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Autore: AlexSupertramp    09/07/2021    3 recensioni
Dopo aver saputo della relazione tra Hayama e Fuka, Sana decide di sparire e non tornare più a scuola e tutto quello che succede nel manga/anime non accadrà mai, compresa la famosa dichiarazione in TV di Kamura. Dopo quattro anni Akito ritrova una lettera di Sana, la stessa lettera che lei scrive durante le riprese de "La villa dell'acqua".
Cosa c'è scritto e cosa è successo in questi quattro anni? Riusciranno Sana ed Akito a ritrovarsi dopo così tampo tempo?
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Naozumi Kamura/Charles Lones, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Akito/Fuka, Naozumi/Sana, Sana/Akito
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 11
 
    
 
La prima cosa che noterai è una certa separazione l'uno dall'altro
Sì, è una bugia, è che ci crediamo da tempo immemore
Ablaze - Alanis Morissette 

 
Quando Hayama le aveva mandato quel messaggio sul cellulare, dicendole di trovarsi proprio all’ingresso dell’ospedale dove avevano ricoverato Kamura, Sana aveva sentito il suo cuore battere più forte del normale. E si sentì subito immediatamente un’egoista.
Sapeva, dentro di sé, che quella reazione non era dovuta al fatto che lei in quel momento si trovava proprio al capezzale del suo ragazzo e che Akito rappresentava solo la distrazione che le impediva di stargli vicino come avrebbe dovuto. Lo sapeva che quello non era il vero motivo, ma allo stesso tempo non riusciva a fare a meno di prendere a pugni proprio quella parte di sé che stava spingendo a galla la vera ragione di quel cuore impazzito.
Quanto tempo era passato da quando lei e Hayama avevano trascorso quelle ore di intimità nella sicurezza della sua stanza? Quanti secoli sentiva fossero trascorsi dal momento in cui aveva fatto l’amore con lui per la prima volta, fino all’istante in cui l’aveva cacciato in quel modo via dalla sua vita?
A Sana sembrò davvero un’eternità, e si passò una mano tra i capelli cercando nei meandri della sua coscienza la strada più giusta da percorrere affinché nessuna delle persone a lei più care soffrisse. E per l’ennesima volta le sembrò un’impresa titanica.
C’era stata prima Fuka, a causa della quale aveva deciso di farsi semplicemente da parte e sparire dalla vita di tutti i suoi vecchi amici. Poi era stato il turno di Naozumi, il suo fidanzato, la persona che aveva cercato di fare tutto ciò che era in suo potere per renderla felice di nuovo e lei lo aveva tradito. A quel pensiero, giunto come una nave rompighiaggio, si morse un labbro così forte che un istante dopo il suo palato venne travolto da uno sgradevole sapore ferruginoso.
E poi c’era…
«Ehi… Sana-chan?»
Lei si voltò di scatto, e Rei corrugò la fronte quando vide gli occhi della sua pupilla arrossati e ancora lucidi per le lacrime versate. Allora, con una strana calma che non pensava nemmeno di poter avere in una situazione del genere, si sedette accanto a lei sulla fila di sedie in plastica che definivano il perimetro del corridoio di fronte alla stanza in cui Naozumi dormiva.
«Sana… tutto bene?»
«Rei… sei tu?»
La sua faccia era completamente stravolta, e Rei sentì uno strano senso di nausea risalirgli lungo l’esofago quando si rese conto che Sana, in quel momento, probabilmente aveva bisogno d’aiuto tanto quanto il suo ragazzo. Solo che in un modo diverso, e la consapevolezza di non essere probabilmente la persona che doveva sedere accanto a lei in quel momento lo fece sentire ancora peggio.
«Sana-chan, vuoi che ti porti qualcosa da bere? Un tè?»
«No, io vorrei…»
«Dimmi, ti porto tutto ciò che vuoi…»
«Dov’è?»
A quel punto Rei non potette fare a meno di sentirsi confuso, perché non era proprio sicuro di aver capito a chi si stesse riferendo Sana. Allo stesso tempo però, temeva che anche solo una domanda fuori luogo, in quel momento, avrebbe potuto mandarla in frantumi, come una statua di cristallo.
Allora la guardò intensamente, poggiandole una mano sulla spalla.
«Dov’è la mamma?» furono le uniche parole che Sana riuscì a dire.
«Oh… sì certo, la maestra è…»
