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Autore: ConsueloRogue    02/08/2021    1 recensioni
Lucia Cavina è un'infermiera della Croce Rossa d'istanza presso l'ospedale Sant'Orsola di Bologna. Nell'estate del 1980 vivrà l'evento che la segnerà per tutta una vita. Questa è una storia per ricordare.
Genere: Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lucia Cavina, classe 1961. È nata a Castel del Rio, un piccolo borgo medievale sulle colline Emiliano Romagnole, proprio lungo la strada che da Imola porta a Firenze attraverso il passo della Futa. Ha l'aria nervosa e si tormenta le unghie, anche se sa che non dovrebbe farlo perché se sua madre la vedesse, presa com’è a scavarsi le dita, se ne lamenterebbe con quel tono petulante e a tratti insopportabile che ha convinto Lucia ad andarsene da casa, sostenuta dal babbo, non appena ne ha avuto la possibilità. Delia, sua mamma, se in questo momento la vedesse mordicchiarsi le unghie per il nervosismo farebbe pesare a Lucia il fatto che ha le dita così rovinate, insistendo allo stesso modo in cui farebbe se Lucia entrasse in casa con le scarpe bagnate a imbrattare il pavimento pulito. 

Gli occhi scuri di Lucia viaggiano in tutte le direzioni senza vedere niente di quello che le sta attorno; cerca di non fissare con insistenza l'orologio rotondo appeso in fondo al corridoio come invece sta facendo.

Sono le nove e quaranta.

La lancetta dei secondi continua a muoversi, ostinata e inarrestabile, mentre Lucia se ne sta lì, in piedi, in un'immobilità carica di nervosismo e tensione. È fuori dalla porta dell'aula degli esami, nel suo completo bianco con il velo che le copre i lunghi capelli castani. Li ha raccolti in un basso chignon, come usa fare da quando è entrata nel convitto della Croce Rossa dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna qualche anno prima. È così che Lucia è fuggita dalla voce petulante di mamma Delia: entrando nella scuola da infermiera della Croce Rossa.

Attorno a lei ci sono altre Sorelline - così ci si chiama tra colleghe - tutte abbigliate con le loro ordinate divise bianche ed il velo da suora a coprir loro i capelli. L'unica punta di colore è la croce rossa che campeggia loro in fronte e le penne biro che tengono infilate nel taschino sul petto. Alcune parlano sottovoce, chiuse in piccoli capannelli cospiratori, altre sono solo di passaggio e i loro passi cadenzati rimbombano leggeri sul marmo del lunghissimo corridoio, altre ancora - come Lucia - sono chiuse in un teso silenzio carico di attesa. 

Una Sorellina bassa e rotondina, con un seno decisamente prosperoso e ancora più evidente a causa della stretta divisa che le si tende sul petto, si avvicina a Lucia. Le poggia una mano tozza sul braccio e glielo stringe leggermente, facendola sobbalzare dalla sorpresa. Lucia emette un piccolo verso strozzato e allarga gli occhi castani prima di sbattere rapidamente le palpebre e tornare con i piedi per terra.

Ecco quanto è tesa Lucia. È tesa e sfinita, perché quella mattina ha smontato dall'ultimo giorno di una settimana infinita di turni notturni e invece di andare a dormire di corsa come avrebbe fatto in una qualsiasi altra giornata normale, Lucia è rimasta in ospedale ad aspettare il suo turno. Non è riuscita ad appisolarsi nemmeno mentre attendeva che la chiamassero. Finalmente ha dato l'esame del diploma e se lo passa sarà ufficialmente un'infermiera della Croce Rossa, non più un'allieva. 

«Cavina, non ti agitare. Vedrai che lo hai passato.» 

La Sorellina che le ha stretto il braccio e la guarda con un sorriso solare e carico di fiducia è Giulia del Bene. È un'allieva bassa, non più di un metro e cinquantacinque, dalla pelle olivastra e gli occhi enormi e neri come i capelli, nascosti dalla veletta come quelli di Lucia. Ha un fortissimo accento veneto che a Lucia mette allegria e a volte, quando Giulia parla in dialetto, a Lucia sembra quasi che sia spagnola. 

Giulia è più grande, ha due anni più di Lucia ma è solo al secondo anno perché si è trasferita al convitto dopo di lei al seguito di una lite terrificante con i genitori che la volevano casalinga e sposata con un buon partito. Allora Giulia ha fatto le valige, ha recuperato qualche lira dal barattolo degli spicci ed è scappata a Bologna a fare la scuola da infermiera per sfuggire a quel "destino infernale" - come lo aveva chiamato quando aveva raccontato a Lucia la sua storia.

