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Autore: AveAtqueVale    20/07/2021    2 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il tragitto fino a casa fu una confusa sequenza di fotogrammi.
Non sapeva se fosse per colpa dell’alcol, se fosse l’agitazione, il panico, ma gli sembrò di vedere il mondo muoversi al rallentatore attorno a sé ed al contempo troppo velocemente. Un istante prima stava andando verso la macchina di Jace, il momento seguente era davanti casa con Isabelle stretta al suo braccio. Non avrebbe saputo dire come ci fosse arrivato, né cosa fosse successo lungo la strada: sicuramente dovevano avergli chiesto qualcosa, ma l’unico suono che avesse riempito le sue orecchie era stato lo sciabordio del sangue che scorreva impetuoso nelle sue tempie, il martellante battito del suo cuore che si riverberava ovunque nel suo corpo, assordandolo.
  Quando entrò in casa realizzò che Jace e Clary non erano con lui, che Isabelle lo guardava preoccupata mentre lo guidava verso il piano di sopra. Alec sentiva la gola chiusa, il mondo vorticare in brillanti macchie di colore attorno a sé. Era come se tutto fosse desaturato e grigio e d’improvviso esplosioni di luce ridessero brillantezza ad ogni cosa, nauseandolo. Ignorò la sua stanza gettandosi nel bagno per sedersi accanto al water, la schiena poggiata contro la vasca in cerca di un solido sostegno. Il viso era imperlato di sudore freddo, il suo cuore continuava a battere violento. Si sentiva perso e spaventato. La sensazione di stordimento dovuta all’alcol non aiutava affatto facendolo sentire ancora più agitato.
D’un tratto Isabelle si inginocchiò davanti a lui e gli afferrò il viso fra le mani.
Gli ci volle qualche secondo per mettere a fuoco il suo volto. Qualche altro per rendersi conto che stava parlando. La sua bocca si muoveva ma lui non sentiva.
Non sentiva niente.
Alexander.
La voce di Magnus rimbombava nella sua testa in un loop infinito.
Gli aveva sentito pronunciare il suo nome in molti modi diversi nel corso dei loro incontri, allegramente, ironicamente, seriamente, eppure tutto quello che riuscì a ricordare in quel momento fu come aveva mormorato quell’unica parola con tono sconfitto.
Per colpa sua.
Di nuovo.
La consapevolezza di averlo ferito ancora una volta gli fece venir voglia di piangere. Perché? Perché qualsiasi cosa facesse portava ad un unico risultato? Ci aveva provato, ci aveva provato davvero a proteggerlo. Gli era stato lontano, aveva ignorato il suo richiamo anche se era stata la cosa più difficile che avesse fatto negli ultimi anni, eppure in qualche modo era comunque riuscito a far comparire quell’espressione triste sul suo volto.
Un lamento sfuggì alle sue labbra mentre la sua espressione si fece sofferente.
Isabelle lo scosse con forza, afferrandolo per le spalle, portandolo a riscuotersi leggermente da quello stato di alienazione.
«Alec!» stava quasi bestemmiando, fra i denti, tentando di non alzare la voce. «Porca miseria, vuoi dirmi qualcosa?!»
Il ragazzo la sentì ora, per la prima volta, e mugugnò in segno di protesta all’ennesimo scossone. Ancora uno e probabilmente avrebbe finito col rovesciarle addosso tutto quello che aveva messo nello stomaco nell’ultima settimana.
«—vomito» riuscì a trovare la forza di dire portando istantaneamente la sorella a fermarsi e farglisi accanto, probabilmente per spostarsi dall’eventuale traiettoria.
«Là dentro, possibilmente» disse, infatti, avvolgendogli il braccio attorno alle spalle in un chiaro intento di volerlo aiutare a sistemarsi davanti al gabinetto. Il ragazzo però scosse il capo reclinandolo leggermente all’indietro, oltre il bordo della vasca, le lunghe gambe distese lungo il pavimento piastrellato della stanza.
«Mh» mugugnò. «Non serve» disse senza aprire gli occhi, quasi desideroso di addormentarsi lì, in quella posizione scomoda, contro il duro supporto della vasca contro la schiena. Le mattonelle erano così piacevolmente fredde contro i suoi palmi che non si sarebbe alzato da lì molto presto.
Isabelle sospirò, ravviandosi i lunghi capelli neri dal viso con una mano, visibilmente provata.
