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Autore: Nadine_Rose    07/07/2021    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 52

 

La ferita dell’abbandono

 

“Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate.”

Oriana Fallaci, Un uomo

 

Sarah


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Immagine dal film “La conseguenza”

 

Dalle finestre, le tendine bianche lasciavano filtrare timidamente il luccichio del sole appena sorto sulle acque tranquille del mare. Lo sciabordio delle onde sulla banchina era un suono quasi impercettibile, sovrastato dall’allegro cinguettio degli uccellini. La pace del creato e l’allegrezza delle sue creature non le ristoravano più l’animo, arrecandole, addirittura, fastidio. Il Creatore si era dimenticato di lei.

Per troppo poco, aveva assaporato con Matteo la dolcezza dell’amore, per poi ingurgitarne tutto in una volta la parte più amara. La storia sembrava ripetersi, ma al contrario.

Seduta davanti allo specchio, con lo sguardo perso e gli occhi arrossati di sonno perduto e lacrime versate durante tutta la notte, fissava un punto indefinito della propria immagine riflessa. Al di là dei lividi su una pelle troppo delicata, benché fosse di colorito olivastro, e delle ferite di un cuore fragile, nonostante ne ostentasse la fortezza, oltre il turbinio dei pensieri che finivan nella rimembranza malinconica dell’amore che fu con Hermann, riemerse una voce, parole che s’articolavano fino a render più vivido il ricordo.

Della vita prima di Fossoli conservava una memoria sbiadita e, sullo sfondo confuso e indistinto di una piazza, qualcosa di simile a una scia d’ombra velata le roteò davanti agli occhi, riassumendo le sembianze di suo fratello nell’atto di voltarsi verso di lei.

«L’ha fatto prima, lo farà ancora», le aveva detto, assistendo alla lite tra fidanzati, loro conoscenti, conclusasi con gli schiaffi del giovane contro la compagna.

Assieme alla coppia, prese forma anche la visione della Barcaccia e si ritrovò seduta sulla scalinata di Trinità dei Monti, un paio di gradini più su rispetto a Samuel.

La scena le aveva suscitato disagio e turbamento, offrendo, invece, a suo fratello lo spunto per una riflessione suggerita da quell’innato spirito partigiano che gli conferiva una maturità maggiore, sebbene fra i due fosse lui il più piccolo.

«La lotta per l’uguaglianza tra gli esseri umani inizia dal rifiuto di ogni forma di abuso di potere. Potrebbe sembrare una cosa di poco conto, ma anche ciò che hai visto è un atto di discriminazione. È il prevaricare dell’uomo sulla donna, del più forte sul più debole e, ogni volta che ciò accade, l’umanità compie un passo indietro nel raggiungimento del mondo nuovo, di giustizia e libertà.»

Parlava Samuel in un crescendo di fervore, poi la sua voce divenne a un tratto apprensiva, o forse quelle che seguirono eran parole dettate or ora dalla propria mente. «Non sottometterti, ribellati a chi ti costringe all’infelicità. Fuggi da uomini come questi, da chi ti fa del male. Perché chi ti ama non ti picchia. Perché l’ha fatto prima, lo farà ancora.»

Suo fratello, la piazza si dissolsero in una nube indistinta nella quale risiedevano, vorticando, vaghi ricordi di fanciullezza, di quando guardava con innocenza alla vita, ignorandone i mali. Strizzò gli occhi dinanzi alla vista del proprio viso che aveva quasi dimenticato essere livido e, nuovamente, le si contrasse dall’amarezza.

Aveva ragione Samuel ma solo in parte, poiché, se il discorso poteva, forse, valere per Matteo, non era, invece, valso per Hermann. Questi, dopo che s’era reso, verso di lei, colpevole di una delle violenze più odiose, aveva saputo donarle un amore romantico e passionale che, implicito, si esplicitava nell’illiceità di una rosa rossa lasciata sul comodino, di un giro di danza su quelle note che soltanto loro potevano udire, di un piacere che le era permesso di raggiungere, giacché egli traeva piena soddisfazione dall’appagarla.