«Non sono agitata, sono solo stanca. So che l'ho passato.» Lucia fa un sorriso teso e con quelle parole cerca di convincersi da sola, per tranquillizzarsi. Non è sicura di aver passato l'esame, anche se a dire la verità non ne ha mai fallito uno. Ha già visto altre allieve dagli esami perfetti fallire l'esame di diploma per colpa dell'agitazione e, comunque, non si può mai sapere. E’ questo che si dice sempre Lucia dopo ogni esame.

“Non si può mai sapere.” 

«Vieni a dirmi qualcosa in reparto dopo. Sono in Uro.» Giulia le fa l'occhiolino con quel modo di fare smaliziato che ha sempre e che la rende simpatica un po' a tutti, soprattutto ai pazienti. 

Lucia le fa un piccolo cenno affermativo col capo, il sorriso teso le stira ancora le labbra. Giulia le stringe un'ultima volta il braccio e lei rimane lì, nella sua immobilità, a guardarla correre via sulle gambine corte e un po' tozze, il seno giunonico che sobbalza a ogni falcata e attira gli sguardi di tutti senza che Giulia ci faccia caso.

Le lancette sull'orologio da parete in fondo al corridoio continuano il loro percorso, implacabili. Sono le nove e quarantasette, sono passati solo due minuti dall'ultima volta che ha controllato. 

Lucia strizza gli occhi castani per non fissare il quadrante bianco dalla cornice e i numeri neri. Ha gli occhi arrossati, le bruciano a causa della stanchezza, ma nonostante tutto sa perfettamente che non riuscirebbe a dormire, non finché qualcuno non le dice il risultato dell'esame. È talmente in tensione che non vorrebbe neanche farlo - dormire - ma quello non è un problema perché dopo la dichiarazione del diploma dovrà tornare in dormitorio. 

Esame o non esame quello è l'ultimo giorno di lavoro di Lucia per almeno due settimane, perché dopo andrà in ferie e tanti cari saluti al reparto o ai turni di notte sfiancanti per almeno quattordici giorni. 

I bagagli li ha fatti il pomeriggio precedente, dopo aver finito di ripassare per l'esame ma prima di dover attaccare l'ultimo turno notturno. Deve tornare nella camera che condivide con Alice Masacci - un'altra allieva che ha un anno in meno di lei - a recuperarli, poi andrà ad aspettare il bus alla pensilina per poter andare in stazione. Una volta lì, entrerà dall'ingresso principale e si dirigerà sulla destra, dove ci sono le biglietterie. Farà il biglietto, aspetterà al binario che il treno arrivi,  salirà e si dirigerà ad Imola, dove sa che ci sarà il babbo ad aspettarla.

Lucia ha telefonato al babbo giusto il giorno prima per dirgli che lo avrebbe chiamato una volta scesa alla stazione di Imola per farsi venire a prendere, ma sa che il babbo è in giro per il paese da quando lei ha finito il turno, in attesa che lei arrivi per portarla a casa. Il babbo è fatto così.

È un uomo di poche parole, il babbo, uno di quegli uomini che si esprime poco e non dice quasi mai "ti voglio bene", piuttosto lo fa capire. È uno di quei babbi che lasciano il sedere del pane perché sanno che è la parte preferita della figlia, anche se è anche la loro. Il babbo vuole bene a Lucia, anche se non lo dice, e anche lei gliene vuole nonostante tutti i difetti che ha. Forse lei e il babbo si fermeranno a Imola a mangiare il gelato prima di salire sulla 128 color giallo positano - che a Lucia sembra un arancione spento o un marroncino cacca - che li porterà entrambi a Castel del Rio attraverso la Via Montanara.

Il giorno dopo il babbo la riporterà a Imola, prenderà da parte Giorgio, il fidanzato di Lucia, per fargli le ultime raccomandazioni minacciose prima della loro prima vacanza da morosini. Insieme ad altri amici Giorgio e Lucia partiranno per la Sicilia, dove ad attenderli ci sarà il mare limpido di Lampedusa, il rumore dei gabbiani e il sapore salmastro dei ricci di mare che Giorgio pescherà per lei come le ha promesso quando le ha proposto la vacanza.

La porta bianca e dalla vernice un po' scalcagnata si apre alle spalle di Lucia. 

L'orologio segna le nove e cinquanta. 

Pensando al babbo, a Giorgio e a Lampedusa, Lucia è riuscita a non guardare quel maledetto quadrante in fondo al corridoio per ben otto minuti.

