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Autore: Bibliotecaria    23/07/2021    0 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Note dell'autrice: Scusate, mi sono fatta attendere parecchio a questo giro ma ho riscontrato diversi problemi tecnici e ho avuto poco tempo da dedicare alla rilettura. Spero comunque che il capitolo vi sia gradito, anche perchè ho notato che c'è sempre qualcuno che un'oretta dopo che ho pubblicato legge sempre il nuovo capitolo e non so come esprimere la mia gratitudine per questo.
Detto ciò, buona lettura a tutti voi!




21. Il filo spezzato
 
 
 
 
I giorni si seguirono uno dietro l’altro inesorabili, oramai tutti noi avevamo deciso di andarcene e così avremmo fatto.
I ragazzi continuavano ad insistere sul fatto che avrei dovuto parlare della questione con la mia famiglia ma continuavo a rimandare: non volevo che loro sapessero e una parte di me temeva che se avessero scoperto tutto quello che gli avevo tenuto nascosto in quei mesi mi sarei ritrovata con un cappio alla gola. Ovviamente queste erano solo voli pindarici di una diciannovenne ma comunque mi risultò più semplice vendere ogni singolo oggetto di troppo nella mia stanza per ottenere del denaro che rivolgere lo sguardo ai miei.
Dalla nostra litigata non ci parlavamo più, non era la prima volta che succedeva quell’anno, oramai avremmo dovuto averci fatto il callo ma sentivo che questa volta non potevo riparare ciò che avevo fatto. Sapevo di essermi spinta troppo oltre e che adesso, anche se lo avessi desiderato con tutte le mie forze, non sarei riuscita a salvare il rapporto con i miei genitori.
 
Non so cosa avrei dato per avere avuto Giulio al mio fianco in quei momenti: lui avrebbe saputo come farmi ragionare e mi avrebbe sostenuta con tutte le sue forze.
E ogni volta che lo pensavo, una morsa di ghiaccio mi stringeva il petto, ricordandomi che lui non c’era più e che era tutta colpa mia. A quel punto il respiro si appesantiva, i sensi si offuscavano, i rimorsi mi divoravano famelici e tutti gli istanti che avevamo passato assieme diventavano stilettate nella mia carne.
 
In quei momenti perdevo il controllo di me, del mio corpo, delle mie reazioni, vomitavo e scoppiavo a piangere. Nel arco del primo mese subii questi attacchi per quattro volte e, stranamente, l’unico modo che avevo per placarli era proprio pensare a lui, al suo calore, al suo profumo, al suo sorriso.
Non avevo fatto parola ad anima viva di questi attacchi, continuavo a ripetermi che erano passeggeri e che sarebbero spariti appena avrei iniziato a stare meglio. Ed effettivamente ad un certo punto smisero di manifestarsi ma credo che ciò avvenne solo perché sapevo di essere in pericolo di vita.
 
 
Era il 30 maggio 2024 della terza Era e stavo tornando a casa dopo la scuola. Ero relativamente tranquilla, cosa rara in quel periodo, avevo appena avuto il risultato della mia ultima verifica di Storia, ricordo perfettamente di aver preso un 9 e mezzo, il voto più alto che avessi mai preso in quella materia, e non potevo fare a meno di sentirmi un pochetto orgogliosa. Soprattutto considerando che la prestazione nelle mie ultime verifiche era calata drasticamente, non avevo mai preso tanti 6 e 5 come in quel periodo.
 
Avevo cercato di non farmi pesare la cosa, giustificandomi un po’, ma più lo facevo più sentivo che questa era solamente l’ennesima dimostrazione di quanto incompetente io fossi. Stavo lasciando fin troppe questioni a Galahad e Orion che si stavano facendo in quattro per riuscire a sparire nel nulla senza destare sospetti.
Felicits oramai era diventata la balia mia e di Nohat, che stava male almeno quanto me, se non peggio. Vanilla stava impazzendo per riuscire a convincere la sua famiglia ad andarsene malgrado il sostegno di Garred che però era stato scacciato di casa e viveva accampato a casa di lei.
 
