The world on the right
– III parte (finale) –
“Che—che cosa!?”
Jean sobbalza. Marco fa altrettanto, ma non
sa dire se per la richiesta, o per il modo orrendo in cui Jean ha sputato la
sua domanda, gracchiandola con una forza che
probabilmente, non pensava neppure di avere.
Il riverbero dell’incredulità si leva nella stanza e la scombussola, la mette a
soqquadro: l’universo perde il suo normale equilibrio primordiale.
“Resta fermo dove sei, Jean.”
Hange non si scompone; non alza neanche più di tanto il tono.
La mano che poggia su quel ginocchio tremante, e l’occhiata di fuoco che
scaglia all’improvviso e che sembra capace di poter bruciare di colpo l’intero
mondo, è sufficiente perché il suo comando diventi perentorio.
Jean, tace.
Ammutolito come se gli avessero tagliato la lingua, torna ad appoggiare la nuca
sul lettino, levando uno sguardo vacuo e disperato al soffitto.
Hange lo fissa in quel modo per un’altra
mangiata di secondi, prima di voltarsi, di nuovo morbida in viso, e ripetere la
cortese richiesta a Marco, che torna a percepirsi come essere composto da
carne e ossa solo nell’istante in cui la caposquadra gli rivolge la parola.
“Allora,” sorride, rimodula il tono “spiego meglio,” si schiarisce la voce,
“voglio esaminare con maggiore attenzione l’area testicolare e perineale, e per
farlo, ho bisogno che qualcuno tenga sollevato il pene di Jean, e che lo faccia
qualunque cosa succeda—"
Il modo in cui calca le ultime parole è sufficiente perché il cuore dia uno
strattone al petto; lo stesso che probabilmente ha dato a Jean, che si lascia
sfuggire per errore un suono rauco dalla gola.
“Ti faccio vedere.” ne dà una dimostrazione pratica, e a quella vista, Marco ha
una vertigine, o un capogiro: una di quelle cose che fa sentire le gambe molli
e tremolanti, come fossero vittime di un ingranaggio difettoso del cervello, e
che peggiora drasticamente quando la scienziata, stanca del suo titubare,
prende la sua mano e la va a piazzare lì, dove gli è richiesto di stare,
sostituendola alla sua.
“Ecco, così—tieni ben saldo, mi raccomando—”
E un gemito fuoriesce, che gli piaccia o no.
Hange non sembra sorpresa, e infatti, non ha nulla da ridire al riguardo. Marco
si stringe nelle spalle, sente l’equilibrio venirgli meno, ma al contempo,
sente anche di dover prestare la massima attenzione – perché la fragilità
di Jean è tutta lì, sotto il suo palmo tremante e sudaticcio, e non può
permettersi di crollare proprio lì, proprio in quel momento.
Che resista, è anche la disperata, silente implorazione di Jean, che gli lancia
con uno sguardo che Marco volentieri rilega a destra; non vuole
incrociare.
Nel frattempo, Hange si è già rimessa al lavoro, e la serenità e concentrazione
con cui lo fa, ha del disumano.
A Marco verrebbe da pensare che quel mormorio intelligibile che gli sembra di
sentire nell’aria, sia in realtà il rumore dei suoi pensieri, che efficaci e
analitici, risolvono un enigma nascosto nel luogo meno opportuno che riesca a
immaginare, e non il ronzio di un insetto entrato per caso in quello spaccato
caotico delle loro vite.
Si rende conto che non è né l’uno né l’altro, quando il suo occhio si sposta
per la prima volta dal pavimento a Jean, e può vederle, quelle labbra pallide
muoversi meccaniche e rivolgere una nenia, forse addirittura una preghiera
all’etere, che si interrompe insieme al suo respiro, ogni qualvolta le dita
sue, o di Hange, finiscono per muoversi anche solo di un millimetro di troppo
sulla pelle tesa.
“Eccola qui,” di colpo, ogni cosa ritorna al suo posto.
Marco ha un momento di smarrimento; trasalisce, come se si stesse
improvvisamente risvegliando da un sogno.
Guarda Hange, poi di nuovo Jean – guarda anche quella mano che, forse sta
stringendo un po’ troppo, perché le ginocchia di Jean fanno per tendersi di
scatto, bloccate poi da un nuovo rimprovero – più lieve, c’è da dirlo – della
caposquadra.