Rei però si accorse subito del profondo cambiamento nello sguardo di lei, perché i suoi occhi le si riempirono nuovamente di grosse lacrime. Allora si voltò alle sue spalle, dove la signora Kurata li stava osservando in piedi, a qualche metro di distanza.
«Mamma…» fu l’unica parola che Sana riuscì a pronunciare tra i singhiozzi, fiondandosi tra le braccia di sua madre.
«Io non volevo… mi sento così in colpa e sono disperata, perché non avrei dovuto farlo…»
«Adesso calmati Sana…»
«Ma come faccio? Io… Naozumi è lì e io…»
A quel punto, Misako la afferrò per le spalle, spingendola a sollevare poi la testa per raggiungere il suo sguardo.
«Sana, Nazomi è lì perché ha avuto un incidente. E per quanto queste siano cose che ci fanno male, noi non abbiamo nessun controllo su questo. Non dovresti dannarti così a causa di quello che tu pensi sia la ragione di ciò che è successo. Piuttosto, essere pronta ad accettare quello che ne consegue, capisci?»
«Ma è proprio questo… come faccio io adesso ad essergli di conforto?»
«Dovresti semplicemente fare quello che il tuo cuore ti sta dicendo in questo momento. Non possiamo disperarci per le conseguenze delle nostre azioni, quello che però possiamo provare a fare è accettarle e accettare il fatto che siamo esseri umani che ogni tanto fanno degli errori. Sta a te, adesso, capire qual è la strada giusta per accettare quello che sta accadendo… non scappare dal dolore. Se sei tormentata, tormentati fino in fondo.»
Sana guardò sua madre in silenzio, mentre sentiva che le ultime lacrime che aveva appena versato stavano percorrendo l’ennesimo viaggio sul suo viso, fino a caderle sul collo. Pensò brevemente a quelle parole, e non era del tutto convinta di averne colto appieno il significato. Tuttavia, nonostante tutto, le parole di sua madre la fecero sentire stranamente più leggera, come se quel peso che sentiva sullo stomaco di fosse dimezzato.
«Ora ascoltami, perché ho parlato con i medici di Naozumi. Sono tutti d’accordo nel trasferirlo in un altro ospedale dove riceverà le cure migliori.»
«Ma che significa? Dove vogliono portarlo?»
«Al Medical Center di Nagano… i dottori sono ottimisti sulla sua completa ripresa, ma dovrà necessariamente andare lì il prima possibile.»
«Nagano…»
«Proprio così. Verrà trasferito domani stesso.»
La signora Kurata raggiunse poi Rei, che aveva ascoltato tutta la conversazione senza dire nemmeno una parola. Lei si sedette accanto al manager di sua figlia, e Sana la raggiunse in poco tempo afferrandole entrambe le mani.
«Voglio andarci anche io!»
A Sana quelle parole uscirono di getto, perché la prima cosa che la sua mente ricordò fu il viso di Nazoumi in quel letto d’ospedale.
«Cosa?»
La risposta giunse all’unisono da parte di entrambi, e sua madre guardò Sana cercando di scorgere anche la più invisibile delle sfumature nel suo sguardo deciso.
«Voglio andare a Nagano. Naozumi ha bisogno di me ora, e io non posso abbandonarlo proprio. Lui con me è stato…»
«Sana, ne sei proprio sicura? Hai capito quello che ti ho detto prima?»
«Non lo so mamma. Non so se ho davvero capito le tue parole fino in fondo, ma tu mi hai detto di seguire quello che il mio cuore mi suggerisce di fare. E io sento che andare a Nagano sia la scelta giusta per…»
«Sana-chan ma così…»
«Rei, per favore, potresti disdire i miei impegni qui a Tokyo? Per adesso voglio concentrarmi su questo e sulla guarigione di Naozumi.»
«D-d’accordo.»
La titubanza nella voce di Rei non venne nemmeno notata da Sana che, apparentemente, aveva trovato il modo per sollevare quel peso enorme che sentiva premere sempre di più sul suo petto. Sua madre le aveva detto di affrontare il dolore, e lei avrebbe fatto così. Si convinse così rapidamente che quella fosse la strada giusta da percorrere per rimediare ai suoi errori che non si accorse nemmeno dello sguardo preoccupato di sua madre.
E pensò che quello non era affatto un sacrificio, perché Naozumi per lei aveva fatto molto di più in tutti quegli anni.
E di nuovo quella voce dentro di sé fu messa a tacere, schiacciata in un angolo della sua coscienza, quella che, a detta sua, era la parte più egoista di se stessa.
 
