Anime & Manga > Bungou Stray Dogs
Ricorda la storia  |       
Autore: Manto    25/07/2021    1 recensioni
❤ Terza classificata al contest "Favole di oggi – II edizione" indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP
(Sigma x Gogol')
Nelle profondità dei boschi del monte Hakone riposa un segreto che le leggende dicono non appartenere agli uomini, ma a una forza che li supera; ed esso tocca le anime e rintocca in esse, dando la spinta necessaria per seguire i propri desideri e la luce che palpita sotto il buio del dolore...
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Fyodor Dostoevsky, Nikolai Gogol, Sygma
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

DISCLAIMER

I personaggi sotto trattati appartengono solo ad Asagiri-sensei.
La storia è stata scritta senza scopo di lucro.

 

ANGOLO DI MANTO

Salve a tutti.
Per questa volta si è rivelato necessario anticipare qui l’angolo autrice, per spiegarvi alcune cose che considero molto importanti.
La shot fa parte della challenge nata dai prompt della Writober “Canta per Me”, tuttavia ho preferito pubblicarla singolarmente per permettere di seguire lo schema del contest “Favole di Oggi – II Edizione”, indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP.
I prompt della challenge che ho utilizzato sono otto, i seguenti: Tenerezza + Abbraccio + Promessa + Bevanda + Indietro + Incomprensione + Passato + Realtà, ovvero dal numero 18 al 25.
I nomi dei vari paragrafi sono tutti riferimenti a titoli o pezzi di canzoni, come si vedrà nello specchietto posto alla fine della storia.
La storia è una AU ambientata nel mondo contemporaneo, dove le Abilità non sono presenti e la storia è meno ombrosa, ma non priva di angst. Per quanto alcune cose siano necessariamente diverse, ho cercato di fare più rimandi possibili all’opera originale ed essere fedele alla caratterizzazione dei pg per come ci è stata data.
I personaggi di Fyodor, Sigma e Gogol’ hanno tutti la stessa età (cosa che potrebbe essere anche nel canon, visto che per ora sappiamo solamente l’età di Gogol’), ovvero diciotto anni.




 

E Torneranno Le Stelle





 

{ Prologo Lontano da Qui }



 