“L’ho trovata—” smaniosa, Hange tira a sé il
lume.
Si china oltre ogni soglia della decenza. Il mignolo e l’anulare di una
mano spingono i testicoli che ricadono nella zona di suo interesse, e Marco è
sorpreso di non necessitare ulteriori spiegazioni: raccoglierli piano, con
delicatezza, è per lui istintivo.
“Shhhh”, sussurra a Jean, per l’ennesima
volta, perché può vedere le sue dita contorcersi contro l’aria, come ad
afferrare qualcosa che non riesce a vedere.
“Puoi stringermi il polso, se vuoi” dice, a
bassa voce “ma ti prego, ti prego: non muoverti.”
E pare incredibile anche a lui, come Jean faccia tutto quello che gli chieda,
privo di sbavature.
Hange nel frattempo ha allungato un braccio e afferrato una grossa lente di
ingrandimento poggiata sul carrello al suo fianco; continua imperterrita
nell’osservazione di ciò che sostiene aver trovato, e le ulteriori indagini non
fanno che confermarlo.
“È proprio una zecca…” annuncia, “guarda come
si è insidiata bene, questa piccoletta—” la pungola incuriosita con un’unghia.
“La prego, faccia in fretta, caposquadra Hange!” perché adesso che la conferma
è giunta, il viso di Jean ha assunto una tinta che va dal verdognolo al blu, e
il conato che ha fatto seguito al ‘mi sento male’,
bisbigliato prima di premersi da solo la mano contro le labbra, Marco lo ha
visto e soprattutto, sentito.
Hange solleva gli occhi, riprende consapevolezza del tempo. Si volta, afferra
un oggetto che Marco identifica come una pinzetta solo nel momento in cui ne
vede brillare le punte sotto la fiamma del lume.
“Va bene, questa potrà fare paura, ma prometto che sarà del tutto indolore, o quasi…”
dice, va per aggiungere qualcos’altro, ma decide di terminare lì il discorso.
Si volta verso Marco: “Mi raccomando,” intima, “vedi di tenere per bene quei gioielli
di famiglia. Non mollarli per nessuna ragione, intesi?”
Marco non può neanche immaginare che forma e che colore abbia assunto la sua
faccia quando ha annuito; ma alla caposquadra non sembra importare.
“Quanto a te, Jean: ti voglio assolutamente fermo. Fermo come una statua di
granito, perché altrimenti…”
Jean strabuzza gli occhi quando la pinzetta
rovente si avvicina pericolosamente alla sua pelle e tira.
Leva un grido.
Inorridito, Marco chiama il suo nome, poi quello della scienziata, ma la pinza
non lo ha sfiorato, in realtà.
Quando trova il coraggio di guardare oltre il ginocchio piegato, Marco si
accorge da sé che ha solo afferrato un piccolo pallino nero testardamente
ancorato al perineo di Jean, e che lotta per restarci mentre Hange ne studia la
giusta angolazione per tirarla via.
“Ancora un istante—” borbotta decisa, i denti stretti a sfilettarne la
concentrazione, “Fatto!” esclama, rinvigorita dalla vittoria.
Jean chiude gli occhi, esala con un gemito tutta l’aria che ha trattenuto,
riprende a respirare.
Marco sente il bisogno di fare altrettanto. Le gambe tornano ad essere di
gelatina (non si era neanche accorto fossero mutate, in realtà), la mano con
cui continua a scostare parti di Jean dal loro luogo prestabilito
riprende il tremore che sin dall’inizio aveva contraddistinto il suo operato,
ma il sollievo che investe la stanza dal momento in cui Hange innalza quella
bestiolina sgambettante, rende tutto molto differente da pochi istanti prima.
“Guarda! Sono riuscita ad estrarla per
intero, proprio come indicato sul manuale. Questo dovrebbe evitare ulteriori
complicazioni!” girando e rigirando la sua conquista sulle estremità della
pinzetta, Hange la osserva con occhi luccicanti di entusiasmo e soddisfazione,
“È incredibile come una tale piccoletta possa fare un simile casino— vuoi
vederla, Jean?”
“Forse è meglio di no…” Marco potrebbe indicare almeno una decina di punti in
supporto alla sua tesi, a partire dalla smorfia di orrore apparsa sul volto di
Jean e finire dal modo in cui si è affrettato a portare entrambe le mani agli
occhi, ma evita.