***
 
«Akito, hai avuto notizie di Sana?»
A quella domanda che Tsuyoshi gli porse mentre addentava un grosso cheesburger che aveva preso alla mensa scolastica, lui scosse semplicemente la testa.
«Mh… quindi non sai come sta Kamura?»
Di nuovo, il suo capo fece lo stesso movimento. Poi si decise anche lui ad addentare distrattamente il suo panino senza spostare minimamente lo sguardo dal piatto.
«E cosa pensi di fare adesso?»
«Andrò all’ospedale di nuovo.»
«Sei sicuro che sia la scelta giusta? Forse dovresti…»
«Perché non la pianti con tutte queste domande?»
Il tono di Hayama si rivelò essere duro come quello di un tempo, ma Tsuyoshi in realtà non pensò che quel suo scatto d’ira potesse essere il preludio di qualcosa di più serio. Sapeva bene che il suo amico, in realtà, stava soffrendo molto all’idea di avere semplicemente le mani legate. Oltretutto, rifletté per un istante sul comportamento di Sana e, per quanto la capisse e comprendesse la sua voglia di stare da sola, continuava a pensare che non fosse giusto, in realtà, il modo in cui lei lo stava escludendo dalla sua vita.
Mentre la sua mente vagava tra quei pensieri astratti, quasi non si accorse che il loro tavolo era stato raggiunto da una figura che mise a fuoco solo qualche momento dopo.
«Ciao Hayama…»
«Oh… ciao.»
«Scusami se ti disturbo, ma volevo chiederti se avevi pensato alla mia proposta…»
Tsuyoshi guardò quella ragazza in piedi accanto ad Akito con uno sguardo perplesso. Non ricordava affatto di averla mai vista, inoltre si sentiva quasi trasparente visto che lei non si era nemmeno presentata.
«No, non direi.»
«Capisco… volevo dirti che i miei amici stanno organizzando il pranzo e io pensavo di portare del sushi. Posso portarne anche per te, in caso decidessi di venire ecco.»
In realtà Akito non seppe spiegare a se stesso quell’improvvisa rabbia nata dal nulla, né si rese conto se era stata proprio Fumiko e la sua proposta a scatenarla. L’unica cosa a cui pensò fu di raggiungere la ragazza con il suo sguardo in un tempo così breve che non riuscì nemmeno a quantificarlo.
«Ehi, cos’è che non ti è chiaro? Non ho pensato alla tua proposta e non mi interessa il tuo pranzo.»
Tsuyoshi restò immobile, perché lo scatto improvviso di Akito, che si era alzato in piedi davanti a quella ragazza lo aveva completamente interdetto. Ma si rese subito conto che quella reazione spropositata non aveva colto alla sprovvista solo lui, perché quella tizia indietreggiò di qualche passo prima di abbassare lo sguardo al pavimento.
«O-ok… scusa.»
Lei continuò ad indietreggiare allontanandosi gradualmente dal tavolo di Akito e Tsuyoshi, senza mai guardare nessuno dei due in faccia, finché non accelerò il passo allontanandosi definitivamente da lì. A quel punto Tsuyoshi avrebbe voluto fare mille domande al suo amico, ma si rese conto che quello probabilmente non era affatto il momento adatto perché sussultò nuovamente quando la mano chiusa a pugno dell’altro si scaraventò sul tavolo, facendo sobbalzare i loro vassoi.
«Dannata!» esclamò soltanto, prima di dare le spalle a Tsuyoshi e allontanarsi dalla mensa a passo svelto.
 
