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Autore: Old Fashioned    01/07/2021    10 recensioni
Prima guerra mondiale. A un giovane e ardimentoso pilota tedesco viene assegnata una strana missione: dovrà atterrare con il suo aereo dietro le linee nemiche e lì caricare a bordo una persona, poi rientrare alla base. Tutto semplice, all'apparenza, peccato che la persona che dovrà caricare, una pericolosa spia tedesca, sia inseguita dal suo arcinemico: una spia inglese di pari livello, disposta a tutto pur di catturare il rivale.
Questa storia è stata scritta per Crazy_person, come modesto ringraziamento per tutte le bellissime recensioni che mi ha sempre lasciato.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gente mia,
ecco qui il capitoletto settimanale. Succedono un po’ di cose, quindi spero che non vi annoierete. Grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo; un ringraziamento particolarmente caloroso a tutti coloro che sono così gentili da lasciarmi un commento!






Capitolo 13

La quiete del parco di Rollwitz fu turbata dal rombo furioso di una motocicletta lanciata a tutta velocità.
Il bolide sfrecciò sul viale d'ingresso della villa e si fermò di fronte al portone facendo schizzare la ghiaia da sotto le ruote. Il motore tacque.
Il Werwolf balzò giù dal veicolo e mentre ancora si toglieva gli occhialoni da pilota salì la scalinata che conduceva all'ingresso.
Venne intercettato da un domestico, che con sussiego gli chiese: “Il signor capitano desidera?”
Pur vagamente ansante, l'altro recuperò la propria compostezza e rispose: “Devo vedere con urgenza il barone Maximilian von Knobelsdorff, è già tornato?”
Il maggiordomo sollevò le sopracciglia nel riconoscere la sua voce, quindi rispose: “Sono desolato, eccellenza, il signor barone non è ancora rientrato.”
Il Werwolf si sentì gelare. Pur avendo già ricevuto risposta al telefono, chiese: “Ha lasciato detto dove sarebbe andato?”
No, eccellenza.”
È cosa della massima importanza,” specificò di nuovo, nell'assurda speranza che Maximilian fosse a divertirsi con qualche servetta e avesse dato ordine di non rivelarlo a nessuno. “Il barone è in grave pericolo.”
Il domestico rimase interdetto. “Il signorino è in pericolo?” ripeté.
Gravissimo,” specificò il Werwolf, sperando che ciò convincesse l'uomo a sbottonarsi maggiormente.
L'altro però non si mosse.
Non le importa che il barone sia in gravissimo pericolo?” lo incalzò lui.
Certo che mi importa, eccellenza,” fu la risposta, proferita in tono vagamente piccato, “Ma deve credermi: il signorino non c'è e non ha lasciato detto quando sarebbe tornato.”
Sono passate ore dalla mia telefonata. Possibile che il barone non abbia ancora dato segno di sé? Possibile che nessuno si sia preoccupato?”
L'altro apparve confuso. “Mi dispiace, eccellenza.”
Il Werwolf strinse le labbra obbligandosi alla calma. Mi faccia parlare con la baronessa,” ordinò infine.
Il domestico si allontanò. Egli immaginò che sarebbe tornato e l'avrebbe scortato verso qualche salottino dell'ampia dimora, invece fu la baronessa in persona a raggiungerlo.

Edeltraud von Knobelsdorff era alta quanto lui, asciutta come un tronco d'abete, regale nel portamento. Egli riconobbe nel suo volto pallido alcuni tratti di Maximilian: il colore degli occhi, la piega delle labbra, lo sguardo attento e indagatore. Notò che aveva alla radice del naso la stessa ruga che compariva anche al figlio nei momenti di più intensa attenzione e preoccupazione.
Le si presentò secondo le regole dell'etichetta.
La baronessa lo osservò attenta, quindi senza preamboli disse: “Anselm mi ha riferito che a suo parere mio figlio sta correndo un grave pericolo. Vuole essere più chiaro, per favore?”
Il Werwolf assentì. “C'è un posto dove possiamo parlare, baronessa?”
La donna lo condusse a un piccolo salotto dalla severa mobilia in quercia, scura e lucida. Gli indicò una poltrona e prese posto in quella che si trovava di fronte. “La ascolto,” gli disse poi.
Von Thurn und Taxis le raccontò per sommi capi la missione dietro le linee.
La baronessa annuì grave, quindi chiese: “Per quale motivo la spia britannica di cui lei mi parla dovrebbe interessarsi a mio figlio? A quanto ho capito, è lei l'agente segreto. Lui ha solo pilotato l'aereo che avrebbe dovuto ricondurla dietro le nostre linee.”
La spia sa che non riuscirebbe mai a catturare me. Suo figlio è semplicemente un'esca per attirarmi in trappola.”
La baronessa lo fissò dritto negli occhi, quindi lentamente chiese: “Lei rischierebbe la vita per salvare Maximilian?”
Il Werwolf annuì.
Impassibile, la donna replicò: “Lei è un agente segreto. La vita di un anonimo tenente viene prima della sicurezza della Nazione?”
Agisco in questo modo proprio per non essere costretto a scegliere, baronessa.”

