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Autore: channy_the_loner    13/07/2021    0 recensioni
Ogni storia d’Amore degna di essere raccontata comincia con il fiabesco C’era una volta.
Ma se vi parlassi di vampiri, spiriti, guerra, salvezza, maledizioni, sacrifici, tentazioni e paura, l’Amore sarebbe ancora così puro?
Loro non sono affatto innocenti fanciulle in attesa del principe azzurro; una giovane giornalista, una sorella protettiva, un’atleta ottimista, una superstiziosa combattente, una tenera fifona e una silenziosa malinconica, nient’altro che sei normali ragazze appartenenti a mondi totalmente diversi, ma accomunate dallo stesso Destino. Saranno costrette ad affrontare un viaggio attraverso l’Inconcepibile, dove tutto è permesso, per scoprire la loro vera identità; oltre il Normale, le certezze crollano e s’innalzano i dubbi, muri e muri di fragilità, ma dietro l’angolo ci sono anche motivi per abbatterli.
Si può davvero vivere per sempre felici e contenti, quando l’esistenza non è altro che un accumulo di dolore e lacrime? Quanto deve essere forte, l’Amore, per far nascere un sorriso nonostante tutto il resto? E infine, la Vita è un libro già scritto, o è il suo protagonista a prendere le redini del gioco?
-IN REVISIONE-
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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THEM, SOUL AND TEARDROPS.

 

 

«Hai significa veleno. Doku significa polmone. Quella foresta è una trappola mortale.»

 

Uno schiaffo in faccia; una guancia arrossata, formicolio, bruciore. Selena non era stata realmente colpita, ma la sensazione che provava era paragonabile a quella violenza; forse no, forse era più forte e assillante, come un pugile che l’aveva messa all’angolo e continuava a colpirla con i suoi guantoni duri sporchi di sangue e sudore. “Che significa?”, pensava in continuazione come una dannata. Non aveva bisogno di una risposta poiché le parole del lord erano state inequivocabili, pertanto si sarebbe potuto affermare che il suo incubo peggiore era in procinto di concretizzarsi? Era di nuovo sull’orlo della perdita, perdita di persone ricoprenti un ruolo insostituibile nella sua vita? Si passò una mano sulla fronte, tentando di alleviare l’emicrania che le stava martellando le tempie, l’ennesima preoccupazione a saltarle sulla schiena – e se fosse arrivata troppo tardi?

«Selly», si sentì chiamare. Alzò il capo e lo sguardo, fino a quel momento entrambi puntati sul bordo del tavolo, e incrociò due perle rosa; erano gli occhi di Yui, dai quali avevano iniziato a scendere silenziose lacrime. «Selly, che facciamo?» Accanto alla bionda, Tara era sbiancata; la sua espressione era apparentemente immobile, ma il suo corpo stava tremando come una debole foglia ingiallita mossa dal vento autunnale.

Selena avrebbe tanto voluto piangere: sarebbe stato liberatorio. Per un momento, pensò che avrebbe potuto sfogare quel dolore crescente all’altezza del petto, pensò che sarebbe andato bene, sarebbe stato comprensibile agli occhi di tutti. Tutti? Anche i vampiri presenti in sala l’avrebbero compresa? No. L’avrebbero guardata dall’alto, con le loro arie snob, e le loro bocche affilate avrebbero unicamente sottolineato l’inettitudine della forza umana. Ma lei non avrebbe dato loro quella succulenta soddisfazione, mai. «Mi sembra piuttosto ovvio», sentenziò drizzando la schiena. «Iniziamo immediatamente le ricerche. Ritroveremo entrambe e le porteremo al sicuro.»

Che poi, dov’era quel sicuro di cui parlava? Non ne aveva idea, non era più certa di niente. Le sarebbe piaciuto affermare che le avrebbe protette tutte, che era lei stessa a rappresentare un rifugio, un luogo di salvezza – ma non ne era pienamente convinta. La verità era crudele, ma l’aveva accettata, era stata costretta a farsene una ragione. Essere stata risucchiata da quella sfera di dolore l’aveva moralmente provata; credeva di aver superato la morte dei suoi genitori, credeva di aver finalmente preso il controllo della sua vita e di starla plasmando come meglio riteneva – tuttavia, la vista di quei due cadaveri, così familiari e allo stesso tempo lontani, le aveva spostato il baricentro. Come avrebbe fatto a trovare nuovamente l’equilibrio che le serviva per continuare a vivere come desiderava?

Reiji la osservò con attenzione. Guardò la sua silhouette composta, i suoi capelli ordinatamente raccolti, il suo sguardo austero – e pensò che fosse una donna forte. Poi posò gli occhi sul profilo del suo volto, sulle sue ciglia lunghe e sulle sue mani curate – e pensò che fosse anche bella. Il potente orgoglio che da sempre lo comandava gli avrebbe impedito di ammetterlo ad alta voce, ma non c’era alcun male a limitarsi a pensarlo. Tra i tratti caratteristici che rendevano Reiji se stesso, unico e inimitabile, c’era sicuramente la schiettezza; a prescindere da ciò che aveva da dire, il secondogenito Sakamaki aveva l’incredibile abilità di saper trovare le parole giuste. Valeva per gli altri, valeva anche per sé. Semplicemente, si era detto che non c’era nulla di male nei suoi pensieri; Selena era bella, era un complimento. Una lode che, tuttavia, non le avrebbe mai rivelato. Sosteneva segretamente che fosse una persona coraggiosa, dal grande spirito, dalle spalle forti e tanta pazienza; un assurdo incrocio tra eleganza e disordine, un’imperfezione che la rendeva vera, quasi a dire che lei era realmente lì, non era mera immaginazione. Un controsenso da mal di testa, il sassolino apparentemente insignificante che avrebbe reso scomoda la calzatura più confortevole mai creata. Se solo Selena fosse stata un vampiro, probabilmente non si sarebbe fatto troppi problemi a intraprendere una relazione con lei. Dopotutto, che male c’era? Non apprezzava il comportamento frivolo dei suoi fratelli – specialmente di Ayato e Laito – nei confronti delle donne, ma ciò non significava affatto che non gli sarebbe piaciuto conoscere qualcuna. Avrebbe reputato interessante il condividere le proprie idee con lei, scavare fino a raggiungere il fondo della sua mente, bere il tè con accompagnamento di diplomatici discorsi; gli sarebbe piaciuto anche avere dei rapporti intimi, un dai e ricevi per nulla scandaloso o clandestino, una riservatezza da non nascondere a nessuno – era anche lui una creatura, dopotutto, e come tale possedeva nel proprio corpo delle voglie sessuali. Ma Selena non poteva andare bene, perché lei aveva quel dannato senso di giustizia e adorava litigare, non si lasciava sottomettere e non demordeva facilmente quando in ballo c’era qualcosa o qualcuno a cui teneva; lei lottava con le unghie e con i denti, colpiva a suon di argomentazioni e moralismi, ed era così tanto una seccatura che Reiji aveva finito per trovarla eccitante. Che passare troppo tempo con una comune umana lo stesse facendo impazzire?