 

Sono le dieci e dieci quando Lucia Cavina, un sorriso immenso a illuminare il volto sfinito da quella settimana interminabile di turni notturni, varca la soglia del Reparto di Urologia dell'ospedale Sant'Orsola. Non ha corso per i corridoi, perché senza emergenze in corso alcune delle vecchie infermiere arcigne avrebbero potuto urlarle dietro di non correre. “Cavina! Si corre solo in caso di incendio o di infarto!” le avrebbero urlato qualcosa di simile, le è già successo quando era una matricola del primo anno. È già agosto e al Sant'Orsola di Bologna, con i reparti quasi deserti, è molto difficile che ci sia una qualche emergenza, soprattutto in Uro. 

Quando Lucia arriva il reparto è quasi vuoto, il personale dimezzato. Sono tutti in vacanza, anche i pazienti e le loro malattie. Lucia pensa a quanto è fortunata Giulia ad essere stata assegnata ad Urologia e non, come è successo a lei in quella settimana sfiancante, al Pronto Soccorso, ma pensa anche che in fin dei conti, tra le due, quella fortunata è lei. Ufficialmente è già in ferie e si sta solo attardando tra le corsie dell'ospedale per dare la notizia alle sue colleghe, alle sue Sorelline, perché ormai si è diplomata. È un'infermiera ora, un'infermiera con tanto di titolo di diploma e darà il via alla sua carriera lavorativa con due settimane di meritate ferie nel mare blu di Lampedusa. 

Quasi saltella, Lucia, mentre si aggira alla ricerca della del Bene. La tensione che prima le irrigidiva i muscoli del collo è totalmente svanita, rimpiazzata da un'euforia quasi incontenibile che la illumina come un piccolo sole. Trova Giulia dopo qualche minuto, intenta a fare il giro di controllo. La del Bene si muove con calma tra i letti perché l'atmosfera di Agosto, in reparti come quelli, è sempre rilassata e anche le caposala solo troppo sfiancate dal caldo per occuparsi di far correre le allieve tra un ambulatorio e l’altro. 

«Del Bene!» la voce di Lucia trilla tra le mura del reparto e Giulia si gira di scatto, lasciando ricadere i fogli della cartella clinica che ha tra le mani con un fruscio pigro.

«Cavina! Te xei diplomata?» glielo chiede con un forte accento veneto,  in una lingua a metà tra l’italiano e il dialetto, e gli angoli delle labbra piene le si curvano in su in un sorriso che le scopre gli incisivi bianchi e leggermente storti.

«Me son diplomata sì! E te digo di più del Bene, sono anche in ferie!» Lucia le fa il verso, imita l'accento di Giulia e quella parlata dalla cadenza strana. Quella scoppia in una risata profonda che le fa sobbalzare tutto il seno, stretto nella camicia della divisa bianca, le penne infilate nel taschino sul petto dritte come soldatini.

«Ssssoccia Cavina, sei proprio fortunata!» Giulia prova a imitarla, ma l'accento le esce con una curiosa cantilena che più che somigliare a quella di Bologna ricorda quella cadenzata e gnolante di Modena. Molla la cartellina nel cassettino metallico appeso ai piedi del letto, dove un vecchietto tutto ossa rivolge a Lucia un sorriso sdentato e un decrepito "complimenti sgnúrina" detto in uno strettissimo bolognese, poi si avvicina a Lucia. Le da una sonora pacca tra le scapole, talmente forte che per un attimo Lucia ondeggia in avanti, e le mette un braccio tozzo attorno alla schiena. 

«Dai Cavina, andiamo ad avvisare Giuliano, stamattina xera più agitato de ti. M'è venuto a cercare aposta sai? M'ha chiesto se t’eri diplomata e se t'eri già partita. L'è ancora cotto, te lo digo io te lo digo.»

Lucia ride e in cambio le da una piccola spallata. Entrambe augurano una buona giornata all'anziano signore dalla pelle sottile come la carta velina che aspetta con pazienza che la dialisi faccia il suo corso e quello risponde con un sorriso sdentato che lo sarebbe se avesse trent'anni in meno. Barcollano fuori dalla stanza, abbracciate, e ridacchiano come due ubriache. 

Giuliano Ferrara era un ragazzone di Reggio nell'Emilia. Si era diplomato l'anno precedente e aveva tre anni in più di Lucia. Lui e Lucia avevano avuto una piccola storiella poco dopo il diploma di lui. Avevano lavorato a lungo insieme nei reparti del Sant’Orsola e Lucia si era presa una brutta infatuazione per lui. Non aveva fatto niente allora, Lucia Cavina, perché non era mai stata una ragazza particolarmente intraprendente - soprattutto con gli uomini - ma poco dopo essersi diplomato lui aveva iniziato a farle la corte, una corte spietata. La cercava per i reparti per darle il buongiorno o per salutarla se era lui quello che stava per finire il turno e Lucia era sempre contenta ogni volta che qualcuna delle sue compagne la rincorreva per sussurrarle in tono cospiratorio "Cavina, c'è il Ferrari che ti cerca". Allora Lucia non aspettava altro che lui le chiedesse di uscire.