Immancabili, presenza certa e rassicurante, i sogni si schiudono sotto le palpebre del bambino poco dopo l’inizio del sonno: visioni di fiori e onde d’erba, vento gentile che alza sabbia e dune come un velo, lontane luci di una città immersa nella sera, la pace di un luogo mai piegato da alcuno.
Non c’è motivo di soffrire né entità e fatto da temere, inseguire, comprendere; il mondo si allunga verso il tutto e il niente, comprende ogni cosa e la perde, perché così dev’essere.
Sono le tre del pomeriggio, ma il silenzio che avvolge la stanza rimanda a un’ora più tarda, alla piena mezzanotte; e nulla può la brezza fresca che sospira dall’oceano ed entrando scuote bianche tende, solleva le lenzuola con sottili, azzurre mani e le sistema meglio sul corpo dell’addormentato.
«Noi siamo in veranda se hai bisogno. In veranda», mormora e ripete una voce femminile mentre questa assume corpo e lascia un delicato bacio sulla fronte del piccolo, «riposa bene, tesoro mio.»
Fuori dalla finestra si odono risate e un tono adulto, profondo e rassicurante, che chiama un nome; e sentore di sole, sabbia mossa da passi in corsa, schiuma. Un’ottima giornata per rifugiarsi nel grembo dell’acqua e immaginare di essere nati diversi, liberi e lontano da qui.
E forse non sono più le tre, ma le quattro, le sei; sul soffitto si allunga un tessuto scuro e trapuntato di stelle tremanti e chiare, che trattengono a sé la mente finché possono; lontano da qui.
Nella casa nulla si muove, dalla spiaggia antistante non si ode più giungere nessun rumore: sembrano tutti scomparsi, quasi si siano dimenticati di chi è rimasto a sognare in un letto troppo grande per lui… lontano da qui.
Tale è la malia delle onde, quindi? È così forte da cancellare i pensieri, abbandonare le certezze, portare sempre più distanti? Ma da quel mondo come si torna indietro? Lontano da qui.
Alcune realtà è meglio non sfidarle, lo sanno anche i bambini; ma forse questa è una conoscenza nota solamente a loro, protetti dalla paura sorta dall’immaginazione, da una saggezza che svanisce con l’età.
Eppure, tutti sono consapevoli di come Baia del Dolore non porti quel nome senza motivo; e quindi perché continua a rapire, strappare e dividere senza restituire?
Piove: piove da quel manto stellato, fitto fitto sul viso del bambino, che non può più evitare di svegliarsi. Allora, scopre che non c’è nessun acquazzone, solo lacrime che gli rigano il volto e un singhiozzo incastrato in gola senza un apparente motivo.
«Papà? Mamma, sei tu?»
Se il vento sussurra parole, il bambino non le sente; e si siede sul letto, guardandosi intorno ancora intontito di sonno, mentre si asciuga le guance da gocce che pizzicano gli occhi come se fossero piene di sale, e ne hanno tutto l’odore. Attende qualche attimo, chiama nuovamente i genitori; nessuno replica. Allora si alza e lascia la camera camminando con tutta l’energia dei suoi sei anni, deciso a trovare da sé le risposte. «Ma… ha piovuto davvero fin dentro casa?», mormora questi mentre si guarda i piedi con aria stupita, le piante e le caviglie immerse in una schiuma sottile e nell’acqua sottostante.
Ed è tempesta: non al di là di quelle mura, non dentro, ma nella figura alta e nera, resa tale dalla sera ormai sul tetto, che improvvisamente spalanca la porta e chiama il nome del bambino. Questo non riconosce dapprima il nuovo arrivato e rimane immobile, in attesa, senza espressione e quasi senza battito; non reagisce neppure quando quelle braccia adulte lo stringono e nella presa c’è un dolore così profondo da vincere l’oceano.
Sta ancora sognando? In fretta, troppo, voci e ombre si moltiplicano e riempiono la casa di sussurri e acqua ― impossibile quantificare quanto possa piovere dagli occhi degli uomini ―, giungono abbracci e baci sulla fronte gelida, parole di incoraggiamento ― Non temere, ce la farai. Loro saranno sempre con te ―, ma questa è tutta una visione dell’Altrove, sfocata, illusoria, irreale?
Però è fin troppo vera la colonna bianca che, ore giorni anni o solamente minuti dopo, viene posta sulla spiaggia, un segnacolo per chi è sceso negli abissi e mai più farà ritorno; sono vicini, impossibili da evitare e sfuggire, gli amici di famiglia e i parenti che pronunciano frasi che lui finisce per non comprendere più, che decidono con chi è più competente di loro quale sarà la sua sorte, mentre lui si stacca dal mondo.
Una caligine dotata degli stessi poteri del sonno lo sottrae alla consapevolezza, lo prende per mano e lo avvolge nel manto dell’irrealtà: è una cortina che non si spezzerà facilmente, perché lui per primo la terrà serrata a sé e nessuno avrà il coraggio di levargliela.
Ma tutto ciò che non è stato risolto chiede sempre un prezzo, specialmente se è stato sepolto da lungo oblio; non guarda in faccia nessuno, né adulto né bambino, se deve riportare il giusto ordine.
Quindi, il mattino in cui la realtà non può più essere confinata al di là di protettive fantasie, la voce che incontra il turbamento dell’ora ragazzino non ha forma, non importa a chi appartiene ma solo quello che dice: «Ti ho sentito urlare… stai bene? Sigma, tesoro, sei molto pallido.»
L’appellato non risponde immediatamente; prima, le dita si stringono come artigli su lenzuola intrise di sudore e coperte gettate ai piedi del letto, sulla federa del cuscino quasi fatta a brandelli.
La calda luce estiva bagna l’intera stanza, riversandosi dalle imposte lasciate aperte, e con essa entrano i bagliori del mare e il fantasma della luna, rimasta nel cielo come ombra. Se non fosse per il respiro tremante, percorso da singhiozzi, sarebbe una scena di perfetta armonia ― è da parecchio, tuttavia, che l’innocenza ha volto gli occhi lontano da lì. Lo sa ora, ma è sempre stato così. «Non mi ricordo più la loro voce», mormora Sigma, sentendo le guance farsi molli di sottile pianto. Fuori, l’estate muore prima del suo tempo. «Mi sto dimenticando mamma e papà... e me stesso.»

 

 

Forse nello stesso momento, forse non troppo lontano.

 