Un pugno sul tavolo, una debole crepa a partire da quella mano bianca; Subaru detestava scorgere l’espressione afflitta di Kin. Scandì a denti stretti: «Basta perdere tempo. Andiamo. Ora.»

E la rossa lo ringraziò con un sorriso timido.

 

 

***

 

 

Quell’asfissiante emozione che circolava per tutto il suo corpo era impazienza allo stato puro. Solitamente non era il tipo da arrendersi all’agitazione, poiché prediligeva di gran lunga mantenere l’animo leggero, esprimersi con una scrollata di spalle e risultare essere l’elemento di positività all’interno della squadra di cui faceva parte. Eppure, in quel momento, la preoccupazione era eccessiva anche per lui.

Fissava quella ricetrasmittente nera con gli occhi quasi fuori dalle orbite; camminava avanti e indietro per la stanza, in lungo e in largo, per tutto il perimetro percorribile, ma il suo sguardo rimaneva ancorato a quell’oggetto rettangolare posato sulla scrivania. Passarono minuti interi, tempo che andava ad addizionarsi alle ore passate in quella camera. La chiamata prevista per quel giorno era in ritardo. E lui non era in grado, in quei momenti apparentemente eterni, di ragionare con lucidità; nella sua mente si susseguivano scenari negativi, contorti, alcuni atroci e inquietanti. Nonostante la freddezza del suo animo gli avesse permesso di far parte di quella delicata operazione, lo stomaco chiedeva solo di rovesciare l’ultimo pasto.

E poi, senza alcun preavviso, la ricetrasmittente emise dei suoni statici. Quasi si tuffò sull’apparecchio, rispondendo alla comunicazione. «Sei tu?»

Dall’altra parte, un soffio. «Certo che sono io. Qua tutto okay. Arriveremo entro domattina.»

Senza sentire la necessità di chiedere altro, si sentì sollevato; fece qualche passo indietro, per poi lasciarsi crollare sul materasso del proprio letto. «Che fortuna. Mi serviva proprio questa notizia.»

«Che intendi dire? È successo qualcosa?»

Si passò una mano tra i capelli, scostandoli dal viso. «Un bordello. La ragazza è ancora prigioniera, la tengono in ostaggio. Inoltre…»

«Inoltre?», l’esortò.

Sospirò, afflitto. «Inoltre hanno scoperto che loro sono arrivate qui. Ed è stata colpa mia, sono stato io a fotografarle. Ma sono stato costretto, ho dovuto seguire gli ordini di quello là.»

La voce dall’altro capo non si scompose. «Sta’ tranquillo. Stai facendo bene il tuo lavoro.»

«Ma io…», esitò. «Due di loro sono sparite. Una è nella foresta Haidoku, dell’altra non si sa ancora nulla.»

«Be’, che ci vuoi fare? Che si muovessero era abbastanza prevedibile. Hanno le gambe anche loro.»

«Sì ma il punto non è questo.» Sollevò il busto per mettersi seduto, per poi afferrarsi la testa con la mano libera. «Ha sguinzagliato i cani per trovarle. Proprio in questo momento sono in perlustrazione. Sono ovunque.»

Sentì una breve risata provenire dalla ricetrasmittente. Poi, nuovamente serietà: «Cazzo. Questa non ci voleva.»

 

 

***

 

 

Annusò il terreno, alla ricerca di indizi. Orme, capelli, oggetti personali, una traccia qualsiasi per risalire alla ricercata – eppure tutto sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Aveva ben adocchiato l’aria da perlustrare, in più conosceva quella zona come le sue tasche, e allora perché s’interfacciava unicamente con il nulla?

«Voi laggiù», chiamò con voce autoritaria, ferma persino in momenti bui come quello che la sua squadra stava vivendo proprio in quelle ore, «avete novità?»

Gli uomini fecero un cenno negativo, spazientiti e amareggiati; si trattava pur sempre del loro lavoro, il mestiere che avevano coltivato per anni, la specialità che li aveva resi ineguagliabili e unici nel loro genere, delle perle poliziesche sempre al massimo del loro splendore – ma non allora.

«Solo terriccio ed escrementi animali, Capitano.»

«Sempre molto preciso nei rapporti, sei!»

Uno di loro si mise a ridere apertamente, consapevole tuttavia incurante della pessima situazione in cui versavano le indagini; se un comune umano fosse stato lì, in mezzo a loro, avrebbe sicuramente definito quella risata con l’aggettivo raccapricciante: acuta, con una punta di divertimento e tutto il resto cattiveria, un ghigno sovrannaturale e amplificato dal suo pessimo senso dell’umorismo.

«Per cortesia, falla finita», lo rimproverò l’uomo con la carica più alta.

Ma egli continuò a sbellicarsi, quasi forzando il proprio riso sinistro; per tale mancanza di serietà, venne nuovamente ammonito. Rispose, dunque: «Andiamo, cerchiamo di dare una svolta positiva alla giornata.»

«Devi prenderla con negatività, invece. Ti rendi conto di quello che significa, vero?»

«Certo che lo so. L’avrò sentito dire almeno venti volte, qual è il nostro obiettivo.»

«Se è così, faresti meglio a preoccuparti.»

Cambiò improvvisamente umore: da esplicitamente divertito si trasformò in una lastra ghiacciata e pungente. «Preoccuparmi? Io?» Schioccò la lingua. «È quello lì che deve coprirsi il culo, non io.»

I soldatini più semplici rabbrividirono di paura, sforzandosi di non darlo a vedere: e se il Grande Capo avesse udito quelle parole? Quali sarebbero state le conseguenze per tutti? Conoscevano bene la sua ira…

«Sì, tu.»

«Ma fammi il piacere!»

Avrebbe tanto voluto saltargli al collo per azzannarlo – era un desiderio che stava ribollendo nelle sue vene come lava incandescente in un vulcano in attività. Si mantenne, tuttavia, curandosi dell’immagine di sé che avrebbe lasciato ai sottoposti che, tremanti e insignificanti, stavano assistendo a quello strambo teatrino messo in piedi dai due capitani della repentina spedizione, poli opposti nell’aspetto fisico e in quello caratteriale.

