The world on the right
– I parte –
I riflessi di Marco non sono più quelli di
una volta.
Tutto ciò che avviene alla sua destra, di fatto, per lui non esiste.
È una logica sbagliata; estremamente limitata
e limitante.
Se ne rende conto da solo, e non ha bisogno di alcuna comprova di ciò.
Del resto, se realmente fosse così, pure Jean che nel bel mezzo di una riunione
strategica si accascia a terra allora non dovrebbe esistere.
Certo, non sa se prima ha barcollato, se ha mostrato segni di affaticamento, o
altro. Non saprebbe dire proprio nulla.
Sono giorni che Jean è sempre alla sua destra; più o meno da quando ha
deciso che al posto di una pietra, su quel litigio, Marco ci avrebbe messo
silenzi e respiri rumorosi.
Sa solo che è avvenuto.
Ed è avvenuto proprio in quella discarica di non-esistenza in cui lo ha
crudelmente rilegato.
“Jean—?”
Solo adesso si rende conto di quanto alle sue labbra sia mancato articolare
quel nome.
“Jean!”, grida.
Prima che possa anche solo raggiungerlo, altri lo hanno già fatto al posto suo.
“Che cosa è successo?”
“Jean!”
“Jean—! Che succede, Jean!?”
“Spostatevi!”
C’è anche lui a terra, adesso. Jean è
rientrato alla sua sinistra appena in tempo perché ne veda il volto e il collo
percorso dalle mani leste della caposquadra Hange che, spasmodiche, si muovono
e si allungano interrogando punti che a Marco fanno paura.
“State tranquilli – sta bene, sta
respirando.” si premura ad annunciare al suo pubblico la scienziata, sollevando
una mano, ed è più o meno il segnale che i suoi polmoni malconci attendono per
tornare ad espandersi ancora.
“È bollente. Ha la febbre alta.” Il palmo di Hange sembra non riuscire a
credere a ciò che sente sulla fronte di Jean; il retro della mano scivola sul
collo, spera forse in una risposta migliore che, però, non trova.
“Da quanto tempo sta così male?!”
“I—io—” balbetta, sente lo sgomento fluirgli
in volto “Io non lo so—”
La parte razionale di Marco sa che la nota di amarezza nel tono di Hange non è
rivolta a nessuno se non alla situazione stessa. Eppure, proprio quella parte,
sembra accidentalmente finita insieme a tutte quelle cose che adesso è incapace
di percepire; perché altrimenti non sentirebbe le viscere lacerarsi come se
venisse divorato da qualcosa di peggiore di un gigante.
“Jean,” Hange si volta, colpisce in punta di dita le guance sudate “Jean, mi
senti?!” gli scuote le spalle, poi il petto. “Jean!” chiama ancora.
Per un attimo, quello stupido sembra
ridestarsi; lo fa nel momento in cui il Comandante Smith allunga un braccio per
allentare ulteriormente il colletto del cappotto, portando al termine ciò che,
nella foga, Hange ha lasciato a metà.
Ed è a quel punto che Jean mugola qualcosa che
suona più come un lamento.
Fa per riaprire gli occhi, ma dopo i primi tentativi andati a vuoto, rinuncia;
probabilmente in favore ad un mondo meno arcigno.
“Portiamolo subito in infermeria, Moblit,” comanda Hange, dopo aver
supervisionato il modo in cui il suo assistente lo solleva di peso e se lo
adagia al petto, “Nifa, vai in laboratorio, ci sono
degli antifebbrili in infusione. Prendi quelli sullo scaffale in fondo,
dovrebbero essere quasi pronti. Ne velocizzeremo la sedimentazione in
infermeria. Abel, tu rimani qui. Annota sul rapporto quanto stabilito da Erwin
circa le munizioni di domani e trasmetti le informazioni al reparto
rifornimenti.”
“Signorsì.”
“Non sarà nulla di ché, vedrai—”
Marco si volta solo quando la mano poggiata su ciò che resta del suo braccio
destro comincia a parlare.
È Sasha. Che lo guarda come un ingrato
come lui non dovrebbe mai essere guardato.
“Dovresti dire al tuo fidanzato di mangiare di più. Negli ultimi giorni
ha a malapena toccato cibo.”
Dovrebbe dirgli tante cose in realtà; a patto che Jean voglia ancora sentirle.
