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Autore: Bethesda    01/08/2021    1 recensioni
Tre storie, non in ordine cronologico, in cui Holmes fa una sola cosa: si ingelosisce.
Per Papysanzo89, che me le ha chieste mesi fa.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: non scrivo da una vita! Questa storia voleva essere tutt'altro. Anzitutto non voleva essere una storia su Holmes e Watson ma una original. Secondariamente, voleva essere una cosa leggera, carina, un PoV di Holmes secco e al punto come immagino essere il suo stile. Credo di essermi fatta invece trascinare. 

Non voleva neanche essere il secondo capitolo di questa "trilogia", sia per la lunghezza che per l'argomento, ma alla fine l'argomento "gelosia" ci è finito in mezzo comunque (dovrei farmi trascinare meno dalla scrittura e domarmi di più ma dopo tanti anni ho scoperto che non sono capace). 

Ambientata nell'anno prima dello Iato.

Spero di non ammorbarvi e che vi piaccia!

Nel caso fatemelo sapere che mi fa sempre piacere capire se sto muovendo qualcosa in chi mi legge (nel bene e nel male).

Ah, essendo una scellerata a malapena ho riletto ciò che ho scritto e finirò come al solito per correggere nel corso dei prossimi giorni.

Un grosso bacio, 

Beth

 

 

 

 

Il Congresso

 

Sarei uno sciocco se credessi alle mie stesse menzogne.

Forse questa tendenza mi renderebbe più umano di quanto qualcuno mi voglia dipingere, ma la trovo una tendenza futile e dannosa, che ispira una speranza vana che non giova né alla salute né all’intelletto.

 

La sera in cui misi piede nella hall dell’albergo di Edimburgo che ospitava il congresso il mio sguardo andò subito ben oltre il concierge, verso il salone principale, dove già si stavano radunando i partecipanti.

Medici, ricercatori, professori.

Gente di spicco come omuncoli finiti lì unicamente per meriti non propri.

Ma di tutti i presenti me ne interessava uno e solo uno, e sapevo che sarebbe stato impossibile non incrociarlo.

 

Non vedevo Watson da un anno ormai, se non per sporadiche visite da parte sua in cui mi si forzava addosso, accompagnandomi per qualche ora durante le mie indagini, momenti nei quali a malapena ero in grado di percepire la sua compagnia.

Per l’esattezza, l’ultimo nostro incontro “libero” era avvenuto una settimana dopo il suo matrimonio, quando era venuto a salutarmi prima di partire con la propria signora verso la campagna, giusto qualche giorno prima di riprendere a lavorare a pieno regime nel proprio studio.

«Mi raccomando, Holmes», mi aveva detto. «Non esitare a contattarmi per qualsiasi ragione. Qualsiasi».

Ricordo bene che me lo disse con tono preoccupato, quasi implorante. Probabilmente il fatto che non fossi più in me da diverse settimane lo aveva messo in allarme, ma certamente non abbastanza da tornare indietro sui propri passi.

All’epoca avevo pensato che si fosse comportato da codardo.

Quella sera invece mi domandavo cosa avrei fatto al suo posto di fronte a quell’ombra a cui mi ero ridotto.

 

Diedi il mio nome al concierge e subito venni fatto accomodare.

 

--

 

Seppur estraneo all’ambiente, le mie ultime monografie nell’ambito della coagulazione, ben più avanzate rispetto a quelle scritte quando avevo poco più di ventisei anni, avevano riscosso un certo successo e mi avevano concesso di essere invitato dall’università di Edimburgo dal dottor Bell, che si era prodigato per portare nella capitale scozzese alcune delle menti più brillanti dell’epoca in ambito di anatomia, medicina e fisiologia per un congresso dalla durata di una settimana, ricco di conferenze e presentazioni.

Molte si erano rivelate mortalmente noiose e fallaci, tanto da vedermi costretto a fughe repentine, mentre altre mi avevano permesso di approfondire concetti e trarre ispirazione per il mio lavoro.

Il terzo giorno mi era stata anche concessa la possibilità di esporre le mie teorie in un’aula anatomica gremita, con tanto di dimostrazione. Ed era stato lì che avevo scoperto della presenza di Watson.

Seduto alle mie spalle, nello scranno più alto e nascosto, si era insinuato ad ascoltarmi quando già avevo cominciato a parlare.

A costo di sembrare un romanziere da quattro soldi, me ne resi conto perché sentii per tutta l’esposizione uno spillone conficcato nel retro della nuca, come di pericolo imminente. Approfittai di una domanda proveniente da un cattedratico nella prima fila alle mie spalle per voltarmi e cercare la causa di quel malessere, e la notai subito.

Watson spiccava.

Non perché fosse vestito in modo diverso o stesse cercando di farsi notare dal sottoscritto, tutt’altro. Ma in tutti quegli anni ogni cellula del mio corpo aveva imparato a tendere verso di lui, anche quando il mio intelletto non lo voleva.

 

Non lascia intendere a nessuno che fossi alquanto turbato della sua presenza e neanche lo cercai con lo sguardo mentre rispondevo alla domanda, continuando la mia esposizione in modo quanto mai brillante.

Solo alla fine, quando tutti si riversarono fuori dall’aula per dirigersi verso la conferenza successiva mentre altri mi accerchiavano per stringermi la mano e pormi altre domande, Watson mi si fece vicino, restando tuttavia lontano, in disparte, attendendo che restassi solo.

 

«Ottima esposizione».

 

«Pubblico facile da intrattenere e per buona parte interessato. Non sono queste le esposizioni più ardue», dissi con fare noncurante mentre facevo un cenno di capo all’ultimo uditore che si allontanava, costringendomi così a dover tornare a prestare attenzione al Buon Dottore.

 

«Come mai qui, Watson? Siamo ben lontani dal tuo studio».

«Mi son fatto sostituire da Jackson per questa settimana. Trovo corretto dovermi aggiornare per dare il meglio per i miei pazienti, soprattutto se la cosa è promossa dalla mia vecchia università. Mi ha contattato il Professor Bell, il mio vecchio mentore. È stato lui a dirmi che aveva intenzione di farti presenziare».