«Io lo posso far fuori quando voglio, quel figlio di puttana», sputò. «Non è e non sarà mai nessuno.»

«Te lo ripeto. Datti una calmata.»

«Lo ammazzo, quello!»

«Shin!», tuonò allora. La sua pazienza stava velocemente gocciolando via insieme alla bava alla bocca. «Piantala.»

L’altro sgonfiò il petto, intimorito dal rimprovero più severo – anche se non l’avrebbe mai ammesso. Confessò: «Fratello, non mi sta bene fare il burattino di quello. Mi fa incazzare, non voglio essere comandato.»

Per l’ennesima volta, non diede peso alla presenza degli altri: era sicuro al cento per cento che nessuno di loro avrebbe fatto la spia. «Concordo pienamente. Ma ricorda, la pazienza è la virtù dei forti.»

Shin esibì l’ennesimo ghigno. «E i forti vincono.»

Sorrise malvagiamente anche l’altro. «Proprio così.»

Il morale collettivo si risollevò tutto d’un fiato, come se avessero ricaricato le energie con delle batterie nuove di zecca; eppure, una grossa questione ancora li turbava: dove era finito l’Obiettivo Sei?

 

 

***

 

 

«Di preciso, Lord, di che cosa stiamo parlando?»

«Prego?»

«La foresta pericolosa, il polmone velenoso.»

«Sì.»

«Ecco, mi stavo chiedendo, che cosa intende esattamente con questa affermazione? Che significa che è una trappola mortale?»

«Il nome. L’aria non è ossigeno. È veleno. In molti sono morti lì.»

«Già, il punto è proprio questo. Perché noi», esitò, «umane non possiamo perlustrare quella zona, mentre a voi vampiri è concesso? Esistono condizioni specifiche sul tasso di pericolosità?»

«Lascia che te lo spieghi io, Milady. Come ha detto Lord Mizukensei, quella grossa fetta di vegetazione è circondata da particelle aeriformi tossiche. Tuttavia, vivendo in questa terra, a Vamutsuchiin, le sue specie animali e i vampiri hanno sviluppato un antidoto naturale per le suddette tossine. Senza contare la prontezza del nostro sistema immunitario. Per noi sarebbe come respirare aria comune. Ma per voi umane il discorso è ben diverso, naturalmente.»

«Non potremmo indossare delle protezioni? Per esempio, non saprei, maschere antigas? Dovremmo essere libere di essere noi a decidere cosa fare e dove andare.»

Scosse la testa con fare rassegnato. «Milady, per quale motivo devi sempre complicare tutto? Sei una sadomasochista?»

 

Nonostante quelle parole, Selena l’ebbe vinta. L’evento scaturito da Reiji che, sospirando pesantemente, le dava ragione era da segnare su un calendario a caratteri cubitali – se non fosse stato per un dettaglio fondamentale: l’armata di difesa della Capitale era del tutto sprovvista di ogni tipo di protezione adatto alle umane che, tradotto a una Tara con le speranze in frantumi, significava arrendersi e seguire il piano già organizzato dagli strateghi.

Ecco spiegato il motivo per il quale si era trovata per l’ennesima volta a passeggiare per quelle strade affollate di non-vivi, circondata da occhiate disprezzanti e altre persino affamate. Nonostante il giracollo dotato di stemma reale fosse in grado di far ragionare vampiri sconosciuti e destarli dal pensiero di saltarle addosso, si toccava in continuazione i capelli rosa in modo da coprire i segni dei denti di Laito ancora freschi. “Tutti devono sapere che questo schianto è la mia ragazza”, aveva detto mentre si leccava gli angoli della bocca sporchi di sangue, ma Tara voleva solo diventare invisibile e tornare a casa il prima possibile. Si sentiva fuoriluogo, un topo che non poteva far altro che zampettare nel buio per paura di essere sgamato e ucciso senza pietà. La sua vita non era in pericolo – o almeno così credeva – ma si chiedeva in continuazione come diavolo fosse finita lì quando, due mesi prima, viveva una vita tranquilla con i suoi genitori nell’albergo di famiglia. Accoglieva i clienti con le loro valigie, non mani gelide e canini appuntiti sulla propria pelle. Sorrideva per trasmettere ospitalità, e non per salvarsi dalle occhiatacce di nobili non-umani. Chiacchierava per intrattenere clienti, non stava in silenzio per paura di mancare di rispetto a qualche importante personalità. Del resto, lei, cosa ne sapeva di chi fossero quegli esseri dall’aria diplomatica?

Il Tenente camminava con una postura austera, calpestando il pavimento con fredda gentilezza, con cadenza decisa, con una meta ben fissa nella sua testa, nonostante paresse che stesse girando in tondo. Se ne stava zitto, invogliando i suoi seguaci a fare lo stesso, emanando un’aura intimidatoria e fiduciosa allo stesso tempo – quale bislacco controsenso! Che fosse un suo potere? o forse solo una sua straordinaria capacità naturale, nata nel momento in cui aveva assunto quel ruolo all’interno delle forze militari vampiresche?

Subito dietro di lui, le ragazze si guardavano attorno alla ricerca di qualche traccia utile al ritrovamento delle due componenti mancanti da ormai troppo tempo. Eppure, nonostante la loro preoccupazione avesse raggiunto livelli decisamente alti, i loro pensieri avevano toccato anche un’altra nota dell’agghiacciante sinfonia che era Vamutsuchiin: c’era qualcosa di decisamente strano nell’aria, e nessuna di loro avrebbe dato la colpa all’odore di erba bagnata che proveniva dalla zona forestale poco più avanti; era qualcosa di molto più infimo, la buia profondità di una depressione marina improbabile da esplorare, un nascondino inquietante e ansiogeno.

«Restate indietro», le avvertì Kagesurou. «Poco più avanti c’è il confine con Haidoku.»

«Perché siamo qui?», domandò Yui con timore e timidezza. «Non dovevamo restare in città? Questa è la zona del Capitano Mabushii.»

Non la guardò neanche – era troppo insignificante ai suoi occhi. «Ho sentito qualcosa.» Si voltò senza aspettare risposte e riprese a camminare, lasciando che le umane osservassero la sua schiena farsi più lontana.

Avvertivano il pericolo e temevano di non poter resistere a quel potente richiamo: nelle loro orecchie, un urlo insonoro pregava loro di continuare con la marcia, nonostante non fosse la migliore delle idee. E l’unica tra loro a trovare il coraggio di andare avanti, fu Tara. In un attimo, infatti, si ritrovò accanto al Tenente, come se fosse stata un suo pari o un’amica di vecchia data che gli passeggiava fianco a fianco, in silenzio e la pelle ruvida a causa dei brividi.