Quando finalmente Giuliano aveva raccolto tutto il coraggio che aveva a disposizione e l'aveva invitata fuori a cena, la notizia era rimbalzata per i reparti del Sant'Orsola talmente in fretta che a Lucia era sembrato che persino i primari indugiassero a farle furtivi sorrisini allusivi ogni volta che la vedevano camminare in compagnia di Giuliano.

Per un po' erano usciti insieme e Lucia aveva pensato che era davvero una ragazza fortunata. Non aveva mai incontrato un uomo così galante e rispettoso. Galanteria e rispetto, però, le erano venuti presto a noia e Lucia aveva iniziato a preoccuparsi perché sembrava che nel loro rapporto mancasse qualcosa, qualcosa che avrebbe dovuto esserci in un qualsiasi rapporto, soprattutto a vent’anni. Non c’era alcun tipo di passione. 

Erano quasi arrivati al dunque diverse volte ma poi tutto si fermava e Giuliano, da perfetto gentiluomo, la riportava a casa. Ci era voluto tutto il coraggio di Lucia perché lei fosse abbastanza sfrontata da affrontare l'argomento con lui.

Era stato un discorso serio, fatto sotto i lunghi portici che correvano tutto attorno a Piazza VIII Agosto, mentre si tenevano teneramente per mano diretti alla macchina di Giuliano perché lui la riportasse in dormitorio. Lucia si era fatta tutto un discorso in testa e lo aveva provato davanti allo specchio, da sola, ma lì con Giuliano era diventata del colore di una fragola matura e le era solo uscito un "ma Giuliano tu non lo vuoi fare l'amore con me?" che lo aveva fatto bloccare lì dov'era. Lui aveva abbassato la testa e si era guardato i piedi, poi nel tono più grave che Lucia gli avesse mai sentito fare le aveva risposto "Lucia, ti devo dire una cosa".

Erano stati in silenzio fino a che non erano saliti in macchina, con Lucia che aveva dovuto trattenere le lacrime per tutto il tempo, ma appena le portiere della Giardiniera bianca di Giuliano si erano chiuse, isolandoli da orecchie indiscrete, a piangere era stato lui. 

Giuliano Ferrari le aveva confessato in lacrime che era convinto che gli piacessero gli uomini e per quanto Lucia come persona gli piacesse e avesse provato ad andare oltre, proprio non gli riusciva e quella cosa, di essere gay, non l'aveva mai detta a nessuno. Quando lui aveva smesso di piangere Lucia si era fatta portare a casa. 

All'inizio era rimasta talmente shockata dal fatto che Giuliano fosse un busone - e che lei non se ne fosse mai accorta - che non aveva detto niente, ma una settimana dopo lo aveva invitato a uscire per parlargli perché alla fine Giuliano era stato comunque un gentiluomo e le aveva confidato una di quelle cose che non si dicono certo a tutti.

Di busoni a Bologna ce ne sono tanti, forse ci sono sempre stati. Lucia lo sa perché alcuni li vede battere sui Viali e si era chiesta anche se Giuliano si fosse mai fermato a fare delle chiacchiere con loro, si era addirittura chiesta se lo avesse mai fatto Giuliano - di battere i viali. Gli aveva detto di essere arrabbiata perché si era sentita presa in giro ma si era sentita speciale perché Giuliano le aveva detto una cosa così delicata. Erano rimasti amici intimi lei e Giuliano ed era stato proprio lui a esortarla a uscire con Giorgio quando quello - amico di amici - aveva iniziato a corteggiarla. 

Ancora nessuno al Sant'Orsola sapeva che a Giuliano piacevano gli uomini, nemmeno Giulia del Bene che in quel momento stava scortando Lucia tutta entusiasta a cercare il Ferrari. Il pensiero fa ridere Lucia quasi più della felicità che prova all'idea di andare in vacanza. 

Giuliano Ferrari quel giorno è in Cardiologia.

L'orologio del reparto segna le ore dieci e venti.

Mancano appena cinque minuti poi a Bologna, ad appena pochi chilometri dai tre infermieri, succede l'irreparabile.


 

C'è un tavolino portabagagli appoggiato contro una parete della sala d'attesa dei passeggeri della seconda classe della stazione di Bologna. È una sala abbastanza grande, piena di sedie e c'è sempre un gran viavai di persone. Gente che arriva, parte, aspetta qualcuno o è in attesa della coincidenza di un treno. 