---
“Non so—cosa diavolo mi sia preso—e neanche,”
Jean batte i denti, muove lentamente il viso da un lato e poi dall’altro del
tavolo operatorio in una smorfia ad occhi chiusi – “N-neanche perché—perché
abbia parlato in quel modo…”
La vista di Marco non è più quella di una volta.
Gli è rimasto un solo occhio, e anche quello a volte non è perfetto.
Sotto il panno imbevuto d’acqua ghiacciata che Moblit preme sulla fronte però,
le vene delle tempie di Jean può vederle fin troppo bene. Sono rigonfie e
pulsanti, quasi trasparenti.
Vede anche le fasce muscolari del collo tendersi quando il panno si sposta su
di esso, lo sente soffiare e schioccare la lingua sul il palato allo stesso
modo in cui ha fatto quando lui ha gettato ai suoi piedi la giacca
dell’uniforme, voltando le spalle al suo nome gridato nel vento.
“Ha quaranta di febbre.”
Hange non si scompone. Assorbe la notizia con composta dignità, mentre
concentrata, travasa e miscela varie fiale sul bordo del tavolo.
L’occhio di Marco ha deciso di lavorare così bene però da catturarlo, quel
cipiglio angosciato che al di là delle lenti, le arriccia gli angoli degli
occhi, anche se solo per alcuni istanti.
“Non sono dati attendibili,” risponde
distaccata, senza distogliere l’attenzione da ciò che sta facendo. Declina con
un cenno della mano il termometro che il suo assistente le porge,
“La temperatura non si misura nel modo e nel luogo in cui intendi tu,”
Moblit schiude la bocca per dire qualcosa.
Poi, arrossendo, sceglie di tacere.
“Sta tranquillo, è un antifebbrile potente, questo”.
Lo descrive a lui, quasi come ne attendesse l’approvazione.
Prima che Marco si chieda il perché, Hange si è già appostata accanto a Jean,
recuperandone la pezzuola che all’allontanarsi di Moblit verso la
strumentazione in ebollizione, è scivolata su di un lato del cuscino. La bagna
di nuovo, la poggia sulla guancia di Jean.
“Jean—” chiama, chiudendone la faccia tra le mani, come fosse un uccellino da
maneggiare con cura.
Marco ha un sussulto nel vedere le palpebre di Jean fluttuare, “ho bisogno del
tuo aiuto per capire come farti stare meglio,”
Jean schiude gli occhi in due linee sottili e acquose, incrocia lo sguardo
della caposquadra intontito,
“Ma—Marco—” bisbiglia, e Marco non saprebbe
neanche spiegarsi quand’è che i suoi piedi si siano mossi sino a raggiunger il
suo capezzale.
“È qui,” trilla Hange, dalla destra
che non vede. “Guardalo, è proprio qui con te!” lo trascina bruscamente per la
una spalla, la batte con vigore per rimarcarne la presenza.
E al diavolo la decenza, nel suo campo
visivo, Marco ci entra forza, occupandolo per intero così come per intero
occupa il suo.
“Marco—” bisbiglia ancora, questa volta senza
voce.
Perché i suoi occhi, al di là di qualsiasi febbre, lo trovano.
Lo trovano, e si appigliano al suo viso come fosse l’unica cosa al mondo capace
di tirarlo fuori dalla sua destra, da quell’ingorgo di silenzio e
inutilità in cui lui, come il più crudele degli idioti, lo ha da giorni
rilegato.
“Non so davvero…perché ti ho detto quelle
cose orrende—”
Il mento tremolante e quell’espressione impaurita è solo ciò che non riesce a
trattenere, perché se Marco provasse solo a immaginare l’orrore dello stare alla
sua destra, la sua limitata fantasia fallirebbe nell’immaginare cosa ne
verrebbe fuori.
Quel labbro inferiore dischiuso, proteso in
avanti come ogni qualvolta Jean trattiene qualcosa di scomodo, Marco lo
battezza con una lacrima, che si affretterebbe ad asciugare prima che Hange
possa vederla, se solo ad essa non facesse seguito un’altra, e poi un’altra e
poi un’altra ancora.
“Mi dispiace, Jean—” bisbiglia, chino sul suo viso, le labbra a strofinarne
tempie salate “Mi domando come tu possa stare così male per un idiota come me—”
“Che sciocchezze! Mica sta ‘così male per un idiota come te’ –” fa eco Hange, insaccando la
testa nelle spalle, “sta male perché il nostro caro Jean ha avuto la
splendida idea di prendersi qualcosa, e di prendersela proprio bene. Per
cui, adesso, sarà così gentile da aiutarmi a scoprire cos’è, e poi sarà tutto a
posto, dico bene, Jean?”