 

«Avresti potuto dirmelo. Avremmo potuto viaggiare insieme sino a qua», mentii voltandomi, cominciando a riordinare le poche carte che mi ero portato appresso.

 

«Per vederti rinunciare al Congresso stesso con una qualche scusa?»

 

Mi irrigidii, dandogli le spalle.

Non ricordavo che Watson fosse diventato così pungente.

Per non dargliela vinta decisi di voltarmi con un sorriso ampio.

 

«Mi rammarico che tu possa aver pensato così. Avrei apprezzato l’idea di passare qualche ora con te come ai vecchi tempi, a discutere l’uno di fronte all’altro».

 

Vidi nei suoi occhi la voglia di controbattere, ma la ingollò come un boccone amaro.

 

«Magari al rientro».

 

«Magari al rientro», ripetei. «Adesso perdonami, amico mio, ma necessito una rinfrescata».

 

Mi dileguai con un rapido cenno e con passo pacato, controllato, mi diressi verso l’uscita.

Tagliai attraverso il prato, ignorando bellamente il sentiero in ghiaia, sentendo su di me sempre quello sguardo, sempre quel giudizio.

Erano passati mesi, eppure quella maledizione ancora mi perseguitava. Ancora non riuscivo a scrollarmi di dosso il fatto che Watson non fosse più mio e solo mio, ancora non riuscivo a mantenere la lucidità mentale che mi contraddistingueva quando lo avevo di fronte.

Neppure a centinaia di miglia di distanza da Baker Street e da Londra potevo aver pace.

Era come essere perseguitati da un fantasma e mi dannavo anche solo per il pensiero di un qualcosa di così sciocco.

Non esistevano maledizioni, fantasmi o simili idiozie.

Esisteva solo una mente brillante piegata dal peso di un singolo uomo.

 

Quando giunsi nella mia camera d’albergo gettai a terra la cartella con i documenti, mi tolsi rapidamente guanti e giacca e mi gettai verso la mia unica consolazione.

Qualche ora, mi dissi.

Solo qualche ora di oblio, giusto per non pensare a lui, bisbigliai mentre l’ago cercava una vena pulsante.

 

--

 

Se a Londra è difficile non incrociare qualcuno quando si desidera non avervi nulla a che fare, ancora più difficile è farlo in un luogo ristretto come un campo universitario.

Watson sembrava essere ovunque io volessi andare.

Qualsiasi conferenza, qualsiasi dibattito che poteva essere in qualche modo intrigante sembrava prevedere la sua presenza. Mi convinsi addirittura a saltare quelle che più mi interessavano per ritirarmi a seguire quelle più noiose e bistrattate, punendomi grandemente. Mi pareva di essere tornato ai tempi dell’università, quando sfuggivo un Victor bellicoso che tentava in ogni modo di parlarmi, quando non era certo mia intenzione dargli tale soddisfazione.

Quando mi si affiancò anche durante una mortale conferenza sui metodi più corretti per evidenziare il sesso del nascituro prima del parto non riuscii a trattenermi dal gemere, affondando per quanto possibile nella scomoda panca il legno dell’aula.

 

«Mi verrebbe quasi da pensare, Watson», dissi sussurrando senza distogliere lo sguardo dall’uomo che esponeva, «Che tu mi stia seguendo di proposito».

 

«E a me che tu stia tentando di evitarmi», concluse lui, tirando fuori un taccuino e una matita ben appuntita, con la quale prese a trascrivere le idiozie che ci venivano esposte.

 

«Come può interessarti un simile argomento», chiesi, occhieggiando il disegno che stava copiando, una sezione delle gonadi femminili pari a quella che spiccava sulla lavagna di fronte a noi.

 

«Fra le mie pazienti vi sono parecchie donne gravide e trovo giusto dar loro quante più informazioni possibili sul nascituro».

 

«Il ventre più a punta o la direzione che prende l’ombelico non è scienza, Watson, e lo sai meglio di me».

 

«Non bisogna escludere nulla».

 

«Perché non ammetti che sei qui perché vi sono io stesso?»

 

«Perché non ho intenzione di dare adito al tuo protagonismo. Sono qui per la lezione: che tu ci sia o meno non ha alcuna importanza per me».

 

Lo osservai giusto qualche istante, indeciso se ribattere con tono piccato o semplicemente allontanandomi. Optai per una terza opzione.

Con mano rapida mi impossessai del suo taccuino e andai a scartabellarlo rapidamente.

 

«Holmes!», sbottò lui, cercando di mantenere il tono basso e lanciando rapide occhiate verso il collega che esponeva. «Non essere infantile».

 

«Hai preso appunti di ogni singola lezione alla quale hai partecipato», constatai. «Ma si interrompono tutte a metà, e guarda caso proprio nei momenti in cui io stesso ho deciso di smettere si seguire. L’unica esposizione completa è quella del sottoscritto e sei andato a sottolineare passaggi totalmente ininfluenti che tu già conosci alla perfezione, non certo quelli salienti. Ergo, o non stavi davvero ascoltando o non hai capito ciò che ho esposto. Da lì in poi vi sono solo pagine alla rinfusa e tutte di conferenze a cui io stesso ho preso parte».

 

Watson mi strappò il quaderno dalle mani e mi guardò con astio.

 

«Non sarei sceso a certi mezzucci se qualcuno non avesse cominciato a comportarsi come un bambino».

 

«Non so a cosa tu ti riferisca».

 

«Andiamo, Holmes. Non vuoi più avere a che fare con me, e questo è ben chiaro. Da più di un anno a questa parte è un miracolo se le nostre strade si incrociano, e anche se accade per qualche tuo caso è evidente che accade perché hai bisogno di qualcuno che ti faccia da catalizzatore, non perché vuoi passare del tempo con il sottoscritto come ai vecchi tempi. Tutta questa messa in scena ne è la prova: piuttosto che incrociarmi anche solo per qualche istante preferisci subire queste idiozie!»