Fu solo allora che si rese conto di quanto grave fosse la situazione in cui si era ritrovata: davanti ai suoi occhi color pece, il corpo inerme di Harumi pareva essersi tramutato in un gelido cadavere; i capelli verdi della giovane le ricoprivano il viso, nascondendo gli occhi chiusi e il colorito pallido, mentre il petto si alzava e abbassava quasi impercettibilmente, rendendo evidente che un briciolo di vita stesse ancora scorrendo nelle fibre della giovane atleta. Si catapultò su di lei, incredula e con le lacrime agli occhi: aveva bisogno di toccarla, di assicurarsi che non fosse solo un brutto scherzo dell’immaginazione – ma Harumi c’era, era proprio lì, svuotata da ogni tipo d’energia, fatta eccezione per la vitale già nominata.

«Avevo detto di rimanere indietro», sibilò Kagesurou; si stava rivolgendo non solo a Tara, ma anche alle altre ragazze che l’avevano raggiunta, terrorizzate all’idea di perdere un altro tassello del puzzle.

«Deve aver respirato troppo veleno. Dobbiamo portarla immediatamente in ospedale», decretò Selena. Si rivolse poi ai soldati che aveva alle calcagna: «Dei paramedici, presto! Chiamate qualcuno!» E loro le obbedirono senza pronunciar parola alcuna

Il Tenente restò in piedi, guardando Harumi dall’alto e restando indifferente a tutto quel dolore. «Non mi sono sbagliato, l’odore che ho sentito era il suo.» Si portò una mano alla tempia, disegnando dei piccoli cerchi immaginari con il dito indice. «Qualcosa non torna.»

Selena si rimise dritta, interessata al ragionamento del vampiro. «Cosa intende?»

La fissò privo d’espressione. «Ti senti mancare il respiro? Ti gira la testa? Provi un qualsiasi tipo di malessere fisico?»

Le sembrava di star avendo una conversazione con Reiji, perciò mantenere il petto gonfio non fu difficile – questione d’abitudine. «Affatto.»

«Esattamente. Perché in questo punto il veleno è presente, ma l’ossigeno della città prevale. È impossibile che abbia perso i sensi qui. Deve esserle successo qualcosa.»

La giovane donna non ebbe il tempo di rispondere, poiché un’altra voce prevalse sulla propria e catturò l’attenzione di tutti i presenti. «Harumi si è addentrata nella foresta ed è stata colpita da una gran quantità di veleno. Sono stata io a trasportarla fuori. Se fosse rimasta dentro solo un altro minuto, sarebbe morta.»

La prima a riconoscere la proprietaria di quelle parole, fu Tara. Alzò lo sguardo e vide una ragazza in piedi, a pochi metri dal loro gruppo: i capelli color lillà toccavano terra, ma le ciocche davanti erano strappate e dunque più corte; grosse occhiaie incorniciavano quegli occhi color corteccia, sottolineando la stanchezza di notti insonni, muscoli infuocati e spalle incurvate. Quel suo corpo era ricoperto da una veste di un candido bianco, se solo il tessuto non fosse stato sporco di terra e polvere; le stava larga, scivolandole giù da una clavicola e lasciandogliela scoperta, in bella vista un ematoma violaceo.

Non l’aveva mai vista in quelle condizioni: dove stavano le sue gonne a palloncino? E le camicette di seta? Quel suo sorriso, stupendo nonostante l’apparecchio odontoiatrico? Balbettò, incerta dei propri stessi pensieri: «Fumie-chan?» Le pareva lei, eppure era così diversa da come se la ricordava. E poi, lei non avrebbe neanche dovuto trovarsi lì.

La ragazza non accennò a muoversi. Rispose: «Mh, più o meno.»

Tara si sentì gli occhi umidi di pianto. «Cosa…? Cosa significa? Cosa ci fai qui? Tu eri in Canada, eri andata con i tuoi, dovevi stare via per tutta l’estate…»

«Sì», fece la lilla, «questi dovevano essere i piani. Ma Fumie ha visto qualcosa che non doveva vedere.»

Fu il turno di Yui di intervenire. «Perché all’improvviso parli in terza persona? Fumie-san, cosa ti è successo?»

Scosse il capo. «Fumie è in un altro luogo. Io sono solo il suo spirito.»

«Spirito?!», s’intromise Selena. «Com’è possibile? Fumie non ha fatto il rituale dello specchio!»

L’anima accennò un sorriso, ma tutto ciò che riuscì a mostrar loro fu solamente una smorfia. «Esiste un altro modo per richiamare gli spiriti sulla Terra. Loro hanno usato quello.»

«Loro chi?»

«Quelli del Mondo Parallelo.» La Fumie ultraterrena emise un sospiro. «Sono stati loro a prenderla.»

Rimasta accanto al Tenente Kagesurou, Aya fissò con intensità la persona che era apparsa; era sicura di averla già vista da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove. Incontrare quegli occhi vuoti era come imbattersi in un déjà vu sfocato, in rumori ovattati e uno strano formicolio s’era impossessato delle sue mani, ben salde nelle tasche anteriori dei suoi blue jeans. Si sforzò di non dare a vedere il proprio malessere – doveva trattarsi solo uno strambo viaggio mentale, giusto? Quello spirito aveva un’espressione così sconvolta e triste che pareva non averla neanche vista, o forse l’aveva notata eccome e semplicemente non la conosceva, quindi perché preoccuparsi tanto di un flash visivo e sensitivo durato poco meno di un secondo?

Tara scattò in piedi e avanzò verso lo spirito. «Fumie-chan è stata catturata? Dove si trova adesso? Dobbiamo andare a prenderla, non può restare lì, ovunque sia!»

La fermò stendendo un braccio in avanti, la mano aperta come un cartello di stop. Disse, con una calma che per niente si addiceva alla situazione: «Non avanzare ancora. Rischi di respirare troppo veleno e finire come Harumi.»

«Devo salvarla!», urlò Tara in lacrime. «È mia cugina, devo salvarla!»

La coscienza tentò nuovamente di sorridere. «Sì.»

«Dove si trova?», ripeté.

Fumie la fissò, vitrea e distrutta dalle torture subite nei giorni precedenti. «Azusa lo sa.»

 

 

***

 

 

Era strano.

Continuava a girarsi nel letto, rotolandosi tra quelle lenzuola profumate di buono e cuscini morbidi come nuvole bianche, la sua musica preferita a massaggiargli il padiglione auricolare – eppure il mondo dei sogni pareva irraggiungibile. Non riusciva ad abbandonarsi completamente alla pesantezza delle palpebre chiuse, al rilassamento dei muscoli delle braccia e soprattutto delle gambe, che lo avevano trascinato fino alla sua camera da letto, su quel giaciglio a baldacchino fin troppo ampio per qualcuno che normalmente dormiva come un sasso. Era il lusso che poteva concedersi, in quanto primogenito del padre e figlio prediletto della madre – nonostante tutto, percepiva la mancanza di qualcosa.

