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Autore: Soul Mancini    19/07/2021    2 recensioni
Tre momenti della vita di Bess.
La storia di una ragazza ferita dalla vita, nata in un luogo sbagliato, la cui infanzia è stata strappata via troppo presto. Tra prime esperienze. rabbia, lacrime represse e amici fedeli, imparerà a trovare la sua strada anche se nessuno gliel'ha indicata. Una bambina fragile che si tramuterà pian piano in una giovane donna piena di cicatrici sul cuore, ma più forte e matura.
- Il primo capitolo, "Forsaken", si è CLASSIFICATO PRIMO al contest "Let's Cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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Runaway
 
 
 
 
Mi misi supina sul telo da mare e chiusi gli occhi in modo che il sole non li ferisse. “Detesto questo fottutissimo costume intero, fa decisamente troppo caldo.”
Muriel si sollevò sui gomiti, si sfilò gli occhiali da sole e me li passò, poi mi rivolse un’occhiata divertita. “Devi imparare a non farti nuovi tatuaggi d’estate.”
Misi su una smorfia. “Ho imparato a fare nuovi tatuaggi quando ho i soldi per pagarli.” Afferrai l’oggetto che mi stava porgendo e lo indossai.
Gli occhiali da sole erano solo una delle tantissime cose che io e Muriel condividevamo; da quando ci eravamo conosciute, ormai quattro anni prima, eravamo diventate praticamente inseparabili. Era l’amica più stretta che ero riuscita a trovare all’Alibi, colei con cui trascorrevo la maggior parte del mio tempo, anche se non riuscivo mai ad aprirmi e confidarmi del tutto come dovrebbero fare le migliori amiche.
Non ci riuscivo con nessuno a dire il vero.
Lei si sporse appena verso di me e sorrise, alcune ciocche scure e ancora umide le piovvero sulle guance. “Dai… perché non mi dici di che si tratta?”
Risi beffarda e mi passai una mano sul fianco sinistro, là dove sapevo esserci il nuovo disegno che avrebbe marchiato a vita la mia pelle. “No.”
Lei mise il broncio. “Perché?”
“Perché lo vedrete tutti quando sarà ben guarito!”
“Ma non puoi fare un’eccezione nemmeno per me?”
Le scoccai un altro sorrisetto. “No. Non sei mica speciale!”
“Ah no? Rendimi gli occhiali allora!” Cercò di risultare minacciosa, ma le sfuggì una risatina.
“Col cazzo, li abbiamo comprati anche con i miei soldi!”
Lo sciabordio delle onde faceva da sottofondo ai nostri battibecchi, alle conversazioni e alle risate di tanti altri ragazzi come noi. A diversi metri da noi, in riva al mare, alcuni tra i più piccoli giocavano a pallone e si insultavano scherzosamente, mentre le loro voci si mischiavano a quelle di chi era immerso in acqua e si divertiva a nuotare e schizzare i propri amici; dietro di noi, il nostro fatiscente chioschetto di fiducia era gremito di gente ammassata attorno ai tavolini e il solito giradischi sul bancone diffondeva le note di un album degli AC/DC. Era incredibile come, nonostante ci trovassimo nell’anfratto più malfamato del lungomare di Los Angeles, si riuscisse a respirare quasi un’atmosfera allegra ed estiva.
Era una calda mattinata di maggio che io avrei dovuto trascorrere tra i banchi di scuola, erano passati quasi cinque anni da quando ero entrata a far parte della cerchia di scalmanati dell’Alibi e da allora nulla nella mia vita era cambiato. Le mie giornate si assomigliavano tutte tra loro, e in un certo senso mi andava bene così: uscivo, andavo al locale, qualche volta ci spostavamo a Hollywood in qualche altro pub più in vista, andavamo ai concerti e alle serate, d’estate ci trasferivamo tutti sul lungomare. Si beveva, si fumava, ci si sballava con ciò che si aveva, si scopava, si cantava e si ballava, tutto sommato ci si divertiva. Era il mio modo per sfuggire al malessere interiore che provavo e alla situazione disastrosa in casa mia.
Per quanto riguardava quest’ultima, avevo imparato a starci fuori più tempo possibile: non mancavo mai all’Alibi, non avevo rinunciato alla giornata al mare nemmeno quel giorno, nonostante il tatuatore mi avesse intimato di non esporre il nuovo tatuaggio al sole. Avevo dovuto usare un costume intero, pazienza.
Mancavo solo quando ero troppo malconcia per impersonare il ruolo della solita Bess, ovvero quando avevo il ciclo – ormai era tradizione che stessi da schifo in quei giorni – e quando ero in preda a un attacco di panico.
Mentre io e Muriel battibeccavamo e ridevamo tra noi, una pallonata proveniente dalla riva mi colpì alla gamba e non ebbi la prontezza di pararla. Infastidita e incazzata, scattai subito seduta e, una volta afferrato il pallone, trucidai con lo sguardo i ragazzini che si accingevano già a raggiungermi per riprendersi ciò che era loro.
Presi la mira e tirai dritto alle parti basse di uno dei due, facendo perfettamente centro. “La prossima volta la palla lanciatela a fanculo, okay? Buon proseguimento di partita” li liquidai, mentre il povero malcapitato si piegava in due dal dolore.
“Nervosa la ragazza!” commentò Fanny che, appena uscita dall’acqua, stava camminando nella nostra direzione e aveva assistito a tutta la scena.
Ogni volta che la guardavo non potevo fare a meno di pensare che fosse una dea: pelle ancora più abbronzata del solito, fianchi larghi, fisico da modella di origini caraibiche, bikini azzurro che aderiva perfettamente alle forme generose, capelli scuri e umidi che incorniciavano un viso angelico.
Nel primo periodo io e Muriel ci sentivamo degli esseri insulsi in confronto a lei, così minute e anonime, ma pian piano avevamo acquisito sicurezza in noi stesse e imparato da lei. A me non importavano più i paragoni, perché sapevo perfettamente come attirare l’attenzione sfruttando i miei punti forti.
Mi misi in piedi. “Che c’è? Gli ho reso la palla, tutto qui!” Mi strinsi nelle spalle e mi guardai attorno. “Mi sono rotta il cazzo di stare al sole. Non è che per caso ti serve un telo da mare?”
Fanny mi sorrise. “Me lo presteresti? Ah, grazie tesoro, io l’ho dimenticato!” cinguettò.
Restituii gli occhiali da sole a Muriel e mi diressi verso il portico in legno del chiosco, in cerca di un po’ d’ombra.
“Ehi Bess!” mi intercettò Oliver non appena mi vide salire i gradini. “Per caso hai visto Ives, Ethan e Alick?”
Scrutai per un istante il cantante biondiccio, poi lanciai un’occhiata attorno a me in cerca dei suoi compagni di band. “Li ho visti quanto te. Sicuramente Alick starà amoreggiando in qualche angolo appartato con May, mentre Ives e Ethan… staranno amoreggiando tra loro, non so. Ma posso prendere un sorso della tua birra, vero?” aggiunsi poi, accennando al bicchiere che stringeva in mano.
Lui rise. “Bess Hadley che chiede il permesso per fare qualcosa?”
Gli sorrisi sorniona, per poi sfilargli la birra di mano. “Infatti era una domanda retorica.” Presi un lungo sorso, fresco e ristoratore, poi gliela resi. “Come mai li cercavi? Qualcosa di urgente?”
Il ragazzo mise su un’espressione enigmatica. “Se te lo dico, prometti di non prendermi per il culo.”
“Non te lo posso promettere.”
“Allora niente.”
Mi puntai le mani sui fianchi per risultare minacciosa. “Parla o ti rubo nuovamente la birra.”
“Che paura!” ribatté lui in tono ironico.
“Oliver…”
Sospirò. “Da giugno comincio a vendere granite per le spiagge e quindi tutte le prove pomeridiane con gli Storm It Down salteranno.”
Mi morsi il labbro, divenni paonazza, provai qualsiasi cosa pur di non scoppiare a ridergli in faccia, ma dopo qualche istante non resistetti più ed esplosi in un accesso di risa incontrollabile. “Tu andrai a vendere granite? Col carretto colorato e tutto il resto?!”
“Sei una stronza! Io non so perché continuo ad avere a che fare con una testa di cazzo come te!” si finse offeso lui, dandomi una leggera spinta.
“Andiamo, è troppo bello! Un fottutissimo venditore ambulante di granite che passa lungo le spiagge con tanto di marmocchi urlanti appesi al carretto… Oliv, io ti adoro, prima o poi mi farai crepare!” Mi asciugai le lacrime che erano venute fuori a furia di ridere sotto lo sguardo torvo di Oliver.
“Non è divertente!”
“Oh, sì che lo è!”
“D’accordo.” Affilò lo sguardo e una scintilla fece brillare i suoi occhi verdi; prese l’ultimo sorso di birra, poi gettò a terra il bicchiere in plastica vuoto. “Visto che non hai mantenuto la promessa, adesso voglio sapere cosa ci nascondi con quel nuovo tatuaggio!”
“Col cazzo!” Incrociai le braccia al petto.
“Bess Hadley, quel costume ti sta d’incanto!” La voce di Viktor alle mie spalle catturò la mia attenzione.
Beh, d’accordo che ero stata costretta a usare un costume intero, ma non ne avevo certo scelto uno da vecchia zitella: era ovviamente nero, aveva un profondo scollo sulla schiena e un complesso intreccio all’altezza del seno che gli dava un tocco gotico.
Mi voltai verso di lui e gli scoccai un sorriso: almeno aveva apprezzato la scelta. Certo, a ricevere un complimento del genere proprio da Viktor non c’era gusto, ci conoscevamo da quando eravamo bambini e non me lo sarei portato a letto nemmeno se fosse stato l’ultimo uomo sulla Terra.
“Bello, per chi mi hai preso? Mi sta bene qualsiasi cosa” ribattei, accostandomi a lui e posizionandomi tra lui e Josh. Le sedie erano finite, quindi ero costretta a stare in piedi.
“Nulla da ridire” commentò Josh, squadrandomi da capo a piedi con uno sguardo di fuoco.
Gli picchiettai sulla schiena. “Senti un po’, mi hai portato la roba che ti ho chiesto?”
Josh era lo spacciatore ufficiale della nostra cerchia, colui che procurava ogni tipo di sostanza gli venisse chiesta. A quanto pareva si riforniva da un certo fratello maggiore di Ethan, ma non ne sapevo tanto.
Io in genere gli chiedevo soltanto un po’ di marijuana, sia perché non avevo tanti soldi da sperperare in droghe, sia perché quella, l’alcol e le sigarette mi erano sempre bastati. Una volta avevo provato la cocaina, ma ero stata inspiegabilmente male per due giorni e non ci tenevo a ripetere l’esperienza.
“Te la porto tra poco” mormorò il ragazzo con fare complice.
“Ehi ragazzi, stasera chi viene al Rainbow? Ci sono un paio di nuove band che vorrei sentire” propose Oliver, di ritorno dal bancone con un nuovo bicchiere di birra.
“Io ci sono!” accettai subito.
La mia vita andava avanti così da quattro anni e mezzo: tutto allo sbando, tutto alla giornata, ogni ora sembrava promettere qualcosa di nuovo ma in fondo era uguale alla precedente. Avevo il culto della libertà ma, anche se mi illudevo e fingevo che andava tutto bene, sentivo che la mia salvezza – quel mondo, quello stile di vita – era anche la mia prigione.
 