In contemporanea continuavo a ricevere lettere da Lovaris che mi aggiornavano su Cagnone, nome in codice che usavamo per il drago, e potevo sentire la preoccupazione dei miei compagni che trasudava dalla carta malgrado stessero cercando di mantenere toni rilassati. Tuttavia sapevo che erano terrorizzati da tutta questa situazione. Per giunta Zafalina chiamava un giorno sì e l’altro pure per parlare, probabilmente per assicurarsi che non stessi facendo cazzate e per accertarsi della mia salute mentale. Probabilmente in quel momento si stava dirigendo al Bar il Fauno per chiamarmi.
 
 
Bloccai il flusso di pensieri che mi stava travolgendo come un’onda anomala, conscia che se mi lasciavo soffocare da questi avrei avuto un altro attacco, mi imposi di calmarmi: non volevo arrivare a quota cinque in poco più di un mese. Mi accostai al muro d’un edificio, chiusi gli occhi e iniziai a concentrarmi sulla respirazione, rallentandola e obbligandomi a restare immobile fino a quando non riuscii a percepire solamente il sole caldo di fine primavera sulla mia pelle.
In qualche modo riuscii a riacquisire lucidità, più o meno, sapevo che più tardi avrei avuto un pianto isterico, ma dovevo accontentarmi di questo piccolo istante di pace, almeno fino a quando non sarei tornata a casa.
 
 
Mi scansai dal muro e qualcosa attirò la mia attenzione: un movimento furtivo tra la folla.
Fu allora che lo vidi: occhi gialli, corna piccole e arricciate su loro stesse, una lunga coda sottile, ali da pipistrello e un sorriso divertito stampato sul volto.
La vista di Idroel mi pietrificò per un istante, poi iniziai a far volteggiare il mio sguardo a destra e a sinistra, alla ricerca di altri Rivoluzionari, ma non ne vidi nessuno. Riportai il mio sguardo su di lui e non vi trovò più il timore o esitazione di pochi istanti fa, li avevo incatenate nel angolo più recondito della mia mente per lasciare spazio alla rabbia che stava bramando di uscire.
Tuttavia mi trattenni, se avessi fatto scenate la situazione sarebbe degenerata e non mi pareva il caso di scatenare una rissa in pieno giorno. La cosa più saggia sarebbe stata spostarci in un vicolo buoi e risolvere la questione tra noi due, tuttavia io non avevo la pistola con me e questo mi poneva in una seria condizione di svantaggio. Forse avrei dovuto lasciarlo stare e poi parlare coi ragazzi per capire di cosa avrebbe potuto significare.
 
In quel istante un uomo mi afferrò il braccio, istintivamente mi liberai della sua presa prima ancora di realizzare chi fosse, mi bloccai solo quando questi fece un passo in dietro in segno di resa, malgrado mantenesse una posizione di difesa. “Diana Dalla Fonte?” Domandò l’umano che capii esser un agente di polizia grazie alla divisa. “S-sì?” Domandai preoccupata dalla presenza del agente, per un istante pensai che Idroel avesse spifferato tutto alla polizia ma pensai che fosse strano dato che non aveva prove. “Mi segua.” Ordinò l’uomo categorico. Lo seguii spaventata: qualsiasi fosse la questione non era niente di buono.
 
Venni trascinata fino al ascensore e lì premettero il pulsante per raggiungere il mio piano. Tentennai un secondo incerta su cosa dire o fare ma decisi di mantenere il silenzio dato che non mi stava conducendo in centrale. Quando arrivammo venni spintonata fino a casa mia e lì trovai ad attendermi mia madre e mio padre ancora in divisa, il collega sottoposto di mio padre e un altro paio di poliziotti. “L’abbiamo trovata signora.”
A quelle parole mia madre si fiondò su di me e mi abbracciò con una forza travolgente.
“Diana, stai bene?” Erano le prime parole che mi rivolgeva da più di un mese e forse erano le uniche che avevo agognato che mi rivolgesse.
 