Jean risponde roteando gli occhi nelle
palpebre pesanti, che non è esattamente la risposta più attesa ad una simile
domanda, ma la scienziata non sembra intenzionata a perdersi d’animo.
Marco solleva la testa, tira su con il naso, e tra i singhiozzi si lascia
consolare dalla mano che Hange gli strofina un paio di volte tra le vertebre,
prima di guidarlo fuori dallo spazio in cui deve lavorare.
“Non ho idea di cosa sia accaduto tra voi, ma
qualunque cosa sia, non mi sembra irrisolvibile, no?”
Lo sguardo che gli regala, è lo stesso che sia lei che Jean gli hanno regalato
tante e tante volte durante i suoi interminabili mesi di convalescenza, e che
col tempo, ha cominciato a considerare come una sorta di balsamo per ferite che
non può vedere.
“No,” Marco scuote la testa, si passa la mano sul volto, “No, non lo è—" o
per lo meno, lo spera. Si passa anche la mano sotto la benda che gli copre
l’occhio destro, soffoca l’ennesimo singhiozzo.
“Devo solo riuscire a farmi perdonare—”
“Beh, dovrà riuscire a farsi perdonare anche lui da te, visti gli spaventi a
cui ti sottopone—”
Il cappotto di Jean, Moblit lo ha rimosso già da prima, la camicia è dunque la
prossima a cadere.
Hange sfila ad uno ad uno i bottoni dalle asole senza tradire più di tanto il
nervosismo del vedere Jean tornare a boccheggiare affannoso contro il cuscino.
Ne scopre il petto e l’addome, lo passa velocemente in rassegna sotto le lenti prima di toccarne dei punti specifici dei fianchi e
dello stomaco.
“Jean—?” chiama, “Sai dirmi cos’è successo? Hai dolore da qualche parte in
particolare?”
L’acqua gelida della pezzuola che Marco ha
appena rinnovato si divide in gocce e poi in rigagnoli, che come pulci
impazziti, corrono lungo la sua fronte disperdendosi in vari punti del suo
volto, e il fastidio è sufficiente per far sì che blateri qualcosa.
“Jean?”
“T—tutto—” sibila, tra i denti
stretti.
“Cosa?”
Tende gli avambracci perpendicolari al
torace, le nocche delle mani serrate ai bordi del lettino sbiancano. “Fa male—tutto—”
“Caposquadra, l’antifebbrile è pronto—”
annuncia Moblit come un messaggero dal cielo; e Hange non se lo fa dire due
volte.
---
“Non ami le iniezioni, lo so—” anticipa Marco
sospirando, perché non gli piace per niente il modo in cui Jean sta fissando
ciò che Hange ha in mano.
Probabilmente è solo un suo timore; nei rari istanti in cui sono aperti, le
pupille di Jean sembrano fuori fuoco. I denti, troppo impegnati, a battere non
gli permettono di proferire parola, ma c’è qualcosa nel modo in cui il suo
respiro affannoso si interrompe di colpo ogni qualvolta Hange cambia posizione,
che fa credere a Marco che quella mano sulla guancia, che con poca convinzione
tenta di voltarne il viso dall’altro lato, è esattamente dove dovrebbe stare.
“Questa temo dovrai fartela piacere, però.”
dice Hange, soddisfatta del farmaco giallognolo che brilla adesso nella sua
siringa, e Jean diventa più o meno simile a un gatto che arruffa il pelo prima
ancora che le si piazzi dall’altro lato del letto.
“Su, su –” cantilena allegra, con una nota di
sadismo, “Una punturina mi sembra un prezzo tutto sommato irrisorio da
pagare, se serve a sbarazzarsi di un simile febbrone da cavallo, non trovi
anche tu, Moblit?”
A labbra stirate e serrate, Moblit annuisce senza condividerne l’entusiasmo,
concentrato com’è a guidare Jean su di un fianco.
“Ci—” Marco ingoia qualcosa, ci riprova “ci
penso io, Signor Moblit. Non si preoccupi—” irrompe, perché non riesce ad ignorare
lo sguardo di Jean, e il modo in cui si è paralizzato quando la caposquadra gli
ha scostato i pantaloni dalle anche e il suo assistente ne ha immobilizzato
fianco e spalle.