 
 
Spinsi la porta d’ingresso, leggermente preoccupata per quello che avrei potuto trovare: non avevo nessuna intenzione di incrociare mio padre, nemmeno per sbaglio.
Doveva essere più di una settimana che non lo vedevo, fatto che accadeva molto spesso. Così come io facevo il possibile per non tornare a casa, lui trascorreva la maggior parte del suo tempo tra bar fatiscenti e qualsiasi altro punto vendita di alcolici. Sembrava essersi dimenticato di avere una dimora e io non potevo che ringraziarlo, perché mi era ormai impossibile trovarmelo davanti senza sbottare e urlargli in faccia tutto il mio disprezzo e odio.
La piccola zona giorno era deserta, ma la voce di mia sorella mi giunse ovattata dal minuscolo andito che conduceva alle camere da letto, in cui tenevamo il telefono.
“Certo, più avanti possiamo metterci d’accordo… puoi ricordarmi le date, così le segno?”
Mi diressi verso il frigo e lo aprii, con l’intento di cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Ero quasi al verde – il tatuaggio mi era costato caro –, non era il caso di spendere altri soldi per comprare la cena d’asporto.
Non c’era tanta scelta, com’era prevedibile; nessuno si era preoccupato di fare la spesa.
“Certo, avete fatto bene. Quindi le ragazze non ci saranno? Ah, capisco! Certo, è comprensibile! Sarà una bella esperienza anche per loro, anche perché il nostro quartiere non ha molto da offrire!”
Afferrai un vasetto di yogurt e mi sedetti al tavolo, domandandomi pigramente con chi stesse conversando Yelena. Dal tono cordiale e le frasi di circostanza che stava utilizzando, doveva trattarsi di qualcuno con cui non aveva molta familiarità.
“Sì, certo, se lo incrocio glielo dico. Okay, allora ci risentiamo più avanti. Ciao zia, buona serata!”
Zia?! Non ricordavo nemmeno di avere una zia o comunque non credevo che qualche parente chiamasse ancora a casa nostra.
Udii mia sorella riappendere la cornetta e qualche istante più tardi eccola che si affacciava sulla soglia. “Ah, sei tu! Mi pareva di aver sentito entrare qualcuno!”
“Chi era?” incalzai subito curiosa, mentre mi portavo una cucchiaiata di yogurt alle labbra.
Lei prese posto accanto a me. “È una storia lunga. Allora… hai presente la zia Ruth, la sorella di papà?”
Rimestai tra i miei ricordi in cerca di qualche informazione compatibile, ma non mi venne in mente niente.
“Sposata con lo zio Lawrence…” tentò di aiutarmi lei.
“Ma chi cazzo ci ha mai avuto a che fare con questa gente?”
Yelena rise. “Effettivamente credo che io e te non li abbiamo mai incontrati, dato che hanno sempre vissuto a Londra. Ma qualche volta hanno chiamato per gli auguri di Natale e stronzate del genere.”
Mi strinsi nelle spalle, sempre più confusa. Sapevo che tutti i parenti di mio padre abitavano in Inghilterra, ma non avrei saputo ricostruire quel ramo del mio albero genealogico.
“Ecco, comunque… hanno chiamato per dire che hanno intenzione di fare un viaggio in California quest’estate.”
“Beh, buona fortuna” bofonchiai con la bocca piena.
“Vorrebbero venire a trovarci, la zia Ruth vorrebbe rivedere suo fratello dopo tanti anni. Che potevo fare? Le ho detto che non c’erano problemi.”
Lasciai cadere il cucchiaino dentro il vasetto semivuoto. “Ma sei impazzita?! Probabilmente quella nemmeno sa che nostro padre è un alcolizzato!”
Lei scrollò le spalle e si sistemò una ciocca castana dietro l’orecchio. “Ho spiegato più o meno questa situazione alla zia, lei si è dispiaciuta parecchio e ha detto che ci tiene comunque a conoscere noi due, visto che non ci ha mai visto.”
Aggrottai le sopracciglia con fare scettico e ripresi a mangiare. “Dopo sedici anni mia zia si accorge che esisto. Che culo.”
“Anche lei aveva una famiglia da tirare su.”
“Hanno dei figli?” mi informai.
“Due figlie, gemelle. Ma non so se avremo occasione di conoscerle perché i genitori hanno intenzione di spedirle in un campo estivo sulla costa insieme ad altri ragazzi della loro età.”
Ero sempre più allibita. “Cioè, fammi capire: vengono a fare le vacanze di famiglia in California e al posto di stare tutti insieme mandano le figlie in mezzo a un branco di sconosciuti?”
Yelena si strinse nelle spalle. “La gente è strana. La zia Ruth ha detto che in questo modo le ragazzine avranno modo di divertirsi e godersi davvero le vacanze in California.”
“Secondo me lei e il marito se ne vogliono sbarazzare per qualche giorno e rilassarsi in pace. Mi stanno già sul cazzo. E poi quanto devono essere ricchi per pagare il campo a entrambe le figlie?”
“Se vengono tutti e quattro a fare un viaggio di dieci giorni oltreoceano, sicuramente non stanno morendo di fame.” Yelena si alzò e si diresse verso l’imboccatura dell’andito. “Vado a prepararmi per il lavoro. Tu stasera che devi fare?”
“Il solito: mi faccio una doccia ed esco, probabilmente andrò in centro con Muriel.”
“Okay.”
Anche da quel punto di vista nulla era cambiato: mia sorella continuava a fare la prostituta per permettere alla famiglia di tirare avanti e per mantenere il vizio di mio padre, che si faceva ogni giorno più pesante e dispendioso. La situazione mi faceva ancora incazzare tantissimo, ma ormai avevo sviluppato una sorta di rassegnazione a riguardo. Tante volte avevo detto a mia sorella di scaricare nostro padre, che ci saremmo potute creare una vita senza di lui e che avrei potuto cercare un lavoro per aiutarla, ma lei non se l’era mai sentita di cambiare quella situazione. Non voleva lasciarlo al suo destino e non voleva che io interrompessi gli studi per andare a lavorare come aveva fatto lei.
Studi a cui, peraltro, non mi stavo neanche davvero dedicando.
“Non è così male fare la donna di strada” mi aveva detto una volta, forse più per rassicurarmi che per confidarsi. “Certo, i clienti non sempre te li scegli, ma se ti capitano i migliori puoi addirittura riuscire a fare del buon sesso e divertirti.”
Le avevo creduto perché, anche se non lo facevo per lavoro, sperimentavo sulla mia pelle cosa significasse scopare ogni sera con un ragazzo diverso.
 