 

Un colpo di tosse abbastanza concitato ci costrinse a rivolgerci verso la sua origine.

L’uomo al centro dell’auditorium ci stava fissando, così come il resto degli uditori.

 

«Le mie parole vi stanno dando qualche dubbio, colleghi?», chiese con tono piccato.

Vidi Watson arrossire, muovendo le mani con tono di scusa.

«Vi chiederei dunque, se non siete interessati, di continuare il vostro dibattito fuori di qui. C’è gente che sta cercando di imparare».

 

«Non certo in quest’aula», bisbigliai, ma prima che qualcuno potesse reagire mi sentii prendere per il braccio e trascinare.

 

«Vogliate scusarci», disse con tono rammaricato mentre mi costringeva ad alzarmi.

 

Fummo fuori in pochi istanti, sotto i portici di un chiostro che dava su di un giardino ben curato, bagnato in quel momento da una pioggia leggera.

Ammisi a me stesso che tutta quella scena mi aveva parecchio divertito, ma cercai di non farlo trasparire.

 

«Holmes, parlami», mi disse Watson con tono sconfitto.

«È ciò che sto facendo, mi pare».

«No, affatto. Stai giocando, nulla di più. Ho deciso di fare questo viaggio proprio per non darti via di fuga. Qui non ci sono casi, non ci sono distrazioni né scuse. Voglio sapere perché ormai sono un estraneo molesto ai tuo occhi».

 

Lo osservai, ritrovando in lui quell’aria da cane bastonato che usciva fuori quando lo prendeva lo scoramento.

 

«Non sei un estraneo», ammisi. «Molesto, indubbiamente, visto che mi impedisci di approfondire argomenti che mi interessano per il mio lavoro, ma non estraneo».

 

«E allora perché mi fuggi come la peste?»

 

Avrei voluto rispondere in modo schietto, certamente poco signorile, ma optai per concedermi una sigaretta per calmarmi, almeno qualche istante. La cercai nella tasca interna della giacca e andai a sedermi sul muretto basso in pietra che dava sul giardino. Non un soffio di vento spingeva l’acqua sulla mia schiena, ma le sentivo alle mie spalle, delicata mentre si poggiava sulle foglie già lucide delle varie piante che ornavano quell’angolo di università.

 

Da quella posizione io potevo perfettamente vedere Watson in luce, di fronte a me, mentre io mi mantenevo in ombra.

 

«Non credo sia necessario spiegarlo».

 

«Non vuoi ferirmi?»

 

«Posso assicurarti che il desiderio di ferirti in ogni modo possibile è stato al centro di ogni mia azione dal giorno in cui mi hai annunciato il tuo matrimonio, ma sarai ben lieto di sapere che al momento non è nei miei piani. Vivo eccezionalmente con la sola intenzione di ignorarti».

 

L’ammissione sembrò colpirlo al petto e nuovamente vidi quell’espressione da cucciolo di cane che tanto mi irritava.

 

«La cosa non dovrebbe scalfirti, Watson. Ti avevo già espresso tali pensieri al riguardo tempo addietro e non comprendo come possano stupirti».

 

«Non mi stupiscono, difatti. Non posso pretendere che non facciano male e certo speravo che con il tempo--»

 

«Che si fossero sopiti?»

 

Le sue spalle si abbassarono.

 

«Esattamente».

 

Fu il mio tempo di scrollare le spalle, mentre aspiravo una profonda boccata di fumo, liberandolo in aria in una lieve nuvola azzurra.

 

«Particolarmente ingenuo da parte tua».

 

«Speranzoso».

 

«Ingenuità e speranza son due facce dello stesso peccato. Specialmente quando certi argomenti sono già stati affrontati tempo addietro. Ti ho già espresso tutto ciò che dovevo quando mi hai annunciato il tuo matrimonio: non vedo perché le mie idee dovrebbero essere cambiate da allora».

 

«Allora non eri in te».

 

«Posso assicurarti che ero molto più “in me” allora di quanto possa esserlo adesso. Il mio pensiero non è cambiato, Watson: hai optato per vivere semplicemente – e mi auguro felicemente – con una donna che ti ama piuttosto che restare affianco al sottoscritto. E lo comprendo. Fin dall’inizio ti avevo avvisato che non sono un uomo semplice con cui convivere, ma tu ti sei gettato comunque a capofitto nella nostra vita sino a che non ti sei scottato e ti sei ritrovato a volerti far leccare le ferite da qualcuno. Comprensibile. Tragico che un uomo come te possa aver optato per una scelta tanto semplice, e debbo ammettere che è questo che mi ha fatto più infuriare all’epoca, ma non posso biasimarti. Certo, incolpo me stesso per aver creduto che fossi più di quanto mi era dato a vedere, e ammetto che la rabbia che ti ho riversato addosso allora fosse rivolta più al sottoscritto che a te, ma ormai Watson è acqua passata. Tuttavia capirai bene la mia necessità di non volerti accanto e trovo una mancanza di rispetto che tu, nonostante tutto, stia continuando a cercarmi».

 

Ogni parola era delicata ma tagliente.

Volevo ferire ma mantenendo una pacatezza che mi stava logorando da dentro, ma che sapevo sarebbe andata a segno.

Lui incassava con grazia, sebbene leggessi il suo scoramento con chiarezza abbagliante.

 

«Non ho mai detto di voler rinunciare alla tua amicizia», mormorò.

 

«Né io di volerla in questi termini. Ciò che è capitato fra noi è andato contro ogni logica e pretendere che io possa voler continuare come nulla fosse nel nostro rapporto è quanto mai egoista da parte tua. Hai fatto la tua scelta e io ho diritto di portare avanti la mia», conclusi, andando a spegnere la sigaretta sulla pietra umida.

Mi alzai, rendendomi conto che in questo modo la nostra distanza era quanto mai inesistente. Nel parlare Watson doveva essermisi avvicinato e me ne rendevo conto solo adesso che eravamo faccia a faccia.