Sopra al tavolino portabagli appoggiato alla parete c'è una valigia e nessuno dei presenti sembra farci caso perché non c'è nulla di strano in un bagaglio appoggiato in una sala d'aspetto di un stazione. L'unica cosa strana è che non sembra essere di nessuno, quella valigia.

Qualcuno l'ha vista e l'ha ignorata, oppure le ha dedicato un pensiero distratto ed è immediatamente tornato a farsi gli affari suoi, forse impegnato a pensare ai parenti che sta per rivedere, o alla vacanza che sta per vivere. Chi ci è seduto accanto forse si chiede anche chi possa essere stato così distratto da dimenticarsi una valigia sul tavolino, magari qualcuno che si è allontanato per andare al bar a prendere un caffè, o un viaggiatore fuggito di corsa perché stava per perdere il treno dopo essersi addormentato. Qualcuno forse ha anche pensato a portarla all’ufficio degli oggetti smarriti, poi il pensiero è passato così com’è venuto e semplicemente non le ha dedicato un secondo sguardo.

In realtà nessuno ha dimenticato quel bagaglio perché quella valigia, che ai presenti passa inosservata, è stata depositata lì apposta.

La sala d'attesa quella mattina di inizio agosto è gremita di viaggiatori e nessuno, tra loro, si aspetta nulla di quello che sta per succedere. C'è chi se ne sta in piedi a studiare il tabellone delle partenze sperando che il proprio treno non sia in ritardo; una mamma sta distribuendo dei panini ai figli, due giovanissimi fidanzati si guardano con occhi innamorati in attesa di partire per la loro prima vacanza insieme, una bimba con una bambolina rossa ride insieme alla sorella maggiore e alla zia.

Poi c'è la valigia sul tavolino, sollevata da terra, in un posto evidente ma anche nascosto perché nessuno ci fa caso. Sta sotto gli occhi di tutti e alle dieci e venticinque fa esattamente quello per cui è stata depositata lì, su quel portabagagli.

Alle dieci e venticinque la valigia, che in realtà non contiene alcun abito estivo o guida turistica sebbene pesi almeno 23 kg, brilla. 

Non brilla come farebbe una stella o un sole, brilla come un fuoco d'artificio, come una bomba. Il timer raggiunge lo zero e fa scattare i diciotto chili di nitroglicerina mescolata ai cinque di Compound B contenuti all'interno del bagaglio, al posto degli abiti da mare e delle brochure turistiche.

Quella mattina del 2 agosto 1980, mentre l'infermiera neodiplomata all'ospedale Sant'Orsola Lucia Cavina è stretta nell'abbraccio festante dell'infermiere Giuliano Ferrari, con l'allieva Giulia del Bene che ride della sua risata profonda e solare, la Stazione di Bologna esplode e l'orologio si ferma.



 

Lucia ride, gli occhi chiusi e il braccio di Giuliano ancora intorno alle spalle. Giulia controlla l'orologio della guardiola e allarga gli occhi con un'espressione stupita perché si è allontanata da Uro per molto più tempo di quanto immaginava e ha un leggero timore che il primario la riprenderà non appena metterà piede in reparto.

Tutti e tre escono dal reparto di cardiologia ma appena mettono piede tra le strade alberate che separano i padiglioni si bloccano, perché la gente corre. Sotto il sole cocente di Bologna, ad agosto, tutto il personale ospedaliero sta correndo nella direzione dell’uscita delle ambulanze. La prima sirena inizia a suonare. Francesca Mattei, che come Lucia si è diplomata quella mattina stessa, urla nella direzione dei tre. 

«Ferrari, Cavina, Del Bene! Alle ambulanze!»

Qualcuno passa loro di fianco e corre dentro cardiologia. Lucia apre la bocca, interdetta. Pensa "ma io devo andare in vacanza", e quel pensiero - il pensiero di aver pensato stupidamente proprio a quella cosa - continuerà a tormentarla fino alla pensione. E anche dopo. Giuliano invece si mette immediatamente in moto e trotta. 

«Alle ambulanze?! Perché alle ambulanze?!» sta già inseguendo Francesca, perché altre sirene hanno iniziato a suonare, tutte le sirene di tutte le ambulanze dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna stanno ululando come una muta di lupi alla luna piena e attorno a loro i medici e gli infermieri corrono ai cancelli. Giuliano ha capito immediatamente che è successo qualcosa, qualcosa di grave.

