscessero con precisione dove fosse. L’altra figura, che oramai da troppo tempo era sparita dalle loro vite, non era stata neanche presa in considerazione dalla Hyuga.
-Tra l’altro ti invidio Choji, Chocho è davvero una bambina adorabile- continuò la Haruno lasciando che le sue iridi color smeraldo si spostassero sulla bambina di sei anni che, tranquilla e pacifica, dormiva sul divano di casa Uzumaki. Da quando suo padre l’aveva adagiata lì sopra, oramai molte ore prima, si era addormentata e non aveva accennato a svegliarsi: il suo volto, paffuto e dal colorito ambrato, era perfettamente rilassato e nessun rumore sembrava disturbare il suo sonno.
-Questo è perché ora sta dormendo- ribatté l’Akimichi rabbrividendo al solo pensiero del carattere peperino ed egocentrico che si stava plasmando in sua figlia. Poi, però, osservandola si fece sfuggire un sorriso paterno ed orgoglioso: proprio in quel preciso momento delle urla sovrastarono il silenzio di casa Uzumaki.
-Sei un idiota!- gridò con forza una bambina di sei anni inseguendo un suo coetaneo: il biondo, con le braccia raccolte dietro la testa, camminò con tranquillità nel salone senza neanche badare alle parole della corvina. Poi, osservò affamato i piatti già pronti presenti sul tavolo ancora da apparecchiare.
-Non mi disturbare Sarada- tuonò con una voce troppo acuta mentre le sue papille gustative iniziarono a produrre maggior saliva di fronte a quei manicaretti.
-Boruto!- lo richiamò sua madre alzandosi dalla sedia e fissandolo con rimprovero: il biondo sbuffò sonoramente mentre i suoi capelli si fecero ancora più disordinati ed indomabili sulla sua testa.
-Ti ho già ripetuto che non devi rispondere in questa maniera, scusati con Sarada- continuò la Hyuga aggrottando la fronte e piegando le braccia in corrispondenza delle anche: una espressione annoiata si dipinse sul volto furbo del bambino che, svogliato, fece combaciare il suo viso con quello della bambina dagli spessi occhiali rossi.
-Mi dispiace...- biascicò mentre una espressione sorniona si dipinse sul suo volto.
-Che tu abbia un sogno così stupido- continuò riservandole una boccaccia prima di scoppiare a ridere: la Uchiha sbatté con forza il piede a terra mentre Sakura, con un breve gesto, fermò l’amica dall’intervenire nuovamente.
-Il mio sogno non è stupido!-
-Ah, no?- la interruppe lui assottigliando con divertimento gli occhi e arricciando il naso. Attentamente scrutò il volto fanciullesco della ragazzina irrigidirsi mentre un accennato rossore si dipinse sulle sue guance.
-Vuoi diventare una Hokage nonostante tu sia una femmina- sentenziò con fare saputello e alzando gli occhi al cielo contento che le sue parole taglienti sconvolgessero così tanto quella che considerava la sua migliore amica.
-E quindi? Non lo sai che la quinta Hokage era una donna?- ribatté con forza Sarada sistemandosi gli occhiali che le stavano sfuggendo dal piccolo nasino. Una espressione confusa si dipinse sul volto del piccolo Uzumaki che si rabbuiò all’istante: la sua fronte si accigliò mentre le sue labbra assunsero una forma contrita e tirata. Effettivamente non aveva tenuto conto del quinto Hokage, una donna che era sicuro che suo padre chiamasse Nonna Tsunade nonostante non ci fosse alcun legame di sangue: velocemente lanciò una occhiata al volto di Sarada che brillava vittorioso e si ritrovò a maledirsi. Non poteva ammettere di essersi sbagliato, non davanti a una come l’Uchiha che avrebbe rivangato questo suo successo per mesi e mesi. Per questo si limitò a scuotere leggermente il capo cercando di celare la vergogna che ardeva nelle sue membra.