 
 
Una sigaretta tra le dita, camminavo accanto a Muriel con passo sicuro sul Sunset Strip, quel luogo che ormai conoscevo come le mie tasche. Mi comportavo come la padrona di casa e non avevo alcuna paura di farmi notare: avevo lasciato i capelli tinti di blu sciolti sulle spalle nonostante l’aria bollente dell’estate, mi ero truccata con cura, avevo scelto i pantaloni più aderenti che avevo nell’armadio e una canotta dal tessuto leggero che lasciava intravedere il mio corpo in trasparenza, ma soprattutto mi muovevo in quel modo sicuro e sfrontato che funzionava sempre per calamitare gli sguardi.
In quegli anni avevo imparato che, ancora più dell’abbigliamento, era l’impressione che si dava di sé a determinare il successo.
Muriel era bellissima, anche se forse non ne era del tutto consapevole: sembrava la mia gemella, anche se i suoi capelli erano corvini e aveva l’aria innocente da brava ragazza che comunque mieteva le sue vittime. Pareva più timida e insicura di me, ma non si tirava indietro quando c’era da divertirsi coi ragazzi.
E poco importava se eravamo delle poveracce che non possedevano nemmeno i soldi per prendere un bus e tornare al loro quartiere: quella sera ci sentivamo due regine.
Chiacchieravamo di progetti per l’estate – concerti, giornate sul lungomare, viaggi che non avremmo mai fatto –, di tatuaggi e di ragazzi, prendevamo tempo prima di scegliere un locale in cui entrare a prenderci un drink, ci guardavamo attorno, salutavamo gente che conoscevamo di vista e ragazzi dell’Alibi che come noi avevano deciso di trascorrere la serata altrove, ogni tanto ci fermavamo a chiacchierare e flirtare con qualcuno. Non avevo paura di portare fuori le peggiori battute sconce del mio repertorio, di rubare tiri d’erba e sorsi di alcolici dai bicchieri altrui, di ridere forte e attirare l’attenzione; di essere la Bess che mi piaceva di più, sgraziata e mascolina ma al contempo sexy e bollente.
Io e Muriel ci fermammo di fronte alla soglia di un locale piccolo e poco illuminato in cui poco prima avevamo visto entrare Fanny e Becky, indecise se fermarci là o cercare qualcosa di meglio, quando un rombo di motori alle nostre spalle attirò la nostra attenzione.
Ci voltammo e sul ciglio della strada notammo tre giovani su tre moto lucide: avevano capelli lunghi, indossavano pantaloni in pelle e avevano un’aria da cattivi ragazzi che li rendeva ancora più interessanti.
Io e Muriel li conoscevamo già, li incontravamo spesso quando andavamo in giro per lo Strip e spesso ci eravamo finite a letto insieme.
“Ehi ragazze! Che bomba che siete oggi!” ci salutò uno dei due mori, Logan, sfilandosi il casco.
Accennai un sorriso malizioso e mi accostai al suo mezzo fino a sfiorarne la carrozzeria nera. “Ma salve! Che c’è di nuovo?”
Con la coda dell’occhio notai che Muriel si era subito fatta avanti col biondo di cui mi sfuggiva sempre il nome – Kell o Ken, o forse era Jen? – come suo solito: aveva una passione per i biondi, non se ne lasciava scappare nemmeno uno.
“Solita merda, solito sballo. Tu che hai combinato, ragazzina?”
Presi un tiro dalla mia sigaretta. “Ragazzina lo dici a tua madre” risposi con aria impertinente, per poi sbuffargli la boccata di fumo direttamente in faccia. “Ho un nuovo tatuaggio, comunque.”
Lui sorrise malizioso e si sporse per mollarmi una pacca sul sedere. “Sei proprio una stronzetta. E di che tatuaggio si tratta?”
“Eh no, questo lo devi scoprire tu” insinuai, scuotendo la testa in modo che le ciocche blu notte mi oscillassero sulle spalle nude, poi mi allontanai con una risatina furba e mi accostai a Erik, l’altro moro.
Stavo per aprire bocca, quando notai un’ammaccatura piuttosto appariscente sul fianco della sua moto argentea. “Che cazzo è successo al tuo gioiellino?”
Lui disse qualcosa, ma il suono del motore mi impedii di capirlo.
“Cosa?” Mi sporsi maggiormente, sdraiandomi quasi sul manubrio.
“Ho detto che è stato uno stronzo con cui ho avuto una discussione!”
“E portala ad aggiustare, no?”
“Non ho soldi: abbiamo speso tutto per i biglietti del concerto dei Mötley Crüe!”
Mi strinsi nelle spalle, poi mi guardai attorno con fare annoiato. “Sentite, mi sono rotta il cazzo di questo posto. Ci sapete arrivare al mare?”
“Per chi ci hai preso, bimba? Ti portiamo anche in capo al mondo” si pavoneggiò Erik, lanciandomi un’occhiata infuocata.
“È un viaggio lungo” mi informò Logan.
“Io ho tutta la notte.” Spostai lo sguardo dall’uno all’altro, gettai il mozzicone a terra e poi schioccai le dita. “Però salgo con quello che ha la moto migliore!”
Detto ciò tornai da Logan ed ero sul punto di posizionarmi dietro di lui sulla sella, quando improvvisamente il ragazzo allungò una mano e sollevò il lembo della mia maglia semitrasparente, scoprendomi il fianco destro. “Ho trovato il tatuaggio!”
Scoppiai a ridere. “Sei uno stronzo!”
Ammirò la complessa ragnatela in stile gotico che mi marchiava la pelle pallida, poi accostò le labbra al mio orecchio. “Ti rende ancora più hot.”
Sorrisi, poi montai sulla moto e gli strinsi le braccia attorno ai fianchi, lasciando scorrere accidentalmente una mano verso il basso, fin quasi all’altezza del suo inguine. “Portami al mare e avrai la serata più calda della tua estate.”
Sentivo l’eccitazione crescere in me, la pelle bollente a contatto col corpo di Logan e con la sua moto, il vento tra i capelli e il cuore pieno di fame di libertà, vita, piacere.
Ero una cattiva ragazza, una stronzetta, una persona sguaiata e volgare, ma mi divertivo un mondo. Eccome se mi divertivo.
Era il mio turno di essere sulla cima del mondo.
 
 
 