§

Von Knobelsdorff sbatté gli occhi cercando di mettere a fuoco the Bishop. Diede un colpo di tosse e una fitta lancinante lo costrinse a gemere. Sentì un rivolo di sangue colargli lungo il mento.
Non fare la commedia, Gretchen,” lo schernì l'agente segreto, “nessuno muore per una faccenda del genere, nemmeno uno stupido mangiacrauti come te.”
Il tenente non rispose. Le parole dell'inglese gli giungevano indistinte, come attraverso l'acqua. Portò una mano al manico del forcone, ma gli parve di toccare dell'ovatta.
Di nuovo gli giunse la voce beffarda di the Bishop: “Hai ragione, sarebbe piuttosto ingombrante portarsi dietro anche questo attrezzo.” Si avvicinò.
Egli cercò di farsi indietro, ma l'altro gli fu addosso in un attimo. Gli puntò un piede contro l'addome, estrasse il forcone come avrebbe sfilato una vanga piantata nel terreno, poi lo buttò con noncuranza da una parte.
Von Knobelsdorff non riuscì nemmeno a urlare. Anche solo respirare gli spediva brividi di dolore in tutto il corpo, si sentiva l'uniforme inzuppata di sangue. La debolezza si stava impadronendo di lui.
The Bishop si chinò fino a trovarsi col viso all'altezza del suo, quindi gli disse: “Ora ti porterò in un posticino sicuro, Gretchen. Ti terrò lì nascosto e farò sapere al tuo amichetto che sei da qualche parte ferito e stai soffrendo.” Tacque per qualche secondo, quindi soggiunse: “Perché tu stai soffrendo, non è vero? Di' un po', soffri di più per questi quattro buchetti in pancia o perché lui non è qui con te?”
Il tenente non rispose.
L'altro attese per qualche secondo, poi disse: “Il tuo silenzio mi spezza il cuore, Gretchen.” Scosse la testa ostentando delusione, si rialzò in piedi e proseguì: “Ma ora è meglio andare, altrimenti rovineremo la sorpresa che ho preparato.”
Von Knobelsdorff si sentiva sprofondare in un baratro buio. Di attimo in attimo diventava più debole. Il dolore si affievoliva, sostituito da una sempre più intensa sensazione di gelo.
Sto morendo, pensò.
Spostò appena la mano destra. Avrebbe voluto sollevarla per tergersi il sudore freddo che ormai gli imperlava il viso, ma le dita intercettarono un oggetto metallico.
The Bishop stava ancora parlando. Andare via, nascondiglio, Werwolf... Ormai non riusciva più a seguire le frasi per intero, coglieva solo qualche parola qua e là.
La mano strisciò adagio, palpò cieca, come una specie di animale terricolo alla ricerca di un rifugio. Riconobbe la zigrinatura del calcio della Mauser.
Stava morendo, ne era certo. Ormai sedeva in una pozza di sangue, tutto si stava facendo buio. The Bishop era una sagoma indistinta, nella quale coglieva solo l'ovale bianco del viso. Strinse i denti raccogliendo le ultime forze, impugnò la pistola e sparò.
Perse la cognizione delle cose.