Adesso, puranche l’averla lasciata fuggire con i partigiani riconobbe come un’esplicitazione dell’amore e, rivedendo la scena da tale prospettiva, poté addirittura scorgervi un ardimentoso, inconscio tradimento verso la madrepatria e, in esso, a sua volta, il preludio di un pentimento per il male commesso in nome dell’ideologia antisemita. Ne presunse l’apice prima della morte a Sachsenhausen, momento nel quale, fu certa, aveva rivolto a lei gli ultimi pensieri.

Provò commozione nel pensare che l’amore aveva in qualche modo salvato entrambi. A lui, l’anima. A lei, la vita dalla quale, però, non aveva saputo cogliere l’occasione di riscatto.

Sentì guarire la ferita dell’abbandono infertale da Hermann, mentre l’altra, ovverosia quella della presenza assente di Matteo, già da tempo sanguinava.

Pensava a quanto si sentisse più donna, quando, per il mondo avvelenato dal nazifascismo, non era considerata nemmeno una persona, più amata e protetta nel vincolo profano di una relazione clandestina, quando, agli occhi della sua gente, poteva apparire come una prostituta e una collaborazionista.

Allungò una mano verso il porta trucchi e ciò che, sino al mattino precedente, aveva utilizzato per esaltare la propria naturale bellezza e femminilità serviva, adesso, a nascondere le brutture di un matrimonio per il cui fallimento iniziò ad attribuirsi le colpe.

S’era vera la coesistenza del bene e del male in ogni uomo – e lo aveva visto in Hermann –, lei aveva tirato fuori da Matteo la parte peggiore col suo comportamento ribelle.

Perché era lei quella sbagliata che aveva rifiutato il ruolo esclusivo di massaia, continuando a lavorare al Gran Cafè dopo il matrimonio, offendendolo così nella dignità di uomo capace di mantenere la famiglia. Perché era lei quella che, puntualmente, lo spazientiva, non avendo cura d’interpellarlo prima di una compera inutile, superflua che appagava il suo desiderio di apparire più bella e qualche inconscia mancanza. Perché era lei quella algida che aveva finanche smesso di sorridergli, richiudendosi in un silenzio che non esprimeva sottomissione ma distacco. Perché era lei quella che, colpevole di non sentire più il desiderio di mettere al mondo un figlio e impedendone così il concepimento, lo stava privando della gioia e dell’orgoglio di diventare padre.

Quello schiaffo se l’era meritato – proseguì nei suoi deliranti pensieri –, perché non era una brava moglie, né sarebbe stata una buona madre, qualora lo fosse diventata.

Coi sensi di colpa assolse dall’errore Matteo che tornò ad essere il ragazzo dolce e gentile che la teneva accoccolata fra le gambe in riva al mare, inebriandola con promesse di felicità delle quali lei, soltanto lei, aveva impedito la realizzazione. E tornò ad amarlo.

Di nuovo, aveva confuso per fremito d’amore la paura dell’abbandono che le si agitava dentro.

Lo avrebbe amato, nonostante tutto, tentando di smussare le proprie asperità per adattarsi a lui, semmai fosse rientrato a casa.

Un pianto incontenibile sciolse la maschera di trucco che, tastando freneticamente sul ripiano del comò alla ricerca del cerone fra il disordine dei cosmetici, già si apprestava a rifare, mentre la rassegnazione le metteva indosso un’immagine di donna diversa dalla propria essenza.

Si guardò allo specchio e, con le striature nere sulle guance e i lividi ricomparsi, si vide triste e muto pagliaccio, caricatura di se stessa. Ma fu solo per un attimo, poiché s’era già persa.

 

“Nonostante tutto,

io ti ascolterò quando non parli,

quando non mi guardi

io ti vedrò lo stesso.

Ti aspetterò, ti chiamerò cuore deciso.

Nella mente, nelle pieghe del viso

sarai da curare ancora un poco.

Aggiustami le spalle

che hai piegato.

Ritirati pure dal fianco, se hai tradito.

Io ti amerò lo stesso.”

 

Paola Turci, Ti amerò lo stesso

 

   
 
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