È decisamente qualcosa che Marco sente di dover risolvere da sé.
Non sarà mai abbastanza, ma gli piace pensare di poter anche un po’ ricambiare
per tutte le volte in cui, imbrigliato dal dolore, era stato lui a sostenerlo.
Marco lascia cadere la mano sulle spalle
umidicce e tremanti, le cosce libere di Jean però, destano la preoccupazione
dell’assistente.
“Nei sei sicuro? Questa roba fa male—”
“Ma non dire assurdità, Moblit! Jean sentirà
a malapena un pizzico!”
Si premura Hange a correggere, con l’accompagnamento dei drammatici rantoli che
Jean ha preso a fare già da prima che la caposquadra cominci a sfregare un
batuffolo di ovatta su un lato della natica che, evidentemente, le piace molto.
La verità è, come al solito, a metà strada.
Hange lo punge in un momento in cui la mano
di Marco è sulla fronte, a tamponare con la pezza gelata proprio un punto in
cui poco prima ha sentito il calore aumentare.
Moblit frena un sobbalzo, Jean lo segue; stringe gli occhi, affonda i pugni e
un timido gemito tra il cuscino e il petto di Marco contro cui la febbre lo ha
fatto raccogliere, ma non si ribella.
Il ‘finirà in un attimo’ che Marco gli
ha sussurrato per tutto il tempo nelle orecchie come una litania, sortisce
l’effetto sperato.
“Hai visto? Non è stato così brutto, no?” squittisce Hange, massaggiando a
lungo la natica maltrattata come ogni qualvolta Marco le ha visto (più avvertito,
in verità) fare al termine di una iniezione,
“Moblit è sempre il solito esagerato. Crede che i soldati siano tutti dei
piagnucoloni come lui—”
Marco rilega a destra il tramutare del volto del vice-caposquadra Berner.
È sempre stato di una gentilezza e di una pazienza fuori dal comune con lui,
sente di dovergli questa cortesia.
“Il farmaco che ti ho somministrato potrebbe intontirti un po’, ma passerà
tutto con una bella dormita. Ad ogni modo, dobbiamo ancora capire la causa di
questo preoccupante rialzo di temperatura, perché l’antifebbrile farà scendere
la febbre ma non ne curerà la causa—”
Ed è l’estrema nonchalance di Hange a cogliere impreparato Marco, e non
sa dirsi neanche il perché – del resto, lui più di tutti, dovrebbe esser
abituato alla naturalezza con cui la caposquadra fa a meno di qualsiasi capo di
abbigliamento i suoi pazienti portino addosso.
È che avviene in un momento inatteso: Jean ha
ancora la testa affossata sul suo petto, e i suoi polpastrelli non hanno smesso
di grattarne la base della nuca, quando vede la caposquadra cominciare a
spingere verso le caviglie pantaloni e biancheria, che rimuove del tutto dopo
essersi disfatta con esemplare praticità anche degli stivali.
Marco arrossisce, e sente di farlo anche per
Jean che, intontito adesso anche dall’effetto del farmaco, sbava ad occhi
chiusi su uno dei suoi pugni, protrudendo le labbra lucide come un enorme
neonato.
Si sforza di non guardare come e dove la caposquadra stia frugando, sceglie
di concentrare alla sua sinistra solo sul volto luminoso di febbre di
Jean, sulla cui fronte, delle perle di sudore hanno cominciato già da un po’ a
fare la loro timida comparsa.
“Interessante,” Hange rompe di colpo il
silenzio, e Marco sobbalza.
Le vede sistemarsi meglio gli occhiali sul naso, fare cenno al suo assistente
di avvicinarle il lume, mentre con una mano sull’osso sacro, spinge Jean sulla
pancia.
Maldestro, Marco fa appena in tempo a far
scivolare via la testa di Jean dal posto occupato sul suo petto, prima di
vedere, con suo orrore, la caposquadra divaricarne una natica, direzionandone
la luce del lume.
“È da tanto che ha queste macchie qui?”
La mano che Marco si porta d’istinto alla bocca
per soffocare la sorpresa non sembra destabilizzarla.
Il crescente colorito paonazzo del suo assistente, neanche.
“Marco?”, richiama ancora la scienziata, in
attesa di una risposta.