§

L'eco della detonazione, sebbene appena percettibile, fece scattare in piedi il Werwolf.
La baronessa lo fissò tesa. “Che cosa c'è?” gli chiese. Puntò le mani sui braccioli della poltrona, come per scattare a sua volta.
Qualcuno ha sparato.”
Ne è certo?”
Sì.” Indicò la provenienza del rumore. “Cosa c'è da quella parte?”
Le scuderie.”
Vado a vedere,” rispose asciutto il Rittmeister. Trasse la pistola dalla fondina e fece per uscire. La donna lo fermò: “Vengo con lei.”
Con tutto il rispetto, baronessa, mi intralcerebbe e basta. Se lo sparo significa ciò che temo, avrò bisogno della massima libertà d'azione.”
Edeltraud von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò: “È di mio figlio che stiamo parlando, principe.”
Ne sono consapevole. Se lei venisse con me, lo metterebbe maggiormente in pericolo. Stia qui, piuttosto, convochi lo chauffer, gli dica di tenersi pronto con l'automobile. Chiami i gendarmi. Queste sono tutte cose che mi aiuterebbero molto.”
Senza attendere risposta, uscì rapido dalla stanza e si portò all'esterno. Corse nella direzione da cui era giunto lo sparo e dopo poco vide profilarsi tra le querce un alto edificio di mattoni rossi. Qua e là c'erano garzoni di stalla che si guardavano intorno perplessi, evidentemente attratti dalla detonazione. “Via tutti!” urlò senza fermarsi. “Questa è un'operazione militare!”
Sperò che l'ingiunzione avrebbe perlomeno contenuto la curiosità della gente, concedendogli più tempo per neutralizzare the Bishop.
Entrò in scuderia, si guardò rapidamente intorno, ma tutto sembrava tranquillo. I cavalli masticavano la biada, nulla faceva pensare che da qualche parte stesse succedendo qualcosa fuori dall'ordinario.
Ispezionando rapido l'ambiente, si accorse che la porta sul retro era aperta. Vi si diresse, si affacciò con cautela, adocchiò nella luce violacea del crepuscolo un fienile. Anche la porta di quell'edificio era aperta, all'interno era accesa una lampada fioca.
L'arma stretta in pugno, lo raggiunse adagio.