***
 
«Sana, hai pensato a come farai con la scuola?»
La voce della signora Kurata la fece riemergere da uno strano stato di catalessi in cui Sana era piombata appena aveva aperto la sua valigia da riempire. Quella valigia, però, continuava ad essere vuota, nonostante fossero passate molte ore da quando lei, sua madre e Rei erano tornati a casa dall’ospedale.
«Mammina…»
«Eri tornata da poco a frequentare le lezioni… hai pensato a come fare?»
«Be’, in effetti potrei continuare a prendere lezioni private. Inoltre, non sappiamo quanto tempo staremo a Nagano… magari tornerò in tempo per il diploma.» disse lei, in un sorriso che destò l’attenzione di sua madre.
A quel punto, Misako raggiunse sua figlia al centro della stanza per sedersi poi sul bordo del suo letto a baldacchino. Osservò tacitamente i movimenti meccanici di Sana, che aveva iniziato a piegare alcuni vestiti per poi riporli nel vano ancora vuoto. In quel momento non poteva sapere che la mente di Sana era andata direttamente all’ultima volta che aveva preso quella valigia dall’armadio, quando era partita per Hakone insieme ai suoi amici. E, inevitabilmente, ripensò proprio alla sera in cui lei e Akito erano rimasti chiusi nel vano lavanderia di quell’albergo.
Fece un profondo sospiro, e scosse appena la testa.
«Sana…»
Allora lei si voltò sorridendo nuovamente a sua madre: «Dimmi. Sto cercando di riempire questa valigia, ma sai non ho proprio idea di che tempo faccia laggiù e forse dovrei portare cose pesanti… tu cosa ne pensi?»
«Sana, ascoltami. Sei proprio sicura di non dimenticare qualcosa?»
«Assolutamente no, sono sicura che dimenticherò qualcosa… ma a Nagano ci saranno dei negozi, no?»
A quel punto Misako si alzò in piedi per poi inginocchiarsi ai piedi di sua figlia che, per qualche strana ragione a lei stessa ignota, evitò lo sguardo di sua madre finché le fu possibile.
«Domani andremo a scuola e parleremo con il preside.»
«Oh… andremo?»
«Esatto.»
«Ma non è necessario che venga anche io, non credi?»
«E invece è proprio necessario. Inoltre, non vuoi salutare i tuoi amici prima di andare via?» ma Sana non rispose a quella domanda, restò solo immobile e immersa nei suoi pensieri. Non si accorse nemmeno del bacio che sua madre le depositò sulla fronte prima di lasciare la sua stanza.
 
***
 
«Ehi!»
Akito ci aveva messo più tempo del previsto a ricordare la classe di Fumiko, ma quando la vide seduta all’ultimo banco e la chiamò facendole segno di uscire fuori dall’aula, non provò nulla.
Fumiko si guardò intorno per qualche istante, prima di alzarsi lentamente dal suo posto e andare verso l’uscita dell’aula.
L’unica cosa di cui si rese conto furono gli sguardi incuriositi dei suoi compagni di classe, accompagnati da un sottile brusio che non destò minimamente l’attenzione di Akito.
«Puoi venire con me un attimo?» le domandò lui, appena lei gli fu abbastanza vicina da riuscire a sentirlo.
«Io prima… non intendevo…»
«Vieni o no? Qui c’è troppa gente.»
A quel punto, la ragazza fece qualche passo oltre la porta d’ingresso della sua aula e lo seguii nel corridoio, finché Akito non si fermò accanto ad una finestra abbastanza isolata.
«Davvero Hayama, io prima non intendevo fare pressione sulla tua decisione…»
«Lo so.»
Akito la guardò per un istante, mentre Fumiko cercava di capire la natura di quelle parole. Si domandò allora cosa avesse provocato in lui quell’improvviso scatto d’ira, perché fino ad un minuto prima era convinta di essere stata semplicemente troppo invadente, e impaziente, nel voler sapere qualcosa che in effetti le stava abbastanza a cuore.
«Ok.» si limitò a dire, pesando attentamente le parole da usare in seguito. Akito a quel punto si appoggiò con i gomiti sul davanzale della finestra e guardò il cortile esterno, dove alcuni studenti di altre classi stavano facendo educazione fisica.
«Non è che non mi piaccia il sushi…»
«Ah no?»
«È che, in questo momento, sono preso da altro.»
«Sì certo lo capisco… in verità, pensavo che la nostra uscita potesse distrarti in qualche modo.»
«È complicato…»
«Immagino.»
Hayama si aspettò qualcosa, che in realtà non arrivò. Non si era mai posto nessuna domanda riguardo le intenzioni di quella ragazza, tuttavia immaginava che il suo strano rapporto con Sana le fosse saltato agli occhi. In ogni caso, quando si erano incrociate qualche giorno prima nei corridoi, di certo doveva essersi fatta qualche idea. Eppure, le domande ulteriori sulla sua situazione con Kurata che lui si aspettava, non arrivarono affatto e lui si voltò verso Fumiko, chiedendosi a quel punto cosa avesse immaginato allora.
Ma lei gli stava sorridendo, e lui rilassò le spalle.
«Sul serio, mi farebbe piacere se tu venissi con noi alla festa e sono contenta che ti piaccia il sushi. Ne poterò di più, nell’eventualità che tu decida di venire…»
«Mh… ci penserò.»
«Bene… sentiti libero di fare ciò che vuoi.»
E Akito sbuffò, perché il punto era proprio quello: quand’era stata l’ultima volta in cui si era sentito davvero libero?
 