«Mi vuoi dire che ti prende? Cos’è successo?» domandò con una nota dura nella voce, lo sguardo fisso sulla figura del fratello. Anche ad occhi chiusi Alec poteva sentire i suoi occhi addosso, penetranti. «Sono entrata un attimo per andare a recuperare Jace e Clary e quando sono uscita sembravi sull’orlo delle lacrime.» continuò, assolutamente intenzionata ad ottenere una risposta questa volta.
Alec rimase chiuso in un silenzio ostinato, una fitta dolora a stringergli il cuore.
Non se la sentiva di risponderle.
Non sapeva nemmeno cosa dire.
Come poteva spiegarle se lui per primo, a tratti, non capiva cosa gli stesse succedendo?
Isabelle sbuffò pesantemente.
«Quel tipo era il tuo psicologo, no?» domandò allora dopo qualche secondo di silenzio, cercando di cambiare approccio. «Pensavo che ti stesse facendo bene andare da lui. Perché allora all’improvviso hai smesso di andarci?» insisté cercando di ricorrere ad un tono più paziente e accomodante.
Alec voltò il capo verso la direzione opposta a quella della sorella, gli occhi stretti quasi come a non voler vedere neppure le immagini che quelle parole scatenarono nella sua stessa testa. Non voleva parlare di lui. Non voleva pensare a lui. Non voleva pensare a niente.
Isabelle non mancò di notare la sua reazione e assottigliò lo sguardo.
«Alec, per l’amor di Dio, parlami! Se quel tizio ti ha fatto qualcosa dobbiamo saperlo.» lo scosse una volta ancora per il braccio cercando di costringerlo quanto meno a voltarsi verso di lei.
Subito Alec aprì gli occhi e si voltò verso la sorella scuotendo il viso.
«No!» esclamò con urgenza, bianco in viso. «Non mi ha fatto niente!» si affrettò a dire col respiro corto, la gola a stringersi fastidiosamente. Più si agitava più gli sembrava di sentire lo stomaco contorcersi, ribellarsi smuovendo il contenuto in ondate brucianti. «Per favore Izzy, ti prego, non—»
La sua voce s’infranse quando una lacrima scivolò giù dai suoi occhi.
Isabelle perse le parole notando la fragilità sul viso del fratello, il modo in cui parve perso e spaventato fra le sue braccia. Le parve tornato improvvisamente bambino e mai come in quel momento notò quanto il ragazzo fosse stato simile al suo fratellino.
Senza dire altro la ragazza andò a portare il viso del maggiore contro la sua spalla abbracciandolo con fare protettivo. L’avvolse fra le sue braccia tenendo una mano sulla sua schiena e l’altra incastrata fra i suoi capelli. Lo sentì respirare in maniera irregolare contro la propria pelle, la sua fronte fredda ed umida di sudore contro la spalla. Mai quanto in quel momento l’era parso così—piccolo. Lui ch’era un gigante, lui che era sempre stato la sua roccia fin da bambini. Il suo eroe.
Cosa ne era stato di lui?
Dov’era andata a finire la sua forza?
Una lacrima sfuggì da sotto le sue lunghe ciglia mentre, carezzando con lenti movimenti circolari la zona fra le sue scapole, andava a sussurrare piccole rassicurazioni al suo orecchio.
«Shhh, va tutto bene.» sussurrò con la voce tremante. «Andrà tutto bene. Ci sono qui io, fratellone.»
Alec si abbandonò all’abbraccio della sorella piangendo silenziosamente contro la sua spalla.
Si odiava per quel che le stava facendo passare.
Si odiava per quel che le stava mostrando.
Si odiava per il non poterle dare delle risposte.
Si odiava per quel che le aveva fatto.
Eppure non riuscì a fare a meno di necessitare quel momento. Quel totale senso di abbandono fra le braccia di qualcuno che sapesse farlo sentire al sicuro. Qualcuno che sapeva di casa.
Sapeva che ogni cosa era molto lontana dall’andare bene.
Sapeva che anche Isabelle non credeva alle sue stesse parole.
Ma si sentì comunque leggermente meglio nel sentire quella bassa, dolce cantilena.
Sentire la sua voce mormorargli quella litania di rassicurazioni calmò lentamente il suo pianto facendolo finalmente sprofondare in un lungo sonno senza sogni.
 
 
Quando riaprì gli occhi, Alec sentì il collo dolere.
Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso da quando si era addormentato ma a giudicare dal cerchio alla testa, decisamente, non stava troppo meglio. Si discostò lentamente dal corpo della sorella sentendola muoversi all’istante. Isabelle doveva essere rimasta sveglia perché subito si sporse verso di lui per aiutarlo a raddrizzarsi.
«Tutto bene?» s’informò a voce bassa, delicata, scostandogli i capelli dal viso.
Alec apprezzò la premura e la guardò con un mezzo sorriso colpevole.
«Mi fa male ovunque.» ammise pensando al doloroso pulsare delle sue tempie, al modo in cui gli doleva in mezzo agli occhi, ai muscoli intorpiditi per la posizione scomoda tenuta troppo a lungo.
Isabelle sorrise mesta prendendo dal pavimento accanto a sé un bicchiere di acqua ed un blister di antidolorifici. Il ragazzo afferrò il bicchiere che gli venne porto e osservò il modo sicuro e sciolto della sorella di muoversi.
«Immagino. Ma una di queste e qualche ora di sonno dovrebbero aiutare» disse la ragazza estraendo una pillola dal suo alloggio e porgendola al maggiore.
Alec poggiò il farmaco in fondo alla lingua e bevve tutta l’acqua nel bicchiere. Solo quando sentì le prime gocce bagnargli la bocca si accorse di quanto, in effetti, si sentisse assetato. A quel punto Isabelle si alzò in piedi -perfettamente in equilibrio sui suoi tacchi nonostante la posizione scomoda delle ultime ore- e afferrò il fratello per le braccia per aiutarlo ad alzarsi.
Il ragazzo si sentì leggermente imbarazzato dalla cosa ma non se la sentì di dirle alcunché. Era silenziosamente grato della sua presenza, abbastanza da apprezzare la sua premura e non sbattergliela in faccia.
Isabelle l’accompagnò fino in camera dove lo lasciò infilarsi a letto e gli rimboccò teneramente le coperte. Alec si sentì immediatamente meglio una volta che la sua schiena incontrò il materasso e avvertì la stanchezza di quel giorno tornare a gravargli addosso. I suoi occhi erano ancora pesanti dal sonno, dal pianto e dal doloroso pulsare che sentiva dietro le orbite e per questo si chiusero immediatamente non appena poggiò il capo sul cuscino.
Non fece neppure in tempo a sentire la voce di sua sorella augurargli la buonanotte che già era nuovamente sprofondato nell’incoscienza.
 
 
Quando riaprì gli occhi la volta successiva, il cielo fuori dalla finestra era ancora buio.
A giudicare da come si sentisse fisicamente meglio era sicuro di aver dormito a lungo eppure non sembrava trascorso che un momento da quando s’era nuovamente assopito.
Sospirando, Alec si rigirò nel letto così da ritrovarsi con il viso rivolto verso il soffitto, una mano sulla fronte a spostare qualche ciocca disordinata dai suoi occhi.
I ricordi degli eventi della sera precedente lo assalirono tutti in una volta facendolo sentire a dir poco sfinito. Non voleva affrontare le conseguenze di quella serata eppure al tempo stesso si sentiva un po’ più leggero.
Quello che era successo con Isabelle, quel pianto sentito e troppo a lungo trattenuto, aveva in qualche modo alleviato il peso che sentiva addosso dandogli un minimo di forza per reagire. Difatti, contrariamente a quanto era successo nelle settimane precedenti, invece di rimanere a letto a crogiolarsi nella sua malinconia, Alec si liberò delle coperte e si mise a sedere con le gambe piegate oltre il bordo del materasso. Coi piedi che cercavano alla rinfusa le ciabatte si massaggiò il collo indolenzito e afferrò il proprio cellulare dal comodino. Non ricordava di avercelo messo lui, probabilmente doveva averlo messo lì Isabelle mentre dormiva.
Il display gli disse che erano le cinque del pomeriggio portandolo a sollevare basito le sopracciglia. Non aveva mai dormito così tanto in tutta la sua vita.
Si alzò in piedi e, avvicinandosi alla finestra, vide i lampioni illuminare la strada sottostante, qualche ragazzo passeggiare ben stretto nel proprio cappotto per proteggersi dal freddo. In un paio di giorni sarebbe stato Natale e le temperature erano decisamente basse, al punto da materializzare i respiri della gente in soffici nuvolette di vapore.
Le luci che abbellivano le case circostanti, da lontano, sembravano quasi un mare di stelle colorate e offrivano una visione davvero suggestiva.
