Capitolo 52
La ferita dell’abbandono
“Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di
ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i
tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le
tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le
spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le
sue unghie strappate.”
Oriana Fallaci, Un uomo
Sarah
Immagine dal film “La conseguenza”
Dalle
finestre, le tendine bianche lasciavano filtrare timidamente il luccichio del
sole appena sorto sulle acque tranquille del mare. Lo sciabordio delle onde
sulla banchina era un suono quasi impercettibile, sovrastato dall’allegro
cinguettio degli uccellini. La pace del creato e l’allegrezza delle sue creature
non le ristoravano più l’animo, arrecandole, addirittura, fastidio. Il Creatore
si era dimenticato di lei.
Per
troppo poco, aveva assaporato con Matteo la dolcezza dell’amore, per poi
ingurgitarne tutto in una volta la parte più amara. La storia sembrava
ripetersi, ma al contrario.
Seduta
davanti allo specchio, con lo sguardo perso e gli occhi arrossati di sonno
perduto e lacrime versate durante tutta la notte, fissava un punto indefinito
della propria immagine riflessa. Al di là dei lividi su una pelle troppo
delicata, benché fosse di colorito olivastro, e delle ferite di un cuore
fragile, nonostante ne ostentasse la fortezza, oltre il turbinio dei pensieri
che finivan nella rimembranza malinconica dell’amore
che fu con Hermann, riemerse una voce, parole che s’articolavano fino a render
più vivido il ricordo.
Della
vita prima di Fossoli conservava una memoria sbiadita e, sullo sfondo confuso e
indistinto di una piazza, qualcosa di simile a una scia d’ombra velata le roteò
davanti agli occhi, riassumendo le sembianze di suo fratello nell’atto di
voltarsi verso di lei.
«L’ha
fatto prima, lo farà ancora», le aveva detto, assistendo alla lite tra
fidanzati, loro conoscenti, conclusasi con gli schiaffi del giovane contro la
compagna.
Assieme
alla coppia, prese forma anche la visione della Barcaccia e si ritrovò
seduta sulla scalinata di Trinità dei Monti, un paio di gradini più su
rispetto a Samuel.
La
scena le aveva suscitato disagio e turbamento, offrendo, invece, a suo fratello
lo spunto per una riflessione suggerita da quell’innato spirito partigiano che
gli conferiva una maturità maggiore, sebbene fra i due fosse lui il più
piccolo.
«La
lotta per l’uguaglianza tra gli esseri umani inizia dal rifiuto di ogni forma
di abuso di potere. Potrebbe sembrare una cosa di poco conto, ma anche ciò che
hai visto è un atto di discriminazione. È il prevaricare dell’uomo sulla donna,
del più forte sul più debole e, ogni volta che ciò accade, l’umanità compie un
passo indietro nel raggiungimento del mondo nuovo, di giustizia e libertà.»
Parlava
Samuel in un crescendo di fervore, poi la sua voce divenne a un tratto
apprensiva, o forse quelle che seguirono eran parole
dettate or ora dalla propria mente. «Non sottometterti, ribellati a chi ti
costringe all’infelicità. Fuggi da uomini come questi, da chi ti fa del male.
Perché chi ti ama non ti picchia. Perché l’ha fatto prima, lo farà ancora.»
Suo
fratello, la piazza si dissolsero in una nube indistinta nella quale
risiedevano, vorticando, vaghi ricordi di fanciullezza, di quando guardava con
innocenza alla vita, ignorandone i mali. Strizzò gli occhi dinanzi alla vista
del proprio viso che aveva quasi dimenticato essere livido e, nuovamente, le si
contrasse dall’amarezza.
Aveva
ragione Samuel ma solo in parte, poiché, se il discorso poteva, forse, valere
per Matteo, non era, invece, valso per Hermann. Questi, dopo che s’era reso,
verso di lei, colpevole di una delle violenze più odiose, aveva saputo donarle
un amore romantico e passionale che, implicito, si esplicitava nell’illiceità
di una rosa rossa lasciata sul comodino, di un giro di danza su quelle note che
soltanto loro potevano udire, di un piacere che le era permesso di raggiungere,
giacché egli traeva piena soddisfazione dall’appagarla.