«L’ho già detto ai tuoi genitori, ma lo ripeto anche a te: per una volta, una sola ― non si pretende tanto ―, ti risulterebbe difficile aver cura di te? Il mese scorso hai quasi detto addio a una gamba, stanotte sei giunto qui con una ferita ad attraversarti il ventre... come fai a ridurti sempre in un simile stato? Ti fai picchiare da un macellaio in cambio di soldi?»
«Proprio così; e le consiglio di stare attenta, dottoressa.»
«Attenta a cosa?»
«Chi lo sa, magari prima o poi quel macellaio potrebbe venderle parti di me! Non si fidi della carne che le offre, o si rovinerà per sempre l’appetito!»
Un’acuta e prolungata risata che scivola dalla stanza e si sparge nei corridoi, volando su ali libere e veloci, seguita da uno sbuffo sonoro e irritato. «Pochi scherzi! Con questo comportamento, un giorno ci potresti rimettere veramente la vita, e… e smettila di sorridere, per favore. Come fai a divertirti in una situazione simile? Sei veramente un caso perso!»
Una risata più tenue e il suono di una persona che si sistema meglio sul lettino che le è stato assegnato. Forse vuole davvero e solo irritare, o forse si sente comunque bene, lì. «Non direi; però è vero che anche i migliori sbagliano, quindi potrebbe avere ragione lei.»
Il silenzio dell’interlocutrice è una risposta più che sufficiente per il giovanissimo occupante di quella piccola, chiara stanza dell’Hoshino Memorial Hospital, che proprio in quel momento punta lo sguardo felino fuori dalla finestra, sul curato viale d’accesso che si può intravedere dal lettino e alle figure che lo stanno percorrendo. La splendida mattina di Giugno bussa contro i vetri e poi entra, portando in dono il sentore dei giardini e delicati petali rapiti dal vento giocoso, riempiendo il pavimento e le pareti di sbuffi estivi; se fosse giunta in un altro luogo, probabilmente sarebbe rimasta più a lungo.
«Provi dolore? È strano che tu abbia ripreso conoscenza così in fretta, il tuo corpo sembra quasi bruciare l’anestesia. Sei sicuro di stare bene?»
«Dopodomani parto per la Russia, come posso stare male?»
La dottoressa fa una smorfia obliqua mentre finisce di guardare la cartella che ha in mano, quindi ritorna a fissare il paziente con un’espressione eloquente e china la testa di lato. «Se ci arrivi a dopodomani, beninteso; e anche se ti senti in forma, fino a tardo pomeriggio non ti dimetteranno. No, non incanti nessuno con quella faccia, risparmiati pure la fatica: dovessi legarti al letto, te ne andrai quando lo avrò stabilito io, intesi?»
«Non poteva essere più chiara», risponde il ragazzino senza porre altra resistenza, socchiudendo appena gli occhi e affondando maggiormente la testa nel cuscino, una smorfia esasperata a trasformare il viso in una maschera grottesca, costruita apposta per destabilizzare la mente e l’umore di chi con essa si rapporta, «non si preoccupi, non andrò da nessuna parte.»
«Vorrei ben sperarlo. Cerca di riposare, piuttosto, ti farebbe bene un po’ di tranquillità… chissà che la Russia non ti calmi il sangue.»
«Non immaginavo che i dottori potessero credere nei miracoli!»
Una piccola pausa esasperata. «… Cosa avevamo detto sugli scherzi?»
«No, questo non è— va bene, lasciamo stare.»
Con una smorfia trionfante e fugace quanto un istante, la dottoressa dà le ultime raccomandazioni, chiude la cartella e si congeda dal giovane, lasciando che una profonda calma cali nella stanza profumata e quello ritorni a fissare il mondo che si estende al di là dei vetri. Sul viale, l’andirivieni delle persone si sta moltiplicando, quasi l’ospedale sia diventato un enorme formicaio dal quale partono e in cui entrano armate di ordini e lavori da compiere; e nella sua mente i piedi di ognuno segnano la strada, lasciano una traccia che s’imprime a forza nella ghiaia, nell’asfalto, nella pavimentazione, come orme su sabbia bagnata e visi, voci, nei cuori di chi li ha accolti. Quante cicatrici si lasciano sui sentieri? E se questi potessero avere una sensibilità, si sentirebbero vivi proprio grazie alle piccole o grandi ferite lasciate dalla pressione di scarpe e calcagni, e a ciò che di esse rimarrebbe?