Era strano. E seccante.

Si mise a sedere, infastidito dalla stoffa stropicciata e l’eccessiva morbidezza del materasso; pensò che, forse, camminare a zonzo lo avrebbe sfinito e avrebbe potuto addormentarsi nel bel mezzo del corridoio, per poi essere trasportato indietro da dei maggiordomi di passaggio. Così si rimise le scarpe e s’alzò, sentendosi come se non fosse mai stato assalito dalla sonnolenza, la sua mente ancora impegnata a cercare una risposta plausibile a quel ronzio che aveva in testa: cos’era quella straziante sensazione all’altezza del petto?

Era strano. E seccante. E asfissiante.

Asfissiante, come se si fosse improvvisamente dimenticato come respirare, come se i polmoni gli fossero stati strappati via e la ferita chirurgica non fosse stata ricucita, come se il sangue continuasse a sgorgare, un fiume in piena eccessivamente disastroso persino per lo straordinario sistema immunitario di un vampiro di appartenenza reale. Erano anni che Shuu viveva nella più completa apatia e gli era sempre andato bene: nessuna preoccupazione, nessun rompicapo, niente di niente, solo pace, tranquillità e un buon violino ad accompagnare le sue monotone giornate. Interi anni, fino a quel momento.

Era strano. E seccante. E asfissiante. E tremendamente rumoroso.

Vagò per il castello, senza voglia e senza meta; un corpo vuoto, strisciante su quei tappeti costosi e raffinati, evitando la luce del tramonto ormai prossimo per non costringere gli occhi. Riconobbe che non era stata affatto una buona idea, poiché vedere i quadri dei suoi antenati scovarlo in ogni singolo angolo di quella gigantesca costruzione gli dava sui nervi. Detestava dover essere incatenato tra quelle mura, era allergico a tutte quelle regole e restrizioni, ed essere il successore al trono non rientrava affatto nelle sue intenzioni e ambizioni future. Desiderava solo andarsene via, lontano dalle urla dei propri fratelli e dai giudizi puntigliosi degli altri nobili, trasferirsi in un paradisiaco cottage in montagna e vivere di semplicità, ricoperto dal rumore del niente, crogiolandosi tra i fili d’erba e il birichino polline svolazzante. A rispondere ai doveri della famiglia reale, ci avrebbe sicuramente pensato Reiji: suo fratello minore era decisamente più portato per quel ruolo. Non gliene importava molto, ma l’intolleranza del secondogenito riusciva a mandarlo su tutte le furie, anche se non lo dimostrava mai apertamente. Non gliela voleva dare vinta – andarsene senza fare il minimo rumore, ecco ciò che voleva. Essere libero. Libero come Harumi.

Aprì gli occhi di scatto, risvegliandosi da un assordante stato di trance: da dove aveva tirato fuori quell’improvviso paragone? Il sorriso sprizzante d’allegria di quella ragazza gli era comparso davanti senza che lo avesse veramente voluto, come il miraggio di una fresca oasi nel bel mezzo di un arido deserto. Si grattò la nuca, a disagio, nonostante non vi fosse anima viva nei dintorni. Ci stava provando, ce la stava davvero mettendo tutta, ma i risultati erano nulli. Stava tentando di smetterla di stare in compagnia di quella umana, anche a costo di non assaggiare più quel sangue che riteneva essere fin troppo delizioso; era frizzantino come una bibita gasata, con un retrogusto dolceamaro in grado di mandarlo in estasi. Harumi Yamada era un mistero, e Shuu si stava lentamente, progressivamente e inconsciamente trasformando in una sorta di detective per decifrare quei messaggi in codice, per scovare degli indizi al fine di leggere la sua anima tormentata. Ma se nella vita aveva imparato a riconoscere l’astrattismo, il sentimento che incontrava con prevalenza era la sofferenza. Si era stancato di stare male, di provare tristezza, di piangere come un bambino, lontano dagli occhi indiscreti di amici e paranti. Il fuoco del passato di Harumi aveva spolverato un vecchio ricordo nella coscienza del vampiro – un quadro vecchio e ardente. Era stato in quel momento, in quell’incandescente maniera che aveva tratto la più grande e disastrosa conclusione della sua esistenza: lui era in grado unicamente di far soffrire. Se non si fosse affezionato a quel pastore tedesco, il cucciolo non sarebbe stato soppresso; se si fosse impegnato nello studio scolastico e nel bon ton, sua madre avrebbe sorriso di più; se non avesse voluto bene a quel ragazzino, il suo villaggio non sarebbe mai diventato un braciere. Dunque, la soluzione a tutto era allontanarsi e svuotarsi: quale modo migliore per non addolorarsi più?

Aveva funzionato ottimamente, almeno fino a quando quella ragazza non aveva fatto capolino dalla porta della villa. Energica e travolgente come un tornado, aveva messo a soqquadro tutto, facendo crollare le certezze di carta di Shuu. Gli trotterellava attorno, rideva a gran voce, s’afferrava la pancia con le mani per sorreggersi dalle eccessive risa, gli saltava addosso per farlo arrabbiare, anche se sapeva che andava sempre a finire con un morso e sangue succhiato via, ma lei non perdeva mai quel sorriso contagioso. Era semplice, sincera e spontanea, un tormento in grado di superare il volume della musica e dei pensieri, però era anche profonda e matura; in segreto e in silenzio, persino con se stesso, aveva adorato quando l’aveva vista alle prese con i bambini del paese nel quale abitava: quei marmocchi pendevano dalle sue labbra e l’avrebbero seguita in capo al mondo, fedeli e leali a sua immagine e somiglianza. E quella chioma verde gliela ricordava per davvero, quell’infinita distesa di campi primaverili in cui avrebbe voluto trascorrere il resto della sua eterna esistenza.

Una morsa al cuore immobile accompagnò un tragico ricordo – averla vista in quelle condizioni disperate, rinchiusa in quella sfera del dolore, era stato il colpo di grazia. Si era sentito infuriato col mondo, avrebbe voluto tirare innumerevoli pugni a qualsiasi cosa e non era neanche in grado di coglierne la motivazione. Osservare quell’umana in lacrime davanti al cadavere del proprio fratello era stato distruttivo. Un unico pensiero era passato per la mente del maggiore dei fratelli Sakamaki: “Non soffrire, non tu”, perché non se lo meritava affatto. Ma Harumi era stata male eccome, e per di più era anche sparita. Perché non l’aveva fermata?