Si fermò sulla soglia, tese immobile l'orecchio. Dapprima non sentì nulla, poi gli parve di cogliere un lieve tramestio. Infine una voce ben nota ringhiò: “Piccolo figlio di puttana.”
Non giunse risposta.
Avanzò adagio, mantenendosi al coperto dietro i cumuli di fieno. Cominciò a percepire l'odore ferroso del sangue.
Si impose di fare il vuoto in mente: c'era the Bishop, e c'era qualcuno chiaramente ferito o morto. A prescindere da quanto grave potesse essere quel connubio, non poteva permettersi di cedere all'emotività. Doveva essere freddo, anzi. Addirittura distaccato.
Come se avesse dovuto occuparsi di un perfetto estraneo, con tutto il tempo del mondo per farlo.
Fece un altro passo avanti, inspirò ed espirò silenziosamente.
Udì un nuovo tramestio, il raschiare di qualcosa di metallico sulla pietra. Quel suono ebbe il potere di portare al parossismo l'inquietudine che già gli attanagliava il petto. Si fece avanti risoluto e dovette farsi forza per non sussultare: la pistola ancora in pugno, von Knobelsdorff giaceva immobile in un lago di sangue. Di fronte a lui the Bishop, una spalla trapassata, fiotti vermigli che gli inzuppavano la camicia, reggeva con il braccio sano un forcone, pronto a conficcarlo nell'ormai inerme avversario.
Premette il grilletto, doppiò il colpo per sicurezza, l’agente inglese crollò a terra. Egli non se ne curò nemmeno, corse invece a inginocchiarsi accanto al tenente.
Maximilian,” lo chiamò. Andò alla ricerca della pulsazione della carotide, che colse dopo un po', debole e irregolare. Strinse le labbra. “Maximilian,” ripeté, ma il tenente non rispose. Gli sbottonò l'uniforme, mettendo a nudo le quattro ferite prodotte dai rebbi del forcone.
Si alzò rapido, trasse di tasca il coltello da cui non si separava mai, staccò dalla camicia dell'esanime avversario lunghe strisce, con cui improvvisò bendaggi.
Quando premette una compressa di stoffa sulla più profonda delle ferite, il giovane ufficiale emise un gemito.
Maximilian!” esclamò il Werwolf.
Il tenente socchiuse gli occhi e li volse verso di lui. Li strinse, evidentemente lottando per metterlo a fuoco, infine mormorò: “...Karl...”
Sono qui, Maximilian, non ti preoccupare.”
Sono... morto?”
No, hai la pelle dura. Ma ora non parlare e non muoverti, stai perdendo molto sangue.”
Continuò a tamponare come poteva le ferite. I rivoli rossi che nonostante i suoi sforzi continuavano a filtrargli fra le dita gli facevano capire che era in corso un'emorragia interna.
C'era bisogno di un dottore, di trasfusioni, probabilmente addirittura di una sala operatoria, ma dove trovare una sala operatoria e relativa équipe chirurgica nel bel mezzo della campagna brandeburghese? La risposta era semplice: in una caserma.
Valutò rapido il da farsi, quindi si chinò sul tenente e gli disse: “Ho bisogno di cercare aiuto. Non provare nemmeno ad alzarti mentre sono via, ti giuro che torno presto.”
Ormai pallido come un cencio, stremato, von Knobelsdorff si limitò ad annuire. Il Werwolf lo fissò critico, augurandosi che non tentasse nonostante tutto uno dei suoi colpi di testa, quindi si risolse ad alzarsi per andare in cerca di aiuto.
Subito fuori dal fienile s'imbatté in un paio di garzoni di stalla, che evidentemente stavano girando lì intorno incuriositi dagli spari. “Lei!” intimò brusco al più anziano dei due. “Vada immediatamente ad avvertire la baronessa: è necessario portare qui l'automobile.”
È successo qualcosa, signor capitano?”
Il barone Maximilian ha urgente bisogno di cure mediche. Ora si muova!”
L'uomo corse via.
Il Werwolf si rivolse all'altro: “Ci sono bende, qui?”
L'uomo esitò qualche istante, colto alla sprovvista dalla domanda inaspettata.
Delle bende!” ripeté asciutto l'agente segreto.
Sissignore. Abbiamo quelle che usiamo per i cavalli, signore.”
Basta che siano pulite.”
Nonostante la concitazione del momento, il tono della risposta suonò vagamente piccato: “Certo che lo sono, signore.”
Allora vada a prenderle immediatamente, e faccia approntare una barella.”
Detto questo, il Werwolf si disinteressò del garzone di stalla e tornò da Maximilian. Lo fissò critico: era sempre più pallido. Da sotto i bendaggi non usciva quasi più sangue, ma sicuramente i rebbi del forcone avevano lesionato qualche arteria, o magari squarciato organi come fegato o milza. Si augurò che, dato il tipo di ferite e lo strumento che le aveva inferte, non subentrasse una sepsi del peritoneo.
Sistemò le improvvisate fasciature e passò una mano sulla fronte sudata del giovane, che però rimase immobile. Andò di nuovo alla ricerca del polso carotideo ed ebbe l'impressione che fosse già più fioco, più debole. Girò lo sguardo verso la sagoma riversa dell'agente inglese: the Bishop era morto. Aveva passato anni a inseguirlo o a scappare da lui, anni a guardarsi alle spalle in ogni momento, a controllare ossessivamente ogni sua mossa, nella speranza di riuscire finalmente a ucciderlo. Aveva fantasticato tante volte sul momento fatidico. Aveva immaginato frasi a effetto, perlopiù su Reiner, perché certo, the Bishop era un agente nemico, ma la faccenda tra loro due era da tempo scivolata sul personale.
Si chiese se al posto suo the Bishop lo avrebbe abbattuto così, senza nemmeno dargli il tempo di girarsi a guardarlo.
Forse sì, non era uno cui piaceva perdersi in chiacchiere.
L'arrivo del garzone lo distrasse da ulteriori elucubrazioni. “Ecco qui, signore,” disse, deponendo al suo fianco un sacco pieno di rotoli bianchi. “Serve aiuto?”
Il Werwolf lo fissò critico, ma l'uomo specificò: “Ho combattuto nell'Africa del Sudest.”
In tal caso, mi aiuti a bendarlo meglio.”