Quasi senza realmente volerlo, il ragazzino stacca il volto dalla finestra. Le sue mani hanno già scostato coperte e lenzuola ed esposto il corpo, non c’è neanche bisogno di alzare di un poco la vestaglia ospedaliera: sulle braccia e gambe nude, fin sui piedi e su uno degli alluci, spiccano mezzelune scure, linee nette che attraversano la pelle come meteore e segni meno diritti e chiari che lambiti dalla luce sembrano brillare. Ma se fosse questa la sfida, nessuna cicatrice in quel reticolo di percorsi e deviazioni potrebbe competere con la più vecchia di tutte: quella che gli attraversa l’occhio sinistro, il punto esclamativo che nasce poco sotto il sopracciglio e muore appena sfiorata la guancia; un bello scherzo se si conta che quell’occhio vede alla perfezione, mentre il destro, intoccato, è parzialmente cieco[1].
E lo scoglio che ti ha fatto questo? Come devono sentirsi lui e le onde che lo toccano, loro che non si sono accontentate di lasciare un semplice marchio?
I lasciti puoi pure ignorarli, ma rimangono. Sono loro che ci rendono vivi.
«Sono loro che ci rendono vivi, già», è il pensiero ripetuto ed espresso ad alta voce mentre le dita, quasi sovrappensiero al pari del loro proprietario, velocemente afferrano i chiari, lunghi capelli sparsi sul cuscino e, ravviati questi senza troppa cura, li disciplinano in una lunga treccia sottile, poi chiusa da un bizzarro legaccio scarlatto provvisto di campanellino. Le dita si soffermano su di essa, la tastano e accarezzano da cima a fondo, come a controllare che ci sia ogni sua parte e quindi poter rassicurare la mente. Ha iniziato a farlo da quel giorno, così sostiene Fyodor; sempre lui dice che è il suo modo di aggrapparsi a una vita che, inevitabilmente, non può più tornare a essere la stessa.
Ogni sua ferita e cicatrice, e i modi con cui se le è procurate: alcuni cercati, altri subiti senza chiederli ― e a dire il vero neanche rifiutati ―, tali sono le testimonianze indelebili del fatto che è un corpo cosciente, che continua a sentire, a provare, a decidere e scegliere… a cercare ciò che è andato perduto nell’istante in cui ha aperto quella cartella e il suo verdetto di morte.
Ancor peggio: un verdetto di morte che non era, in realtà, diretto a lui.
Ti senti in colpa, Gogol’? Era meglio che quella chiamata dall’ospedale mai ti avesse raggiunto, e tu fossi rimasto ad aspettare la fine dei giorni senza vederla arrivare? L’ignoranza è un miracolo, la consapevolezza una maledizione.
Mai idea è stata più chiara di questa!
«… Ma che noiaaaaa. La mia mente non ha di meglio da fare che essere triste?»
Solamente i petali penetrati in camera si muovono quando Gogol’ afferra il cuscino e lo lancia dall’altra parte della stanza: non una traccia di violenza o rabbia, solamente voglia di far qualcosa, di dare una scossa all’aria e alla testa che non vuole tacere. Perché è tutto un palla infinita e lui non vuole stare ancora lì a viverla, né chiamarla a sé.
A volte bisogna pur fuggire dalle proprie gabbie.
Non so quando mi lasceranno libero. Ci vediamo direttamente domani?
Entro qualche ora sarai fuori, anche meno se scatenerai l’inferno. Per stasera porto le piroshki?[2] Sempre che i tuoi genitori vogliano vedermi.
Il giovane sorride di sbieco al ricordo degli ultimi messaggi inviati e ricevuti, quindi socchiude gli occhi. Alla malora ogni cosa, la vita è appena cominciata: e se è lì, al posto di un altro, un motivo ci sarà.
Com’è vero che basta poco per alzarsi dal letto e scomparire per qualche tempo, così da gettare nel caos l’intero ospedale.