“Non—non saprei—”, balbetta; il volto sempre più caldo e rosso, come se da un
momento all’altro potesse avvampare.
“Sei sicuro? Vieni a guardare meglio cosa intendo—” Il braccio che Hange stende
è troppo veloce, troppo improvviso perché la spalla di Marco possa schivarlo.
È partito da destra, non avrebbe
potuto avvisare il suo agguato neanche se lo avesse voluto.
Perché appunto, i suoi riflessi, non sono quelli di una volta.
Hange lo trascina accanto a sé, indicando in punta di dita la parete interna
della natica sinistra.
Marco riesce a vederla solo dopo alcuni secondi, ovvero quando decide ad aprire
le dita incollate a raggiera contro il suo unico occhio ancora buono.
“Ma—non state insieme voi due?”
Forse, Hange lo chiede perché il tremore e il rossore sul suo viso hanno
raggiunto dei picchi inattesi.
I dubbi, a quel punto, sono leciti.
Marco non risponde.
“Non—non lo so davvero, non—” ingoia un bozzo di saliva che scende giù pesante
e graffiante come una palla di cannone, “non ricordo—”
Evita di menzionare il fatto che Jean negli ultimi giorni sia stato alla sua destra
più di quanto avrebbe meritato.
Non è il caso.
Hange stira le labbra, mugola un ‘mmh’
poco convinto, prima di tornare a guardare lo strano arrossamento a forma di
bersaglio presente intorno all’area e perdersi tra i suoi pensieri.
Solo per un po’, però – solo per una manciata
di secondi in cui sembra divorare tutte le informazioni presenti in quella
macchia come alla ricerca di chissà quale segreto.
Poi, ridestandosi, ripiega sulla schiena i bordi della camicia appiccicata dal
sudore, rivelando una serie di macchie rosse arrabbiate. Molto arrabbiate.
Fin troppo, arrabbiate,
pensa Marco con orrore, quando su segnale di Hange, Moblit si premura a
sfilargli via la camicia.
Nessuno osa levare alcun commento.
Jean è troppo impegnato a galleggiare tra il sonno e la veglia, Marco ad
osservare le mani di Hange vagare silenziose sulla schiena di Jean ed esaminare
quelle macchie ad una ad una, Moblit ad assicurare la giusta illuminazione
all’indagine di quest’ultima.
Il silenzio cade sull’infermeria come una febbre: sono tutti in attesa di un
verdetto, di un cenno – e lo fanno respirando piano, come se temessero che
anche il rumore prodotto dai loro polmoni possa in qualche modo disturbare la
concentrazione della ricercatrice.
Eppure, c’è qualcosa di strano nel modo in cui Hange guarda quelle macchie;
Marco oserebbe definirla come una forma di diffidenza, di poca convinzione.
Le tocca, le preme ai bordi e intorno, le
osserva mentre perdono e riprendono colore, ma no – quel cipiglio non muta. E
non è normale.
Non è stupito infatti nel vedere la
caposquadra perderne interesse pochi istanti dopo.
Torna lesta alla natica di Jean, la separa dall’altra e la espone ancora.
Quella macchia sì che sembra avere presa su
di lei.
Quella sì che ha qualcosa da raccontarle.
Hange scuote la testa, contrae il labbro inferiore.
“Eppure, sono certa di averlo già visto da qualche parte—”
“No, non—non voglio un’altra iniez—ione, caposquadra
Hange…” blatera Jean ronfando, chiuso in un sonno ardente e ignorante,
fatto di bava schiumosa, implorazioni e frittate di riso.
Fine
prima parte
____________
NOTE: NON CORRETTA, NON BETATA.
Fanfiction scritta per la ‘Kinky But Not Really Challenge’ del
gruppo Hurt/Comfort
Italia; è la prima parte di una fic da 11k circa.
Posterò le parti successive con un intervallo di una settimana l’una dall’altra
(ogni domenica).
Non ha una grande
trama; me ne scuso. È puro e semplice Hurt/Comfort.
Di cattivo gusto, per
giunta.
Può essere
considerata come un continuo della mia “Never forget we were
built to last”, tutt’ora in corso; ma in realtà, è un lavoro
indipendente (grazie al cielo).
Basta tenere conto del fatto che Marco sia sopravvissuto agli eventi canonici,
rimanendone comunque gravemente mutilato.