Non ero mai stata brava a recitare la parte della brava ragazzina davanti ai parenti, non avevo mai conosciuto la tradizione dei pranzi di Natale costituiti da sorrisi falsi e conversazioni di circostanza, non mi avevano mai insegnato a portare rispetto a zii, cugini e nonni, e nemmeno a fingere di portarglielo.
Quando la zia Ruth e lo zio Lawrence arrivarono a casa nostra, nel giorno che avevano stabilito con Yelena per telefono, io ero stravaccata sul divano e mi stavo occupando di una rapida manicure: tagliavo e limavo le unghie, avevo intenzione di laccarle di un colore scuro ma ero ancora indecisa tra blu notte e viola. In genere quelle erano operazioni che condividevo con Muriel e Fanny, ma quel pomeriggio avevo promesso a mia sorella che le avrei fatto compagnia nell’affrontare gli zii. Non che mi ci stessi impegnando troppo.
Ero anche stata tentata di svignarmela, in fondo era stata Yelena a invitarli a passare da casa nostra, ma la curiosità mi aveva spinto a rimanere.
Me ne pentii non appena li vidi entrare nella nostra piccola cucina insieme a Yelena: li inquadrai come una coppia di anonimi inglesi facenti parte della classe borghese, di quelli che vivevano in una bella casa a due piani col prato ben curato e delimitato da una staccionata bianca, di quelli con la puzza sotto al naso e lo sguardo schivo di chi sa di essere superiore. Non avevo nulla da spartire con loro.
“Tu devi essere Beatrix” esordì la zia Ruth in tono cordiale non appena posò lo sguardo su di me. Pareva la fotocopia al femminile di mio padre: capelli biondi, lineamenti delicati e tipicamente inglesi, sguardo mite di chi non vuole osare.
Mi strinsi nelle spalle e continuai ad armeggiare con la mia lima. “Bess, sì.”
“Molto piacere” esclamò in tono forzatamente allegro. “Che bella ragazza! Quanti anni hai? Immagino tu sia all’incirca coetanea delle mie figlie.”
Inarcai un sopracciglio. “Perché, loro quanti anni hanno?”
“Tredici.”
Le scoppiai quasi a ridere in faccia. “Io ne devo compiere diciassette quest’anno.”
“Ah…”
Yelena attese che anche lo zio Lawrence avesse varcato l’uscio prima di richiuderlo. “Prego, accomodatevi! Cosa posso offrirvi?” tentò di essere gentile.
Yelena era molto più abile di me quando c’era da trattare civilmente con gli adulti. Da una parte la ammiravo, dall’altra mi chiedevo cosa l’avesse portata a ficcarsi in quella situazione con quei due sconosciuti che ci ostinavamo a chiamare zii.
“Niente, siamo a posto, grazie comunque” affermò la zia, sistemandosi una ciocca che le era sfuggita dalla coda di cavallo.
Spostai lo sguardo dalla sua sobria figura a quella di suo marito, un uomo possibilmente ancora più anonimo dai capelli corti e castani; non aveva aperto bocca da quand’era arrivato e si era limitato a un cordiale gesto di saluto, aveva la tipica aria da impiegato che lavorava otto ore al giorno in un ufficio con il condizionatore e un mucchio di scartoffie sulla scrivania.
Ma davvero quelli erano miei parenti? Non biasimavo mio padre per essere fuggito dall’Inghilterra e aver inseguito il sogno di sposare mia madre.
La stanza era immersa in un’afa che però era gelida e sapeva di disagio, inadeguatezza.
“Allora… Richard non è in casa?” proseguì la zia Ruth, accennando un sorriso incerto.
Ecco, era esattamente quello che avrei voluto evitare: le domande su mio padre. Non sapevo se avrei retto.
“No, ecco…” Yelena prese posto attorno al tavolo insieme a loro. “È una situazione complicata. Da quando mia madre ha avuto l’incidente lui si è lasciato andare, come ti spiegavo anche al telefono, e ora io e Bess stiamo cercando di cavarcela con le nostre forze.”
“Non è una bella situazione” commentò mestamente la zia.
Che osservazione intelligente. Ci voleva il genio della lampada per capirlo…
“Sembrava così felice quando è partito per stare con vostra madre tanti anni fa… pensavamo che stesse facendo una follia, pensavamo che si sarebbe messo nei guai…”
“Invece lui e mia madre stavano benissimo, la vera disgrazia è stato l’incidente. È da allora che è diventato un alcolizzato” la interruppi io, quasi con rabbia. Avevo intuito fin dall’inizio che la famiglia di mio padre non avesse accolto con troppa gioia la sua scelta, dunque ci tenevo a puntualizzare che non era colpa di mia madre se le cose erano andate così.
Se avessero anche solo osato parlar male di mia madre in casa mia, in casa sua, non avrei esitato un attimo a buttarli fuori senza troppi complimenti.
“Mi dispiace tantissimo per lui e soprattutto per voi” disse lei in tutta risposta.
“Dispiaciti solo per noi: tuo fratello ha scelto il suo destino. Nessuno l’ha obbligato a bere fino a sfondarsi il cervello” me ne uscii in tono lugubre, poi mi resi conto – anche tramite l’occhiataccia che mi lanciò Yelena – che forse avevo un po’ esagerato. Del resto c’erano tante dinamiche che loro non conoscevano, e Ruth era pur sempre una sorella preoccupata per il suo fratellino minore.
Beh, non mi importava.
Mi schiarii la gola e sollevai due boccette di smalto per le unghie. “Blu o viola?”
Yelena mi scoccò l’ennesimo sguardo ammonitore, poi si voltò verso gli zii e abbozzò un sorriso, cercando di prendere in mano la situazione e portandoci fuori da quell’attimo di tensione. “Comunque l’ho avvisato che sareste venuti, sono sicura che tornerà a casa a momenti.”
Beh, se arriva lui me ne vado io, almeno ho la scusa per non stare con questi due.
“Comunque, come vi state trovando in California? È la prima volta?”
“Molto bella” prese la parola lo zio Lawrence, cogliendomi di sorpresa. Quindi non era muto!
“Davvero stupenda! Anche le ragazze sembravano entusiaste quando le abbiamo lasciate al campo estivo… abbiamo avuto qualche problema con i mezzi pubblici, ma in linea di massima…” prese a sproloquiare la zia Ruth, ma ben presto io smisi di prestare attenzione e cominciai a laccarmi le unghie con meticolosità. Figuriamoci se mi interessava l’andamento delle loro stupide vacanze borghesi in un hotel a cinque stelle con vista mare.
Ascoltando distrattamente i loro discorsi, appresi che le gemelle – Crystal e Joice – frequentavano una scuola privata e avevano una pagella brillante, che la zia Ruth lavorava come assistente nello studio di un avvocato e lo zio Lawrence, esattamente come avevo immaginato, era un uomo di ufficio che si occupava di faccende riguardanti il marketing o il management o qualche altra fesseria simile. Avevano una casa in un tranquillo quartiere residenziale di Londra non meglio identificato, una bella macchina e amavano le attività da svolgere tutti insieme in famiglia.
Mi infastidivano.
“E voi invece, ragazze, cosa fate o cosa pensate di fare?”
La domanda della zia Ruth piovve come un fulmine a ciel sereno e io, che stavo passando il pennellino intriso di blu notte sull’ultima unghia, sollevai il capo di scatto per verificare la reazione di mia sorella.
Yelena si schiarì appena la gola e si sistemò una ciocca castana dietro l’orecchio, segno del suo disagio che solo io potevo cogliere. “Io lavoro come cameriera… beh, in vari locali. Quindi mi divido tra un bar qua vicino durante il giorno e un pub in centro durante la notte, cerco di tenermi il più impegnata possibile perché… sapete, i soldi sembrano non bastare mai, praticamente abbiamo solo queste entrate e i datori di lavoro non sono poi così generosi” dichiarò con un leggero nervosismo nella voce. Logicamente non poteva rivelare che la sua principale occupazione era quella di battere per le peggiori vie della città.
La zia annuì con un’espressione contratta sul viso, quasi dispiaciuta, poi si voltò verso di me. “Tu, Beatrix?”
“Studio… più o meno.”
Lei rise. “Più o meno?”
Ma non poteva farsi i cazzi suoi?
Mi strinsi nelle spalle. “La scuola che frequento, ma tutta la situazione in generale, non mi motivano particolarmente a studiare.”
“E non hai un obiettivo?”
Sbattei le palpebre, quasi confusa. Era da più di cinque anni che non avevo obiettivi, se non quello di arrivare a fine giornata ancora viva e tutta intera.
“Insomma…” Zia Ruth si mosse sulla sedia, per la prima volta da quando era arrivata pareva a disagio. “Cosa ti piacerebbe fare in futuro? Non hai un lavoro in testa in particolare, un sogno…”