 

{ I ◊ Io e Te, l’Inizio }



 

A un’ora di distanza dal rosso torii di Hakone Jinja[3], protetto dai sentieri più alti del monte Hakone, riposa uno dei segreti che dimorano nella zona.
Le incantevoli acque di Ashinoko, la meraviglia delle foreste intorno al capo e i sussurri che rotolano lungo i sentieri e i fianchi della montagna sono custodi naturali di ciò che è nato errato e incompleto, ma che agli occhi di chi lo scopre assume un significato completamente diverso: un piccolo orologio intagliato nel tronco di un cedro spezzato, dove al posto di lettere o numeri erosi dalle intemperie, immobili lancette toccano simboli astronomici per metà svaniti e le dodici non sono significate da niente, quasi non fossero mai state inserite.
Nessuno sa da quanto quell’opera respiri in mezzo alla foresta né chi l’abbia creata, e nessuno l’ha mai vista mutare: il tempo e lo spazio non possono scalfire l’Orologio del Cielo ― tale il nome che gli viene dato da chi sa della sua esistenza ―, quasi abbia un ruolo da ricoprire e un obiettivo che non può sottostare né alle leggi umane né a quelle del mondo.
Fin da quando è ragazzino, Sigma è rimasto affascinato da quella totale estraneità alla mutevole realtà; per questo motivo viene attraversato da una scossa di elettrico stupore quando, in un tramonto d’Aprile non dissimile da altri, scorge l’esatto gemello dell’Orologio del Cielo pendere dai portici del campus di Komababa[4], mentre nell’arco che lo sovrasta si può rinvenire una targa che lo qualifica come replica recente del mistero di Hakone.
Nell’avanzare della sera, a mano a mano che le ombre si allungano sotto gli archi e vestono di seta nera le colonne dei porticati, gli astri e i pianeti che il legno abbraccia sembrano emettere tutto il lucore che hanno strappato al sole, liberando sfumature e guizzi non appena l’occhio prova a sfuggire alla loro malia; e paiono muoversi, pulsare e roteare a ogni respiro, dalla costellazione della Corona Boreale incisa al posto delle tre, alla galassia a spirale che occupa il ruolo delle dieci. Un fenomeno che Sigma conosce per averlo visto nelle foreste di Hakone, dove nemmeno i suoni provenienti da Hakone Jinja riescono a penetrare, e che continua a dargli brividi: perché tutte le volte che si è trovato innanzi all’orologio, è accaduto qualcosa d’importante.
Nella loro immobilità, le lancette hanno sempre toccato ore nuove: quelle della sua vita. Allora, è con pensieri d’aspettativa e attesa che, rendendosi improvvisamente conto dell’ora tarda, Sigma si costringe a lasciare il porticato e a svicolare tra le frotte di studenti che escono dalle ultime lezioni e si riversano sulla strada opposta alla sua, per rimandare la contemplazione della scoperta alla settimana successiva e cercarvi risposta con la dovuta calma.
Tokyo brilla già di richiami, bagliori e viva luce quando i piedi del ragazzo lo portano ad abbandonare il campus e a correre verso la stazione più vicina: è venerdì ed è ormai sera, la città si prepara a riprendere un poco di fiato.
Anche Sigma lo fa: qualche ora di riposo è doverosa dopo una settimana intensa, l’ultima del suo primo mese all’Imperiale. Ha appena iniziato l’università e già Aprile[5] si sta disfacendo per rinascere come Maggio… da quando i giorni hanno iniziato a correre veloci e ricchi di sensazioni altre rispetto alla paura del nuovo mattino? Da quando, fatta eccezione per la propria casa, non trovava qualcosa di cui sentirsi parte?
Ancora più importante, tutti questi giorni li ricorda: sì, li ricorda nel dettaglio. Appunti, nomi, parole che evocano intere situazioni: forse il tempo sta scorrendo troppo rapido e lui vorrebbe trattenerlo di più con sé, ma non scivola via dalla sua mente. Il cupo oblio non lo sta visitando e quindi Sigma si chiede se non sia il caso di allentare un attimo la tensione e lasciar brillare la fiammella di serenità che sente pulsare nel petto: la strada va formandosi per mano sua, è lui alla guida, i giorni gli sussurrano che non deve temere di perdersi. Come i numeri e i calcoli che tanto ama, stanno iniziando a trovare il loro ordine.
Se dovesse fare un bilancio di quanto appreso nel suo primo mese, non citerebbe solamente le informazioni recepite con diligenza e passione: parlerebbe della nuova atmosfera, del vivere una realtà che fino a poco fa osservava da lontano, delle occasioni umane che ha colto e di quelle che giungeranno in futuro. Tutto ciò, lo sa, gli verrà chiesto quella sera stessa dall’uomo che considera padre; e lui sarà ben felice di accontentarlo.
Come ogni giorno, a quell’ora il treno che raggiunge Yokohama è un’esperienza che più di una voce definirebbe infernale; eppure il giovane non potrebbe essere più imperturbabile e tranquillo mentre attende pazientemente che il breve viaggio abbia inizio e fine, che scorra come i paesaggi che s’inseguono al di là dei finestrini. Quasi nemmeno si accorge dei tre coetanei che salgono poco dopo di lui, qualche istante prima che le porte si chiudano; sono i loro sussurri, mentre gli passano accanto e lo riconoscono come un volto noto, che si palesano per raggiungerlo appena. «Che cosa succede, Sigma-kun, oggi non hai pianto abbastanza? Sei contento che torni da papà?»
Risate soffocate, toni di sufficienza e scherno che vogliono cadere in un’intesa che non c’è; l’interpellato non risponde a nessuno di loro, già lontano con la mente e mentre le dita battono silenziosamente sulla borsa scolastica un ritmo che unicamente lui può udire, come in un sogno. E al pari di una visione onirica, ben presto il sentore dell’oceano penetra nei vagoni aggrappandosi a pelle e abiti come un invisibile cappotto, e prende lui per mano conducendolo fin sotto le stelle della città portuale.
Al suo fianco per un istante, e subito dopo all’interno della stazione di Yokohama, solo una debole traccia dell’ombra fugace e della luce violenta che si preparano al viaggio inverso a quello del ragazzo. L’incontro avviene, seppur non riconosciuto, e lascia il suo segno; si farà sentire quando sarà necessario, non appena gli eventi scivoleranno al proprio posto.