***
 
Varcare il cancello della scuola superiore Jimbo per l’ennesima ultima volta rappresentò per Sana una sorta di cesura con una serie di pensieri che ormai affliggevano la sua mente da diverso tempo. E per quanto si sforzasse di pensare ad altro, a Naozumi e alla sua scelta, a quanto questa fosse giusta e alla sua partenza per Nagano, non riusciva a prevedere la sua reazione nel momento in cui avrebbe incrociato Hayama nei corridoi della loro scuola.
Avrebbe dovuto percorrere gli avvenimenti delle ultime settimane, riflettendoci a fondo, ma nonostante tutto la sua mente continuava a scacciare quel pensiero razionale.
«Sana… cosa fai lì impalata?»
Sua madre la chiamò, voltandosi rapidamente nel suo kimono giallo a fiori.
«Sì mammina, eccomi…» ma in realtà non era affatto sicura di quell’affermazione. Quella notte non aveva chiuso occhio, e quel famoso peso che sentiva all’altezza del petto era ritornato incalzante, facendola vacillare. Sentì il suo cuore battere più forte esattamente nello stesso momento in cui le sue gambe si mossero in direzione di sua madre che le stava tendendo un braccio aspettandola a pochi passi da lei.
La prima cosa che riconobbe, appena mise piede nel suo istituto superiore, fu l’odore del gesso e del legno dei banchi nonostante si trovasse ancora lontana da qualsiasi aula. Ma il silenzio tombale che regnava in quel posto la fece sentire a disagio: si aspettava qualcosa da un momento all’altro, proprio come era successo il primo giorno di ritorno a scuola dopo quattro anni di assenza, quando aveva incontrato Aya proprio lì, in quei corridoi.
Ma i minuti passavano lentamente, e non accadeva nulla. A quel punto, Sana si sentì in diritto di sospirare profondamente, provando una certa sensazione di sollievo quando vide il nome del preside inciso sulla targa di metallo affissa proprio sulla porta davanti a sé.
Si mise una mano sul petto, poi sentì quella di sua madre che le stringeva la spalla.
«Sei sicura?»
«S-sì… anzi, sai vado un attimo in bagno. Mi scappa…» le disse, accompagnano quella frase con un sorriso e divincolandosi dalla presa di sua madre.
Non sapeva spiegare il motivo per cui aveva sentito l’esigenza di scappare, nonostante la sensazione di sollievo appena provata quando avevano finalmente raggiunto la porta del preside. Sentiva che da una parte quella era la strada giusta, ma dall’altra aveva una strana sensazione di vicolo ceco che proprio non riusciva a definire chiaramente.
L’unica cosa di cui era certa riguardava Hayama e il fatto che se solo l’avesse visto, avrebbe potuto vacillare e cadere. Allora si precipitò nel bagno delle ragazze più in fretta che poteva, chiudendosi la porta alle sue spalle.
Sana fece un enorme respiro, appoggiando poi la fronte alla porta del bagno. In quel momento avrebbe voluto avere la facoltà di tele-trasportarsi in un luogo lontano, magari direttamente a Nagano evitando tutti quei passaggi e soprattutto il pericolo di incontrare qualcuno.
Si sentiva una vigliacca per non essersi fatta sentire con nessuno dei suoi amici ed era convinta che con quel gesto li avrebbe persi per sempre. D’altronde però, cos’altro avrebbe potuto fare in quella situazione? In che modo avrebbe potuto aiutare Naozumi e redimersi da quello che gli aveva fatto?
Fece l’ennesimo sospiro prima di appoggiare la mano sulla maniglia della porta… si rese conto che stare lì rinchiusa con sua madre che l’aspettava dal preside non l’avrebbe condotta da nessuna parte. Ma proprio quando si era decisa ad uscire, sentì un rumore provenire dal vano principale del bagno e allora si bloccò all’istante. Sapeva bene che né Hayama né Tsuyoshi potevano entrare nel bagno delle donne, ma sentì comunque la necessità di aspettare che la strada fosse libera prima di uscire e raggiungere sua madre. Appoggiò la schiena alla porta e chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi.
«Tu ci andrai alla festa dell’Hinnamatsuri?» disse una voce che proveniva da un punto indistinto oltre la porta su cui era appoggiata.
«Certo che sì, non aspetto altro.»
Sana a quel punto sorrise, perché sentì un profondo sentimento di invidia per quelle due voci sconosciute che ridevano e parlavano allegramente di quella festa alla quale anche lei avrebbe voluto prendere parte, se solo la sua testa non fosse stata così piena di cose che, improvvisamente, le sembrarono pesanti come macigni.
«Grandioso. Io pensavo di preparare dei dolci… tu?»
«Classico bento sempre verde. Non ho nessuna intenzione di passare la giornata ai fornelli.»
«Già… pensa che Fumiko preparerà il sushi. Sai quanto le ci vorrà?»
A quel punto Sana non seppe spiegarsi il motivo per cui il suo cuore iniziò a battere più forte. L’unica cosa di cui era consapevole era che le sembrò di sentirlo riecheggiare nelle orecchie.
«Mah… lei ora ha il ragazzo. È normale sai?»
«Ah ti riferisci al tipo di ieri pomeriggio? Quello che è venuto a prenderla fuori la nostra classe?»
«Proprio così, il tizio della sezione A. Anche io gli preparerei del sushi, se lui volesse.»
Sana sentì qualcosa rompersi, ma stranamente nessuna delle due voci sconosciute batté ciglio. Forse non avevano sentito nulla, oppure a loro non importava che qualcosa di così grosso avesse fatto quel tale rumore nel rovinare a terra. Strinse le dita intorno al colletto della sua uniforme cercando disperatamente di allentarlo. Com’è che quel bagno era diventato così stretto?
«Comunque, visto che io il ragazzo non ce l’ho vi accontenterete del bento.»
«Così però dubito ne troverai uno…»
«E chi se ne frega sai?» disse una delle due, mentre si aggiustava la frangetta allo specchio. Il suo sguardo però si spostò immediatamente verso la sua amica quando la porta chiusa alle loro spalle si spalancò con forza. Sana era uscita di corsa da lì ma quei secondi erano stati sufficienti perché le due ragazze si guardassero dritto in faccia.
«Ma quella non era Sana Kurata?»
 