Shuu si lasciò scappare l’accenno di un sorriso, incerto tra il tenero e l’amaro. Il suo intento era tenerla il più lontano possibile, prima che lasciarla andare diventasse completamente impossibile, prima di affezionarsi, prima di provare qualcosa per lei, prima di desiderare di volerla accanto per davvero. Nonostante tutti i suoi sforzi, riconosceva d’aver fallito.

Harumi era strana. E seccante. E asfissiante. E tremendamente rumorosa.

E gli mancava più di ogni altra cosa.

 

 

***

 

 

Estrasse dalla propria tasca un walkie talkie e lo avvicinò alla bocca. «Qui Kagesurou. Mi ricevete? Passo.»

La risposta arrivò immediatamente. «Gran Capitano Mabushii a rapporto. Che cazzo vuoi? Passo.»

«Lord Mizukensei, mi riceve anche lei? Passo.»

«Affermativo. Passo.»

«Hey, figlio di puttana, non ignorare Mabushii! Passo!»

«Taci. Ho una comunicazione urgente. Passo.»

«Cosa è successo? Passo.»

«Abbiamo trovato Yamada Harumi. È stata intossicata dalla foresta. Passo.»

«L’avete già portata in ospedale? Passo.»

«D’urgenza. È probabile non superi la notte. Passo.»

«Che rimbecillita. Ma sa leggere o no il giapponese?! Asano Miki, piuttosto? Passo.»

«Negativo. Passo.»

«Te che mi dici, Mizukensei? Passo.»

«Negativo. Passo.»

«Per oggi ci ritiriamo. Passo.»

Quando la conversazione – che per nulla si addiceva a tre esponenti delle forze militari di Vamutsuchiin – fu terminata, il Tenente ripose la ricetrasmittente al proprio posto e tornò a rivolgersi alle umane; si scusò formalmente e in maniera distaccata per gli scarsi risultati delle ricerche di Miki, che pareva essersi volatilizzata in tutto e per tutto. Ma ancora non aveva fatto i conti con la furia di Kanato, che aveva atteso in silenzio tombale il ritorno delle squadre di perlustrazione sul ciglio dell’ingresso del palazzo; nonostante fosse infuriato per il gesto compiuto dalla sua bambola – aveva preferito avventurarsi chissà dove, a lui! – in cuor suo sperava facesse ritorno. Era il primo desiderio puro che gli nasceva dentro, stando ai suoi distorti e malati ricordi, e per quanto tentasse d’ignorare quell’innocente richiesta del proprio animo, non riusciva a distogliere l’attenzione da quegli occhi color oceano, da quelle labbra fini, da quella pelle pallida celante sangue così buono, così dolce e, doveva ammetterlo, così importante. Di Miki gli mancava tutto, eppure non si era precipitato fuori dalle mura reali per cercarla in lungo in largo, come invece avevano fatto i suoi fratelli: non era riuscito a non farsi sopraffare dal dolore, da quella rabbia che anche il quel momento gli ribolliva nelle vene, tanto da farlo assomigliare a una pentola a pressione o, maggiormente pericoloso, a una bomba a orologeria. Aveva semplicemente lasciato che se ne occupasse Teddy, sotto il consiglio dell’ex magone stesso.

E quando vide tornare le umane a mani vuote, si era sentito ugualmente svuotato. La sete si faceva sentire con sempre più intensità, e non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe potuto trattenersi. In condizioni normali, non si sarebbe fatto problemi a lasciarsi esplodere – ma a Vamutsuchiin nulla sarebbe stato a posto. Era consapevole che se avesse rovesciato anche un solo spillo, le conseguenze non sarebbero state liete e lievi. Dovette costringersi a correre via, diretto alle proprie camere, dove aveva intenzione di rinchiudersi e sfogarsi, l’unico luogo in cui nessuno avrebbe potuto interferire.

Era infuriato e così triste; si sentiva abbandonato dall’unico essere vivente a cui teneva per davvero, all’infuori del suo migliore amico. Miki era semplicemente tutto, e così com’era arrivata, se n’era andata. Una coltellata all’altezza della pancia, un dolore indescrivibile persino per un essere immortale come lui, che di ferite ne aveva sentite tante nel corso della sua longeva vita.

Tirò un pugno sullo scrittoio della camera da letto dipinta di viola, riducendolo dapprima in due irregolari metà e successivamente in migliaia di minuscoli frammenti. Urlò: «PERCHÉ MI FAI QUESTO?!» Pianse istericamente, ferendosi le mani con schegge di legno e chiodi arrugginiti, poiché erano passati troppi secoli da quando erano stati fissati a quel mobilio.

Gli faceva male la testa, ma continuò a sbatterla contro il muro, nel disperato tentativo di perdere i sensi, di sparire per sempre, di dimenticarsi di ogni dispiacere una volta per tutte. Le guance gli solleticavano a causa delle lacrime e i suoi stessi canini gli stavano spaccando le labbra, quella stessa bocca che tanto avrebbe voluto poggiare su quella di Miki prima di abbandonare completamente quel mondo che detestava con tutto se stesso, quell’odio represso e manifestato e mai sufficiente per colmare quello strangolante senso di vuoto che lo accompagnava sin dalla sua sciagurata nascita.

«Torna, Miki-chan», supplicò al nulla, sussurrando come se stesse confessando un segreto. «Torna da me, torna da me, torna da me.» Era un disco rotto, un repeat infinito, un vinile incantato su quella nota dolente e sanguinante. «Torna da me, torna da me, torna da me, TORNA DA ME!»

La porta si spalancò; Teddy corse sulle proprie gambe corte e affiancò Kanato, reggendogli la testa ferita e le spalle tremanti. «Respira.»

«No.»

«Respira.»

«NON VOGLIO!»

L’orso di peluche sospirò, tentando di nascondere la medesima tristezza. «Non peggiorare la situazione, Kanato.»

Il violetto si voltò a guardarlo, il suo viso stropicciato e distorto. «Miki-chan mi ha abbandonato.»

Teddy abbassò il capo, ricordando il contenuto della lettera che la ragazza aveva scritto per il vampiro; non era un testo lungo, piuttosto era coinciso, pulito, esaustivo e devastante. “Non mi dimenticare, Kanato-kun”, era una delle frasi più dolenti contenute nella missiva, “perché io non posso dimenticarti”. Una dichiarazione d’amore mascherata, una dolcezza da far sorridere ma che riusciva solo a farlo piangere, a farlo contorcere dall’amarezza – che il lieto fine non esistesse per lui?