 

 

Nikolai Gogol’ lo sa da quando è un bambino: le voci che circolano sulla sua persona non sono mai concordi, ma impregnate di quel caos che tanto ama.
Di lui c’è chi mette in luce l’aspetto gradevole ma inquietante, specialmente l’innaturale e perenne sorriso ― ma stranamente nessuno sembra concentrarsi troppo sulla cicatrice che gli attraversa l’occhio sinistro, o sulla bizzarra, bianca benda che a volte copre quello destro, simile a una carta da gioco a causa del tre di quadri disegnato sopra ―, o il carattere esuberante e difficilmente governabile; alcuni commentano che sia un completo mistero nel suo modo di pensare, quindi pericoloso; altri che, per quanto eccentrico e bizzarro, sia una persona più intelligente e profonda, e meno folle, di quanto voglia far sembrare.
Neppure la relazione con Fyodor Dostoevskij, l’amico di una vita, viene lasciata in pace in quel circo di commenti che li additano, rispettivamente, come giullare e demone: persone che è meglio neanche nominare, quasi avessero l’abilità di macchiare e incrinare la serenità solamente pensandole.
Voci, impressioni e mormorii: qualcosa di cui Nikolai ha sempre riso, oppure attizzato per stupire, sconvolgere e confondere, sfruttare l’incomprensione creata per mettere distanza tra sé e coloro che cadono sotto i suoi giochi.
Eccezione fatta per Dostoevskij, non ha mai cercato la presenza e l’amicizia di nessuno né ha mai voluto rinunciare alla propria libertà: un proposito che nel corso del tempo, anche grazie all’incidente all’Hoshino Memorial Hospital e ai suoi lasciti, si è acuito sempre di più fino a creare una maschera con cui approcciarsi al mondo e alle sue forme, così abili nel non riuscire a comprenderlo davvero. O è lui che sta divenendo sempre più bravo ad appropriarsi degli angoli bui della realtà e a sfuggire alle sue regole?
«Non avresti scelto di studiare Teatro e Spettacolo, se tu non avessi avuto il desiderio di giocare sui livelli del possibile e umiliare l’ovvio», ama ripetergli Fyodor ogni qual volta l’argomento venga riproposto, lo sguardo violetto colmo di una luce divertita mentre osserva il mondo intorno a loro.
Tra tutti, l’amico è l’unico che riesca a capirlo: magari non nella sua completezza, forse nemmeno lo vuole appieno… ma quando Dostoevskij lancia una freccia, questa va immancabilmente a segno. Il suo giudizio, che riguardi qualcosa o qualcuno, non è mai errato: non fa fatica a penetrare nella trama dei pensieri così come Nikolai vuole uscire dalla loro traccia.
Quindi, nonostante la scelta della facoltà universitaria fosse già stata presa da anni, quando Fyodor ha dato la sua approvazione in merito, il ragazzo non ha potuto fare a meno di sentirsi in pace; così come non avrebbe potuto non dargli la massima gioia riuscire a passare gli esami d’ammissione al primo colpo ed essere accettato nella medesima università dove, si sapeva per certo, sarebbe entrato anche Dostoevskij: la dorata, gloriosa Imperiale di Tokyo, con le sue infinite strade e possibilità. Un luogo dove nessuno, per ora, conosce la nomea che entrambi portano sulla pelle, e così grande che è molto facile venire ignorati dagli altri; il posto perfetto per coltivare le proprie aspirazioni senza doversi legare forzatamente alle persone, se non per lo stretto necessario.
La patria delle scelte, della libertà: le porte che immettono nel campus di Komababa sono lo spartiacque fra il mondo che Nikolai cerca e quello che ha, e ogni volta che lo sorpassa per entrare nei palazzi universitari è come riprendere a respirare dopo una lunga apnea.
Qualcosa che non condivide fino in fondo con Fyodor, che al contrario suo non può fare a meno di circondarsi di persone: di non essere totalmente sincero con esse, di divertirsi a guardarle mentre vengono confuse dalla sua presenza, ma sempre pronto a dare la caccia per attrarre a sé il maggior numero di menti possibili e per i più disparati desideri, dall’attrazione per la bellezza, fisica o mentale che sia, all’interesse per un particolare modo di comportarsi e le idee che animano i cuori. Fyodor è guidato dalla voglia di conoscere il più possibile e, meglio ancora, di giudicare e guidare a sua volta coloro che considera perduti; come un dio, o qualcuno che si dichiara tale.