“D’accordo,” Hange si volta, fa cascare quanto rimosso in una ampolla di vetro
“la terrò per eventuali analisi,” annuncia, prima di riavvicinarsi.
“È finita?” mormora Jean con un fil di voce,
ed è quanto anche Marco desidererebbe sapere. Perché per quanto si dica il
contrario, l’abitudine a tenere in mano, beh – quel che sta tenendo in mano,
non crede la farà mai.
Guarda Hange, fa’ che la domanda rimbalzi su di lei.
“Solo un attimo. Disinfetto, esamino, e poi ti lascio in pace—”
Ed è davvero veloce ad applicare uno dei suoi
unguenti di cui Marco riconosce la fragranza, dare un’altra occhiata all’area,
e coprire tutto con un piccolo ritaglio di garza.
Un cenno del viso permette a Marco di liberare la presa sui genitali di Jean,
che tornano al loro posto con il più sentito sospiro di sollievo che Marco
abbia mai udito.
“Tutto finito,” avvisa Hange soddisfatta, mentre
si versa dell’acqua da una brocca sulle mani.
“Ho pulito e disinfettato il punto di estrazione con un unguento. Dovremo
tuttavia monitorare la lesione nei prossimi giorni, tenere traccia della tua
temperatura corporea e somministrare regolarmente il siero che Moblit sta
preparando con Nifa. Cominceremo questa sera.”
Marco è certo che Jean abbia capito meno
della metà di quanto detto da Hange, e forse è meglio così. Si affretta a
tirare il lenzuolo sino a sotto il mento, lascia che una carezza caschi sulla
sua fronte, adesso fredda e pallida.
Hange si avvicina, ne tasta clinica le guance e il collo, prima di portarsi i
pugni ai fianchi e sorridere soddisfatta.
“Certo che ci hai dato un bel daffare oggi,
eh?” domanda squillante, piegandosi sul suo viso “Ti senti meglio, adesso?”
L’imbarazzo fa schiudere la bocca di Jean; le pupille si muovono come se
tentassero di sfuggire al cono d’ombra proiettato dal volto sorridente della
caposquadra, prima di arrendersi, e braccato, annuire.
“La prossima volta che avrai un litigio con il tuo fidanzato, mi auguro per te
troverai un posto migliore dove dormire.”
“Lo terrò in mente,” balbetta; è ancora intontito, e adesso che la tensione è
venuta meno, sembra che le sue forze, ormai allo stremo, abbiano deciso di
battere la ritirata.
“Non ci sarà una prossima volta.” Marco si pente di averlo detto prima ancora
che le sue labbra finiscano di articolarlo. “Non sarò—” aggiunge, proprio
perché sa che peggio non può andare
“—non sarò così stupido una seconda volta.”
Jean ruota gli occhi verso il suo viso; Marco li sente premere, ma non è pronto
ad incontrarli.
Hange fa spallucce, solleva le mani in segno di resa, gira le suole dei suoi
stivali: “Va bene, va bene –queste cose però, risolvetevele da soli.”
La scienziata si muove verso uno dei letti
poco distante; ripesca da un armadio della biancheria da ospedale.
“Tieni, puoi indossare questi e riposare qui per qualche ora; se la febbre si
manterrà entro certi parametri, questa sera potrai tornare nella tua camera”
“Questa sì che è una bella notizia,” commenta Jean, per una qualche ragione
sollevato.
“Non esultare ancora,” rammenta Hange, “Non
sei guarito. Dovrai essere sottoposto a dei controlli giornalieri che dovranno
farci capire come evolve l’infezione. La malattia trasmessa dal morso di zecca
non è roba da poco, e potresti—”
“Hange,” Marco non ha molto tempo per pensare
a come interrompere l’emorragia verbale della caposquadra; si inventa qualcosa
sul momento, non riflette più di tanto – “Pensa potremmo restare un po’ da
soli, io e Jean?”
Non è sicuro sia suonato del tutto gentile,
ma la buona volontà di apparire tale, c’è stata.
È che non vuole sentire ancora una volta
quella storia; non vuole pensare davvero che qualcosa possa intersecarsi e
cambiare di nuovo i suoi progetti con Jean.
“Oh, certo—!” risponde, presa alla sprovvista; “naturalmente!” aggiunge ancora.