Non le risposi, me la scostai di dosso come mi resi conto di quel che era successo in salotto: c’erano numerosi scarti di animali morti su tutto il pavimento e le foto di famiglia erano state in parte imbrattate.
Senza chiedere ulteriori spiegazioni compii ampie falcate verso la mia camera ignorando bellamente le voci di tutti e raggiunsi la mia stanza. Andai dritta sotto al mio letto, spostai la valigia e le lenzuola invernali e trovai una cassa il legno sporca di qualche liquame schifoso ma ancora integra. Trassi un sospiro di sollievo: in quel affare tenevo i soldi che avevo ricavato in quei mesi, le lettere dei miei compagni di classe, il mio diario e la bandana rossa. Tutte cose a cui non potevo rinunciare e che non dovevo perdere.
 
Rabbrividii al pensiero che se avessero avuto il tempo di leggere il diario o le lettere avrebbero scoperto dov’era il drago, che i miei compagni erano coinvolti e che avrebbero avuto una potente arma per costringermi a fare quello che volevano. Mi accucciai a terra e controllai lo stato del lucchetto: nessun segno di tentati scassino.
Strinsi il mio pendente e ringraziai il Sole, la Luna e tutti gli Astri per aver impedito che il peggiore scenario si realizzasse. E mentre lo facevo iniziai a tremare compulsivamente. Per la mia stupidità avrei potuto buttare a monte mesi in cui non facevo altro se non vendere i miei effetti personali, nel migliore dei casi, nel peggiore avrei messo a rischio nuovamente la vita delle persone a me care perché non avevo avuto la presunzione che casa mia fosse un luogo abbastanza sicuro.
Con gesti scattosi tirai fuori dallo zaino le chiavi e aprii il lucchetto, almeno avevo sempre avuto l’accortezza di portarmi dietro la chiave. Al interno della cassa tutto era integro, ammaccato, ma nulla di grave.
 
Sentii il cuore farsi un po’ più leggero e solo allora lanciai un’occhiata alle condizioni della mia stanza: i vetri della finestra erano rotti, le foto miei e delle persone a me care erano state gettate a terra e in certi casi strappate. I miei libri di scuola erano immersi nel sangue e così i miei vestiti, il mio coltello era stato impiantato nel cuscino e potevo capire che non avevano ancora concluso l’opera dato che c’erano dei fiammiferi abbandonati alla bene in meglio per la stanza.
 
“Mi dispiace Diana.” Sussurrò mio padre appoggiandomi una mano sulla spalla. Trassi un profondo respiro e mi ritrovai a pensare che avrei così tanto voluto che me lo avesse detto quella notte, ma non lasciai che il ricordo mi travolgesse, afferrai il mio zaino e lo rivoltai sul pavimento. “Aspetti signorina! È una scena del crimine.” Disse il giovane poliziotto che mi aveva trascinata fino a qui. “Se non aveste già preso ciò che vi serviva, non mi avreste lasciata entrare e mi sembra di capire che non abbiate trovato impronte o il coltello non sarebbe lì.” Spiegai monotona infilando brutalmente il denaro nello zaino sotto lo sguardo perplesso dei presenti.
“Diana… quei soldi…?” Mi domandò mio padre mentre li coprivo con la bandana e recuperavo il mio portafoglio e la foto mia e di Giulio che tenevo nel diario scolastico per spostarlo in quello personale. “Come avrete potuto notare in questo mese ho venduto tutto il vendibile e sono brava a trattare.” Risposi asettica a mio padre senza aggiungere altro, sapevo che non mi credeva ma non avrebbe fatto ulteriori domande davanti al suo collega e alla polizia.
Infilai dentro il diario e le lettere per ultime per poi chiudere lo zaino con un gesto scattoso, me lo caricai in spalla.
 