Nikolai non ha mai avuto dubbi sul fatto che Dostoevskij avrebbe agito in tal modo anche all’Imperiale: ha assistito a troppi episodi simili per stupirsene e, per non perturbare il suo desiderio di libertà e conscio che pure tentando diversamente otterrebbe ben poco contro le capacità del compagno, non ha mai pensato troppo a come Fyodor sia bravo a giocare con gli altri e a illudere di dar loro quello che vogliono e di cui hanno bisogno, con il risultato che alla fine rimangono solamente loro due a contemplare gli avvenimenti accaduti o quelli che verranno.
Per questo motivo, il pomeriggio di fine Aprile in cui Fyodor lo raggiunge nella Biblioteca Generale con un ghigno obliquo e una sfumatura buia ad attraversargli il volto pallido, Nikolai comprende che presto saranno in tre o più, e nel pensiero di un istante si chiede se sarà un bene per chi giungerà da loro. 
«Che sorpresa vederti con questa espressione, Dos-kun! A chi tocca ora?», sussurra dunque il ragazzo con un mezzo sorriso e gli occhi stretti nell’attesa, chiudendo il libro di Storia del Giappone e voltandosi verso il compagno per ascoltare le ultime novità, per poi tirarlo verso di sé quando questi gli si siede accanto.
«Ho appena trovato qualcuno che potrebbe aiutarti nei tuoi futuri spettacoli di Bunraku[6]», risponde Fyodor eludendo per il momento la domanda e senza guardare il viso dell’amico, l’espressione che si fa più pacifica mentre si appoggia al banco di studio, «anzi, che potrebbe aiutarci. Non è facile trovare una persona che sappia suonare lo shamisen fin dalla giovane età, e-»
Nikolai reprime all’ultimo una risata e punta un dito contro il petto dell’altro. «Aspetta aspetta, quindi questa persona è la tua perfetta rivale?»
Fyodor tace un istante, il tempo di lanciare un’occhiata di leggero rimprovero per l’interruzione, e il suo sguardo si assottiglia in un’espressione indecifrabile. «… Chi può saperlo? Per ora, posso testimoniare che hanno invitato l’individuo in questione a unirsi al Club di Teatro e che sa suonare più di uno strumento, quindi potrebbe essere in grado di accompagnare i tuoi futuri spettacoli qualora io non riesca a farlo.»
Ecco, questo è inaspettato. Da quando lo conosce, Nikolai sa che Fyodor non ha mai perso l’occasione di mostrare le sue abilità musicali ― o in generale ―, addirittura creando la stessa occasione dal nulla; che novità è quella? No, ci dev’essere qualcos’altro dietro le parole appena pronunciate: la motivazione è diversa, ma per qualche ragione a lui non è ancora dato saperla. Comunque sia, contiene lo stupore e china il capo di lato, incuriosito. «Vedremo se è davvero al tuo livello… ma il suo nome? Voglio conoscere subito la nuova stella!»
Dostoevskij ridacchia mentre si guarda intorno, rispondendo in cortese silenzio alle occhiatacce che il tono alto di Nikolai ha attirato su di loro, quindi ritorna dall’amico e il suo volto si fa di un tratto quasi annoiato, come se stesse raccontando un fatto ovvio e per la millesima volta. «Il suo viso non mi è sconosciuto: l’ho intravisto in più occasioni sul treno che conduce a Yokohama, probabilmente è un pendolare. Mentre valutava l'invito del Club, ho notato i suoi occhi soffermarsi sullo shamisen e sugli strumenti presenti nella stanza, osservandoli con quel misto di tranquillità e sicurezza tipico di chi è davanti a una realtà che conosce bene. E le dita… per quanto siano ben curate, i polpastrelli portano i segni di una lunga storia con le corde di uno liuto. O quello, o il nostro amico è un bravo arciere.»
Nikolai sorride appena. La preda del giorno ha già il mirino puntato su di essa, il cacciatore non ha accettato perdite di tempo; e come una parte di sé sente scorrere nel sangue la gioia di non essere implicato in simili questioni, un’altra non può fare a meno di provare leggero fastidio e di accantonarlo immediatamente. «Non lasci mai un largo margine di fuga, tu», mormora Gogol’ mentre riapre il proprio libro e tuttavia non ne guarda una pagina, gli occhi che si volgono altrove e lontano dai fatti del mondo.
«Dovresti sapere che non abbandono mai chi si avvicina di propria sponte.» Tono neutro, e anche lo sguardo di Dostoevskij è distante: la direzione è opposta, ora è impossibile incontrarsi.
«Ed è questo il caso?»
Il rumore roboante di una rovinosa caduta attira l’attenzione di Nikolai, che per la sorpresa sobbalza e si volta d’istinto; con lui una grande parte della Biblioteca Generale e dei suoi mormorii di sconcerto, mentre Fyodor mantiene l’imperturbabilità di un nume. «Perché non scoprirlo ora? Il nostro amico ha appena dato una svolta al pomeriggio, ma ha bisogno di noi.»