“Se è così, io ne approfitterei per andare a vedere come procede la
preparazione del siero; voi, però, vedete di non litigare ancora una volta. Ci
sono soldati convalescenti nella stanza accanto che vorrebbero riposare—”
“Caposquadra Hange—”, la richiama ancora, Jean. “Penso che nessuno si
augurerebbe di finire sotto le sue mani invadenti, ma rimango del parere che
siano le migliori sotto le quali si può capitare, in certi momenti.”
Hange rimane ferma con la mano sulla maniglia
della porta, come se avesse bisogno di un po’ di tempo a processare le
informazioni ricevute. Poi chiude gli occhi, distoglie lo sguardo e sorride.
“Dubito la penserai ancora così alla fine della terapia. Ma ad ogni modo, lo
prendo come un bel complimento, Jean.”
La scienziata abbandona l’infermeria; l’alone di inquietudine lasciato dalle
sue ultime parole, no.
-
“Da dove ti è uscita quella frase?!”
ridacchia Marco, rimasto solo con Jean, “Non ti credevo capace di tanta
gratitudine!”
“Cosa vuoi dire?” bofonchia rauco Jean, le guance che tornano ad arrossarsi
sotto la pezzuola che Marco ha ripreso a passargli sul viso, “Io sono sempre
stato un tipo riconoscente,”
“La verità è che ti sei sentito in colpa per
averla fatta arrabbiare a più riprese, ammettilo –”
“Che cosa!?” incalza ancora, scandalizzato – “Io non uso questi mezzucci!”
“D’accordo, d’accordo, non agitarti, o ti si
rialzerà la febbre”, Marco scuote la testa divertito.
Ed è tutto così naturale, tutto così
spontaneo, che a Marco verrebbe da chiedersi quando tutto ciò ha smesso di
rappresentare la normalità.
Quando è stato così stupido da porre il muro della sua destra a tutta
quella complicità.
Lo
aiuta a mettersi seduto, perché far leva sui gomiti, evidentemente, non gli
basta. Jean è debole e dolorante; la sua pelle è tornata pallida e calda al
tatto, ma c’è qualcosa in quell’accozzaglia di cose che non vanno, che
per una qualche ragione, gli dà fiducia: gli mette pericolosamente in testa che
tutto andrà bene, e a Marco quel pericolo piace.
“Vieni, indossa questa e vai a dormire –
dovrebbe essere della tua taglia,”
Marco lascia che Jean affondi il volto sul suo torace, perché è morbido e malconcio
come quel gattino che aveva da piccolo, e che si strusciava contro il suo petto
nei giorni più freddi.
Ai tempi poteva contare di entrambe le
braccia, e anche il suo abbraccio era più consistente; adesso, più che contare,
deve accontentarsi.
Recupera la mano di Jean dal polsino della camicia, tira fuori il colletto,
appiattendone le pieghe sulle spalle.
“Mi sei mancato così tanto…” bisbiglia Jean, e il calore del suo fiato è lo
stesso che avvampa lì, sin nelle profondità del suo petto, proprio dove le sue
labbra articolano quelle parole.
“Anche tu,” E poco importa se la sua voce si
incrina, perché diavolo – quell’umiliazione la merita tutta. “Anche tu mi sei
mancato, anche se cercavo di convincermi del contrario.”
Jean struscia la fronte contro il suo petto; adesso è il mento a poggiare. Lo
guarda in volto, e pensa sia un perfetto stronzo, vorrebbe dirgli Marco.
Perché quelle lacrime che gli ha punto l’occhio, adesso strisciano giù lungo le
guance, e sperava di nasconderle, ma – ah, che vadano a quel paese!
Merita anche questo!
“Mi dispiace davvero.”
“Non parliamone più, Jean—”
“Non so davvero cosa mi sia preso per
parlarti in quel modo…”
“Basta, così— davvero.”
E Marco lo sa che sta spalmando le sue lacrime un po’ su tutto il viso di Jean
mentre gli bacia le palpebre, e sa pure che non le confonderà con le sue, ma va
bene lo stesso.
Jean prende il suo mento tra le dita, lo bacia sulle labbra, e lui glielo
lascia fare.
E va bene lo stesso.
---
“Farà un po’ male, me ne scuso in anticipo,”
avvisa Moblit, mentre titubante, abbassa ancora un po’ il bordo dei pantaloni
di Jean, scoprendo meglio la natica irrigidita che si prepara a disinfettare.