Mi avvicinai al letto ed estrassi il coltello per poi lanciare uno sguardo al poliziotto. “Chi si è accorto dell’inflazione?” Domandai avvicinandomi a lui in un concentrato di furia e determinazione.
“I vicini. Hanno sentito rumori sospetti e hanno chiamato l’usciere che però è riuscito solo a intravederli.” Accennai di aver capito e lanciai uno sguardo al piano superiore.
“Com’è messo l’altare?” Domandai più per sapere quanto dovevo fargliela pagare a quei bastardi. “Non sono arrivati ai piani superiori, ma data la quantità di alcool che abbiamo trovato in giro credo che volessero dare fuoco a tutto.” Rispose il collega di mio padre leggermente scosso dalla mia calma.
“Bene.” Sussurrai per poi dirigermi verso l’esterno.
 
“Diana! Dove vai?!?” Esclamò mia madre spaventata. “A casa di amici, è chiaro che qualche bastardo mafioso vuole ferire me per colpire voi. Me ne tornerei a Lovaris ma ho la scuola e non intendo ripetere l’anno.” Risposi cercando di mantenere un tono pacato.
“E vuoi mettere a repentaglio l’incolumità dei tuoi amici in questo modo?” Mi domandò mio padre spaventato. “No. So benissimo che dobbiamo trasferirci in caserma, non sono scema. Vado a casa di amici per pianificare un modo per recuperare mesi di lavoro. Non ho più un libro o un quaderno che è apposto, e i soldi mi servono per comprare almeno un ricambio. Ci vediamo in caserma per le sei.” Risposi per poi cominciare a camminare verso l’esterno.
 
Dopo un paio di secondi vidi il collega di mio padre corrermi dietro. “Ti ha messo a farmi da balia?” Domandai, mi accennò affermativamente. Sospirai seccata ma una parte di me ringraziò mio padre. “Mi ha anche detto di consegnarti questa.” Disse passandomi la pistola.
Come appoggiai lo sguardo sull’arma ogni singolo muscolo mi si irrigidì e per un istante fu come tornare quella notte. Ma mi concessi di essere debole per solo un istante, poiché strinsi i pugni per far scivolare via quella sensazione e agguantai la pistola che nascosi dietro alla maglia una volta che la tirai fuori dai pantaloni.
“Sapete già chi lo ha fatto?” Il collega di mio padre fece spallucce. “Non hanno lasciato una firma e dubito che anche se fosse la avrebbero voluta lasciare.” Accennai di aver capito. “Grazie…. Attilus Terenzi.” Sussurrai dopo aver letto il nome cucito in piccolo sulla divisa accanto al numero di matricola e solo allora mi resi conto di quanto fosse giovane: non doveva avere più di tre o quattro anni in più di me. Lui mi sorrise. “Piacere mio, tuo padre mi ha insegnato talmente tante cose, mi sento in debito verso di lui. E tua madre è la donna più tosta che abbia mai avuto l’onore di conoscere. Quei due sono un’ottima squadra.” Sospirai, lo sapevo fin troppo bene che quei due erano il miglior duo del mondo, il problema ero io che spezzava quel armonia perfetta che loro avevano e adesso rischiavo persino di danneggiarlo. Per questo non potei che concordare con lui con un sorriso amaro. “Sì, lo sono.”
 
Non parlammo più di tanto per il resto del tempo, Attilus mi seguiva assecondandomi come una perfetta guardia del corpo, cercò di dire qualcosa quando gli sbattei la porta in faccia a casa di Orion ma rimase fuori ad attendermi.
Almeno così potei parlare liberamente con Orion.
 