«Tornerà.»

Il vampiro lo guardò, rimanendo per qualche istante in silenzio. «Ne sei sicuro, Teddy?»

Abbassò il capo. «Per niente.» Non gli diede il tempo di rispondere, poiché aggiunse: «Ma tu devi credere in lei. Parliamoci chiaro, Miki-chan è deboluccia, ma ho visto il modo in cui ti guarda. Farà di tutto per tornare da te. L’ha anche scritto.»

Tirò su col naso, le lacrime ancora a sgorgargli dagli occhi. «Il modo in cui mi guarda?»

Teddy annuì, sicuro di sé. «Ti guarda esattamente come tu guardi lei. Siete innamorati.»

Kanato s’imbrunì ancora di più. «L’Amore non è fatto per i vampiri.»

L’orsetto gli carezzò il capo. «L’Amore è irrazionale, è imprevedibile. Va dove gli pare e se ne frega dei pregiudizi e degli stereotipi. E Kanato, tu meriti di viverlo appieno.» Fece una breve pausa, tamponando con della stoffa la fronte insanguinata del ragazzo. «È la cosa più bella che ci sia, una soddisfazione che va oltre all’appagamento fisico che conoscete voi vampiri.» Accennò un sorriso. «Per esempio, guarda Laito come si è rincretinito per la ragazzina con i capelli rosa. Stravede per lei, eppure non la sta toccando neanche con un dito.»

«Il sangue», lo interruppe, cercando appigli immaginari dove aggrapparsi. «Miki-chan mi serve per il sangue. Non posso vivere senza quello.»

«No, Kanato», gli rispose. «Tu potresti uscire da questa stanza e andare a caccia di prede. Potresti catturare decine di donne, prosciugarle e aggiungerle a quella tua collezione. Ma non lo stai facendo.»

Rimasero in silenzio per alcuni attimi, contemplando un oggetto invisibile dinanzi ai loro occhi.

«Non stai andando a caccia, perché tu vuoi Miki-chan. Perché sai che niente e nessuno potrebbe sostituirla.»

«Mi ha lasciato solo. Se n’è andata. La odio. La voglio ammazzare.»

Teddy scosse la testa. «Non ti ha lasciato solo. Se n’è andata per un nobile scopo. Vuole dimostrare a se stessa e a tutti di essere forte, di essere degna di stare accanto a te, che sei di gran lunga più potente.»

Kanato sgranò gli occhi, le mani strette in due pugni ferrei e immobili.

«E poi», continuò il peluche animato, «tu la ami. E vuoi solo proteggerla dal mondo.»

Il vampiro ricominciò a piangere, stavolta in silenzio e con il capo chino.

 

 

***

 

 

Guardarono Kanato correre via tra le urla e tra le lacrime, provando in cuor loro il desiderio di comportarsi allo stesso modo.

In contrapposizione al violetto, Shuu era rimasto completamente immobile, in piedi al centro di uno dei saloni che ingrandivano il perimetro e l’area della residenza del Re; i suoi soliti auricolari non erano ancorati alle sue orecchie, bensì erano scivolati giù, poggiandosi sulle possenti spalle coperte da una maglia bianca, eppure addosso gli pareva di avere un’incudine di abnormi dimensioni. Aveva sentito ciò che aveva detto il Tenente Kagesurou alla ricetrasmittente, e aveva ben visto le espressioni cadaveriche delle altre umane. L’ennesima ondata di pungente consapevolezza s’abbatté su di lui: era tutta colpa sua.

«Avresti potuto fermarla.»

A girare e affondare il coltello nella piaga non fu la rabbia di Selena, né il sarcasmo di Tara; a parlare era stata Yui, sul suo volto delusione e rassegnazione.

Il vampiro non rispose, a corto di argomentazioni.

«Avresti potuto fermarla», ripeté la bionda, «ma non l’hai fatto. Ci avresti impiegato cinque secondi.» Gli mostrò la mano pallida. «Un secondo per alzarti», e abbassò il pollice. «Un secondo per raggiungerla», e abbassò il mignolo. «Un secondo per afferrarla», e abbassò l’anulare. «Un secondo per portarla indietro», e abbassò il medio. «E un secondo per impedirle di dimenarsi e fuggire di nuovo.» Abbassò l’ultimo dito, portando poi il pugno chiuso al lato del proprio corpo.

Il biondo non abbandonò il silenzio, limitandosi a distogliere lo sguardo dagli occhi di Yui.

Quest’ultima continuò: «Cinque secondi, Shuu-san. Ma tu hai preferito dormire.»

Schiuse le labbra e disse piano: «Mi dispiace.» Eppure, anche quelle scuse gli parevano inutili e ininfluenti – pronunciarle gli era costato una fatica immensa, ma quell’energia impiegata per parlare era immediatamente svanita nel nulla, dinanzi alla tragica realtà dei fatti.

Fu allora che l’umana scoppiò a piangere, rifugiandosi tra le braccia di una Kin tremante di dolore e rabbia; se avesse avuto le voce, si sarebbe messa a sbraitare contro il primogenito dei Sakamaki, gli avrebbe addossato un miliardo di sensi di colpa e non ci sarebbe andata piano come aveva fatto Yui. Si limitò a stringere l’amica tra le braccia, mentre lei continuava a lacrimare. «Harumi-san morirà», balbettò. «Non voglio che muoia, non voglio!»

Selena si accostò a lei, scostandole i capelli dal volto bagnato. «Sai bene quant’è caparbia. Ce la farà.»

Yui annuì, cullando a sua volta la tristezza di Kin.

In quel momento, Aya si voltò per guardarsi indietro: aveva sentito qualcosa, come un richiamo, un sussurro del proprio nome, un fruscio d’aria quasi impercettibile. E i suoi occhi confermarono ciò che le orecchie avevano udito. Il Capitano Mabushii avanzò attraverso la porta della sala, marciando con serietà e arie di grandezza; alle sue spalle, i fratelli Sakamaki mantennero il medesimo atteggiamento.

Teddy si guardò rapidamente attorno, colto da preoccupazione e malessere. «Kanato?», domandò per sapere informazioni.

Aya rispose: «È corso via.»

L’orsetto si lanciò al suo inseguimento, già conscio di dove il suo migliore amico si fosse diretto.

Mabushii prese la parola, rivolgendosi a Kagesurou: «Mizukensei è rimasto fuori. Ha detto che doveva controllare delle cose.»

«E a te non è fregato nulla.»

«Io dovevo cercare due verginelle umane. Non me ne frega un cazzo del resto.»

«E se riguardasse i paralleli? Sei imbarazzante.»