***
 
Akito camminava e sentiva il rumore dell’erba bagnata che si piegava sotto la punta delle sue scarpe. Non aveva piovuto, ma il prato dell’enorme cortile dell’ospedale era comunque bagnato a causa dei numerosi irrigatori che provvedevano costantemente ad irrigarlo.
Si guardò proprio la punta delle scarpe di tela e notò una piccola chiazza scura che si allargava man mano che le sue gambe si inoltravano lungo il sentiero erboso.
Si sentiva teso e agitato, non aveva assolutamente idea di cosa lo aspettasse una volta varcata la soglia dell’ingresso dell’ospedale, ma sapeva bene che aveva raggiunto il suo limite.
Non vedeva o sentiva Sana da più di due giorni, e aveva appena deciso che quello era il tempo massimo che le aveva concesso per pensare e riflettere su quella situazione. Era fermamente deciso a non farsi da parte e lei avrebbe dovuto accettarlo, affrontare la realtà senza scappare almeno una volta nella vita. Ormai aveva perso il conto di tutte le volte in cui, negli ultimi tempi, aveva temuto che lei fuggisse di nuovo e visto il suo pessimo rapporto con le tempistiche, aveva deciso di giocare d’anticipo e rimediare prima che fosse troppo tardi.
Allora si infilò le mani nelle tasche dei jeans e si avvicinò all’accettazione dell’ospedale, scoprendo con sollievo che ad accoglierlo non c’era la stessa infermiera della volta precedente.
«Ciao, come posso aiutarti?»
«Sono qui… per un paziente.»
«Puoi dirmi il suo nome?»
«Si tratta di… mio cugino.» biascicò abbassando lo sguardo. Se c’era una cosa nella vita che mai avrebbe pensato di fare era proprio recitare, e sperava di essere risultato credibile nonostante la sua palese avversione per le bugie. D'altronde, sapeva anche che probabilmente Sana si sarebbe negata al telefono e proprio non era riuscito a trovare un’alternativa migliore per poterla vedere.
«Oh… e come si chiama tuo cugino?»
Il sorriso dell’infermiera aumentò il suo senso di disagio.
«Kamura.»
Nel pronunciare quel nome, si aspettò che dall’altra parte gli arrivasse immediatamente un rifiuto. Ma i secondi passarono, così come i minuti e mentre aspettava, notò che le dita dell’infermiera si muovevano velocemente sulla tastiera del suo computer, senza rifilargli nessun “no” di risposta.
Allora Akito appoggiò i gomiti sul banco dell’accettazione, avvertendo il cuore battere leggermente più forte.
Forse ce l’aveva fatta.
«Qui non c’è nessun Kamura…»
«Come?»
Probabilmente era stato ricoverato con un nome fittizio, avrebbe dovuto immaginarlo.
«O meglio, non c’è più…»
«I-n che senso?»
«Eh, che il paziente Nazoumi Kamura è stato trasferito questa mattina in un’altra struttura.»
«Dove?»
«Scusa, ma non dovresti saperlo se sei suo parente?»
Hayama strinse i pugni e pensò rapidamente a qualcosa da dire all’infermiera, solo che quest’ultima lo anticipò riprendendo a muovere velocemente le sue dita sulla tastiera del computer.
«Sono spiacente, ma non posso dirtelo…»
In realtà Akito aveva smesso di ascoltarla o di prestarle attenzione. La prima cosa che fece fu allontanarsi da lì e afferrare nervosamente il cellulare che suo padre gli aveva dato. Compose il numero di Sana, al diavolo tutto, ma la voce metallica che lo informava che il cliente non era raggiungibile arrivò dopo nemmeno un secondo.