“Sei sicura che fosse lui?” “Al mille per cento.” Orion si passò una mano nella sua capa striata di grigio. “Cazzo!”
“Orion dobbiamo andarcene da Meddelhok, il tempo dei preparativi è ufficialmente scaduto. Io sono protetta, ma tu e il resto dei ragazzi ve ne dovete andare.” Orion guardò la sua casa: aveva già raccolto tutta la sua vita in degli scatoloni, come tutti del resto, ero io l’unica che aveva deciso di vendere tutto e non dire nulla ai genitori.
“Abbiamo tempo massimo due settimane. Appena si renderanno conto che tu non puoi essere un loro bersaglio punteranno a qualcun altro.” Mi spiegò Orion. “Va’ bene. Inizieremo a trasferire più gente possibile a Lovaris come d’accordo. Manderemo avanti i più piccoli e i genitori, i ragazzi resteranno da te fino a quando tutto non sarà concluso.” Dissi facendo per alzarmi, ma a quel punto Orion mi bloccò con la sua grossa mano callosa. “E i tuoi genitori Diana?” Mi domandò severo coi suoi occhi dorati.
 
Rimasi in silenzio un secondo. “Non sapranno nulla e sparirò dalle loro vite.” Risposi ma Orion fece un sorriso rassegnato. “Diana, sono i tuoi genitori, e, come padre, so perfettamente che il tuo scappare da loro li allontanerà solo temporaneamente. Presto o tardi lo verranno a scoprire. E non credo che ti lasceranno andare facilmente dopo questo… incidente.” Abbassai lo sguardo, sapevo che aveva ragione ma volevo sperare che i ponti tra me ei miei si potessero disintegrare. “Ho ancora un’ultima carta da giocare.”
“Non basterà e quando succederà…”
“Mi inventerò qualcosa.” Risposi sulla difensiva, Orion mi guardò con dolcezza e amarezza e mi accarezzò il viso.
“So che per quanto li odi li vuoi proteggere.” Mi sciugai una lacrima con fare scattoso non sapendo se odiavo di più il fatto che avesse ragione o che provassi ancora qualcosa per loro. “Ma so anche che solo la morte li separerà da te.” Strinsi le labbra con tale forza che quasi sentii il sangue uscire. “Quindi, Diana, provaci pure, ma io so già che non funzionerà.”
 
Me ne andai via con più grattacapi di prima.
 
 
I giorni che seguirono fui irreperibile per chiunque: avevo bisogno di riflettere su una cosa e di calmarmi. Malgrado mi sforzassi di essere operativa e di concentrarmi sugli imminenti esami la mia mente era altrove, intenta a programmare un piano perfetto per sparire dalla vita di tutti senza lasciare tracce. Per giunta le energie che disponevo nell’arco di una giornata erano incredibilmente poche: tra le notti insonni passate a piangere, la costante sensazione di pericolo che mi perseguitava e la pesantezza che sentivo nel cuore era un miracolo che non crollassi a terra disperata ad ogni piccolo intoppo.
 
Dopo cinque giorni a questo modo mia madre bussò alla mia porta.
“Diana?” Iniziò lei placida. “Diana sei lì?”
“Certo.” Risposi mentre contavo i soldi che mi erano rimasti dopo essere stata costretta ad usarne una parte per comprarmi lo stretto necessario per vivere dato che lo scherzetto di Idroel aveva reso inutilizzabili quasi tutti i pochi vestiti che mi erano rimasti e, per quanto avessi deciso di optare per uno stile laconico, non potevo avere solo una maglietta.
“Intendi restare chiusa in camera per tutto il tempo?” Mi domandò dato che era la quarta cena che saltavo. So che avrei dovuto mangiare ma alla sera avevo sempre lo stomaco chiuso e una galletta mi era più che sufficiente per placare la fame.
 