Chiudendo la finestra Alec recuperò degli abiti puliti e quindi si diresse verso il bagno.
Gli sembrava di poter ancora sentire la sensazione del sudore sulla pelle sebbene quello si fosse già asciugato da ore. Si spogliò dei vestiti del giorno precedente e si concesse una lunga doccia rigenerante per eliminare gli ultimi residui di quella pessima serata.
Sperava che l’acqua potesse cancellare quanto era successo ma sapeva che nessuno avrebbe dimenticato. Soprattutto Isabelle.
 Quando uscì dalla cabina indossò il suo accappatoio e si osservò allo specchio per diverso tempo ricercando in quel riflesso se stesso. A tratti gli sembrava di non riconoscersi nemmeno, di non ricordare se fosse sempre stato così. Aveva sempre portato i capelli a quel modo? I suoi occhi erano sempre stati così grandi? Le sue ciglia così lunghe? Faticava a ritrovare, nella sua mente, l’Alec cui tutti sembravano aggrapparsi così disperatamente.
Si lavò distrattamente i denti, si asciugò per bene i capelli e quindi s’infilò un paio di vecchi jeans scoloriti ed una felpa nera dotata di cappuccio. Sentendosi decisamente più in ordine tornò nella sua stanza.
Infilò un paio di scarpe e quindi recuperò il cellulare preparandosi ad affrontare chiunque avesse trovato davanti di sotto. Sperò vivamente che Isabelle non avesse informato i genitori di quanto successo la sera precedente e quindi di non dovere delle spiegazioni anche a loro perché, davvero, non avrebbe saputo cosa dirgli.
Sceso di sotto vide che dei genitori non c’era traccia ma che Izzy era seduta sul divano del soggiorno assieme a Clary. Jace, stravaccato su una poltrona, carezzava il piccolo Church grattandolo sotto il mento.
Alec si ritrovò a fissare i ragazzi a labbra schiuse, non aspettandosi di trovarli lì.
«Alec» disse Isabelle non appena lo vide comparire da oltre l’arco del corridoio, portando anche la coppia di ospiti a volgere verso di lui lo sguardo.
«Ehi amico, ben svegliato!» esclamò Jace sollevando una mano, il sorriso immancabile sulle labbra. «Iniziavamo a pensare che non ti saresti più svegliato. Stavo quasi per salire a darti un bacio per vedere se avrebbe rotto l’incantesimo» ironizzò.
Alec avvampò a quelle parole arricciando d’istinto il naso.
«Piuttosto lasciami morire.» brontolò mentre andava in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua, portando l’amico a ridere sulla sua poltrona.
Finora tutto era sembrato tranquillo. Per un istante osò quasi sperare che lo avrebbero lasciato andare. Per un istante.
Mentre svuotava il suo bicchiere vide Jace raggiungerlo in cucina con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. «Ehi Alec, senti, possiamo parlare un attimo?»
Ovviamente.
Alec mise giù il bicchiere e si voltò verso di lui.
«Senti se è per ieri—» iniziò col dire prima di venire interrotto dall’amico.
«No. Non esattamente.» disse il biondo spegnendo la replica di Alec sul nascere.
Il ragazzo si ritrovò ad osservarlo confuso non sapendo cosa aspettarsi da lui. Jace sembrava tranquillo, assolutamente rilassato, ma questo non toglieva che avrebbe potuto mettersi a fargli una paternale in qualsiasi momento.
Alec boccheggiò per un istante portando l’amico a dargli un buffetto sulla spalla.
«Dai vieni, facciamoci un giro.» lo incoraggiò mostrandogli il suo sorriso sghembo, portando Alec ad esitare prima di annuire piano.
Salutando le ragazze i due infilarono i loro giacconi ed uscirono fuori accolti da una ventata di aria gelida. Il contrasto col calore degli interni fece salire un brivido lungo la schiena del ragazzo facendolo stringere in se stesso, le mani ficcate rapidamente nelle tasche del piumino. Sentiva le punte delle orecchie iniziare a gelarsi eppure, in qualche modo, la sensazione dell’aria frizzante sulla pelle lo galvanizzò.
Mosse qualche passo rimanendo ancora nel cortile d’ingresso di casa vedendo l’aria condensarsi sotto i suoi occhi in piccole nubi evanescenti. Jace, dal canto suo, lo affiancò fermandosi poi sul posto a gambe leggermente divaricate.