-Va bene, quindi tu diventerai Hokage, giusto?- sentenziò chinandosi in avanti e scrutandola con attenzione mentre il suo volto andò a riflettersi nelle spesse lenti della bambina. Lei annuì con decisione incrociando le braccia al petto soddisfatta.
-Allora io sarò il tuo braccio dentro e lavorerò sodo per proteggerti- continuò convinto e risoluto alzando un pollice vittorioso. Un leggero rossore dipinse le guance della figlia di Sakura mentre una espressione sorpresa prese possesso del suo volto: le due madri, che avevano seguito attentamente e in silenzio la discussione tra i loro figli, si scambiarono una occhiata complice.
-Futuro Hokage e suo braccio destro mi dispiace disturbarvi, ma sareste così gentili da apparecchiare la tavola?- li interruppe Sakura mischiando con vigore la zuppa che sempre più allegramente ribolliva. Poi, accostò il mestolo alle labbra beandosi del sapore assolutamente delizioso che mandò in estasi la sua lingua. Boruto sbuffò, ma una gomitata da parte dell’amica lo riprese.
-Certo, mamma quanti sarete?- domandò svogliato il ragazzino incrociando le braccia dietro al capo  lasciando che la sua solita espressione strafottente riprendesse posto sul suo volto.
-Dovremmo essere in undici- rispose dolcemente la donna alzandosi e dirigendosi verso il frigo: con i suoi occhi lattei osservò attentamente che tutte le bevande fossero al fresco.
-Verrà anche lo zio Neji?- ululò estasiato il bambino mentre i suoi occhi si illuminarono: le sue labbra tremarono dall’eccitazione. Hinata annuì e lo vide eccitarsi ancora di più, talmente tanto che non riuscì a reprimere un saltello.
-Allora voglio esserci anche io, mamma ti prego!- borbottò incrociando le dita davanti al petto come se fosse in preghiera.
-Mi dispiace, ma sarà una serata solo per adulti. Non sono ammessi minorenni- rispose divertita Sakura accostando la schiena al muro e massaggiandosi le spalle tese per essere rimasta così tanto tempo in piedi. Uno sbuffo venne emesso dal figlio di Naruto che incrociò le braccia al petto offeso.
-Forza, vai a prendere i tovaglioli di là mentre io e Sarada ci occupiamo dei piatti- e, lasciandosi sfuggire apposta un altro sbuffo contrariato, la chioma si allontanò dall’unica stanza animata da chiacchiericci e risate.
-Verranno anche i genitori di Shikadai e Inojin?- chiese curiosa la figlia di Sasuke avvicinandosi ad Hinata che si apprestò ad aprire la credenza alla ricerca dei piatti: sentì chiaramente che il padre di Chocho emise un urletto soddisfatto facendo calare il ramen all’interno del sugo.
-Certo e anche Kiba, il Maestro Shino e il padre di Metal Lee- aggiunse la madre di Boruto tirando fuori un servizio di piatti di porcellana. Intanto, proprio in quel preciso momento, dei passi svogliati e pesanti ritornarono in salone accompagnati da un volto annoiato e arricciato. Fiaccamente il biondo posizionò i tovaglioli lungo il perimetro del grosso tavolo senza emettere alcun suono: la fronte spaziosa di Sakura si corrugò domandandosi se fosse stata l’unica ad aver udito la porta di ingresso aprirsi e chiudersi, ma
nessuno degli altri sembrava essersene accorto.
-Tieni, metti i piatti ora- ordinò autoritaria Sarada abbandonando i piatti tra le mani del suo coetaneo che la fulminò con lo sguardo: lei rispose con un sorriso vittorioso ritornando vicino alla Hyuga che si stava occupando delle posate.
-Manca un piatto- tuonò il giovane Uzumaki sistemando l’ultimo in corrispondenza dell’angolo: Hinata serrò le labbra confusa scostando i capelli dalle spalle.