Così da vicino e con la tenue luce che filtrava dalle nuvole basse e cariche di pioggia notavo tutti i piccoli cambiamenti che questo anno gli aveva lasciato addosso.

Qualche capello bianco a malapena riconoscibile in mezzo a quel grano che più volte mi ero ritrovato ad accarezzare; rughe ai margini degli occhi, un tempo solo di espressione mentre adesso erano lì chiaramente per l’incedere del tempo.

Tornai con la mente a quando si presentò a me, nero come la pece e con il viso segnato non dalle rughe ma dalla paura e dalla guerra, e mi domandai come all’epoca, in quel giorno al Saint Bart, avessi potuto anche solo pensare che fosse un brutto uomo.

Nonostante il mio gesto e le mie parole, indicative del fatto che volessi concludere lì la discussione e il nostro incontro, Watson non sembrava intenzionato a scostarsi.

 

«Passa con me questi ultimi giorni. Come ai vecchi tempi».

«Non mi ero reso conto di aver parlato a vuoto in questi ultimi minuti. Avresti potuto avvisarmi: mi sarei limitato ad allontanarmi senza sprecar fiato».

«Mi manchi. Anche solo averti accanto. Anche solo parlare».

 

Mi avrebbe quasi commosso e convinto se non avesse fatto il malsano gesto di cercare la mia mano, cosa che inizialmente mi congelò. Non toccavo Watson dal giorno del suo matrimonio e odiavo la sensazione che mi dava sentirlo.

Già anni addietro mi ero reso conto che qualsiasi tocco da parte del mio ex coinquilino mi causava delle scariche lungo la colonna dorsale che andavano come ad interrompere qualsiasi mio pensiero, in qualunque situazione mi trovassi. La cosa era deleteria nei momenti in cui necessitavo della massima concentrazione e un sollievo quando avevo bisogno di staccare, ma in quell’istante mi provocò solo una rabbia cupa e profonda nei suoi confronti. Ma anche nei miei.

Nei suoi perché sapeva cosa era in grado di farmi, e nulla poteva convincermi che fosse in completa buona fede.

Nei miei perché nonostante tutto ero ancora succube di quegli occhi e di quelle dita.

 

Discostai la mano con stizza e senza dir più nulla, troppo furibondo per parlare, e con passo rapido mi allontanai, lasciando il Dottore alle mie spalle, il suo sguardo su di me, ad insinuarsi nei miei pensieri.

 

--

 

Volevo tornare a Londra, andarmene il prima possibile, ma sapevo di non poterlo fare.

Da un lato avevo il professor Bell, il quale ogni volta che mi incontrava non faceva altro che tessere le mie lodi, prodigo di ringraziamenti per l’essere accorso in suo sostegno con la mia esposizione e al quale avevo promesso che avrei partecipato al gala finale.

Avrei facilmente potuto addurre a una scusa per quello, ma mi era congeniale restare non solo per buona creanza quanto per il fatto che a Londra stava macerando qualcosa nel sottobosco criminale della città, e sapevo bene che star lontano da tutto avrebbe velocizzato la cosa. Forse una settimana non era abbastanza, ma dal momento che stavo giocando ormai una partita a scacchi con un uomo che non aveva ancora un volto volevo giocare ogni mia carta.

Dopotutto questo professor M., di cui ancora non sapevo quasi nulla se non che fosse una mente eccelsa, si era accorto della mia presenza e certo stava per lanciare qualcosa verso di me, un’esca magari, o forse un invito, e io volevo dargli l’occasione di prepararsi in modo più che adeguato.

 

Decisi dunque che tanto valeva sopportare quegli ultimi tre giorni.

Watson tuttavia mi sorprese.

Non mi cercò più.

Capitava che ci incontrassimo durante le varie conferenze, ed era inevitabile che a cena i nostri tavoli fossero quanto mai vicini, ma non tentò più di approcciarmisi né cercò il mio sguardo. O, perlomeno, non era così lampante. Lo sentivo sempre su di me, ma se mi voltavo per cercarlo lui prontamente era assorto o nell’ascolto della conferenza o nella lettura del menù. Spesso si accompagnava a qualche collega e il dottor Bell stesso non esitava ad invitarlo al suo tavolo, cosa che tentò di fare anche con me ma che riuscii a scansare abilmente con scuse inerenti al fatto che fossi troppo impegnato a pensare a una qualche nuova monografia e che dunque preferivo lavorare in solitudine.

 

Un poco mi piccava il fatto che Watson avesse già deciso di smettere di tentare, ma quando mi scoprii a pensare una cosa simile mi dovetti redarguire.

Il mio unico desiderio era tornare alla mia normalità, ai miei casi, alla mia solitudine.

Ciò che mi turbava, a pensarci, era il fatto che in dieci anni non fossi mai stato davvero solo. Watson era sempre rimasto con me, nel bene e nel male. E in questa decade, temevo, forse mi ero abituato a non essere più solo con me stesso.

Era certo ciò che mi era accaduto nell’ultimo anno e che solo in quegli ultimi mesi, con mente fredda, ero riuscito ad estrapolare.

La conclusione era che Watson, con il suo restarmi accanto, con il suo fare domande sciocche, con le sue intuizioni genuine e il suo buon cuore, mi aveva rovinato.

Aveva gettato al vento anni di dedizione alla causa e alla logica più fredda. Anzi, ben peggio: gli avevo concesso di farlo e per qualche breve attimo mi ero considerato liberato dai suoi baci e dai suoi occhi che mi osservavano come se fossi l’unica cosa essenziale.

Mi pentivo di essere caduto nel tranello più vecchio del mondo, dando fuoco a una parte di me stesso che adesso mi sentivo mancare e che tentavo di rimettere assieme pezzo a pezzo, come una corazza. Ma nonostante la mia dedizione, nonostante i miei tentativi, bastava la sua presenza nella mia stessa stanza perché questi pezzi cominciassero nuovamente a scalfirsi e a vacillare.

 

Giunsi alla sera finale, quella prima della partenza, terribilmente sfiancato.