Pochi minuti dopo, von Thurn und Taxis era sul sedile posteriore della vettura, lanciata a tutta velocità verso la caserma di Pasewalk, sede di un reggimento di fanteria.
Fra le braccia sorreggeva Maximilian.
Il tenente aveva la pesantezza inerte di una bambola di stracci, solo la sua testa si muoveva appena in risposta alle curve brusche della macchina.
Il Werwolf gli toccò per l'ennesima volta il collo e sospirò di sollievo quando i suoi polpastrelli percepirono una fievole pulsazione.
Rivide acqua rossa, che gorgogliava tra pietre coperte di muschio. Rivide una mano inerte da cui una Mauser era scivolata via.
Chiuse gli occhi e quella mano – la mano di Reiner – si trasformò in quella di Maximilian, che stringeva la stessa arma.
La prima abbandonata sui ciottoli del torrente, l'altra coperta di fili di fieno insanguinati.
Abbassò lo sguardo sul volto pallido del tenente. Non aveva mai pregato, non avrebbe nemmeno saputo come farlo, ma capiva perché in certe situazioni la gente rivolgesse suppliche a una non meglio identificata Trascendenza.
Quando gli strumenti terreni finivano, quando non rimaneva altro che assistere impotenti al compiersi dell'inevitabile, forse veniva naturale invocare gli idoli.

L'acqua ormai non è più rossa. Tutto il sangue, ovvero la vita, è fluito via e Reiner è un involucro vuoto. La midriasi post mortem è così imponente che l'azzurro delle sue iridi si è trasformato in sottili anelli chiari intorno a insondabili pozzi di oscurità.
Egli fissa quegli abissi, desideroso nonostante tutto di immergervisi, di perdersi in essi come ha fatto tante volte, ma non riesce a sopportarne l'immobilità terribile. Arretra angosciato, realizzando di colpo che tra lui e Reiner c'è ormai una barriera invalicabile.
Corre via. Per portare a termine la missione, ma anche per allontanarsi da quell'atroce consapevolezza.

La macchina rallentò.
Egli sollevò lo sguardo dal viso cereo di Maximilian e lo volse all'esterno: ormai era buio, ma nel chiarore freddo di luci a gas vide che una cancellata si stava aprendo lentamente. Colse un vociare confuso, ordini gridati, tramestio.
Dedusse che erano arrivati a Pasewalk.
Immaginò che la baronessa avesse avvertito il comandante della caserma: di sicuro lui e il barone von Knobelsdorff si conoscevano e probabilmente si frequentavano, inoltre Maximilian era un eroe di guerra decorato con il Pour le Mérite.
Proseguirono adagio, attraversando un piazzale rischiarato da lampioni posti lungo i quattro lati, e si fermarono di fronte a un edificio severo, ingentilito da sobri fregi neoclassici.
Sulla porta dell’edificio comparvero due camici bianchi.
Quelle figure alte e mute evocarono al Werwolf ‘L’isola dei morti’, di Böcklin. Si chinò sul tenente, che giaceva immobile fra le sue braccia, e gli sussurrò: “Siamo arrivati, Maximilian.”
Non ci fu risposta.
Maximilian?”
La portiera si aprì facendolo sobbalzare. Fuori c’erano due soldati con una barella e uno dei dottori, un capitano medico alto e magro dagli occhiali cerchiati d’oro.
Questi si chinò e osservò il tenente, quindi alzò gli occhi su di lui in una muta richiesta di spiegazioni.
Quattro ferite penetranti dell’addome,” rispose asciutto il Werwolf, “sospetto un’emorragia interna.”
L’altro annuì. Si protese a fissare con più attenzione Maximilian, gli tastò il polso e aggrottò la fronte.
Si raddrizzò e ordinò rapido ai due soldati di porlo sulla barella.

Von Thurn und Taxis si ritrovò da solo sul sedile posteriore della lussuosa vettura. Lo sportello si era richiuso, per cui aveva l’impressione di essere dentro una specie di bolla, dalla quale vedeva ciò che stava succedendo ma non poteva influire sugli eventi.
Fece scattare la maniglia, scese a sua volta e mosse qualche stanco passo, respirando adagio l’aria della sera. Si era fatto freddo, o forse era l'uniforme fradicia di sangue che gli dava quell’impressione.
Infilò la mano in tasca, ne trasse un portasigarette. Lo osservò per qualche secondo e la la mente saettò a una mattina di alcune settimane prima. A un salone deserto e a un giovane tenente che continuava a guardare fuori per vedere se la sua Jasta stava rientrando dalla missione di guerra.
Lo rimise via.
Si voltò verso la porta da cui erano passati con la barella. Si chiese cosa stesse succedendo in infermeria. Immaginò i due medici che scuotevano la testa e un soldato di sanità che copriva il viso di Maximilian con il lenzuolo.
Strinse i denti imponendosi di non cedere all’emotività. Non era con simili fantasie che avrebbe aiutato il ragazzo.
Si voltò di nuovo verso la porta: non poteva più aiutarlo in nessun modo, ormai. Le cose non dipendevano più da lui.