“Perché, secondo te qui mi è concesso sognare?” ribattei d’istinto, sollevando le mani in segno di resa. “Non so se vi siete guardati attorno mentre venivate qui. Vi siete resi conto di che quartiere si tratta? Sono nata e cresciuta in un posto in cui le siringhe stanno agli angoli delle strade, in cui i bambini giocano con la spazzatura e sulle stesse vie in cui di notte avvengono stupri e sparatorie. I miei genitori ci hanno provato a portarci via da questo posto, era una soluzione provvisoria perché all’inizio non avevano tanti soldi, ma poi è successo il casino e nostro padre si è arreso, io e Yelena ci siamo arrese, e ora siamo qui.” Feci una pausa e richiusi la confezione dello smalto che avevo appena finito di applicare. “Insomma, come posso avere un sogno se non mi è mai stato concesso di sognare? Studio in una scuola che fa obiettivamente cagare, perché è l’unica che ci possiamo permettere, e anche se la completassi il mio titolo di studi non mi servirà a niente. Nessuna università accetterebbe tra i suoi studenti una ragazza del ghetto, nessun datore di lavoro onesto assumerebbe una disgraziata. Quindi, se proprio devo dirvi cosa mi aspetto dal mio futuro… penso che sarò una morta di fame, che salta da un lavoro di merda a un altro giusto per campare. E non perché l’abbia deciso, ma perché non ci sono tante alternative.”
Solo allora mi accorsi che nella stanza era caduto un silenzio assoluto e tre paia di occhi increduli erano rivolti verso di me.
Quindi mi strinsi nelle spalle e accennai un sorriso, cercando nella mia mente qualcosa da dire per uscire da quella surreale situazione. “Beh, se mi va bene possono assumermi in qualche hotel di Santa Monica e posso godere anch’io della vista mare…”
“Però” riprese la parola la zia Ruth dopo qualche altro pesante attimo, “immagina di vivere in una situazione diversa. Cosa potresti fare?”
Non capivo proprio questo suo insaziabile interesse per le mie aspirazioni, cominciava a darmi seriamente fastidio.
“Qualsiasi cosa. Potrei fare letteralmente qualsiasi cosa. Mi piace stare in mezzo alla gente, quindi… un lavoro in cui si deve avere a che fare con le persone, non so. Come dicevo prima, non ci ho mai pensato.”
“Io le dico sempre che è meglio che continui a studiare, perché questo può darle qualche chance in più” prese la parola Yelena. Era rimasta palesemente scioccata dal mio discorso: sapeva bene quale fosse il mio pensiero a riguardo, ma certo non si aspettava che lo esponessi davanti ai nostri zii.
La verità era che non sapevo fingere di essere qualcosa di diverso da ciò che ero, a maggior ragione se avevo la possibilità di sbattere in faccia la merda che era la mia vita a due borghesucci che un quartiere malfamato non l’avevano mai attraversato nemmeno per sbaglio.
Continuammo a chiacchierare del più e del meno, cercai di partecipare attivamente al discorso senza risultare troppo ostile nel mentre che lo smalto si asciugava sulle mie unghie. Continuavo a non digerire troppo la presenza di quei due, ma man mano che li conoscevo cominciai a notare anche i loro pregi oltre che i loro difetti: lo zio Lawrence parlava poco e niente, forse perché era un tratto del suo carattere o forse perché lo disgustavamo, e ciò significava che si faceva i fatti suoi e non era di disturbo; la zia Ruth invece, nei suoi abiti estivi ma non troppo appariscenti, spesso dimostrava più sensibilità e capacità di ascolto rispetto a ciò che la sua figura composta e fredda lasciava presagire.
Non era trascorso poi tanto tempo quando la coppia decise di andar via: il sole stava cominciando a tramontare e, come Yelena aveva suggerito loro nei giorni precedenti, era meglio non spostarsi per il quartiere quando faceva buio. Che io e lei lo facessimo ugualmente era un altro discorso, non eravamo due turiste sprovvedute.
Quando mia sorella aprii la porta d’ingresso per accompagnarli all’esterno, si trovò faccia a faccia col volto sfatto di mio padre.
La zia Ruth sobbalzò incredula e sgranò gli occhi, per poi mormorare: “Richard”.
Non appena vidi la faccia del nuovo arrivato, lo stomaco mi si contorse per il disgusto e la rabbia: era palesemente sbronzo, si reggeva in piedi a malapena e aveva quello sguardo stralunato che non avevo mai imparato a sopportare.
“Ah, perfetto, allora ne approfitto e me ne vado anch’io!” sbottai, alzandomi dal divano e sgusciando fuori dall’abitazione come farebbe una ladra, come se improvvisamente quella non fosse casa mia.
Mio padre parve non notarmi nemmeno, nonostante gli passai proprio accanto.
Mi allontanai di qualche metro e mi accesi una sigaretta, inspirando avidamente e tentando di darmi una calmata. Ero arrivata a un livello di insofferenza in cui anche solo vederlo mi faceva un male quasi fisico.
Alle mie spalle lo sentivo biascicare qualcosa in risposta a Yelena e alla zia Ruth, li sentivo interagire e parlare in tono concitato, ma feci il possibile per ignorarli e fingere che non esistessero. Ne approfittai per fare ordine nei miei pensieri: quella sera probabilmente sarei andata all’Alibi, il giorno dopo mi sarei recata sul lungomare con le ragazze – dovevo ricordare di rendere a Becky la crema solare che mi aveva prestato qualche giorno prima! – e quel fine settimana ci sarebbe stato un concerto degli Storm It Down a cui ero indecisa se assistere, visto che Fanny ci aveva parlato di una nuova discoteca che voleva assolutamente farci conoscere…
“Tutto bene?”
Sobbalzai e per poco la sigaretta non mi sfuggì di mano; mi voltai verso lo zio Lawrence, che si era improvvisamente materializzato accanto a me, e gli rivolsi un’occhiataccia.
“Ti ho spaventato?”
“Sì.” Era la prima volta che mi rivolgeva la parola direttamente, non sapevo come gestirlo.
“Sei scappata” osservò. Pareva a sua volta a disagio, pronunciava ogni parola come se non ne fosse sicuro.
Sbuffai fuori il fumo. “È quello che faccio ogni volta che mio padre torna a casa, evito di condividere con lui qualsiasi ambiente.”
Calò il silenzio per qualche secondo, poi lo zio commentò in tono piatto: “Non dev’essere bello”.
Quanto detestavo le frasi di circostanza…
Mi strinsi nelle spalle. “La maggior parte delle volte rincasa in questo stato pietoso, a volte è pure peggio: certo che non è bello.” Presi una boccata di fumo e fissai un gattino randagio che, in fondo alla strada, giocherellava con un fazzoletto che qualcuno aveva gettato per terra.
“Avete mai provato a parlarci?”
Risi amaramente. “Ho smesso di provarci anni fa, ho capito che è inutile. Quindi, per non diventarci pazza, semplicemente lo evito e stiamo tutti più sereni, anche se non è bello e non è facile. Ma sai una cosa?” Mi voltai verso di lui. “Se restassi dentro quella casa, l’epilogo della faccenda potrebbe svolgersi in due modi: o quello là mi porta al suicidio, o lui finisce sotto terra e io in prigione. E, anche se non sembra, io ci tengo sia alla mia vita che alla mia fedina penale.”
Lo zio Lawrence tacque e lanciò uno sguardo alle nostre spalle, dove sua moglie stava ancora parlando col fratello. A dirla tutta lo preferivo nella sua versione taciturna, dal momento che la zia Ruth era già abbastanza ficcanaso per entrambi.
Dopo circa un minuto la donna salutò e prese a camminare lentamente verso di noi con la faccia di chi è appena stato al funerale di un suo parente. Evidentemente, anche se l’aveva perso di vista anni prima, ritrovare suo fratello in quelle condizioni l’aveva scossa.
“Sai Beatrix, sei una ragazza davvero matura” se ne uscì all’improvviso lo zio, quando sua moglie era ancora a qualche metro da noi e non poteva sentirci.
Gli rivolsi un’occhiata stralunata.
Lui si strinse appena nelle spalle. “Sei riuscita a trovare un modo per affrontare la situazione, e sei stata attenta affinché nessuno si facesse male. Molte persone al posto tuo sarebbero impazzite.”
Gli sorrisi beffarda. “E chi ti dice che io sono sana di mente?”
Mi sopravvalutava: non poteva nemmeno immaginare quanta sofferenza ci fosse dietro, quante suppliche a mio padre, quante lacrime, quanti attacchi di panico, quanto odio, quante fughe.
Non poteva nemmeno immaginare cosa significasse osservare quella che sarebbe dovuta essere la mia casa e non sentirmi a casa per niente.
 