 

La serata finale si sarebbe svolta nello stesso albergo che mi ospitava e dove risiedevano buona parte di coloro che avevano esposto durante quella settimana frenetica.

Una cena di gala con tanto di musica dal vivo.

Ne avrei fatto volentieri a meno ma il dottor Bell, la mente dietro a quel congresso monumentale, era venuto la mattina stessa a ripetermi che desiderava avermi al suo stesso tavolo e che non avrei potuto in alcun modo negargli tale piacere.

Mi preparai dunque al meglio ma con un senso di fastidio opprimente.

Non vedevo Watson dalla mattina stessa, dove neanche lo avevo incrociato per errore a colazione, e questo mi dava da pensare che forse avesse deciso di tornare a Londra anzitempo.

Dopotutto non mi aveva detto per quanto sarebbe rimasto a seguire le varie conferenze e poteva benissimo essere già partito. Non avevo neanche avuto l’occasione di vedere quale valigia si fosse portato appresso, la quale mi sapeva indicare perfettamente il numero di notti che aveva intenzione di spendere fuori casa.

Mi redarguii da solo: in tempi non sospetti una rapida occhiata mi avrebbe permesso di capire ogni sua singola mossa da lì a una settimana, mentre tutto ciò che riuscivo a fare in quegli ultimi anni era perdermi in inezie, quali il fatto che indossasse o meno ammennicoli regalati dal sottoscritto o se avesse avuto incubi durante la notte o altri simili idiozie.

 

Annodai il farfallino, presi la tuba e mi lanciai un’ultima rapida occhiata allo specchio.

Forse, pensai, tutta quella messa in scena con Watson era davvero finita e mi stavo preoccupando inutilmente.

 

 

--

Quando mi venne indicato il mio tavolo notai subito con sollievo che di Watson non vi era la benché minima traccia.

Al suo posto, invece, vi erano il dottor Bell con la moglie al seguito, due uomini che mi erano già stati presentati ma di cui il nome non mi diceva alcunché e la sorella di uno dei due. Non era certo la moglie, vista la somiglianza nei tratti.

Venni accolto con clamore dal dottor Bell, che mi fece sedere accanto a sé dopo avermi introdotto nuovamente agli altri presenti.

 

«Una settimana brillante! Davvero un successo!»

 

«Lieto di sentirVi così entusiasta».

 

«Il rettore non credeva che davvero sarebbero accorse così tante persone dal di fuori della Scozia. Son convinto che si sarebbe volentieri mangiato il cappello pur di non darmi soddisfazione, ma i numeri parlano chiaro. Uomini e donne da tutto il regno per un qualcosa proposto dal sottoscritto. Ah!»

Il mio anfitrione fece un rapido gesto di mano a un cameriere perché questo venisse a servirci da bere e non appena ebbe attirato la sua attenzione tornò a volgersi verso il sottoscritto.

 

«La Vostra presentazione, Holmes, poi! Un gran successo. Molti non erano felici del fatto che volessi far parlare un amatore, ma non è forse nata così ogni scienza? Dalla passione di qualcuno che non ne aveva alcuna nozione ma carico di curiosità verso l’ignoto?»

 

«Comprendo appieno però i timori dei Vostri colleghi: la curiosità deve essere associata ad una base concreta, altrimenti si tratta di un gigante dai piedi di sabbia».

 

«Indubbiamente, indubbiamente. Non parliamo di ciarlatani, sebbene alcuni individui invitati ad esporre le proprie teorie dal rettore stesso non possano che definirsi ta--»

 

«Joseph», lo redarguì delicata la moglie, lanciando uno sguardo divertito verso quello che intravvidi essere il tavolo del rettore.

 

Il dottore si scrollò di dosso la frase, ricomponendosi.

 

«Perdonatemi. Ma se non vado errato ci stanno raggiungendo i nostri commensali».

 

Mi voltai quanto bastava per vedere chi ci stava affiancando e nemmanco mi lasciai troppo stupire.

Watson e un giovane medico – impossibile non capirlo - si stavano avvicinando al nostro tavolo con passo pacato, discutendo. Solo quando furono a pochi passi interruppero la loro discussione, salutandoci.

 

«Perdonate il ritardo», disse quello di cui ancora non sapevo il nome. A ben guardarlo doveva avere circa l’età di Watson. Era ben sbarbato, vestito con un completo blu che sembrava uscire ben poco dal suo armadio, ma i suoi tratti tradivano una bellezza rigida, composta. Aveva fatto il soldato, in passato, di alto grado, ma era difficile scorgerlo se non per alcuni piccoli movimenti.
Conosceva Watson da parecchio.

 

Mi alzai per accogliere i nostri commensali, ostentando un’aria noncurante con Watson, che mi salutò allo stesso modo di chiunque altro al tavolo. Mi sentii punto nel vivo, e la cosa andò ad acuirsi quando andò a sedersi accanto al collega del Dottor Bell, ponendo fra me e lui l’ingombrante presenza dell’uomo con cui si era presentato.

La stizza tuttavia non mi aveva certo offuscato la vista, poiché dovetti ammettere a me stesso che Watson era delizioso, con un delicato abito color sabbia che donava particolarmente al suo incarnato. L’aria della sua vecchia università doveva avergli giovato, quasi come se fra noi non vi fosse stata alcuna discussione.

 

Fu Bell ad introdurre l’ospite indesiderato, tale Dottor Vincent Scott.

Mi rammentai di lui quando sentii il nome: avevo un trafiletto che lo riguardava, raccolto questa volta non da me, ma da Watson stesso, che – anni addietro – mi aveva mostrato il giornale con orgoglio, asserendo che l’uomo di cui si parlava fosse un suo caro amico dell’università. Per qualche ragione avevo deciso di conservarlo.

La sorella del collega del nostro ospite si fece subito avanti, inopportuna.

 

«Avete studiato qui?»

«Ormai tanti anni fa ma sì, sotto il Professor Bell. Poi appena laureato mi sono arruolato assieme al qui presente Dottor Watson, ma le nostre strade si son separate presto».