“Se voglio uscire di casa devo pianificare tutto nei minimi particolari.” Risposi disinteressata cercando di non perdere il conto e dando un’occhiata alla lista degli oggetti che dovevo rimediare prima di partire. “Diana, lo sai che tuo padre dice tante cosa in preda all’ira. Parlaci, potrebbe cambiare idea.”
“Sono io che non cambierò idea.” Mi limitai a comunicare. “Diana, esci, ti prego. Fatti vedere.” Supplicò mia madre.
 
Sospirai esasperata: a quanto pareva non c’era verso di farla andare via. Così mi alzai e aprii la porta.
La prima cosa che vidi negli occhi allungati di mia madre fu sorpresa. “Vesti il lutto.” Disse notando che indossavo solo abiti scuri e avevo messo in bella vista la mia catenina con la luna crescente in argento. Anche se a dirla tutta vestivo a tale maniera perché non avevo altro nel armadio ma ciò non eliminava un fattore importante.
 
“Io sono in lutto.” Dissi con serietà, e non solo i miei abiti testimoniavano il mio dolore, ma anche il mio corpo parlava da sé: ero emaciata, pallida, con profonde occhiaie per le notti passate a piangere, le unghie mordicchiate, non mi nutrivo a dovere da giorni e attraverso i miei occhi era possibile vedere una profonda ombra di dolore consumarmi l’anima.
“Ancora? È passato più di un mese. Hai pianto abbastanza per quel licantropo. Capisco che fosse tuo amico ma ora basta Diana.” Mi disse mia madre cercando di avvicinarsi.
Fu allora che una profonda ira controllata invase il mio petto. “Lui ha un nome.” Dissi con una voce talmente dura, fredda e tremante che mia madre compì un passo in dietro, ma si riscosse subito e riprese a parlarmi. “Lo devi lasciare al passato. Era un amico. Gli amici vanno e vengono, ci sono migliaia di Uomini e Altri che potrebbero diventare tuoi amici. Devi andare avanti.”
 
I nostri occhi si incrociarono e sentii la mia presenza annullare la sua, aveva paura di me, lo si leggeva chiaramente. Temeva questo mio freddo controllo, il fuoco nei miei occhi e la triste consapevolezza del mio essere diventata un’adulta. “Lui non era un semplice amico. E tu lo sia.” Dissi con estrema durezza ma senza scompormi di un millimetro. “Diana, per favore, tutta questa sceneggiata…. Non ne vale la pena!” Esclamò mia madre.
 
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi avvicinai a lei, lasciando la sicurezza della mia stanza, e la guardai dritta negli occhi. “Quanto piangeresti se papà morisse?” Domandai mentre sentivo mia madre rimpicciolirsi.
“Non paragonare la relazione che c’è tra me e tuo padre con un amore adolescenziale!” Esclamò mia madre arrabbiata.
“L’amore, quello vero, nasce spesso così.” Iniziai ergendomi su di lei. “E io ho pieno diritto di soffrire per tutti quegli anni che non potrò vivere accanto a lui.” Sussurrai a pochi centimetri da mia madre. “E se insulterai un’altra volta la memoria di Giulio non sarai più mia madre.” Decretai per poi voltarmi e chiudere la porta.
 
Pochi istanti dopo sentii mia madre cadere a terra e scoppiare a piangere. Mi sorprese: l’avevo sentita piangere così solo quando mio padre le aveva detto che sapevo com’ero nata.
Ma non ebbi il tempo di sorprendermi: i passi pesanti degli scarponi di mio padre arrivarono davanti alla porta.
 
“Luisa cos’è successo?” Domandò mio padre, li sentii confabulare e pochi istanti dopo mio padre bussò pesantemente alla mia porta. “Diana! Adesso basta con questa storia!” Mi urlò da dietro la porta. “Claus, non serve a nulla.” Tentò di bloccarlo mia madre, prima che si facesse del male da solo. “No Luisa, voglio capire che succede!” Disse mio padre con uno strano tono nella voce, un tono che non sentivo da tanto tempo: preoccupazione.
 