È il 1980 e per l’Italia sono anni duri, la stampa li chiama Anni di Piombo. Sono gli anni di Piazza Fontana, di Cossiga che manda i carri armati in piazza, proprio lì a Bologna, gli anni dell'omicidio di Aldo Moro e la strage dell'Italicus. Sono gli anni in cui quando un intero ospedale come il Sant'Orsola di Bologna si muove come un corpo unico, l'unica cosa che pensi è che sia successo qualcosa di davvero grave.

Francesca si strappa la veletta perché fa fatica a respirare nella canicola mattutina, quasi inciampa per girarsi a rispondere. Anche Giulia l'ha seguita immediatamente, un po' goffa a causa del peso e delle gambe corte e Lucia sta correndo perché è quello che le hanno insegnato a fare in caso di emergenza - di infarto o incendio - ed è una risposta automatica, anche se il suo cervello è ancora bloccato su quel "ma io devo andare in vacanza".

«Alla stazione… è esplosa una bomba.» Francesca ansima e tutti accelerano.

Accelera anche Lucia che è rimasta quasi senza respiro perché se non avesse tardato apposta per salutare le Sorelline in quel momento sarebbe stata là, alla stazione di Bologna, a esplodere con la bomba. Lucia corre e si fa il segno della croce. Scaccia il pensiero del mare blu di Lampedusa, degli occhi neri di Giorgio, scaccia anche la stanchezza perché l'adrenalina le corre nelle vene. Un medico che sicuramente conosce, ma che lì per lì non vede, le urla di salire su un taxi. L’ululato delle sirene è forte ma si sta allontanando, le ambulanze sono finite. 

Lucia salta sul taxi insieme a Giulia, Giuliano ha preso quello dietro di loro. 

«Cos'è successo?» Giulia è senza fiato. Si sporge in avanti, tra i sedili del taxi, e quasi urla nelle orecchie del tassista. La radiotrasmittente gracchia in una cacofonia di informazioni confuse, riceve le trasmissioni della polizia, dei vigili del fuoco, del centro di coordinamento taxi.

«Signorina è un macello. La stazione, la stazione non c'è più.» risponde il tassista con la voce strozzata e velata dalla commozione. «La stazione non c’è più.» continua a ripetere. È incredulo, disperato e arrabbiato e guida lungo Viale dell'indipendenza, contromano - come molti altri dei suoi colleghi - perché la stazione è davvero un macello e tutti sanno già che non ci saranno abbastanza ambulanze.

Forse non ci saranno neanche abbastanza bare.

Lucia e Giulia si stringono la mano, nessuna delle due parla e guardano i portici di Viale dell’Indipendenza scorrere fuori dal finestrino con gli occhi sbarrati. Sono allo sbaraglio. Loro, le camionette dei pompieri, le gazzelle dei carabinieri, le pantere della polizia. Si sono mossi anche i mezzi militari delle caserme dell’esercito. Ci sono gli autobus svuotati che si stanno dirigendo in stazione e le due infermiere guardano tutto con un senso di incredulità e la consapevolezza che qualsiasi cosa sia successo è molto più grave di quanto possano anche solo immaginare.

Il tassista sgomma sull'ultima curva, su quella che da Viale dell’Indipendenza si butta su Via Pietro Pietramellara e conduce a Piazza delle Medaglie d’Oro. Nel cielo azzurro e violento di Bologna si leva una colonna di fumo nero e rombante, in basso c’è quello che resta della stazione.

La macchina si ferma e Lucia rimane per un attimo con gli occhi sbarrati a contemplare la scena.

La stazione di Bologna ha l'ingresso principale che si affaccia su Piazza Medaglie d'Oro. È un edificio rettangolare, che ricorda un po' gli edifici del rinascimento fiorentino. È a due piani, con un alto portico colonnato che protegge l'ingresso e ai lati ha due lunghe ali che la collegano ad altri edifici. Lucia, però, non vede più il portico ovest, perché non c'è più. Al suo posto ci sono solo travi, calcinacci, lamiere e la polvere del cemento sbriciolato ancora sospesa nell'aria, rovente a causa dell'estate e delle fiamme. I pompieri stanno lottando per domare l'incendio, la gente corre nel piazzale. 

Lucia scende immediatamente dalla macchina insieme a Giulia, il tassista fa inversione e lei si butta nella mischia, alla ricerca di una specie di punto di smistamento operativo per gli infermieri. Nella calca e nel caos perde di vista Giulia. Tutto attorno l'aria è irrespirabile: puzza di polvere, fuoco e dell’odore dolciastro e sgradevole di carne bruciata. Non lo dimenticherà mai l’odore del 2 Agosto alla Stazione di Bologna.