-Oh, pensavo di averne presi undici- mormorò sorpresa riaprendo l’anta della credenza, ma le parole del figlio, lamentose, la bloccarono.
-Sono undici, per questo ne manca uno- la beccò il giovane sempre più irritato da tutti e tutto. Alzò gli occhi al cielo come se quella situazione fosse stata pensata apposta per disturbare la sua giornata.
-Allora ci sono tutti- mormorò in risposta la madre, ma nuovamente uno sbuffo seccato del figlio le fece capire che aveva torto marcio.
-Siete dodici, non undici-
-Boruto sei proprio un idiota, Hinata ti ha già detto che saranno undici e non dodici- e la Uchiha accompagnò queste sue parole da un secondo ghigno, lo stesso che l’avrebbe accompagnata per le settimane successive se non i mesi successivi visto che aveva nuovamente ragione lei e lui torno. Questa volta però l’Uzumaki pareva deciso a non darle vinta.
-Non sono un idiota- obiettò offeso incrociando le braccia al petto e schioccando le labbra: era stanco di essere appellato così.
-Guarda che ti sbagli Boruto, questa sera siamo davvero in undici- ci tenne ad aggiungere Sakura temendo che un’altra inutile discussione scaturisse tra i due, ma Boruto sembrava non sentire ragione. Allora la Haruno si decise ad abbandonare i fornelli e ad avvicinarsi ai due bambini che sempre con più ferocia si fulminavo l’uno l’altro.
-Ci saranno, oltre a noi tre, anche Shikamaru, Ino, tuo padre, Rock Lee, tuo zio Neji, Shino, Kiba e Sai-
-E Tenten?- esclamò come se nulla fosse il biondo alzando le spalle. Le due donne si scambiarono uno sguardo pieno di apprensione e di confusione all’udire quel nome mentre Choji sembrava troppo indaffarato ai fornelli per ascoltare la loro conversazione.
-Tenten?- bisbigliò la Hyuga portandosi le dita alla bocca: era da talmente tanto tempo che non pronunciava quel nome che le faceva strano udirlo proprio dalle sue labbra. Sakura, che nonostante la confusione sembrava lucida, accennò un sorriso pieno di apprensione e si chinò all’altezza del figlio del suo compagno di squadra.
-Come sai questo nome, Boruto?- il bambino alzò come se nulla fosse le spalle, ma notò che vi era qualcosa di strano in sua madre e in Sakura: nervosamente si grattò il capo senza riuscire a reprimere una espressione confusa e tirata.
-Me l’ha detto lei stessa poco fa quando ha suonato alla porta aggiungendo che ci sarà anche lei questa sera- e, come se la sorpresa di quelle due donne non lo turbasse affatto, si allontanò saltellando dalla cucina scusandosi per il bisogno impellente di andare in bagno. Sarada sbuffò di fronte alla poca classe di Boruto e si girò per lamentarsi con sua madre quando una espressione accigliata si dipinse al di sotto dei suoi spessi occhiali: sua madre e Hinata si stavano fissando e due grossi sorrisi, carichi di gioia, aleggiavano sulle loro labbra.
 
 
Un bambino dai lunghi capelli castani, che gli ricadeva lunghi, ma ordinati sulle spalle, passeggiava con calma per le vie sempre meno soleggiate del suo Villaggio. Poco lontano da lui, dei bambini suoi coetanei giocavano spensierati mentre i raggi aranciati scomparivano sempre più velocemente al di là delle montagne, ma tutto ciò non sembrava turbare minimamente quel bambino: i suoi occhi, di un bianco brillante e puro, erano fissi davanti a lui e ogni suo muscolo era rilassato. Quando, una leggera folata di vento, gli accarezzò con delicatezza le guance pallide si lasciò sfuggire un piccolo sorriso: lentamente liberò le mani dal lungo kimono che indossava e si diresse verso la sua meta finale. Lontano dai lampioni e illuminato solo dagli ultimi raggi solari, si lasciò cadere sul manto erboso permettendo all’erba fresca di solleticargli le caviglie: un sorriso pacifico si dipinse sul suo volto che esprimeva, insieme ai suoi gesti studiati, regalità. Nonostante avesse solo sei anni, Daiki era un bambino diverso da tutti gli altri: calmo e paziente preferiva osservare da lontano il mondo anziché farne parte e il suo animo buono e gentile lo rendeva assolutamente speciale agli occhi degli adulti.