Mi incuriosì e tesi l’orecchio per sentire meglio. “Diana ti prego! So che mi consideri tutto fuorché un buon padre.” Mi appoggiai alla porta, indecisa sul da farsi. “Ma ti prego, non voglio perderti! Lo so, ho minacciato di scacciarti di casa, e sì: sono solo bravo ad alzare le mani e la voce. Ma ti prego, io non voglio perdere mia figlia!” Appoggia la testa alla porta: c’erano mille parole che avrei voluto dire, erano lì, incise sul mio cuore, ma non riuscivano ad uscire, bloccate dalle mille catastrofi che esse avrebbero causato.
“Quindi apri questa maledetta porta e ricominciamo!” Mi sorpresi nel comprendere che mio padre stava piangendo.
 
“Sai perché eravamo venuti a prenderti quella sera?” Mi domandò mio padre. “Perché avevamo paura che avresti fatto qualche pazzia o che finissi in qualche brutto affare: è da quando siamo arrivati a Meddelhock che sembri un’altra persona!”
A quel punto mio padre si interruppe per lasciar parlare mia madre. “Diana, quello che cerchiamo di dirti è che, anche se non condividiamo le stesse idee, anche se ci fai soffrire, anche se sei tutto fuorché la figlia perfetta che volevamo, non ci importa.” Una parte di me voleva urlare che invece a loro importava anche troppo ma rimasi zitta. “Passeremo per degli zimbelli ma non ci importa, noi vogliamo continuare a fare parte della tua vita.”
 
Lasciai che la gravità mi trascinasse al suolo. A quanto pareva Orion aveva ragione: solo la morte ci avrebbe spezzato quel filo sottile che legava me ei miei genitori. Delle calde lacrime scesero sul mio volto: sapevo che cosa dovevo fare e che adesso era l’ultima mia occasione per chiudere definitivamente con i miei genitori ma non avevo la forza di farlo. Avrei dovuto interpretare un ruolo che non mi apparteneva, dire cose che avrei rimpianto per il resto della mia vita. Non potevo farlo da sola, avevo bisogno di qualcuno accanto a me.
Fu in quel istante che lo percepii: una mano calda, dolce e gentile che mi accarezzava la schiena. La mano di Giulio. Sapevo che era solo la mia testa che giocava brutti scherzi ma quel vacuo contatto fu sufficiente a darmi la forza per rialzarmi e asciugarmi le lacrime.
 
“Quindi ti prego Diana parlaci. Siamo stanchi di sentirti piangere tutta la notte e non poter fare altro se non ascoltarti.” Guardai la maniglia senza vederla, avevo ancora voglia di piangere e forse lo avrei fatto ma bastò quel che seguì per farmi capire che non sarebbe cambiato mai nulla con loro.
“Diana! Ti prego! Non vorrai mollare noi, i tuoi genitori, per un licantropo?” Domandò mio padre e sentii il petto bruciare d’ira: insistevano imperterriti nell’insultare la memoria dell’unico uomo che mi avesse dato tutto ciò di cui avevo bisogno e a cui io mi ero offerta anche se ammetto che quello che gli avevo dato era un millesimo rispetto a quello che avevo ricevuto.
 
Con rinnovata ira abbassai la maniglia e aprii la porta rassegnata all’idea che non sarebbero mai cambiati e che quindi, se non potevano adattarsi a me, non aveva senso tentare.
Gli suoi occhi scuri di mio padre e quelli marroni di mia madre incontrarono i miei che bruciavano in un fuoco verde di ira, disperazione, rassegnazione e determinazione.
Potei leggere nei loro occhi che solo in quel istante capirono il loro sbaglio: io avevo trovato in Giulio l’affetto che loro non mi avevano mai dato.
 