 

Dall’angolazione in cui mi trovavo riuscivo a vedere il volto di Scott unicamente di profilo, quando parlava con chi gli stava di fronte. Non potevo studiarlo quando invece mi interessava di più, ovvero quando dirigeva lo sguardo verso il mio vecchio coinquilino.

Ma potevo invece vedere benissimo Watson.

Pendeva dalle labbra di quell’uomo con aria rapita.

 

«I suoi servigi son stati richiesti in Afghanistan, mentre i miei in Sudafrica».

 

«Vi siete fatto molto onore, tuttavia», mi lasciai sfuggire.

 

L’uomo si voltò verso di me, prestandomi davvero attenzione per la prima volta.

 

«Quanto basta per portare a casa la pelle», sorrise modesto.

 

«Non credo, visti i vostri gradi e la medaglia al valore che avete ottenuto».

 

Scott mi osservò confuso per qualche istante, scoppiando poi a ridere.

 

«John mi ha raccontato del vostro dono! Da cosa lo avete capito? Dai miei gemelli? Dal taglio dei miei capelli? O forse dall’incedere marziale ormai rallentato dai troppi anni lontano dall’esercito?»

 

«Affatto», dissi tirato. «Il dottor Watson mi ha accennato a Voi nel corso della nostra convivenza. Mi son limitato a ricordare le sue parole».

«Ben più semplice del previsto come spiegazione».

«Difficilmente “semplice” è “errato”. Ma non vuol dire che non si possa estrapolare alcunché dal vostro aspetto e modo di fare».

 

Come il fatto che vi fosse fra lui e Watson una passata intimità.

Lo vedevo chiaramente da come i due tendevano l’uno verso l’altro. Era un qualcosa di passato, solo un ricordo, ma giaceva lì, presente, come un odore sgradevole.

Scott in questi pochi minuti era già riuscito a spostarsi sempre più verso Watson, tendendo sempre verso di lui con il corpo anche quando parlava con il sottoscritto. Movimenti impercettibili, ma non per chi sapeva dove guardare.

Ebbi la conferma quando la mano di Watson andò a cercare l’avambraccio dell’altro, stringendolo.

Non era un monito rivolto a lui, tuttavia, ma al sottoscritto.

Era con Watson, infatti, che mi stavo scambiando un lungo sguardo di intesa, e nei suoi occhi non riuscivo a capire cosa vi fosse. Colpa, forse. Rabbia nei miei confronti? Certo sembrava implorante.

 

«Non credo che il Dottor Scott sia qui per farsi analizzare, Holmes».

Sorrisi con fare tirato.

«Indubbiamente. È qui come tutti noi per ringraziare il dottor Bell per questa magnifica settimana. Dite, avete assistito a tante conferenze?»

«Oh, non così tante. Ho dovuto conciliare il tutto con le ore di studio, ma la fortuna di lavorare qui ad Edimburgo mi ha permesso di seguire qualche lezione interessante. E mi ha permesso di rincontrare Watson!»

«Vi siete incrociati per puro caso?»

«Fortuna sfacciata. Lui vagava per il campus e io cercavo un’aula in cui non mettevo più piede da almeno quindici anni. Non troppo diverso da come ci siamo conosciuti».

 

Il collega di Bell richiamò l’attenzione con una domanda a cui non prestai caso, troppo intento ad osservare Scott.

Pareva ignorare la mia ostilità, e in tutta sincerità io stesso la trovavo quanto mai fuori luogo, ma non potevo farne a meno. Questo spiegava la mancata insistenza di Watson e mi irritava enormemente, ma mai quanto il fatto che mi stessi comportando come un ragazzetto.

Mi ricomposi, decidendo che quella sera mi sarei comportato in modo più che compunto e che la mattina successiva, di buon’ora, sarei tornato a Londra badando bene di prendere un treno ben diverso da quello di Watson.

Se l’averlo così vicino mi rendeva così cieco e volubile allora dovevo definitivamente dare un taglio a tutto.

 

Fortunatamente Bell era un uomo brillante e avrebbe saputo intrattenere da solo una platea intera. Non calò il silenzio sul nostro tavolo nemmanco per un istante, tanto che ben prima del dolce mi ritrovai a desiderare di ritirarmi nella mia stanza.

Watson rispondeva preso ad ogni argomento, che si trattasse del congresso e delle novità nel suo campo che era venuto a scoprire o che fosse semplicemente un qualche pettegolezzo inerente alla facoltà, supportato da Scott che sembrava essere nato unicamente per dargli ragione.

Quando all’ennesimo bicchiere di vino però i coniugi Bell decisero di concedersi un ballo, seguiti a ruota da Scott – che per galanteria invitò l’unica altra signora presente al tavolo -, io e Watson restammo al tavolo. I due signori di fronte a noi erano troppo presi a discutere e a bere per accorgersi di noi.

Pensai che sarebbe stato il giusto momento per congedarmi ma Watson si spostò su quella che era la sedia di Scott, affiancandomisi.

 

«Ti ricordavi davvero di Vincent?»

 

Il mio sguardo era concentrato sul bicchiere di fronte a me e mi ripromisi di non distoglierlo mentre giocavo a tracciare gli intarsi del cristallo con la punta delle dita.

 

«In parte. Non l’ho mai ritenuto abbastanza degno di nota da prendere troppo spazio nella mia mente. Tuttavia anche senza aver letto in passato quel trafiletto che trattava la sua onorificenza sarebbe stato abbastanza semplice dedurre il tutto dal bavero della sua giacca, dai gemelli e dal fatto che gli manchi una falange del piede destro. La terza, in particolare».

 

Watson mi osservò con aria stupita, come fosse la prima volta che lo gabbavo, ma non mi diede alcuna soddisfazione se non quella.

Tornò preso in sé.

 

«È una brava persona. Un gran medico e un ottimo soldato».

«Suppongo anche un ottimo amante, dal momento che è il primo con cui ti sei concesso più che una semplice sfiorata negli spogliatoi», sussurrai, sempre concentrato sul bicchiere, ma vidi chiaramente il dottore guardarsi intorno preoccupato, temendo orecchie indiscrete.