 
 
“Ci abbiamo riflettuto molto in questi giorni” esordì lo zio Lawrence, spostando lo sguardo da me a Yelena e viceversa.
Quella era la terza – e, si supponeva, ultima – volta che li vedevamo nell’arco della loro vacanza, che era giunta ormai al nono giorno e stava per concludersi. Il caso aveva voluto che tutte le volte anch’io fossi presente a casa, nonostante non fosse premeditato.
Ora, seduta al tavolo insieme a loro e a mia sorella, attendevo con fare scettico che si decidessero a parlare: non appena erano entrati in casa, avevano annunciato che dovevano farci una proposta e che era il caso di parlarne seriamente e con calma, tutti insieme.
Non che mi fossi esaltata troppo, però ormai ero curiosa.
Si scambiarono uno sguardo, poi la zia Ruth riprese: “Siete delle brave ragazze, entrambe. Siete intelligenti, forti, avete tanta voglia di fare e, nonostante la situazione difficile, non vi siete arrese e avete sempre trovato la forza di reagire; siamo fermamente convinti che sareste in grado di fare tante cose, se solo ne aveste la possibilità. Io e lo zio vi abbiamo osservato molto in questi giorni, abbiamo notato l’ambiente che vi circonda e il modo in cui siete costrette a vivere, e pensiamo che non sia giusto. Non lo meritate, ma siete capitate in questa situazione senza poter fuggire. Vostro padre – mio fratello – avrebbe dovuto esservi di supporto, reagire con voi e lottare per voi nel momento più difficile della vostra vita, invece ha imboccato una strada sbagliata e a rimetterci siete state anche voi… e io, in quanto sua sorella e in quanto vostra zia, mi sento in parte responsabile.”
“Non potevi saperlo, non avresti potuto fare niente in ogni caso” la interruppe Yelena, ma la zia sollevò una mano per fermarla.
“Il punto è che avete bisogno di un aiuto, un aiuto che nessuno vi ha mai dato ma che meritate, perché dovete essere libere di vivere come due ragazze di diciassette e ventitré anni. E noi, che siamo gli unici parenti con cui siete in contatto e abbiamo la possibilità, vogliamo darvelo.”
Improvvisamente il cuore mi era finito nella gola, la pelle mi si era imperlata di sudore ovunque e l’aria si era fatta più calda e rarefatta. Non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, ma avevo l’impressione che fosse qualcosa di grosso. Già solo il fatto che qualcuno volesse aiutarci in qualsiasi modo, anche solo regalandoci un paio di vecchie scarpe, era una novità sufficiente a destabilizzarmi.
La zia fece una pausa, prese un sorso d’acqua e proseguì: “Vi stiamo offrendo la possibilità di trasferirvi a Londra con noi”.
Cosa?!” esplosi, incapace di trattenermi.
Zio Lawrence annuì. “Cambiare aria potrebbe farvi bene, potrebbe essere l’occasione di lasciare questa casa e questo quartiere, anche solo temporaneamente. Potremmo aiutarvi dal punto di vista economico finché ne avrete bisogno, potreste stare a casa nostra che è molto grande, se vi va potreste riprendere con gli studi o vi potremmo aiutare a trovare un lavoro… in un luogo migliore e con delle migliori condizioni.”
Non sapevo nemmeno a cosa pensare, come reagire – non sapevo nemmeno se stessi ancora respirando, se fossi ancora viva, se mi trovassi dentro un sogno. Riuscivo soltanto a guardare con occhi sgranati quelle due persone che poco più di una settimana prima erano dei perfetti sconosciuti e ora invece mi stavano aprendo la loro casa.
“Perché? Cioè, perché lo volete fare, se ci conoscete a malapena?” mormorò Yelena, anche lei sotto shock.
Lo zio accennò un sorriso, forse il secondo che gli vedevo fare da quando lo conoscevo. “Possiamo farlo; perché no?”
“Abbiamo capito che siete due persone leali e dotate di buon senso, siamo certi che vi possiamo dare piena fiducia e speriamo che in questo modo vi possiate costruire quel futuro che non avete mai avuto. E poi facciamo pur sempre parte della vostra famiglia.”
Io ormai ascoltavo solo distrattamente; la mia mente era già partita verso Londra, mi immaginavo già sui pullman rossi a due piani, tra le pittoresche strade di Camden, con la bocca spalancata davanti all’immensità del London Eye e lo stadio di Wembley, sulle famose strisce pedonali di Abbey Road. E immaginai tutto questo come se facesse parte della mia vita di tutti i giorni.
Era talmente bello che facevo fatica perfino a pensarlo.
Lanciai un’occhiata colma di emozione a mia sorella, ma non riuscii a leggere la risposta nei suoi occhi. Forse era in dubbio perché era una persona orgogliosa, detestava chiedere aiuto e sentirsi in debito con gli altri; dopotutto però se gli zii avevano deciso di farci una proposta del genere voleva dire che ne erano sicuri e che se le sentivano, che non sarebbe stato un peso per loro.
Mi costrinsi a tornare con i piedi per terra e prestare nuovamente ascolto alla conversazione in atto: Yelena, esattamente come avevo immaginato, aveva preso a borbottare che era qualcosa di troppo grande, che non potevamo accettare e che nel caso saremmo sempre state in debito.
“Ovviamente potete prendere tutto il tempo che volete per pensarci, non possiamo pretendere che prendiate una decisione così importante nel giro di qualche ora. Ma, qualsiasi cosa sceglierete di fare alla fine, sappiate che per noi è un vero piacere e non lo facciamo per avere qualcosa in cambio, ma soltanto perché vogliamo il vostro bene” disse la zia Ruth, l’espressione più serena del mondo dipinta in viso.
Improvvisamente avevo una voglia matta di saltarle al collo, riempirla di baci e ringraziamenti, implorarla di portarmi subito via di lì. Alla sola idea di non vedere mai più quel tavolo sempre incrostato, quelle sedie sempre vuote, quelle pareti sempre fredde, quelle strade piene di scarti e la faccia di mio padre mi veniva da piangere.
“Grazie” riuscii soltanto a mormorare, la voce rotta da un’emozione che mai avevo provato prima e a cui non sapevo dare un nome.
 
 
 
Da una settimana viaggiavo a tre metri da terra, su una nuvola di gioia che solo io potevo vedere. Mi svegliavo pensando a Londra e mi addormentavo pensando a Londra.
Non ne avevo ancora fatto parola con nessuno dei miei amici, avrei annunciato la notizia alle persone che mi stavano più strette solo quando fossi stata certa di partire davvero. La zia Ruth e lo zio Lawrence erano ripartiti per l’Inghilterra ormai, ma non li avevo ancora chiamati per dar loro conferma.
Oltretutto io e Yelena, tra i mille impegni delle nostre giornate, non avevamo ancora avuto occasione di riparlarne seriamente.
“Ma ci pensi? Io e te che ricominciamo tutto a Londra!” esclamai mentre, davanti allo specchio, applicavo l’ombretto scuro sulla palpebra destra. Tramite lo specchio lanciai un’occhiata a mia sorella, che si trovava alle mie spalle ed era appena uscita dalla doccia, poi ripresi a parlare. “Alla fine è quello che abbiamo sempre voluto, no? Quante volte abbiamo detto che saremmo scappate insieme, che ce l’avremmo fatta e che ci saremmo lasciate alle spalle tutta questa merda? Ma mai ci saremmo aspettate che fosse così facile… chi se l’aspettava questa proposta? E poi Londra è praticamente dall’altra parte del mondo, cazzo! Se avessi i soldi, partirei anche adesso!”
“Beh, Bess, non è mica tutto bianco o tutto nero” esalò mia sorella mentre si tamponava i capelli con un asciugamano.
Mi voltai verso di lei, poi afferrai un rossetto dall’astuccio dei trucchi e tornai a rivolgermi allo specchio. “Beh, ovviamente. Ora lo sto dipingendo come qualcosa di fottutamente esaltante – lo è, cazzo! – ma è normale che ci saranno delle difficoltà. Chi se ne fotte, tanto non saranno mai gravi come quelle che abbiamo qui.”
“Bess.”
Il tono perentorio che utilizzò per chiamarmi mi costrinse a voltarmi, leggermente allarmata. “Sì?”