E nuovamente sentì la sensazione soffice di erba bagnata sotto i piedi, ma non riuscì a percepirne il rumore perché aveva ripreso a correre e non aveva il tempo per soffermarsi su quei dettagli.
Aveva una strana sensazione, sentiva che le cose gli stavano pericolosamente sfuggendo dalle mani, ma stranamente si percepì leggermente in vantaggio rispetto al suo rapporto con le tempistiche. Non seppe spiegarsi il motivo di quella sensazione, probabilmente più che percezione doveva essere speranza la sua, solo che non era stato in grado di riconoscerla propriamente.
Aveva sempre pensato che gli anni della sua infanzia fossero stati i peggiori, e la cosa più sorprendente era che lo aveva capito solo dopo, quando qualcuno glielo aveva fatto notare. Probabilmente perché non aveva ancora nessun termine di paragone: aveva sempre vissuto solo quello. Allora che senso aveva, a suo tempo, fermarsi a pensare su come stesse vivendo davvero la sua vita di bambino.
Poi era accaduto qualcosa, era successo tutto contro la sua volontà e si era ritrovato travolto da quell’uragano. Ma la sua visione delle cose era di se stesso intrappolato proprio all’interno dell’occhio del ciclone.
Aveva corso tutto il tempo, per l’ennesima volta non si era fermato nemmeno un attimo a guardarsi indietro, né a ripensarci.
In poco tempo e con il fiatone, si ritrovò nuovamente davanti al cancello della villa di Sana. Era tutto esattamente come lo ricordava, e si sentì anche un po’ stupido rendendosi conto che, in realtà, non era passato poi molto tempo dalla sua ultima visita.
Solo che non ci voleva pensare veramente.
Premette il dito contro il pulsante del citofono, e in poco tempo, senza aspettare che lui si annunciasse, il cancello si aprì e da lontano riuscì a scorgere la figura della signora Kurata in piedi sull’uscio dell’enorme porta di ingresso.
Fece quei pochi passi che lo portarono ad una distanza tale da lei da fargli capire immediatamente cosa stesse succedendo, solo guardando l’espressione sul suo viso.
«Hayama…»
«Devo parlarle…»
La signora sospirò e congiunse le braccia all’altezza del ventre.
«Mi dispiace Akito…»
«Non me ne frega niente se le dispiace, io devo parlare con lei!»
«Lo so, ma…»
«Se lo sa, la faccia scendere allora.» il suo tono era diventato duro, nonostante stesse avendo a che fare con un adulto, ad Akito non importò affatto. Strinse i pugni e fece un passo verso la signora, ma questi alzò immediatamente un braccio, nel tentativo di fermarlo.
«Mi dispiace, ma Sana non è qui.»
«Allora la aspetterò.»
«Non è possibile perché…»
«Non mi interessa…»
«Non è possibile perché Sana se n’è andata con Nazoumi a Nagano!»
Questa volta fu il tono di Misako a farsi duro, ma ad Akito in realtà non importò granché. Non si curò affatto dell’espressione della signora Kurata, né delle sue mani che si erano allontanate tra loro per cadere lungo i suoi fianchi. In realtà, in quel momento, si curò di pochissime cose e una tra le queste furono le sue scarpe, che sentì ormai completamente bagnate. Sentì in quel momento che il senso di moltissime cose gli stava semplicemente sfuggendo dalle dita e pensò al tempo, alla lunghezza di certe giornate che non avrebbe mai voluto rivivere. Si sentì nuovamente travolto da quell’uragano, ma in un modo decisamente più sgradevole, poi il tutto lasciò semplicemente spazio ad una rabbia frenetica che lo condusse a sparire rapidamente da lì.