 

 

L’acqua torna e ritorna ancora, senza portare via più nulla. Sulla spiaggia solitaria, che tanto ha sottratto, niente può far male.
Come bastano solo pochi istanti a cambiare il futuro, a rivelare il mutamento delle strade e le possibilità che un imprevisto può svegliare!
L’oceano grida e strepita sotto la sferza della tempesta che lo sta attraversando; ma è tempo di rimanere ancora un poco, di respirare appieno la furia delle nubi e vedere la luce rischiarare il grembo del buio: quell’angolo di cielo che resiste contro l’avanzare dei lampi.
Sigma chiude gli occhi, i palmi appoggiati alla sabbia: la terra trema sotto i tuoni, freme e sussulta, e le onde mugghiano terribilmente, torturate dai fulmini che le trafiggono. 
L’abbacinante bagliore che appare e svanisce lo conduce in una realtà diversa: è proprio lì che ora si trova, lontano dall’oceano e dal punto in cui sorge la lapide commemorativa per i suoi genitori, quasi il fortunale non abbia avuto vita.
Sono gli alberi di ginkgo[7] a udire il suo respiro farsi più forte sotto la corsa dei ricordi, è la leggera brezza d’Aprile a solleticargli le guance e scuotergli i capelli; e la mano che si tende verso di lui e gli offre un fazzoletto, uguale a quelli che tiene in grembo ormai inutilizzabili, è sconosciuta quanto gentile.
«Come stai, ti fa ancora male?»
Sigma si tampona leggermente il naso e si dà una veloce occhiata agli abiti; quindi fa un piccolo cenno d’assenso con il capo, a cui segue un sospiro. «Sì, un poco… ma almeno il sangue si è fermato.»
Il giovane che gli ha allungato il fazzoletto, diverso da quello che ha appena parlato, gli dona un largo sorriso e china di lato la testa. «Una caduta magnifica, ma che hai gestito altrettanto meravigliosamente», esclama con trasporto, lasciando Sigma con la confusione tipica di chi non sa se ha appena udito una presa in giro o se l’altro ha parlato seriamente.
Il secondo ragazzo ridacchia, quindi scuote la testa e un’ombra viola scivola lungo la sua chioma corvina e fino negli occhi notturni, non una traccia di scherno nel viso.
In risposta alla tranquillità delle due figure che gli hanno prestato aiuto non appena i suoi piedi hanno deciso d’inciampare in una sedia della Biblioteca e di fargli schiantare il viso al suolo, la vergogna per la figura compiuta davanti a mezzo campus inizia a sfaldarsi, così che Sigma si permette di sciogliere la tensione di un poco e accennare anch’egli un sorriso, per poi accingersi a lasciare il tronco contro cui ha appoggiato la schiena e alzarsi. «Vi ringrazio per quello che avete fatto per me. Potete chiamarmi Sigma.»
Nikolai osserva per un istante i grandi occhi grigi e l’elegante figura del giovane che ha movimentato l’intero pomeriggio; gli prende dolcemente la mano e trattenendola s’inchina con la cortesia di un uomo d’altri tempi.
Un guizzo dello sguardo gli fa comprendere che l’altro è arrossito e non lievemente, e la cosa lo porta ad allargare il sorriso. «Nikolai Gogol’», si presenta, appena prima che Fyodor si faccia conoscere a sua volta e incanti Sigma ― così come accade ogni qual volta Dostoevskij entri in scena.
Ma è sua la mano che il giovane stringe ancora per un poco, mentre le ultime lezioni stanno iniziando e i primi colori della sera scendono su Tokyo; e anche quando quelle si staccano, Gogol’ continua a sentire sulle dita il contatto, come se qualcosa sia rimasto e possa chiamarlo solamente suo ― loro.




 

NOTE

 

[1] Informazione ripresa dalla wikia, sotto la voce del personaggio di Gogol’. Non vi è l’assoluta certezza in questo, per ora è una supposizione dovuta al fatto che in diversi panel l’occhio destro sembri essere opaco, ma l’ho trovata interessante per gli eventi della storia.
 

[2] Nella scheda personaggio, si dice che una delle cose che Gogol’ ama di più sono le piroshki, piccole focacce (simili a panzerotti) della tradizione russa e ucraina, le quali vengono farcite con un ripieno salato o dolce, a seconda del pasto che le vede presenti.
 

[3] Il torii è la porta d’accesso di un santuario shintoista. Hakone Jinja, letteralmente “santuario di Hakone”, è un’importante area sacra situata sul lago Ashinoko, ai piedi del Monte Hakone. Questi è posto a poca distanza sia da Tokyo che da Yokohama, nella prefettura di Kanagawa.
 

[4] Komababa è uno dei cinque campus in cui è divisa la prestigiosa Università Imperiale di Tokyo. Qui si riuniscono le matricole e gli studenti universitari del secondo anno; infatti, il primo anno e mezzo di università sono di istruzione generale, mentre nei due seguenti ogni studente segue le materie del campo di studio scelto.
 

[5] In Giappone, l’anno scolastico inizia ad Aprile.
 

[6] Il Bunraku è una forma di teatro giapponese che prevede l’utilizzo di burattini e una vera e propria recitazione, quest’ultima accompagnata dal suono dello shamisen, liuto a tre corde.
 

[7] La foglia di ginkgo è il simbolo dell’Università Imperiale, in quanto nella zona vi è una grande quantità di questi alberi.

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Bungou Stray Dogs / Vai alla pagina dell'autore: Manto