Gentilmente lasciò che la sua schiena aderisse al manto erboso mentre i suoi capelli, lunghi e con qualche sfumatura bluastra, si sparsero tutto intorno al suo volto andandolo ad incorniciare. Nelle sue iridi, bianche come la luna, si andarono a riflettere i mille colori aranciati che il cielo assunse mentre il sole stava sempre più tramontando e una espressione di pura felicità e serenità si dipinse sul suo volto ancora bambino: Daiki adorava la notte, quando il cielo assumeva mille sfumature prima di venire illuminato solo da piccoli e lontani fari che gli era stato insegnato si chiamassero stelle. Quei corpi celesti avevano un colore così simile ai suoi occhi e che lui le adorava. Ingenuamente allungò una mano come a cercare di afferrarle e si rabbuiò osservando come la loro luce a volte si affievolisse. All’improvviso però un rumore lo fece destare: attento e veloce si rialzò in un attimo mentre la calma ritornò a fare da sovrana tutto intorno a lui. Le vene pronunciate si gonfiarono in prossimità dei suoi occhi e il bambino si limitò a osservare tra gli alberi: nessuna ombra umana però venne rivelata dal suo grande potere, il Byakugan.
Leggermente stordito e confuso permise al suo volto di tornare normale mentre i suoi muscoli si rilassarono: ancora indeciso e con una espressione poco convinta in volto, si decise a ritornare a casa. Dopotutto suo padre Neji lo stava aspettando.
 
Tenten socchiuse leggermente gli occhi permettendo alle sue lunghe ciglia di solleticarle il volto: il vento, caldo ma avvolgente, la circondò facendo quasi ballare la sua folta chioma lasciata libera. La sua fronte, una volta coperta da una fragetta e dal coprifronte tipico del suo Villaggio di appartenenza, era impregnata di goccioline di sudore. Il suo respiro era regolare e il suo petto si alzava e abbassava lentamente: tutto intorno a lei era silenzio e la donna si domandò quando fosse stata l’ultima volta che si era sentita così in pace, con sé stessa e con il mondo che la circondava. Poi, mentre la Luna si faceva sempre più luminosa in cielo, aprì gli occhi: quel luogo, così familiare, le riempì la mente di ricordi. Lentamente mosse alcuni passi in quel campo dall’allenamento che sembrava oramai in disuso: il terreno sabbioso e pietrisco era pieno di buche e l’erba cresceva irregolare e selvaggia. Una smorfia di insoddisfazione rabbuiò il suo volto mentre ad ogni suo passo le sembrava di udire distintamente le urla di entusiasmo di Rock Lee e del Maestro Gai. Sorrise sentendosi felice dopo così tanto tempo.
-Allora è vero che sei tornata- una voce dura e seria spazzò via la quiete di una delle tante serate estive. Tenten mosse un passo percependo chiaramente che la figura, che aveva appena parlato, si trovava dietro di lei: lentamente si sedette su un tronco di un albero che anni prima era stato abbattuto con un calcio da quello che considerava ancora il suo migliore amico.
-Vedo che le voci corrono in fretta- sibilò lasciandosi sfuggire quelle parole causali, ma studiate con cura: con il volto rivolto verso il cielo percepì chiaramente dei passi farsi sempre più vicini, ma, codarda, si limitò a farsi bastare quei pochi suoni per confermare davvero la sua presenza.