Percorse il vialetto della villa di Sana a ritroso così velocemente, arrivando a qualche isolato più in là in un tempo così breve che pensò immediatamente a cosa avrebbe fatto nel momento in cui la sua corsa si sarebbe arrestata. Aveva le mani legate e la libertà circoscritta ad un unico reale sentimento di rabbia che gli stava esplodendo attraverso le nocche delle sue mani.
Solo a quel punto sentì una fitta pungente e guardò il suo pugno conficcato nel tronco di uno degli alberi di quel maledetto parco. Avrebbe voluto raderlo al suolo seduta stante, ma un rivolo di sangue caldo che cadeva proprio dalla sua mano gli ricordò che lui non aveva il potere di fare nulla.
Allora abbassò lo sguardo, e vide le sue scarpe completamente bagnate che calpestavano una colonia di formiche impazzite ai piedi di quel tronco.
«Maledetta egoista…»
Akito tirò su col naso, ma un istante dopo si passò una mano sul viso. La sentì umida e si domandò se quello non fosse altro che il suo stesso sangue, scaturito da quella rabbia così difficile da gestire.
«Dannazione Sana… ma perché?» imprecò nuovamente, e sentire la sua stessa voce pronunciare una frase che era convinto di aver solo pensato nell’intimità della sua testa gli provocò una strana scossa.
Non sapeva cosa fare adesso, ma non se lo chiese nemmeno. Improvvisamente gli sembrò tutto difficile ed estremamente ingiusto e si domandò se quella altro non fosse che la giusta punizione per tutto ciò che aveva fatto in passato.
Forse non meritava che aggrapparsi a qualcosa nell’esatto istante in cui questa gli sfuggiva poi dalle mani, in un eterno loop di tempistiche sbagliate. Poi pensò che forse stava dando troppo peso a quell’aspetto perché Sana aveva fatto una scelta, nonostante sapesse bene quali fossero i loro sentimenti reciproci. E nuovamente sentì una profonda fitta alle mani.
Aveva sempre pensato che iniziare a fare karate lo avrebbe aiutato a superare la sua non tenacia, ma quello che ancora non aveva compreso in realtà era invece proprio la sua incredibile forza di volontà e la sua tenacia nel voler restare in quel mondo.
E ancora non aveva realizzato quanto in quel momento quel forte sentimento di rabbia avesse assunto la funzione di spirito guida della sua vita e lo stesse conducendo lungo un sentiero che non avrebbe mai immaginato di iniziare a percorrere sul serio.
 
 
*Note d'autrice*
Non ci credo nemmeno io. Mi ci è voluto un anno per aggiornare, ma alla fine chi va piano va sano e lontano :D.
Detto ciò, la complice di questo ritorno è stata proprio la canzone che vi ho messo in questo capitolo e da cui è tratta la frase che ho messo all'inizio. Mi ha ispirata, mi ha fatto pensare a questi due e a come stava andando la storia e ho iniziato a scrivere. Ho scritto questo capitolo in pochissimo tempo, cosa che non succedeva da un po' e sono contenta di essere tornata ad aggiornare questa mia, prima storia.
Dunque, diciamo che le vicende qui erano abbastanza prevedibili, ma tutto ciò che sta succedendo era la sola direzione in cui i personaggi potevano andare e spero che vi piaccia.
Non so quando riaggiornerò, sono tempi impegnati e duri eheheh. D'altronde Mastermind è sempre stato un cavallo impazzito che non si cura di tempi e settimane.
Vi mando un grosso bacio e alla prossima
Alex

 
 
 
 
 
   
 
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