A un tratto, sentì una mano posarglisi sulla spalla. Distratto bruscamente da quei pensieri angosciosi, d'istinto fece un salto indietro e si mise in posizione di guardia.
Udì una breve risata, poi una voce bonaria chiese: “Sono tutti così nervosi, gli ussari?”
Il Werwolf rilassò i muscoli, emise il fiato che aveva trattenuto. Di fronte a lui c’era un colonnello di fanteria, verosimilmente il comandante della caserma.
Si mise sull’attenti e salutò.
L'altro rispose al saluto, quindi chiese: “È lei che l'ha portato qui?”
Sissignore. Rittmeister Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis.”
Il colonnello sollevò le sopracciglia. “Dei principi von Thurn und Taxis?”
Sissignore.”
Conosco Friedrich Wilhelm von Thurn und Taxis.”
È il fratello di mio padre, signore.”
Ha ancora quelle magnifiche tenute di caccia dalle parti di Blankensee?”
Sissignore.”
Ricordo che vi abbattei uno splendido esemplare di cervo maschio. Colonnello Konrad von Ziemssen, a proposito. Sono un buon amico del barone Ernst Wilhelm von Knobelsdorff. E della baronessa, ovviamente.”
All'udire quel cognome, il Werwolf non poté fare a meno di gettare di nuovo uno sguardo verso la porta. L'altro notò il gesto e disse: “Il piccolo Maximilian: sempre a cacciarsi in qualche guaio. Lo conosco da quando era un bimbetto alto così, sa?”
Il Rittmeister si limitò ad annuire.
È un suo camerata?” chiese allora von Ziemssen.
Il Werwolf strinse gli occhi. Un ussaro e un ulano erano camerati quanto un fante e un artigliere. Si sorprese a chiedersi se la domanda del colonnello avesse qualche significato recondito, ma l'altro continuava a fissarlo con l'aria più tranquilla del mondo. Concluse che tutta la faccenda l'aveva reso troppo nervoso. “Abbiamo combattuto insieme,” rispose laconico.
Ah, pilota gli apparecchi anche lei?”
Sissignore,” rispose il Werwolf, sperando che la curiosità salottiera dell'ufficiale non si spingesse fino a chiedergli particolari sulle tattiche di volo.
Von Ziemssen però non sembrava interessato a certe diavolerie moderne. Protese il braccio per toccargli di nuovo la spalla, ma all'ultimo, forse memore del suo scatto precedente, si interruppe. “Venga con me,” disse invece, “lei ha un gran bisogno di bere qualcosa di forte. Cos'è successo, a proposito?”

§

L'ufficio di von Ziemssen era esattamente come lui: mobili di quercia, quadri alle pareti, trofei di caccia, una vetrina con i fucili, un caminetto. Spento, data la stagione, ma con alari d'ottone lucidi come oro.
I due sedevano in una specie di salottino composto da due poltrone fra cui si trovava un basso tavolino rotondo.
Sulla superficie del mobile c'erano una bottiglia di Schnaps e due bicchieri.
Il colonnello raccolse la bottiglia e propose: “Un altro?”
Il Werwolf annuì. “Sì, grazie.” Spinse il bicchiere nella sua direzione.
Von Ziemssen mescé il liquore, poi disse: “Ora, capitano, sarei curioso di sapere cos'è successo.”
Von Thurn und Taxis annuì e sorbì un paio di sorsi. Abbassò gli occhi sulla propria uniforme, che il sangue ormai secco stava rendendo rigida come cartone. Infine dichiarò: “Il barone von Knobelsdorff ha subito un'aggressione.”
Il colonnello aggrottò le sopracciglia. “Un'aggressione? Come sarebbe a dire?”
Impassibile, il Werwolf spiegò: “Uno dei garzoni di stalla ha attaccato il tenente von Knobelsdorff con un forcone. Per fortuna io ero nelle vicinanze e sono intervenuto.”
L'ha attaccato? Com'è possibile?”
Suppongo che fosse uno squilibrato.”
Von Ziemssen raccolse la bottiglia e versò da bere anche per sé. Sorbì un generoso sorso di liquore, quindi brontolò: “Questi squilibrati sono davvero un problema. L'uomo è stato assicurato alla giustizia?”
L'ho ucciso.”
Il colonnello che stava per portare di nuovo il bicchiere alle labbra, rimase col gesto a metà. “L'ha ucciso?”
Il Werwolf annuì secco. “Non c'era altro da fare.”
All'apodittica affermazione seguì qualche secondo di silenzio. Infine von Ziemssen tossicchiò e disse: “Immagino abbia ragione. Del resto, questa tragica vicenda dimostra con chiarezza che certa gente è solo un peso per la società e dovrebbe perlomeno stare rinchiusa.”
Esattamente, signor colonnello.”