Jean nasconde il viso nel cuscino, affida
alle piume di questo un’imprecazione oscena che neanche la mano di Marco tra i
capelli riesce a frenare.
“Non devi dire queste cose, Moblit!” rimprovera Hange, mentre attenta,
supervisiona con piglio severo l’intera operazione. “Il paziente va sempre
tranquillizzato!”
Moblit sospira, la siringa stretta tra le sue
dita sembra più un fardello che altro.
“Non potrebbe—” ingoia, “Non potrebbe
pensarci lei, per questa volta?”
Hange scuote la testa, incrocia le braccia al
petto, “No, sarò via spesso nei prossimi giorni, e non posso affidare
l’iniezione di un medicamento così importante a uno qualsiasi. Coraggio,
Moblit: disinfetta quella chiappa e buca, avanti!”
Jean sobbalza; rafforza la stretta delle mani
contro le orecchie, arpiona le unghie alle tempie come fossero artigli.
Marco si siede sul bordo del letto, ne avvicina la testa al grembo: quel modo
di fare di Jean proprio non gli piace.
“Per favore, Signor Moblit, faccia in fretta!” si fa carico dell’implorazione;
perché è certo che quel silenzio dietro il quale Jean si è chiuso non durerà
ancora a lungo.
Ed è forse un impeto di pietà, quello che
porta Moblit a continuare.
“Avanti, massaggia, non essere così teso! Non mica è il tuo sedere, quello!”
“Caposquadra, la smetta di parlare così, la prego!”
“Sei una vera e propria lumaca! Un po’ di grinta in quella mano!”
“Hange! Per favore!”
Il resto, sono solo suoni confusi, frasi
fuori luogo, implorazioni e lamentele. E sono talmente tante che Marco a
malapena riesce a distinguere i grugniti di Jean da quelli di Moblit, o di
Hange, o anche dai suoi stessi (perché a un certo punto, la frustrazione coglie
anche lui).
Alla fine, Moblit porta al termine l’impresa
tra gli urli eccitati di Hange, le richieste del primo di calmare i toni, e le
ciocche dei capelli di Jean tra le sue dita.
Finisce tutto prima di quanto preventivato, e forse non è stato poi così
terribile, o forse la ragione per cui Jean è rimasto immobile, senza emettere
alcun fiato, è perché in qualche modo, ha voluto graziarlo; o per lo meno,
questo è quanto Marco pensa nel sentire il viso immobile di Jean contro il
ventre.
Si affretta a tirare l’orlo scucito del
lenzuolo sulla sua natica prima che Moblit possa annunciare di aver finito;
tradisce una certa impazienza anche il modo in cui sottrae dalle mani del
vice-caposquadra il batuffolo di ovatta, continuando per lui il massaggio.
“Finito,”
“Per oggi,” rimarca Jean disilluso, il tono
rauco di chi ha fatto uno sforzo immane per trattenere la lingua.
Marco sorride, solidale.
Hange e Moblit stanno continuando a
gracchiarsi l’uno con l’altro, incastrati alla destra di un mondo che
non vede ma che sente, e che potrebbe vedere se si voltasse.
Non sa neanche lui perché cominci a pensare sia il momento giusto per chinarsi
sulle palpebre di Jean e baciarle; un bacio leggero, appena sfiorato, silente,
appartenesse ad un altro mondo.
Uno che non ha né destra, né sinistra.
Fine.
NOTE: NON CORRETTA; NON BETATA
E siamo arrivati alla parte finale di questa splendida avventura. Non
sono soddisfatta del risultato, ma mi sono divertita molto a scriverla e
commentarla con le amiche che mi hanno supportata durante la stesura, per cui, va
bene così! :D
Esiste una spin-off di questa fic,
ma la posterò più avanti.
Nel frattempo, veniteci a trovare sul gruppo Hurt/Comfort Italia, gruppo da cui è nata questa fic
(sfida ‘Kinky but
not really’)
Grazie infinite a chiunque abbia letto! Non era una lettura comune, per
cui, il ringraziamento è doppio!
PS: Questa fic può
essere considerata come un continuo della mia “Never forget we were
built to last”, tutt’ora in corso; ma in realtà, è un lavoro indipendente
(grazie al cielo).
Basta tenere conto del fatto che Marco sia
sopravvissuto agli eventi canonici, rimanendone comunque gravemente mutilato.