«Bada a come parli, merda ambulante.»

Reiji s’impose tra i due nel tentativo di placare gli animi; eterni rivali, ecco chi erano Mabushii e Kagesurou: il fuoco infernale e il freddo polare, l’azione immediata e la tattica infima, la luce accecante e il buio assorbente; si punzecchiavano, si sfidavano, il primo con rigorosa evidenza e il secondo con velata nervatura, perché erano troppo diversi tra loro per far parte di una fraterna cooperazione per un bene comune.

Non prevalsero i rimproveri del secondogenito Sakamaki, bensì una sola parola pronunciata da una voce femminile: «Azusa-kun».

Il vampiro in questione volse il capo in direzione di Tara – era stata lei a chiamarlo; la trovò con il viso ombrato poiché inclinato verso il basso, ma ben presto lo rialzò, facendo incastrare i loro rispettivi occhi. La ragazza marciò verso di lui e, inaspettatamente, lo afferrò per il colletto della camicia e lo strattonò. «Dimmi dov’è Fumie-chan.»

Lui sgranò gli occhi. «Fumie?»

Mantenne la voce ferma, nonostante avesse gli occhi rossi di pianto. «Dimmi dove cazzo è Fumie-chan.»

Laito s’accostò alla ragazza, mentre Ayato domandava: «Che cosa sta succedendo?»

Tara guardò il terzogenito, senza tuttavia mollare la presa dall’indumento di Azusa. «È molto semplice», scandì. «Questo qua ci sta nascondendo troppe cose importanti. E non mi sta affatto bene.»

Azusa deglutì, ingerendo la propria saliva. «Come fai a sapere di Fumie?» In condizioni normali, avrebbe finto di non sapere nulla, ma la rabbia che emanava Tara suggeriva che ogni tentativo di difesa sarebbe risultato vano.

La ragazza rispose: «Abbiamo incontrato il suo spirito appena fuori dalla foresta Haidoku. È stata lei a trarre Harumi in salvo.»

Il vampiro parve riflettere ad alta voce. «Il suo spirito, mh? Se l’hanno lasciata andare, vuol dire che la situazione si sta complicando.»

Si avvicinarono anche Kin, Selena e Yui, circondando Azusa in una morsa di preoccupazione e curiosità; anche i fratelli Sakamaki si fecero attenti: nessuno tra loro sapeva chi fosse la Fumie di cui stavano parlando, però quel discorso stava prendendo una piega contorta e di fondamentale importanza per il proseguimento delle questioni politiche e sociali che l’intera Vamutsuchiin stava affrontando.

«Di quale situazione stai parlando?»

Azusa prese le mani di Tara e se le scollò di dosso con gentilezza. «Ascoltatemi bene», iniziò con lentezza e rivolgendosi alle umane. «La prigionia di Fumie è solo uno dei punti di cui sono a conoscenza. Non è un bel momento per parlarne, perciò vi chiedo di pazientare solo un altro po’. Presto vi sarà tutto più chiaro.»

«No, Azusa-kun!», sbraitò Tara. «Non posso aspettare ancora! Mia cugina è tenuta prigioniera e io devo andare a tirarla fuori da quel posto di merda!»

«Tara-san, tu non puoi fare un bel niente», le rispose il finto umano. «Quella roccaforte pullula di controlli e brutte fecce. È meglio che se ne occupi qualcun altro.»

«Qualcun altro chi?!»

«Non temere», rispose Azusa, scoccando un’occhiata ai fratelli Sakamaki. «Presto saranno qui.»

 

 

***

 

 

Un sonno agitato aveva preso il sopravvento sul suo riposo, che tanto aveva desiderato fosse tranquillo prima di coricarsi.

Selena era fisicamente esausta e mentalmente distrutta. Prima di partire per quella folle avventura aveva immaginato che sopravvivere non sarebbe stato affatto semplice, eppure mai avrebbe potuto prevedere il realizzarsi di un tale disastro. Le pareva di trovarsi di fronte all’eruzione di un enorme vulcano: per quanto tentasse di fermare l’inesorabile avanzare della lava bollente e dei fumi e della cenere, si ritrovava a tossire a causa dell’aria irrespirabile e a fuggire a gambe levate, alla ricerca di un nascondiglio resistente alla forza di Madre Natura.

Neanche nei sogni, ormai, riusciva a trovare un soffio di sollievo. Ma quello che le era apparso dietro le palpebre era ben diverso da un comune incubo che chiunque avrebbe potuto concepire. Davanti a sé, circondata nel buio più totale, una piccola perla fatta di luce prese a parlare contro ogni aspettativa degna di un mago della predizione: “Domani, Selly. Fai attenzione a domani”.

La blu s’agitò tra le coperte, ancora incosciente. «Domani? Cos’altro succede domani?»

“Domani, Selly. Ormai è domani.”

«Cosa sei?»

“Sono te.”

«No. Cosa sei?»

“Te, Selena. Ti sto parlando dal Mondo degli Umani.”

Stava sostenendo una conversazione con la propria anima, eppure non riusciva a riconoscerla: quella voce era diversa, alterata, disumana perché angelica, un calore rassicurante, eppure non portava buone notizie con sé.

«Domani cosa?»

“Isako.”

«Isako? Che significa?»

“Domani.”

«Cosa succede domani a Isako-nee?!»

“Domani. Isako. Non puoi farci niente.”

«Parla, cazzo! Ti prego, dimmi che sta succedendo!»

La sfera luminosa parve sorridere: “Buona fortuna”. Scomparve nel nulla, così com’era venuta.

Selena si svegliò urlando, il suo corpo imperlato di sudore.

 

 

 

 

Angoletto dell’Autrice!!

La sessione estiva è finita e io SONO TORNATA! Studiare per gli esami è stato estenuante, ma sono ancora viva. Non ho impiegato molto tempo a scrivere questo chappy, quindi conto di battere il prossimo il prima possibile!

A parte la comparsa degli Tsukinami (vi aspettavate anche loro??), avete capito cosa sta succedendo? Cosa accadrà ‘domani’? Chi è Fumie e che cosa ha visto? Perché Aya si guarda sempre attorno? Harumi riuscirà a superare la notte? Dov’è finita Miki? Shuu la smetterà di dormire? A chi si riferisce Azusa? L’anima di Selena, cosa le ha detto? E dove sono finiti Karlheinz e le sue mogli? Tutte queste domande troveranno presto le loro risposte, se continuerete a seguire questa storia! Fatemi sapere che ne pensate ^^

A presto,

–Channy

 

 

Post Scriptum: nel prossimo capitolo ci sarà una sorpresa per farmi perdonare per l’assenza ;)

  
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