In quel momento si udì bussare alla porta.
Avanti!” ordinò von Ziemssen.
L'anta si aprì e sulla soglia comparve un'ordinanza, che si mise sull'attenti e disse: “Signor colonnello, il signor capitano medico Bergmann chiede di poter parlare con lei.”
L'ufficiale annuì, poi rispose: “Riferisca al capitano che andrò da lui appena possibile.”
Il soldato non si mosse. “Signore, il signor capitano medico ha detto che è molto importante,” specificò.
Il colonnello annuì di nuovo. Fissò il Werwolf, poi si alzò in piedi. “Voglia perdonarmi, Rittmeister,” borbottò evitando il suo sguardo.
Abbandonò la stanza.
Von Thurn und Taxis rimase immobile. Abbassò lo sguardo sul bicchierino di Schnaps pieno a metà. Lo beve d'un fiato, poi prese la bottiglia, versò altro liquore e inghiottì anche quello.
Le sue attività di spionaggio lo obbligavano a non ignorare nessuna eventualità, ad avere sempre un piano di riserva. Fino a quel momento si era proibito di elaborarne uno, ma a quel punto dovette porsi la fatidica domanda: cos'avrebbe fatto se il colonnello fosse rientrato e gli avesse detto che Maximilian era morto?
Niente di diverso da quello che aveva fatto fino a quel momento, probabilmente. Avrebbe recuperato la sua motocicletta, sarebbe tornato a Berlino e avrebbe aspettato la prossima missione.
Forse la faccenda di the Bishop avrebbe suscitato qualche clamore, ma certo non troppi: nei servizi segreti non si era abituati al chiasso. Probabilmente Matthesius gli avrebbe fatto una telefonata per complimentarsi, rigorosamente in codice, spacciandosi per suo zio, e la faccenda sarebbe finita lì.
Tese meccanicamente la mano verso la bottiglia, ma la ritirò prima di toccarla: non era certo stordendosi con l’alcol che avrebbe risolto la situazione.
Doveva essere lucido, anzi, altrimenti avrebbe potuto fare o dire qualcosa di troppo.
Si alzò, andò alla finestra. Il moschetto a spallarm, una sentinella stava attraversando lentamente il piazzale. La seguì con lo sguardo fino a che non venne inghiottita dalla zona d’ombra fra due lampioni, poi abbandonò il suo punto d’osservazione e fece qualche passo nella stanza. La stoffa irrigidita dal sangue gli grattava la pelle, avrebbe voluto togliersi quei panni dall’odore ferroso, buttarli via. Immaginò che la stanza ormai fosse impregnata di quel sinistro tanfo da campo di battaglia, come lo sarebbe stato lui stesso per chissà quanto tempo.
Per quello che gli restava da vivere, forse.

Udì dei passi avvicinarsi rapidi, istintivamente si irrigidì come per assorbire un colpo.
La porta si aprì, sulla soglia c’era il colonnello von Ziemssen. Aveva l’espressione contrariata. Il Werwolf si trovò a deglutire.
L’altro entrò risolutamente nella stanza e brontolò: “Una dannata complicazione.”
Von Thurn und Taxis considerò fra sé e sé che il dignitoso ufficiale non avrebbe mai definito la morte di Maximilian come dannata complicazione, quindi non era di quello che si stava parlando.
Lo fissò con aspettativa.

Von Ziemssen spiegò: “Serve una trasfusione, ma gli uomini sono quasi tutti fuori per la libera uscita, inoltre il dottor Bergmann mi ha detto che il sangue non è tutto uguale, bisogna fare delle prove per vedere se quello del donatore e quello del ricevente si possono mescolare. Ha parlato di… categorie?”
Gruppi sanguigni,” esalò il Werwolf. Maximilian non era morto, ma stava morendo, sarebbe morto se non avesse ricevuto del sangue. “Mi faccia parlare con il medico,” disse rapido.
Lei? Ritiene che il suo sangue sia compatibile con quello del tenente?”
Non lo so, ma so qual è il mio gruppo sanguigno. Se per caso è lo stesso, possiamo procedere subito, senza perdere tempo in prove.”