«Credo di sapere qual è il problema.» esordì, d’un tratto, ruotando il capo in direzione dell’amico. Alec si sentì colto alla sprovvista a quelle parole e lo fissò instupidito sbattendo rapidamente le ciglia, disorientato.
«Co-come?» chiese, esitante, sentendo la tensione iniziare già ad arrivargli alle viscere.
Jace lo guardò in silenzio per un istante. «Io lo so
Alec mosse un passo indietro fissandolo inorridito.
«Non so di cosa tu stia—N-non sai cosa…» iniziò col dire sentendo il sapore della bile bruciargli nella gola. Sentiva che avrebbe potuto vomitare da un momento all’altro. Non poteva credere che Jace sapesse. Lui non poteva sapere cosa c’era che non andasse in lui.
Jace rilasciò uno sbuffo di condensa dalle narici.
«Sono anni che lo so, Alec. Ma vedendo come ti faceva sentire ho sempre pensato che non fosse il caso di parlarne prima che fossi tu il primo a farlo. Volevo che ti sentissi pronto, che ti rendessi conto di poterti confidare con me. Ma adesso mi sembra che tu non possa cadere più a fondo di così e non credo che dovrei aspettare ancora per parlare.»
Alec sentì il cuore battergli dolorosamente rapido nel petto, la bocca farsi asciutta mentre lo fissava stordito. Il freddo della brezza pomeridiana sembrò aver raggiunto l’interno delle sue ossa, il nucleo stesso della sua anima.
«Cosa—non capisco cosa vuoi dire…» balbettò, ancora, frastornato dall’inattesa svolta degli eventi.
Jace gli si piazzò davanti, erto in tutta la sua altezza, e lo guardò dritto negli occhi senza la minima traccia della leggerezza che aveva mostrato poco prima dentro casa.
«So che avevi una cotta per me.»
Le sue parole affondarono come macigni dentro il ragazzo.
Alec sgranò gli occhi balbettando, nel panico, senza emettere alcun suono.
«Cosa?!» riuscì ad esclamare soltanto, alla fine, acuto. Non sapeva come il ragazzo potesse sapere una cosa simile, non aveva idea di come lo avesse compreso o da quanto tempo lo sapesse. L’unica cosa che, d’istinto, sapeva, era che dovesse negare. Negare e fuggire. Scappare dai suoi occhi, dalle sue parole, nascondersi lontano dove il suo sguardo non potesse impedirgli di mentire. Ma i suoi piedi pesavano improvvisamente come piombo, il suo corpo sordo ai suoi comandi.
Jace non parve affatto impressionato dalla reazione dell’amico e, assolutamente composto, gli rimase davanti sostenendo il suo sguardo.
«Andiamo Alec, pensi davvero che non me ne fossi accorto? Che sia stato il primo a guardarmi così?» riprese il biondo colpendo il ragazzo con la sua schiettezza quasi brutale al pari d’uno schiaffo in pieno volto. «Ti sono piaciuto per anni e dato che non hai mai detto una parola non l’ho fatto nemmeno io. Non stava a me farlo, non se non eri pronto a farlo per primo. Ma se nasconderlo ti fa sentire così allora—»
Lo spintone giunse prima che Alec se ne rendesse conto.
Jace, sorpreso tanto quanto lui, arretrò di diversi passi nonostante fosse sempre stato quello più forte fra i due.
Il viso di Alec era congestionato dall’orrore, dallo shock, il suo cuore così rapido da fargli sinceramente male contro il torace. «Non sai niente! Niente!» esclamò il ragazzo col fiato corto, gli occhi lucidi per via del freddo e dell’agitazione.
La scoperta che Jace avesse sempre saputo tutto, in tutti quegli anni, lo aveva profondamente scosso e spaventato. Al tempo stesso, però, non sapeva quello di cui stava parlando. Non aveva idea della profondità dell’abisso dentro cui aveva iniziato a scavare e non sapeva quanto pericolosamente stava spingendo l’altro verso il limite.
Jace lo fissò sorpreso, per una volta a corto di parole.
«Alec…» riuscì solo a mormorare, dopo un po’, man mano che la confusione iniziale sfioriva. «Non c’è niente di male. Per me sei lo stesso—»
Ma prima che potesse dire cosa fosse per lui, Alec lo aveva nuovamente spinto da parte ed era corso via.
   
 
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