“Io non ho mai detto che avevo intenzione di accettare.”
Mi puntai le mani sui fianchi e aggrottai le sopracciglia. “Ancora con questa storia del debito eterno con gli zii e del fatto che non possiamo accettare qualcosa di così grande? Ci hanno detto di non preoccuparci, no? Poi noi siamo delle persone oneste e non appena ci saremo sistemate restituiremo loro tutto! Non ti sembra un buon compromesso?”
“E se non fosse per quello?” ribatté lei dopo qualche secondo con titubanza, forse timorosa della mia reazione.
Sentii il sangue defluire dal viso. “Cosa?!”
Lei sospirò. “Ecco, adesso con te non si può più parlare, ti stai già incazzando.”
“Ma di cosa dobbiamo parlare? Pensavo fosse palese, insomma… pensavo fosse scontato! È da quando eravamo delle poppanti che parliamo di scappare, di farci una vita altrove, di andare via!” cominciai a inalberarmi.
“Ma nessuno te lo vieta.”
“Ah, a me. E tu allora?”
Lei mi diede le spalle con la scusa di raccattare i vestiti e indossarli, ma sapevo che l’aveva fatto apposta per non incrociare il mio sguardo. “Se tu vuoi partire, chi sono io per impedirtelo? Ma non sono costretta ad accettare a mia volta, se invece preferisco restare qui.”
“Cioè, un attimo… quindi secondo te ci dovremmo dividere?” sbottai, la voce intrisa di isteria.
Non sapevo nemmeno più definire se quello che mi stava montando dentro era rabbia o semplicemente terrore allo stato puro. Tutto mi sarei aspettata dalla mia vita, ma non di affrontare una conversazione come quella, non di sentirmi dire quelle cose proprio da Yelena.
Lei tacque ma, anche se non potevo vederla, mi accorsi che annuiva impercettibilmente.
Avevo voglia di picchiarla, di distruggere il bagno, la casa, il mondo.
“Cosa cazzo stai dicendo? Ma tu sei completamente andata!” gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni.
Lei, con addosso solo mutandine e reggiseno, si voltò finalmente verso di me. “La smetti di urlare? Spiegami cosa c’è di male: non tutti possiamo avere le stesse aspirazioni.”
“Sai com’è, fino a ieri che io sappia la nostra aspirazione era stare unite contro tutto e tutti! Piuttosto, spiegami tu perché ora non vuoi partire! Spiegami perché dall’oggi al domani hai cambiato tutti i nostri progetti e vuoi restare in questo posto di merda, porca puttana! Dimmelo! Dimmi: cosa ti trattiene qui? Cos’hai da perdere?”
Lei non rispose, nei suoi occhi lessi una profonda paura ma in quel momento non mi importava.
“Nostro padre, eh? Quel pezzo di merda? Vuoi continuare a mantenerlo per tutta la vita e perdere tutte le occasioni?”
“Non è per lui.”
“E allora per chi? Chi hai da perdere? Chi ti resta, se io me ne vado?” continuai a sbraitare.
Lei afferrò l’abitino che indossava sempre quando andava a battere e lo infilò in silenzio.
“Non mi hai risposto!” le feci notare.
“C’è qualcuno, okay?”
“Qualcuno chi?”
“Cosa te ne importa?”
“Scusa, ma penso di avere il diritto di sapere per chi stai infrangendo le promesse che mi hai fatto per anni e anni, non credi?”
Lei sospirò e borbottò qualcosa di incomprensibile.
“Cosa?”
“Ho detto: Mark.”
Volevo morire. Avevo davvero sentito un nome maschile uscire dalle labbra di mia sorella? Lei mi stava tradendo in quel modo per un ragazzo?
Impiegai qualche secondo a digerire il colpo. “Chi cazzo sarebbe Mark?”
“Un cliente.”
Un cliente?!
“Ma non è come tutti gli altri, lui…”
“Ho capito, chiudiamo il discorso.” Lanciai il rossetto sulla specchiera con rabbia, le mani mi tremavano e sentivo che se non avessi lasciato subito la stanza avrei potuto fare qualcosa di cui pentirmi.
“Senti un po’, innanzitutto non hai il diritto di gridarmi contro in questo modo e nemmeno di giudicare le scelte che faccio! Io ho tutto il diritto di restare qui, che sia per un uomo, che sia per nostro padre o che sia perché in questo posto del cazzo mi trovo bene e sono contenta di marcire qui! Questo non implica che non ti vorrò bene ugualmente, ma possiamo entrambe prendere le nostre decisioni, o lo puoi fare solo tu? Vuoi partire a Londra e all’improvviso dobbiamo essere tutti pronti a seguirti?”
Il cuore rischiava di esplodermi nel petto. Non aveva capito un cazzo, non aveva assolutamente idea di cosa tutto ciò significava per me.
Feci per lasciare il bagno, ma quando fui sulla soglia mi fermai e mi voltai nuovamente verso mia sorella e le lanciai un’occhiata velenosa. “Sei una stronza, una traditrice e un’egoista. Ti sei dimenticata di tutte le volte che mi hai fatto delle promesse, ti sei dimenticata di quanto mi hai detto che ci saresti stata sempre, che non ci saremmo mai separate, che ci saremmo sempre salvate a vicenda. Ti sei dimenticata di tutti i sogni e i progetti, delle promesse che abbiamo fatto a nostra madre quando eravamo abbracciate a piangere e speravamo che lei ci vedesse dall’alto, ti sei dimenticata di tutte le volte che abbiamo fatto fronte comune davanti a nostro padre, ti sei dimenticata della rabbia e della speranza che abbiamo condiviso. Questo è il tuo modo per dimostrarmi che non mi lascerai mai sola, eh? Questo per te significa stare per sempre insieme, scappare, costruirci un futuro altrove con le nostre forze? Hai dimenticato tutto, hai rinnegato tutto, e l’hai fatto per una testa di cazzo che ti scopa come fossi una bambola gonfiabile e poi insieme alla grana ti dà una carezza per farti stare buona, per un pezzo di merda che dopodomani ti scaricherà perché sei soltanto una puttana come un’altra e per lui non vali niente. Per questo rovini tutta la tua vita e anche la mia, infrangi tutte le promesse, ti fotti il futuro… che cazzo devo dirti, eh? Pensavo di averti dalla mia parte, invece sei come tutti gli altri! Sei una merda, sappilo, sei una delusione, e spero che tu rimanga qui a marcire e vivere la tua vita da troia fallita per il resto dei tuoi giorni!” Sferrai un pugno allo stipite della porta, mentre lacrime di rabbia infuriavano con impeto sul mio viso.
Yelena era ammutolita, mi guardava con occhi sgranati e terrorizzati come fossi un’aliena proveniente da un altro pianeta.
“Adesso io me ne vado, mi sbronzo per bene, e domani quando esco dall’hangover la prima cosa che faccio è chiamare la zia per dirle che mi sto fiondando a Londra, e sai perché? Perché oggi ho capito che qui non mi è rimasto davvero più niente, e soprattutto spero di dover vedere il meno possibile la tua faccia del cazzo!”
Anche Yelena aveva cominciato a piangere in silenzio, ma le sue lacrime non contavano nulla per me in quel momento; girai i tacchi e, senza alcun ripensamento, corsi fuori di casa e sbattei la porta talmente forte che le pareti tremarono. Sperai che crollassero, come erano crollate le mie certezze e com’era crollato il mio intero mondo.
Camminai e piansi come una disperata, rovinandomi il trucco e singhiozzando come una bambina. Come al solito nessuno si interessò a me, da quelle parti si era abituati a vedere scene ben peggiori.
Non capivo perché la mia vita dovesse per forza rivelarsi una catastrofe totale. Ma, nonostante i drammi che mi ritrovavo a vivere ogni giorno, nulla era paragonabile a quella rottura se non la morte di mia madre. Tutti i legami più forti e importanti nella mia vita si erano rotti; avevo sedici anni, ero sola al mondo e avevo vissuto dei lutti troppo pesanti.
Se l’Alibi non fosse esistito, avrei cercato un posto tranquillo per suicidarmi in pace.
Invece, con le guance incrostate di trucco. spinsi la solita porta sudicia che cadeva a pezzi, mi diressi a passo di marcia verso il bancone e, senza nemmeno controllare chi ci fosse dietro e se mi stesse ascoltando, annunciai: “Voglio l’alcolico più forte che c’è a disposizione”.
 