«Holmes!»

«Non è forse vero?»

Mi voltai a guardarlo, lasciandomi andare con la schiena sulla sedia, mollemente, come se fossi stato sul divano del nostro – mio – salotto.

Watson aveva le gote imporporate e sicuramente non dal vino. Cercava intorno a sé il segno che qualcuno avesse potuto sentirmi ma quando si rese conto che così non era tornò a cercarmi, quasi stupendosi di trovarmi intento a fissarlo.

E come avrei potuto resistere?

Era così bello da provocarmi una rabbia cieca e certo lo spirito che avevo in corpo non mi aiutava a seppellire certi istinti.

 

«Anche se fosse, perché mai dovrebbe importarti?»

«La curiosità fa parte della mia natura».

«Fino a tre giorni fa asserivi che non dovevamo avere più nulla a che fare l’uno con l’altro».

«Non mi sembra che tu sia stato troppo a stracciarti le vesti per la disperazione».

«E a me non pare che le tue parole siano troppo coerenti con il tuo atteggiamento. Se davvero non ti interessa che fra noi due vi sia alcun tipo di rapporto allora non dovrebbe preoccuparti se decido di spendere qualche ora con quello che è stato per anni uno dei miei più cari amici».

Mi sovvenne un dubbio.

«Watson, stai cercando di farmi ingelosire?»

Mi scrutò corrucciato ma vidi nuovamente un lieve rossore prendere le sue orecchie.

Forse non era così, perché Watson non era capace di un qualcosa di così subdolo e infantile, ma magari una piccola parte di lui, minuscola, un po’ lo aveva sperato e se ne stava rendendo conto solo in quell’istante.

Mi guardò storcendo il naso.

«Non dire scempiaggini».

«Scempiaggini invero. Un tempo, forse, vederti così affiatato con un altro uomo mi avrebbe irritato oltremodo».

«Un tempo? Mi pare che tu sia irritato anche in questo istante».

Mi tirai su a sedere composto, ruotando tuttavia busto e gambe verso Watson, di modo che le nostre ginocchia si toccassero, sporgendomi poi in avanti per poter far sì che mi sentisse.

«Non dovrei?», sussurrai roco, con un sorriso, così che chiunque da fuori non potesse anche solo lontanamente pensare a quanto veleno mi stesse ribollendo dentro. «Non appena accade un qualsiasi evento negativo nel nostro rapporto la tua tendenza è quella di fuggire e trovare rifugio in altro. Sotto una gonnella o nel letto di un bel militare, non mi pare vi sia alcuna differenza per te».

«Definisci il tuo ridurti all’ombra di te stesso un “evento negativo”? Mi sono allontanato da te per la salvezza della mia salute mentale e di quella tua fisica».

«Ma continui a tornare. Ergo o non ti interessa davvero della tua salute mentale o ti piace l’idea di avere su di me una tale influenza da poter piegare la mia».

«La ho davvero, Holmes? Se così fosse sarebbe stato tutto diverso, lo sai bene».

«Se fossi stato il genere di uomo che si piega al tuo volere ad ogni soffiar di vento non ti saresti mai innamorato di me. E questo ci riporta a te, Dottore. Il tuo è un gioco sadico di cui a malapena sei consapevole, in cui ti attacchi con i denti a ciò che ti interessa come un cane con l’osso, mollandolo non appena ti rendi conto che è troppo duro per te. Ma il sapore ti rimane sulla lingua, fra le labbra, e anche se hai fra le mani qualcos’altro da sgranocchiare ecco che torni con la coda fra le gambe per avere ancora un piccolo assaggio, sapendo bene che ti farà di nuovo del male».

 

Watson smise di rispondere e mi resi conto che nei suoi occhi non vi era la cattiveria che speravo di tirare fuori.

Dio, come mi faceva infuriare il fatto che, nonostante tutto, non riuscissi mai a tirargli fuori quel briciolo di rabbia che avrebbe saziato il mio bisogno di fargli del male, anche solo un poco.

Quando parlò di nuovo io ero pronto, un pugile sul ring pronto a sferrare il pugno decisivo.

 

«Mi sono innamorato di te per molti motivi. Il tuo intelletto, la tua sagacia, il fatto che avessi dentro di te una bussola morale ben bilanciata. Me ne sono andato perché hai preferito dare tutto alle fiamme piuttosto che accettare il mio aiuto. Non potevo vedere il mio migliore amico continuare a distruggersi a discapito di ogni mio tentativo. Son stato un vigliacco, è vero, ma tu non ti sei dimostrato migliore del sottoscritto. Ed è vero che torno da te - a volte in punta di piedi, a volte caricando a testa bassa - ma forse ho ancora dentro di me una piccola speranza che in qualche modo possa far tornare indietro il tempo ed aggiustare tutto. La mia colpa principale è il fatto che sono uscito da quella casa che ancora ti amavo. Che mi sono sposato che ancora ti amavo. E che ancora adesso, nonostante tu voglia solo ferirmi, io sia ancora nella medesima situazione. Ma non mi prenderò anche le tue colpe, Holmes. Non più. Non questa volta».

 

Fu lui a colpirmi in pieno volto, con la delicatezza di una rondine, lasciandomi a terra sconfitto.

I nostri compagni di tavolo decisero di tornare giusto in quell’istante, accaldati e ciancianti, e Watson tornò ad occupare rapidamente il proprio posto come nulla fosse. Io mi rimisi composto, frastornato. Sentivo parlare ma non ascoltavo.

Solo la voce di Watson mi giungeva alle orecchie, anche se non parlava a me.

 

Mi alzai, adducendo una scusa, ringraziando sentitamente e mi allontanai con passo rapido, sconfitto.

 

 

--

 

Fumai così tanto e in così poco tempo da sentirmi la gola secca.

Avrei voluto altro ma sapevo di aver finito prima del tempo le poche dosi che mi ero portato in viaggio e mi maledissi più e più volte per non essere stato più lungimirante e per il fatto di essere diventato così dipendente dalla soluzione.