-Tenten- mormorò duro il suo interlocutore, ma con vivo rispetto. La donna non rispose immediatamente, ma si prese alcuni istanti per ammirare il satellite come se volesse davvero assicurarsi che tutto ciò fosse vero e non solo frutto della sua mente stanca.
-Neji- lo salutò lei di rimando mordendosi le labbra screpolate, ma carnose con forza, labbra che lui conosceva bene. Un leggero rossore rinvigorì il volto scavato e stanco dell’Anbu al ricordo di quei tempi così lontani. Poi, stando bene attenta a non farsi scoprire, lasciò che le sue iridi ricadessero su di lui studiando con attenzione ogni suo centimetro: era rimasto lo stesso, con quegli occhi impenetrabili color avorio e i lunghi capelli di un castano caldo che gli ricadevano ordinati su una spalla. Aveva stupidamente sperato che fosse rimasto sempre uguale, che il Neji che compariva troppo spesso nei suoi sogni fosse lo stesso che ora si era costruito una vita senza di lei.
Lui ovviamente la notò, a lui, con quegli occhi, non sfuggiva mai niente. Una smorfia però tirò il suo viso bianco come il latte cosa che fece quasi rabbrividire l’Anbu: lei era cambiata molto, lo sapeva benissimo, con i capelli troppo lunghi sciolti e privi dei suoi soliti panini e i tratti più marcati dovuti alla fatica e al costruirsi false identità.
-Allora, com’è andata la tua missione?- mormorò lui quasi lasciandosi sfuggire quelle parole che in quel momento non erano le più adatte, ma la verità era che entrambi, in quel momento, si sentivano troppo sbagliati per essere lì ed insieme.
-Segreto- gli rispose lei ammiccante spingendo la lingua tra i denti in un gesto così infantile che per un attimo li riportò indietro nel tempo a quando tutto era più facile. Poi, lasciando che quella espressione divertita lasciasse il suo viso, ritornò a fissare seria la Luna che sembrava essere l’unica spettatrice delle loro parole. Il silenzio ricadde nuovamente tra di loro e sembrò creare sollievo nei loro animi così pieni di domande che non si sarebbero mai posti.
-Ho visto tuo figlio- sibilò Tenten avvicinando le gambe al petto.
-Ti assomiglia davvero tanto- continuò mentre gli angoli della sua bocca si alzarono quasi senza consenso: stava davvero sorridendo in quel momento?
-Ho visto che sa anche usare il Byakuga- Neji annuì quasi impercettibilmente rimanendo rigido in piedi e questo bastò perché una domanda, forse troppo crudele, nascesse nella mente e nel cuore della castana.
-Tranquillo, non mi ha vista se è questo che ti preoccupa- il volto dello Hyuga si incurvò all’istante: per la prima volta la guardò davvero, sorpreso e forse amareggiato di aver udito proprio quelle parole venire da lei.
-Non preoccuparti, non sarebbe stato un problema- e finalmente si decise a sedersi permettendo ai pochi ciuffi d’erba di solleticargli le caviglie nude.
-Rock Lee, nonostante io non approvi, gli racconta spesso delle nostre avventure- continuò senza riuscire a trattenere i suoi angoli delle labbra che si alzarono in una espressione quasi divertita: Tenten inarcò un sopracciglio mentre percepì chiaramente un peso scivolare via dal suo cuore.
-Immagino che non tralasci gli stupidi insegnamenti del Maestro Gai e le sue bizzarre idee sulla giovinezza- parlò facendosi sfuggire una risata sincera. Neji annuì con convinzione.
-Io e Aya siamo seriamente preoccupati che prima o poi indossi una calzamaglia verde e che inizi ad ardere di passion...- ma non concluse la frase che serrò con forza la mascella. La castana percepì chiaramente il suo cambio di umore e, per nulla scossa dalle parole del suo vecchio compagno di Team, si girò a fissarlo: gli sorrise dolcemente indugiando forse troppo su quei lineamenti che non aveva mai dimenticato.