 
 
Nonostante la mia sete di cambiamento e il mio disprezzo verso il luogo in cui vivevo, amavo l’Alibi e tutte le persone che stavano al suo interno.
Quando avevo chiamato la zia Ruth per annunciarle che sarei andata a Londra, il mio primo pensiero era corso ai miei amici e a quanto mi sarebbero mancati nonostante tutto. Era stato grazie a quel luogo e a quelle persone che ero riuscita a sopportare la situazione di merda che avevo in casa, non riuscivo nemmeno a contare le volte in cui mi ero divertita e mi ero lanciata in avventure pazze e sconsiderate, non contavo più le uscite con le ragazze per le strade di Hollywood, le risate sul lungomare, i concerti, le sbronze, le notti insonni e le nuove conoscenze, il sesso, i momenti spensierati trascorsi senza badare al passato e al futuro.
Era quello, in fondo, il luogo in cui ero diventata grande. Avevo all’incirca altri sei mesi per godermelo prima di lasciarlo andare, un lasso di tempo che in quel momento mi sembrava brevissimo.
I miei zii avevano programmato il mio trasferimenti per i primi mesi dell’86, l’anno seguente, così da poter gestire con calma tutte le faccende burocratiche, in modo che loro potessero dare con calma la notizia alle figlie e preparare per me la loro stanza degli ospiti. Il pochissimo tempo in cui stavo a casa lo trascorrevo al telefono con la zia per discutere sul da farsi e su come organizzarsi.
Ma ormai la mia dimora la evitavo come contenesse un focolaio di peste, perché avevo ben due persone da evitare: mio padre e mia sorella.
Quel giorno di metà settembre mi ero trascinata al locale nonostante fossi a malapena nelle condizioni per alzarmi dal letto e camminare. Ormai non c’era scusa che tenesse: per stare lontana da casa ero pronta a sfidare anche il ciclo, l’unico motivo che in genere era in grado di tenermi tra le mura domestiche. Era qualcosa di devastante, mi provocava dolori talmente forti che certe volte mi portavano a rimettere o a svenire, temevo terribilmente quell’appuntamento mensile.
Così, più pallida del solito e con un make up approssimativo, me ne stavo addossata alla parete esterna accanto alla porta d’ingresso, laddove i ragazzi si radunavano durante il pomeriggio per fumare, chiacchierare e sperare in qualche soffio di vento ristoratore. In genere io e le ragazze che frequentavo arrivavamo un po’ più tardi, ma avevo voglia di vivere al massimo quegli ultimi mesi losangelini. Fosse stato per me, all’Alibi ci avrei pure dormito.
Presi una boccata di fumo e mi guardai attorno: nessuno sembrava fare caso a me, nessuno si accorgeva che stavo male. Non succedeva mai, ero davvero brava a camuffare i miei malesseri e i miei stati d’animo negativi, ma quel giorno non mi ci stavo nemmeno impegnando e constatare che tutti se ne fregavano del mio volto cereo e del mio aspetto trasandato non mi faceva piacere. Dopotutto ero una persona che mirava a stare al centro dell’attenzione.
Alcuni ragazzi, tra cui i componenti degli Storm It Down eccetto Oliver, giunsero al locale e mi passarono accanto per entrare. Li salutai e in cambio ricevetti un cenno da Ethan e un sorriso da Ives, Alick e May, ma null’altro. Li vidi scomparire oltre la pesante porta e sbuffai, chiedendomi cosa ci facessi lì. Pareva quasi che se non mi impegnavo ad attirare l’attenzione, nessuno si accorgeva di me.
“Ehi, Bess!”
Mi sorpresi nel notare che Ives si era staccato dal gruppetto e mi aveva raggiunto, posando a sua volta una spalla alla parete scaldata dal sole. Qualche volta in effetti capitava che ci fumassimo una sigaretta insieme, visto che condividevamo quel vizio.
“Ehi” replicai senza troppo entusiasmo, tenendo lo sguardo basso.
“Tutto bene? Hai una faccia stranissima, l’ho notato subito non appena ti ho visto” mi domandò preoccupato.
“Oh, finalmente qualcuno che se ne accorge” borbottai con un filo di voce. Ed era paradossale che a chiedermelo fosse stato un ragazzo che in fondo conoscevo a malapena.
Rivolsi lo sguardo all’ingresso del locale, domandandomi se qualcun altro ci avrebbe raggiunto, ma ciò non avvenne. Mi veniva da vomitare pure per il malumore, oltre che per i dolori lancinanti che mi trafiggevano la pancia.
“Cos’hai?” si allarmò allora, notando la smorfia di sofferenza sul mio viso.
“Non potresti capire.”
“Perché?”
“Perché sei un uomo.”
Scrutai il suo viso che per diversi secondi fu una maschera di confusione, poi parve capire e annuì. “Cazzo, mi dispiace. Non ti avevo mai visto così…”
“Beh, diciamo che in genere me ne sto a casa mia e non rompo il cazzo a nessuno con i miei drammi e i miei dolori.”
“E come mai oggi sei uscita lo stesso?”
Come potevo spiegarglielo?
Venni colta da un capogiro e serrai per un attimo le palpebre. Stavo davvero di merda.
“Bess?” mi richiamò Ives, afferrandomi d’istinto un braccio.
Mi venne da ridere. “Ives, sono poggiata alla parete, non cado. Tranquillo.”
Lui sorrise a sua volta. “Ah già.”
Lasciai trascorrere qualche istante di silenzio, in cui ognuno inspirò una boccata dalla propria sigaretta.
“Sai… tra qualche mese mi trasferisco a Londra” me ne uscii all’improvviso. La notizia in ogni caso si sarebbe diffusa, prima o poi l’avrei data da tutti, tanto valeva cominciare da qualche parte.
“Cosa?” sbottò il ragazzo sorpreso.
Annuii.
“Ma è fighissimo! Cioè… cosa si dice in questi casi, congratulazioni?” si entusiasmò lui, per poi ridacchiare.
Non potei fare a meno di sorridere a mia volta: mi aveva sempre fatto una gran tenerezza.
“Già. Andare via da qui è sempre stato il mio sogno, quindi inutile dire che sono al settimo cielo. Però…”
“Perché deve esserci sempre un però?” commentò lui ironico.
“Perché la vita è una merda e tutte le cose devono essere per forza complicate” risposi ridacchiando.
“Però…?”
Mi guardai attorno e accennai a ciò che ci circondava. “Questo è il posto in cui sono cresciuta, la gente che è cresciuta con me, e anche se odio ammetterlo tutto ciò mi mancherà. In fondo è questo il posto che ho sempre considerato casa… ed ecco, è per questo che sono venuta qui nonostante stessi da schifo: voglio godermi ogni momento che mi rimane qui, con voi.” Ero tentata di distogliere lo sguardo dalle iridi azzurre del mio interlocutore, perché detestavo parlare di questioni così delicate e nel contempo permettere agli altri di leggermi dentro, ma ero curiosa di sapere come avrebbe reagito.
Lui annuì, si scostò una ciocca corvina dal viso e buttò fuori una boccata di fumo. “Sai, c’è una frase che Ethan dice a volte, che ho sempre trovato molto bella e che è perfetta per questa situazione; non so dove l’abbia sentita, non so se è opera sua, ma in ogni caso te la voglio dire. Casa tua, Bess, si trova ovunque andrai. Il concetto, insomma, è che forse non apparteniamo davvero a un luogo, ma sono i luoghi in cui noi siamo che ci appartengono, e quando li lasciamo li portiamo sempre dentro. Quando tu partirai per Londra l’Alibi non scomparirà, noi non scompariremo, e anche se dovesse esplodere tutto – speriamo che non capiti, perché comunque qui ci sono io – l’Alibi non scomparirà mai dentro di te, te lo porterai sempre appresso. Ora non so se quello che ho appena detto ha un senso perché oggi ho già fumato e bevuto abbastanza, ma ciò che volevo dire è… questo posto è casa tua perché l’hai reso tale, perché qui ci sei tu e ci sono le persone con cui vuoi stare, ma qualsiasi posto potrà essere casa tua. E se un giorno vorrai tornare qui, noi ci saremo ancora, a perdere tempo tutto il giorno e ad aspettarti.” Concluse il suo discorso un po’ serio e un po’ sconclusionato con un sorriso raggiante.
“Dovevi fare il filosofo, non il bassista” ribattei con una risatina; era il mio modo di ringraziarlo.
All’improvviso una fitta più forte delle altre mi sorprese e mi piegai appena in avanti, strizzando gli occhi. “Porca troia…”
“Bess, non svenire! In genere sono io quello che collassa, non so cosa si fa!” si allarmò subito Ives.
“Essere una donna è una merda… okay, sto bene.” Mi raddrizzai e cercai di darmi un contegno, anche se la situazione non sembrava migliorare. “Forse è il caso che entro e mi siedo da una parte, prima di collassare per davvero.”
“Ma, senti…”
“Dimmi.”
Ives sorrise. “Possiamo fare il brindisi di addio quando sarà il momento di andare a Londra?”
“Col cazzo, io detesto gli addii e le cerimonie inutili!”
“Dai…”
“Ho detto: col cazzo!”
Mi sarebbero mancati i momenti come quelli.
Ma forse Ives – anzi, Ethan – aveva ragione: come avevo reso quel posto casa mia, avrei potuto trovare una dimora anche a Londra, anche in ogni angolo di mondo.
E forse avrei trovato delle altre persone a cui affidare un piccolo pezzetto del mio cuore.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
CE L’HO FATTA.
HO SCRITTOOOOOOOO FINALMENTE HO SCRITTOOOOOOO E PIU’ DI DIECIMILA PAROLE, PIANGOOOOOOO!!!!!!
Scusate quest’esordio per niente professionale, ma esco da un blocco dello scrittore che mi ha tolto la gioia di vivere (?) e riuscire a scrivere un capitolo del genere di getto è una soddisfazione immensa! Non so assolutamente come sia venuto il capitolo ma sono talmente al settimo cielo che non fa nulla anche se dovesse fare schifo AHAHAHAH sono felicissima che sia venuto fuori!
Anche perché tengo tantissimo a questa raccolta e la volevo aggiornare *________________*
Dunque, qui abbiamo un bel po’ di colpi di scena, come vedete ^^ forse chi segue la serie alcune cose le aveva già intuite, oppure avrà trovato risposte a domande che si poneva da tempo, per esempio: cosa ha spinto Bess a trasferirsi a Londra?
Alcune delle scene iniziali, che sembrano inserite per “temporeggiare”, in realtà le ho pensate apposta per dare un’idea di come la ragazza vive e di come effettivamente le cose siano rimaste immobili dal capitolo scorso ^^
Sono molto curiosa di sapere che ne pensate del conflitto tra Bess e Yelena, che è stata una delle scene più dure da scrivere per quanto riguarda i contenuti… senza dubbio Bess ha avuto una reazione tremenda, in parte potrebbe avere ragione ma d’altro canto deve capire che lei e Yelena non saranno per sempre insieme in ogni caso… ah, Bess…
La smetto di divagare e lascio a voi i commenti, ma intanto segnalo alcune note/riferimenti.
Il fatto che Oliver dovesse passare l’estate a vendere granite sul lungomare appare anche nella storia “The only way I can love”, forse qualcuno se lo ricorderà… ed è stato proprio durante l’estate dell’85!
Molti riferimenti, come quello del solito chiosco fatiscente sulla spiaggia e la band degli Storm It Down (formata da Oliver, Ethan, Ives e Alick) compaiono in altre storie della serie, ma qui risultano comunque marginali e spero non abbiano compromesso la comprensione della storia!
Hollywood, in particolare alcune boulevard come il Sunset Boulevard, sono famosi (e lo sono stati soprattutto negli anni Ottanta) per i famosi locali che ospitavano le rock band del momento, attorno a cui ruotava tutta la vita notturna losangelina.
Infine la frase che Ives riporta a Bess, “Casa tua si trova ovunque andrai”, è già comparsa in una mia storia e forse qualche attento lettore l’ha riconosciuta. Si tratta di una frase che Arthur, uno dei fratelli maggiori di Ethan, dice a quest’ultimo quando è ancora bambino nella shot “The world is yours, take it all”. Ho trovato plausibile che questa frase gli sia rimasta dentro e che l’abbia ripetuta qualche volta davanti a Ives, il suo migliore amico!
Insomma, spero che questa chilometrica lettura non vi abbia affaticato troppo (XD) e… ci vediamo presto col prossimo e ultimo capitolo, prometto di non far attendere altri quattro mesi XD
Alla prossimaaaaa! ♥
 
 
   
 
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