Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    24/07/2021    0 recensioni
Missing moment successivo all'episodio in cui Armin uccide il suo primo essere umano per salvare la vita a Jean
Cenni Jearmin
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Fanfic partecipante alla Atonement challenge del gruppo Hurt/comfort Italia – Fanfiction and fanart
 
Autore: Perseo e Andromeda – Heatherchan
Fandom: L’attacco dei giganti
Personaggi: Jean e Armin
Titolo: tutto quello che abbiamo
Genere: angst, introspettivo, hurt/comfort
Rating: giallo
Note: Missing moment ispirato ad un episodio della terza stagione. Armin, per la prima volta, ha sparato a un essere umano per salvare la vita di Jean. Purtroppo l’ho visto tantissimo tempo fa, quindi non ricordo esattamente tutti i dettagli, prima o poi farò il terzo rewatch completo. Intanto spero di non aver commesso errori o incongruenze XD

 
TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO



Jean non riusciva a darsi pace, nonostante le parole del capitano.
Anzi, proprio a causa delle parole del capitano, perché erano state così vere: se lui era vivo, era perché qualcun altro si era addossato la responsabilità di ciò che avrebbe dovuto fare lui, ovvero sparare, uccidere quella ragazza nemica che gli aveva puntato contro l’arma.
Invece aveva sparato Armin… proprio Armin… quello su cui nessuno al mondo avrebbe scommesso, quello che meno di tutti sarebbe stato ritenuto capace di un simile gesto.
La capacità l’aveva trovata, sradicata dal suo animo gentile, solo mosso dall’istinto di proteggere qualcuno cui voleva bene.
Sacrificare una vita per salvarne un’altra…
Scegliere tra due vite, metterle sui due piatti di una bilancia…
E Armin aveva scelto lui.
Mentre camminava nella notte, quasi richiamata dai propri pensieri, vide spuntare una figura che si dirigeva verso di lui, a passo incerto.
Sembrava sul punto di cadere.
Era piccola e la luna rifulgeva tra i capelli dorati, a caschetto.
«Armin…» mormorò Jean, fermando i propri passi.
L’altro invece continuò ad avanzare ed era sempre più chiaro che stava barcollando, finché notò la sua presenza e si arrestò a propria volta, una mano appoggiata al muro.
«Jean…» lo chiamò, in un flebile sussurro.
Jean ascoltò quel richiamo, lo raggiunse e quello che vide lo impressionò: Armin aveva il volto scavato, due cerchi enormi sotto gli occhi, sbarrati, con una strana luce che li faceva sembrare in preda a qualche allucinazione visiva. L’aveva visto spesso così, ogni volta che scampavano ai giganti, ogni volta che erano costretti ad assistere alle carneficine di quelle creature mostruose.
«Stai bene?».
Armin annuì, a stento.
Davvero poco credibile, pensò Jean, tremava come una foglia e l’espressione che aveva non lo rassicurava affatto.
«Ti… cercavo».
«Cercavi me?».
Un altro cenno d’assenso di Armin e un tremito più forte.
«Temevo che stessi male per…» deglutì e non riuscì a proseguire.
Jean corrugò la fronte:
«Che stessi male… io?».
Il viso di Armin si abbassò, si portò una mano alla fronte, era visibilmente confuso.
«Per… ecco… quello che è successo sul carro…».
«Come potrei stare male? Sono salvo grazie a te».
Il senso delle parole mitigava il torno burbero con il quale erano state pronunciate.
«Ma… mi sembrava… ti sentissi in colpa perché io…».
Jean sospirò. Adesso era chiaro.
«Perché tu hai ucciso una persona per salvarmi… ho capito».
Il viso di Armin si sollevò di colpo, la mano sulla fronte salì e le dita si aggrapparono ai capelli, quasi volesse strapparseli.