-Immagino che sia tua moglie- ma non sembrava affatto una domanda: il castano annuì quasi impercettibilmente, ma prima che potesse aggiungere altro la sua interlocutrice, sentendo forse per la prima volta quel giorno la stanchezza che intaccava le sue membra, si sdraiò sul suolo permettendo ai suoi occhi vispi di godersi a pieno il cielo stellato. Neji la fissò per un secondo poi, senza reprimere un sospiro, la imitò.
-Mi era mancato tutto questo- sibilò a labbra strette allungando le braccia e stiracchiandosi in maniera felina. Lui non rispose, almeno non subito, mentre una brezza sempre più insistente iniziò a far ondeggiare le foglie degli alberi che li circondavano.
-Sono contenta che le vostre vite dopo la Grande Guerra siano andate avanti e che siate felici-
-Che tu sia felici- aggiunse, pentendosene subito. Le sue dita sfiorarono con leggere le sue stesse labbra come se potesse rimangiarsi quelle poche parole. Il volto dello Hyuga, infatti, si fece più contrito.
-Sono dovuto andare avanti, non mi avevi dato altra scelta- pronunciò carico di veleno e, anche se Tenten sapeva che aveva tutte le ragioni per farlo perché sette anni primo non gli aveva dato la possibilità di parlarle in faccia, fece davvero male. Svogliatamente si rimise a sedere e, con le dita tremanti, allontanò una ciocca dal suo volto facendola ricadere sulle sue spalle: poi lo riguardò e, nonostante avesse già permesso ai suoi occhi di rispecchiarsi nei suoi, fu come se fosse la prima volta.
-Non potevo darti ciò che volevi- sospirò pregando che queste sue parole fossero portate via dal vento sempre più veloce, ma lui la udì perfettamente, dopotutto a Neji Hyuga non sfuggiva mai niente.
-Tu eri ciò che volevo- sibilò ed un amaro sorriso, carico di rimorso, si dipinse sulle guance pallide dell’Anbu. Inspirò ed espirò per alcuni secondi permettendo al suo petto di regolarizzarsi.
-Lo so, ma non sarebbe durato per sempre-
-Stai dicendo che non ti avrei amato per tutta la vita?- ribatté lui duro e arrabbiato: la neutralità che caratterizzava da sempre la sua persona svanì mentre la confusione, lo sconforto e la delusione che avevano attanagliato il suo cuore molti anni prima vennero a galla. Stava forse insinuando che era colpa sua se lei se ne era andata?
-Non sto dicendo questo!- e si dovette mordere la lingua mentre le sue urla sovrastarono il silenzio di quel loro luogo d’infanzia. Si era promessa di non perdere la calma, ma ogni suo proposito sembrava venir meno di fronte al suo carattere a volte troppo impulsivo. Permise alle sue dita di toccare il terreno sabbioso come a ricordarsi chi era ora.
-L’avresti fatto, ma a quale prezzo? Cosa sarebbe successo quando tutti i nostri amici avrebbe iniziato a costruire una famiglia tutta loro? Ad avere dei figli?- non gridò, non urlò, ma i suoi occhi troppo espressivi mostrarono chiaramente tutto il rimpianto per aver deciso lei per entrambi. Neji la fissò studiando ogni centimetro tirato del suo volto: era cambiata, estremamente diversa e lui stesso faceva fatica a riconoscerla.
-Mi saresti bastata tu- disse fermo e deciso e Tenten per un attimo avrebbe voluto credergli.