§

La prima cosa che il Werwolf pensò, vedendo Maximilian adagiato sul lettino operatorio, fu che non aveva senso fare una trasfusione a un morto. Da cereo che era, il volto del ragazzo si era fatto livido. Le labbra erano esangui, le orbite infossate. Immaginò che se l’avesse toccato, l’avrebbe trovato freddo come il marmo.
La voce del medico lo distrasse dalle sue meditazioni: “Il suo gruppo sanguigno, capitano.”
A[1],” rispose subito il Werwolf.
Iddio sia ringraziato,” fu la risposta. “Prego, si tolga la giubba e si stenda: non c’è tempo da perdere.”

Il sottile tubo che gli usciva dalla vena era di una gomma opaca, color arancione spento, per cui non ne vedeva il contenuto. Esso però sussultava come una specie di piccolo serpente ogni volta che il medico azionava lo stantuffo dell’apparecchio per la trasfusione. Il Werwolf pensò che dava l’impressione della vita, che da lui passava in Maximilian.
Si augurò solo che ci fosse ancora tempo per rianimarlo, che non fosse già troppo tardi.
Chiuse gli occhi. Tutto era silenzio, a parte il fruscio del camice di Bergmann e rari tintinnii di strumenti. Da qualche punto lontano proveniva anche un parlare fioco, di una voce che sembrava femminile. Suppose che la baronessa fosse giunta alla caserma e stesse domandando a von Ziemssen notizie del figlio.
Si chiese se il colonnello l’avrebbe portata in infermeria. Immaginò la severa dama che osservava le procedure della trasfusione più impassibile di qualsiasi ufficiale del fronte, magari con la ruga verticale fra le sopracciglia come unica testimonianza del tormento interiore.
A quel pensiero si voltò verso Maximilian, che giaceva al suo fianco. Seguì con lo sguardo il tubicino di gomma che gli portava il sangue, si fermò al bagliore metallico dell’ago che gli entrava nella vena.
Non aveva il coraggio di risalire oltre, lungo il braccio, fino al collo e poi al viso. Si concentrò su quella cannula d’acciaio, immaginando il rassicurante, salvifico torrente scarlatto che da esso entrava e si spandeva nei vasi.
Il dottor Bergmann gli si avvicinò, gli tastò il polso. Prese da un’arcella un batuffolo di ovatta e glielo premette sul punto in cui l’ago gli penetrava nella pelle.
Cosa fa?” chiese il Werwolf, squadrandolo diffidente.
Il capitano medico rispose: “Interrompo la trasfusione.”
Lui è già fuori pericolo?”
No, ma le ho già tolto molto sangue. Se ne prelevassi di più, sarebbe lei a rischiare.”
Il Werwolf gli fermò la mano prima che potesse sfilare l’ago. “Continui,” ordinò categorico.
Bergmann entrò nel suo campo visivo. “Cosa?”
Continui, ho detto. Vada avanti finché è necessario.”
Ma capitano...”
Vada avanti.”
L’altro rimase in silenzio per qualche secondo, il Werwolf immaginò che stesse riflettendo sulla faccenda. Si avvicinò poi al lettino su cui giaceva Maximilian, gli tastò il polso, gli misurò la pressione e corrugò la fronte. Infine disse: “E va bene, continuiamo. Ma mi fermerò se dovessi accorgermi che lei corre qualche pericolo.”
Ho corso pericoli ben peggiori, dottore.”
Bergmann, di nuovo chino su Maximilian, non rispose.
Von Thurn und Taxis emise un sospiro. Provò a sistemarsi meglio sul lettino, ma si sentiva così pesante che faticava a muoversi. Nonostante gli avessero steso addosso una coperta, cominciava anche ad avere freddo. La cosa non lo stupì: anche lui stava perdendo molto sangue.
Chiuse gli occhi. Forse avrebbe potuto dormire un po’, mentre finivano con la trasfusione.
Tutto si fece buio.








[1] All’epoca il fattore Rh non era ancora stato scoperto, per cui i gruppi sanguigni conosciuti erano solo quelli principali: A, B, AB e 0.



   
 
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