La mano che si reggeva al muro si staccò, si posò sulla guancia e le dita divennero artigli, pronti a ferire la carne, le lacrime sgorgarono, come se non avessero atteso altro che poterlo fare.
«Armin…» mormorò Jean.
Le unghie di Armin graffiarono, gli occhi si fecero vacui, sempre più lontani, i tremori così forti che sembrava sul punto di andare in pezzi.
La voce sottile parlò ancora, ma le parole si fecero sempre più sconnesse:
«Ho… ho… ucciso… io…».
La mano tra i capelli scivolò sulla bocca, ad arginare un’ondata di nausea, il corpo di Armin divenne instabile e, mosso dall’istinto, Jean si gettò avanti, appena in tempo per non vederlo crollare a terra.
Lo avvolse in un abbraccio, lo tenne saldamente, poi si lasciò scivolare al suolo con lui, appoggiò la schiena al muro e lo riparò con il proprio corpo.
«Armin» lo chiamò, adesso davvero allarmato.
Lo sentiva ancora tremare, il corpo era gelato al tocco. Lo tenne adagiato contro di sé, gli prese delicatamente i polsi e staccò le mani dal viso pallido che il ragazzino stava martoriando senza pietà: graffi vistosi ed arrossati avevano già scalfito la pelle.
«Cosa stai cercando di fare? È un modo per punire te stesso, questo?».
Gli rispose uno sguardo terrorizzato, privo di parole che non fossero insensati balbettii: ci voleva poco per capire che Armin non era in sé e non si rendeva assolutamente conto di quel che faceva e di cosa gli accadeva intorno.
Si era trascinato fin lì per cercare lui e poi era crollato…
Questione di attimi.
Jean si morse il labbro inferiore: lui non era bravo a dare conforto agli altri, lui era quello che si comportava in modo superficiale, che scherzava, prendeva in giro, diceva sciocchezze.
Ed era anche quello che, una volta, aveva detto ad Armin di averlo considerato male per la sua dipendenza da Eren.
Eppure non era così, lui non aveva mai davvero pensato niente di male riguardo ad Armin, al contrario.
Ormai lo sapevano entrambi.
«Armin…».
Non credeva che sarebbe stato in grado di infondere nel richiamo una tale dolcezza, ma quegli occhi azzurri tanto sofferenti erano insopportabili, erano come una pugnalata nel petto, specchiarsi nel loro dolore era come rivangare il proprio e ne aveva tanto dentro, eccome se ne aveva.
“Marco… cosa devo fare?” si trovò a chiedersi. “Cosa faresti tu, adesso, di fronte ad un compagno in tali condizioni?”.
Marco era gentile, avrebbe di sicuro saputo come confortare Armin, come prendersi cura di lui.
“Cosa avresti fatto?” ripeté mentalmente, poi attirò il ragazzo tremante, ancor più, contro il proprio corpo.
«Adesso ti lascio le mani… ma tu smettila di fare il matto… d’accordo? Non farti male».
Le dita di Jean si slacciarono dai polsi di Armin, che ora lo fissava con quegli occhi enormi: chissà se lo vedeva davvero.
Tuttavia gli obbedì, le mani si mossero, ma non per tornare a ferirsi, annasparono un po’, cercarono l’uniforme di Jean e lì si aggrapparono, dando l’idea di volergliela strappare di dosso. Jean sospirò, chiuse un attimo gli occhi, li riaprì e trovò quelli del compagno fissi nei suoi.
«Mi… dispiace…».
Le prime parole coerenti che, dal momento del crollo, si erano formate sulle labbra di Armin.
«Per cosa ti dispiace? Per avermi salvato la vita?».
Armin sussultò, scosse il capo in maniera frenetica e lo riabbassò.
Jean gli portò le mani sul viso e ancora si spavento per il gelo della sua pelle:
«Adesso ascoltami!».
Ci fu qualche istante di silenzio, rotto solo dall’affanno del respiro di Armin, intervallato a qualche singhiozzo appena accennato.