Ma non avevo dubbi che se non avessi incontrato Watson non ne avrei avuto così tanto bisogno.

Quell’uomo mi destabilizzava, anima e corpo, ormai lo sapevo da tempo, ma sentirlo parlare così schiettamente, con quella tristezza velata negli occhi color cielo, mi aveva turbato.

Mi ero domandato più volte se ancora provasse per me quello che per anni mi aveva sussurrato o fatto intendere in ben altro modo, ma mi ero convinto che ormai il suo fosse solo un puntiglio, una cattiveria nei miei confronti. Sentirglielo dire aveva lacerato una ferita che ormai credevo essere già diventata cicatrice e mi aveva costretto a chiedermi cosa muovesse invece il sottoscritto.

Per molto tempo avevo pensato fosse un desiderio immaturo di vendetta, ma non l’avevo mai cercata davvero. Io da Watson avevo voluto allontanarmi ulteriormente perché faceva troppo male stargli ancora accanto. Ogni nostro incontro dal giorno del suo fidanzamento era stato di agonia pura e solo la lontananza mi aveva permesso una parvenza di sollievo.

Ma a fronte di questo, forse non era cambiato nulla in tutto quel tempo.

Forse mi ero solo illuso di star meglio, di essere in via di guarigione.

La realtà era che la mia malattia non era diversa da quella di Watson e che come lui non si era sopita nemmanco un istante, neanche nella rabbia e nel dolore.

 

 

Tornai in albergo dopo quelle che mi parvero essere ore, infreddolito e stanco, con un forte bisogno di lavarmi di dosso quella settimana e non mi importava che fosse con l’acqua o con il whiskey.

Entrai nella mia stanza a tentoni, andando a cercare la lampada sul comò, accendendola giusto per capire dove fosse la bottiglia. Mi versai due dita abbondanti e senza troppe cerimonie le ingollai d’un fiato, andando ad accentuare il fuoco lasciato dal fumo. Mi tolsi malamente le scarpe, sbottonai i polsini e lanciai da qualche parte la giacca, liberando il collo dal nodo del farfallino.

Bussarono alla porta quando ero già a metà del secondo bicchiere, al quale mi stavo dedicando con molta più calma.

Andai ad aprire così come ero, senza scarpe, con la camicia aperta sino a metà petto e con il bicchiere in mano.

 

Non so se mi stupii davvero di trovarmi Watson davanti.

Non ricordo neanche se gli dissi qualcosa o se mi limitai a lasciarlo entrare dopo averlo scrutato qualche istante, giusto per capire le sue intenzioni.

Tuttavia rammento distintamente che non appena chiusi la porta alle mie spalle non dovetti ingegnarmi troppo per fare l’unica cosa che il mio corpo stava chiedendo dal primo istante in cui l’avevo rivisto, sebbene non abbia ancora capito se si trattò di un impulso mio, del Dottore o contemporaneo di entrambi.

Watson sapeva di fumo e alcool, ma forse quello ero io. Certo era che riconoscevo benissimo il profumo della pomata che usava darsi sui baffi e il tocco morbido della sua lingua sulla mia. Anche le sue mani me le ricordavo così familiari, come se me le fossi sentite addosso solo il giorno prima e non quella che ormai mi sembrava essere una vita fa.

Non voleva essere delicato e io non volevo essere certo da meno, dacché si trovava anche in vantaggio, ma non mi opposi affatto quando venni spinto crudamente verso il comò e sollevato di peso. La mia camicia forse perse addirittura un bottone ma non me ne lamentai certo, dacché presto finì da qualche parte nella stanza, mentre sul petto sentivo la stoffa di quella di Watson, un ingombro fastidioso che lo costrinsi rapidamente ad abbandonare.

Non c’era tregua, non c’era respiro.

La sua bocca era sempre su di me, a mozzarmi il fiato, le sue mani a stringermi come a tentare di non farmi scappare. Si muoveva con la disperazione di un assetato e io non potevo far altro che soccombere, agognante e stordito dal desiderio di sentirlo ancora e ancora.

Ogni bacio, ogni morso, ogni carezza era una benedizione di cui sapevo avrei pagato lo scotto successivamente, ma non potevo farne a meno.

Il mio agognare la cocaina impallidiva di fronte alla necessità che avevo di essere suo.

 

Non è da me essere così impreciso nella stesura dei fatti ma quella sera è così vivida e fumosa al tempo stesso che potrebbe anche essersi trattato di un sogno, e certo me ne sarei convinto da solo io stesso se non fosse stato per i segni che avevo addosso la mattina dopo e che Watson stesso si portò a casa.

Forse fu lui a dire che mi odiava profondamente per averlo avvelenato così nel profondo, o forse fui io in un gemito disperato mentre mi prendeva in mano e mi guardava con il fiato mozzo dritto negli occhi. O magari nessuno di noi due parlò di odio e ci limitammo a riempirci i polmoni del profumo dell’altro e le orecchie dei singulti di piacere che per tanto tempo avevamo imparato a soffocare in quel di Baker Street.

Non ci dicemmo di amarci.

Non ce lo meritavamo.

Ma era impossibile celare un qualcosa che traspirava da ogni nostro gesto, sguardo, sospiro.

 

Quella notte passò in un soffio e quando mi svegliai il sole era già sorto ma era nascosto da nubi cupe e basse, cariche di pioggia.

Watson mi dormiva accanto, nudo e meraviglioso, l’espressione pacata di chi non ha alcun peccato sulla coscienza. A me invece la nausea schiacciava.

Non era reale.

Era carne ed ossa e muscoli e baci, ma era tutto chiuso lì, in quella stanza, un sogno che sarebbe andato in frantumi appena varcata la porta e non avevo intenzione di lasciare in mano sua il potere di farlo.

 

Presi il primo treno per Londra, fuggendolo come un ladro, senza svegliarlo e senza concedermi di rubargli un ultimo bacio.

 

 

 

   
 
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