Adesso,
puranche l’averla lasciata fuggire con i partigiani riconobbe come
un’esplicitazione dell’amore e, rivedendo la scena da tale prospettiva, poté
addirittura scorgervi un ardimentoso, inconscio tradimento verso la madrepatria
e, in esso, a sua volta, il preludio di un pentimento per il male commesso in
nome dell’ideologia antisemita. Ne presunse l’apice prima della morte a Sachsenhausen, momento nel quale, fu certa, aveva rivolto a
lei gli ultimi pensieri.
Provò
commozione nel pensare che l’amore aveva in qualche modo salvato entrambi. A
lui, l’anima. A lei, la vita dalla quale, però, non aveva saputo cogliere
l’occasione di riscatto.
Sentì
guarire la ferita dell’abbandono infertale da Hermann, mentre l’altra,
ovverosia quella della presenza assente di Matteo, già da tempo sanguinava.
Pensava
a quanto si sentisse più donna, quando, per il mondo avvelenato dal
nazifascismo, non era considerata nemmeno una persona, più amata e protetta nel
vincolo profano di una relazione clandestina, quando, agli occhi della sua
gente, poteva apparire come una prostituta e una collaborazionista.
Allungò
una mano verso il porta trucchi e ciò che, sino al
mattino precedente, aveva utilizzato per esaltare la propria naturale bellezza
e femminilità serviva, adesso, a nascondere le brutture di un matrimonio per il
cui fallimento iniziò ad attribuirsi le colpe.
S’era
vera la coesistenza del bene e del male in ogni uomo – e lo aveva visto in
Hermann –, lei aveva tirato fuori da Matteo la parte peggiore col suo
comportamento ribelle.
Perché
era lei quella sbagliata che aveva rifiutato il ruolo esclusivo di massaia,
continuando a lavorare al Gran Cafè dopo il matrimonio, offendendolo così nella
dignità di uomo capace di mantenere la famiglia. Perché era lei quella che,
puntualmente, lo spazientiva, non avendo cura d’interpellarlo prima di una
compera inutile, superflua che appagava il suo desiderio di apparire più bella
e qualche inconscia mancanza. Perché era lei quella algida che aveva finanche
smesso di sorridergli, richiudendosi in un silenzio che non esprimeva sottomissione
ma distacco. Perché era lei quella che, colpevole di non sentire più il
desiderio di mettere al mondo un figlio e impedendone così il concepimento, lo
stava privando della gioia e dell’orgoglio di diventare padre.
Quello
schiaffo se l’era meritato – proseguì nei suoi deliranti pensieri –, perché non
era una brava moglie, né sarebbe stata una buona madre, qualora lo fosse
diventata.
Coi
sensi di colpa assolse dall’errore Matteo che tornò ad essere il ragazzo dolce
e gentile che la teneva accoccolata fra le gambe in riva al mare, inebriandola
con promesse di felicità delle quali lei, soltanto lei, aveva impedito la
realizzazione. E tornò ad amarlo.
Di
nuovo, aveva confuso per fremito d’amore la paura dell’abbandono che le si
agitava dentro.
Lo
avrebbe amato, nonostante tutto, tentando di smussare le proprie asperità per
adattarsi a lui, semmai fosse rientrato a casa.
Un
pianto incontenibile sciolse la maschera di trucco che, tastando freneticamente
sul ripiano del comò alla ricerca del cerone fra il disordine dei cosmetici,
già si apprestava a rifare, mentre la rassegnazione le metteva indosso
un’immagine di donna diversa dalla propria essenza.
Si
guardò allo specchio e, con le striature nere sulle guance e i lividi
ricomparsi, si vide triste e muto pagliaccio, caricatura di se
stessa. Ma fu solo per un attimo, poiché s’era già persa.
“Nonostante tutto,
io ti ascolterò quando non parli,
quando non mi guardi
io ti vedrò lo stesso.
Ti aspetterò, ti chiamerò cuore deciso.
Nella mente, nelle pieghe del viso
sarai da curare ancora un poco.
Aggiustami le spalle
che hai piegato.
Ritirati pure dal fianco, se hai tradito.
Io ti amerò lo stesso.”
Paola Turci, Ti amerò lo stesso