-Non penso Neji e lo sappiamo entrambi. Il tuo sogno è sempre stato di sposarti, avere dei figli e tutto ciò purtroppo non combaciava con i miei di progetti o con il fatto che io ero sterile. Non potevo sopportare di starti egoisticamente accanto mentre tu soffrivi per qualcosa che non poteva darti. Non ho potuto scegliere di non avere i tuoi figli, ma ho potuto decidere di lasciarti andare e di essere felice- una smorfia, al veloce ricordo di quella sua condizione, si dipinse sul suo volto sempre più stanco, ma nessun sentimento di rabbia od impotenza vibrò dentro di lei: oramai erano passati anni, aveva completamente assimilato questa sua condizione e non la considerava più una maledizione, ma un semplice indicente di passaggio della sua vita.
-Amo Daiki con tutto il mio cuore, lui è tutto per me, ma lo eri anche tu- sibilò sincero finalmente alzandosi anche lui: le loro ginocchia si sfiorano casualmente e un brivido scosse le membra di entrambi. Tenten gli sorrise dolcemente senza neanche pensare al fatto che non avesse fatto alcun riferimento a sua moglie.
-Anche io ti amavo Neji, ti ho sempre amato dal primo momento in cui ti ho visto- bisbigliò a fior di labbra lasciandosi sfuggire un rossore che illuminò il suo volto: lo stesso rossore che aveva colorato per anni le sue guance ancora adolescenziali mentre un sentimento di ammirazione e di affetto si impossessava del suo cuore ad ogni allenamento che trascorrevano insieme.
-E poi ho finalmente realizzato il mio sogno di diventare una kunoichi famosa in tutto il mondo- continuò alzandosi e lasciando che il torpore del suo vecchio compagno di squadra non lambisse più le sue braccia nude ed abbronzate. Una espressione orgogliosa sciolse la tensione sul volto dello Hyuga che imitò il suo gesto. Regalmente allontanò la polvere dalle sue vesti bianche mentre lei lo fissò quasi divertita: nonostante tutto era rimasto un precisino e se ne compiacque.
-Mi è giunta voce di una certa Maestra delle Armi, uno degli Anbu più famosi del Villaggio della Foglia, ma non pensavi fossi tu- sogghignò sarcastico rivelando quel lato del suo carattere che era riaffiorato solo dopo la sconfitta con l’Uzumaki. Tenten gli fece una linguaccia incrociando le braccia sotto al seno senza rammendarsi che ora non era più una infantile ragazzina.
-Naruto mi ha detto che avrò un paio di settimane di pausa, io...- si fermò forse giudicandosi troppo egoista. Era lei che era sparita una notte come tante dalla sua vita sette anni fa, era lei che aveva preso una decisione definitiva per il loro futuro sperando che fosse dettata principalmente per il suo bene ed era lei che ora era ritornata nella sua vita, la vita di un uomo spostato e che aveva preso in mano il clan degli Hyuga. Esitava a continuare non sentendosi abbastanza coraggiosa, ma questa volta toccò a lui avere il coraggio che sembrava mancare all’altro: con sicurezza permise alle sue dita di sfiorare dolcemente quelle tremanti dell’Anbu. Poi, ignorando la sorpresa che quel gesto aveva scaturito sul volto forse troppo adulto della donna che l’aveva amato anche quando pensava che nessuno l’avrebbe mai più fatto, le sorrise dolcemente.
-Tu ritornerai a sconvolgere le nostre vite prima di scomparire di nuovo- affermò deciso e senza rammarico: era così che era destino che fosse e Neji aveva sempre creduto al destino. Con sicurezza aumentò la presa tra le sue dita affusolate pregando che questo contatto non si sciogliesse mai.
-Ora andiamo, gli altri ci staranno aspettando- e senza aspettare una sua qualsiasi risposta la trascinò via con sé mentre nel cuore di entrambi qualcosa si riaccese: una consapevolezza che niente sarebbe ritornato come prima e che i loro destini erano destinati a dividersi per molte altre volte ancora, ma entrambi aspettavano con ansia quei brevi e sporadici momenti in cui le loro vite si sarebbero riunite.
 
   
 
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