Attorno a Lucia è pieno di gente. C'è gente che urla e corre in cerca di aiuto, ci sono persone riverse a terra, gli occhi bianchi e sgranati che spiccano nei volti coperti di sangue, sotto shock. Lucia segue gli ordini, cerca i feriti più gravi come le è stato insegnato. Ad un certo punto scavalca una gamba tra il pietrisco e riesce solo a pensare "che Dio ci aiuti", perché quella gamba non è di nessuno. Sicuramente aveva un proprietario, quella gamba, ma non è lì e la coscia ora è un grumo sanguinante di muscoli, tendini e ossa in frantumi. Lucia non ha problemi col sangue, il suo reparto preferito è chirurgia generale e passa ore su pazienti aperti sui tavoli a fare la ferrista, ma lì è tutto diverso. È come essere in guerra, con i feriti che urlano e chiedono perché non hanno più una mano, se qualcuno l’ha trovata; chiedono dove sono i loro familiari, i loro amici o urlano perché non vedono più.

Lucia si muove con rapidità ed efficienza, sa cosa deve fare e si controlla, o almeno crede di farlo, perché in realtà a Lucia sembra di muoversi nella melassa. I suoni sono così confusi che un paio di volte non capisce nemmeno che qualcuno la chiama per nome e cognome. Lo capisce solo al secondo richiamo, o al terzo.

Tiene stretta la mano di una donna che piange e le chiede di cercare la figlia. La accompagna mentre due tassisti e un paio di passanti trasportano la barella verso l'autobus rosso della linea 37. C'è tutta Bologna, quel giorno, a dare una mano alla stazione, anche i bus, perché le autoambulanze non sono abbastanza e Lucia è sicura, anche le bare non saranno sufficienti. 

Lucia continua a correre, a dare il primo soccorso ai feriti. Alcuni li carica sui bus che continuano assieme alle ambulanze a fare avanti e indietro per gli ospedali, altre volte deve coprire corpi, o quello che ne rimane, con dei lenzuoli bianchi.

C'è sempre un sentimento di irrealtà che aleggia nella mente di Lucia Cavina, diplomata infermiera quella stessa mattina. E’ come se quello fosse un sogno, anzi, un incubo che Lucia si porterà dietro per anni. Non si accorge nemmeno del sudore che le cola lungo il collo e si mescola con la polvere che ha iniziato a depositarsi, lenta, in mezzo al tran tran della gente che urla, corre e piange. Non si accorge nemmeno del caldo del mezzogiorno di quel due di agosto a Bologna, perché ha freddo. Non sa che ora sia. L'orologio segna sempre le 10.25, immobile. Qualcuno la tiene per le spalle e le urla contro e Lucia lo guarda con gli occhi sgranati sul volto sporco, le labbra tese. Non capisce nemmeno cosa stia dicendo quell'uomo che urla. 

«Cavina riprenditi, non abbiamo finito!»

Una mano grande e ruvida stampa sulla faccia di Lucia il segno pulsante di cinque dita rosse. Lucia sbatte gli occhi con uno scossone e torna a respirare. Giuliano le ha dato una sberla perché l'ha vista nel panico, inchiodata in mezzo alla gente che corre in qua e in là. Vorrebbe piangere Lucia, perché è coperta di polvere e sangue e i feriti sembrano non finire mai. Giuliano la scuote e lei gli urla contro che "ci sono, per Dio, ci sono!". Impreca anche, lei che non lo fa mai. 

«Bene Cavina, non ci lasciare. Abbiamo bisogno anche di te.» Giuliano annuisce, le da un ultimo scrollone e torna a caricare feriti. Lucia lo segue perché lei, in mezzo a quell'inferno, ha bisogno di qualcuno che la riporti con i piedi per terra, perché se le persone hanno bisogno di lei, lei ha bisogno di un barlume di realtà.

Lavora tutto il giorno Lucia e a Lampedusa, nell'agosto del 1980, con Giorgio non ci va. Non ci va nemmeno l'anno dopo o quello dopo ancora, perché tutte le volte che si parla di fare le vacanze a Lampedusa lei sente solo l'odore della polvere e quello dolciastro della carne bruciata, davanti agli occhi vede ancora quella gamba che ha scavalcato e la faccia della donna che ha scortato nel bus rosso della linea 37. La figlia della donna era già morta e lei se ne è andata in ospedale. Lucia se lo ricorda bene perché c'era quando è spirata.



 

Lucia scoprirà i numeri di quel 2 Agosto 1980 solo dopo, insieme al resto d'Italia.

La bomba ha fatto saltare in aria la sala d'aspetto della seconda classe e parte dell'Adria Express 13534 Ancona-Basilea che era fermo al binario uno.