“Sareste stati in grado di accettare un matrimonio tra me e Giulio?” Domandai con una freddezza velenosa.
“Diana che domanda è mai questa?” Domandò mio padre. “Tesoro, aspetta…” “No, Lisa, non ce la faccio più! Perché continua a soffrire come una scema per quello!?!”
“Claus.” Il suo sguardo cadde su di me incredulo: per quanto litigassimo lui era sempre stato il mio papà e adesso era come se gli avessi sbattuto in faccio che non lo riconoscevo più come tale.
 
“Dici di non volermi perdere, ma non credi che se non mi avessi persa tempo fa sapresti la risposta?” Domandai pacata. “Che vuoi dire?” Guardai mia madre ma compresi che non lo avrebbe mai detto ad alta voce, poiché neanche lei poteva accettarlo.
“Che lo amavo.” Iniziai con le lacrime agli occhi. “E che sto soffrendo come non ho mai sofferto in vita mia. La notte non dormo, il cibo non mi attrae, anzi mi da al nausea, ogni singolo istante mi manca, e quando mi distraggo dal mio dolore mi sento in colpa. Cerco di tenermi impegnata ma come mi distraggo il dolore mi salta addosso. So di essere ancora giovane, e so che conoscevo Giulio da appena un anno, ma fa male, maledettamente male.” Dissi bloccandomi un istante per cercare di riprendere fiato e decoro.
“E se voi non riuscite ad accettare anche questo di me. Se credete che sia solo un capriccio dell’età, allora non abbiamo più nulla da condividere.” Dissi con le lacrime agli occhi e con queste parole chiusi la porta ai miei genitori.
 
Non nego che ogni tanto mi è mancato avere qualcuno da poter chiamare famiglia ma era tardi: troppo diversi e divisi da anni in cui non ci eravamo mai ascoltati. Loro allora avevano provato a salvare quel piccolo e fragile legame ma era tardi, troppo tardi, io ero praticamente un’estranea per loro.
 
Ciò non toglie che rimasero davanti a quella porta per ore, ma io non li ascoltai conscia che era meglio che mi odiassero prima che sparissi definitivamente dalle loro vite. Quando in fine smisero di bussare e se ne andarono a dormire io sgusciai fuori e chiamai Filip, tanto oramai era mattina e dovevo procedere con il piano.
“Pronto qui è il Fauno come posso aiutarla?” La voce conosciuta dall’altra parte della cornetta mi rassicurò. “Filip sono io, Diana.” Iniziai. “Diana? La mia cliente preferita! Come stai? È da un po’ che non ci si sente.” Sorrisi, non era cambiato di una virgola, mi sorpresi ad essere invidiosa di lui. “Filip mi faresti un favore?” Gli chiesi con la voce più dolce che riuscivo a fare. “Sì, qualunque cosa per la mia Diana. Cosa ti serve?” Chiese con la sua solita energia. “So che ti sembrerà strano. Ma potresti riferire ai miei compagni di vederci il primo luglio di quest’anno al solito posto? Loro capiranno a dove mi riferisco.”
“Sì certo!” Rispose. “Grazie.” Sussurrai, stavo per mettere giù quando questi mi interruppe.
 
“Diana cos’hai? Hai una voce strana.”
“Sono solo stanca non devi preoccuparti. E Filip…” “Sì?”
“Sei un grande amico.” Una lacrima scese lenta, solitaria e silenziosa. “Gr…grazie.” Pareva sorpreso: non gli avevo mai detto che lo consideravo un amico così chiaramente, era sempre stato lasciato ondeggiare nell’aria, nel nostro approccio confidenziale e nelle piccole attenzioni. Ma non avrei avuto altre occasioni per dirglielo e sentivo di doverglielo.
“Allora ci sentiamo!” Disse ritrovando l’allegria. “Certo.”
Filip chiuse la chiamata ma io rimasi un istante in più per dire quello che non avevo avuto il coraggio di dirgli. “Addio Filip.” Sussurrai prima di mettere giù la cornetta.
 
   
 
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