Poi Jean trasse un profondo sospiro e riprese, scandendo le parole, perché arrivassero dritte al loro scopo:
«Mi… hai… salvato… la… vita…».
Lo sentì ancora sobbalzare sotto al suo tocco, un gemito più forte in risposta.
Le dita sulle guance si fecero più salde, i pollici lavarono via qualche lacrima.
«Se tu non avessi sparato, io non sarei qui e sai perché?».
Armin strinse le labbra e le palpebre, cercò di parlare, ma ancora non ci riuscì e fu di nuovo Jean a precederlo:
«Perché avresti visto me senza vita, al posto di una sconosciuta».
«JEAN!».
Fu un urlo pieno di allarme quello di Armin e Jean temette di aver osato troppo. Il piccolo si portò le mani alle orecchie, i tremiti, se possibile, si fecero ancora più distruttivi e i gemiti più acuti.
Allora Jean gli prese di nuovo i polsi, voleva che lo ascoltasse ancora, non sapeva che altro fare se non usare le parole.
Anche se non era bravo, in quel momento era l’unico che Armin avesse vicino: Eren non c’era, Mikasa era sicuramente in preda alla propria preoccupazione e, comunque, Armin aveva cercato lui. E Armin era in quelle condizioni perché aveva salvato la sua vita, il minimo che potesse fare era prendersi cura del suo animo che stava andando in pezzi.
Dai polsi passò alle dita, gliele strinse forte, ricercò ancora il suo sguardo, tentò in tutti i modi di mantenersi serio e saldo, più che poteva:
«Non hai sparato a quella ragazza perché sei crudele, Armin… lo hai fatto perché in quel momento hai voluto salvare me, mi sbaglio?».
«Ma… ma tu… tu non lo hai fatto… io ho sparato… io ho avuto il cuore di farlo, tu… tu…».
Jean fece una smorfia, ma almeno era tornato un po’ presente a se stesso quel ragazzino che aveva una tale, pessima considerazione di sé, almeno riusciva a parlare.
«Io, in quel momento, ho visto sul piatto della bilancia la mia vita e quella della persona che stava per spararmi… tu hai visto la mia... quella di un amico… e dall’altra parte quella di una sconosciuta che minacciava qualcuno cui tenevi. Se i nostri ruoli fossero stati invertiti? Se io avessi visto in pericolo te, credi che avrei esitato così tanto?».
Non ci aveva pensato fino a quel momento, ma appena ebbe pronunciate quelle parole gli parve ovvio: avrebbe sparato, certo che l’avrebbe fatto.
«Armin» aggiunse, con tono più pacato e triste «è terribile, lo so… è terribile quello che ci stanno facendo… quello che siamo costretti a fare… senza che ci venga data possibilità di scelta. Ma cosa potremmo fare se non proteggerci tra noi? Se non ci salvassimo la vita tra noi?».
«Je… Jean…».
«Io sono contento di essere ancora vivo grazie a te e probabilmente capiterà anche a me di doverti salvare e credimi, lo farò… vorrei che anche tu continuassi a farlo con me… non abbiamo altra scelta, abbiamo solo i nostri compagni, apparteniamo gli uni agli altri. Vediamola così… la sola possibilità che abbiamo è lottare per la nostra sopravvivenza. Io non voglio perdere nessuno di voi… e tu?».
Un nuovo brivido lungo tutto il corpo di Armin precedette un singhiozzo liberatorio, poi Jean, senza poter nascondere l’imbarazzo, lo vide aggrapparsi a lui e scoppiare a piangere.
Non ricacciò quell’imbarazzo e neanche il sottile piacere che quel contatto gli donava.
«E va bene» sussurrò, accarezzandogli i capelli. «Piangi, sfogati… adesso tocca a me salvarti».
In fondo, come aveva detto, appartenere gli uni agli altri era tutto quello che avevano.
   
 
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