I feriti sono duecento all'ultima conta, ottantacinque i morti. Tra loro c'è un disperso, una ragazza di ventiquattro anni, Daniela Fresu. Si scopre che fine ha fatto solo il 29 dicembre di quello stesso anno, perché era così vicina alla bomba che i suoi resti sono finiti sotto l'Adria Express. Daniela era lì con la sua migliore amica, Verdiana Bivona di appena un anno in meno, e con la sorellina, Angela, di tre anni. Ma non c'erano solo loro quel giorno.

Il primo a essere identificato fu il ventunenne Roberto Procelli, d'istanza nel 121° battaglione di artiglieria leggera a Bologna.

C'erano la diciannovenne Antonella Ceci, fresca di maturità, che aspettava il treno insieme al fidanzato ventiquattrenne Leo Luca Marino. C'era anche le sue due sorelle, che erano salite a Bologna dalla Sicilia apposta per salutarlo. Angela e Domenica, di 23 e 26 anni.

C'era un'insegnante di lettere di 57 anni, Errica Frigerio, che insieme al marito Vito Diomede Fresa, insegnante sessantaduenne alla facoltà di Medicina, doveva partire per le vacanze assieme ai figli Cesare Francesco Diomede, di 14 anni, e Alessandra. Si è salvata solo lei.

C'era Carlo Mauri, un perito meccanico di Como di 32 anni, insieme alla moglie ventottenne Anna Maria Bosio e al loro figlio di 6 anni, Luca. Stavano prendendo il treno per la Puglia perché la loro auto si era guastata.

C'era una famiglia tedesca, della Germania Federale perché il Muro non era ancora caduto. Stavano andando in vacanza in cinque ma tornarono a casa solo in due, perché Margaret Rohrs, 39 anni, e i figli Eckhardt e Kai Mader, di 14 e 8 anni, brillarono con la bomba.

C'era la trentaquattrenne Silvana Serravalli, insegnante delle elementari, che quel giorno era lì con le nipoti. Patrizia Messineo, di 18 anni, era appena tornata da un'uscita in discoteca a Parma e doveva vedersi col padre nel piazzale della stazione, la sua sorellina di 7 anni, Sonia Burri, doveva prendere il treno per Roma. Era la bambina con la bambolina rossa.

C'era l'operaia quarantenne della Ducati Elettronica, Natalia Agostini. Insieme alla figlia undicenne Manuela Gallon stava aspettando il marito Giorgio, che era andato a prendere le sigarette. Natalia ancora viva quando la estrassero dalle macerie, Manuela no. Morì al Bellaria senza saperlo.

C'era l'insegnante padovana Anna Maria Salvigni in Trolese, 51 anni, insieme alla figlia sedicenne Maria Antonella Trolese. Anna Maria morì a Bologna, Maria Antonella si spense dieci giorni dopo, a Padova.

C'era la vedova Elisabetta Manea, 60 anni, in attesa del treno per tornare a casa dopo una lunga degenza in ospedale, in seguito a un'operazione. Era sulla banchina insieme a uno dei suoi tre figli, il ventunenne Roberto de Marchi che era andato a prenderla.

C'era Eleonora Geraci, di 46 anni, che insieme al figlio ventiquattrenne Vittorio Vaccaro aspettavano l'arrivo di una zia da Palermo.

C'erano Salvatore Lauro, 57 anni, e la moglie cinquantenne Velia Carli. Stavano aspettando il treno per Mestre che era in un terribile ritardo. Avevano sette figli. Come loro anche il cinquantaseienne Antonio Francesco Lascala aspettava un treno in ritardo.

C'erano Paolo Zecchi e Viviana Bugamelli, avevano entrambi 23 anni e si erano sposati da meno di un anno. C'era anche un'altra coppia, Catherine Helen Mitchell e il fidanzato Jhon Andrew Kolpinski, entrambi ventiduenni. Si erano appena laureati e stavano facendo un Gran Tour in giro per l'Europa.

C'erano la settantaduenne Angelica Tarsi, di Ancona, insieme alla nuora quarantaquattrenne Loredana Molina e il figlio. Erano sul binario uno e furono uccise entrambe dai detriti.

C'erano due dipendenti della Cigar, in stazione. Nilla Natalia, venticinquenne, che di lì a poco avrebbe dovuto convolare a nozze e Katia Bertasi, 34 anni. Katia era la figlia del Maresciallo Bertasi che proprio quel giorno diede il via ai soccorsi senza sapere di aver perso la figlia nella strage.

C'era Maria Fornasari, di 36 anni. Lavorava alla tavola calda accanto alla sala d'attesa di seconda classe e tutti gli anni partiva per le ferie il primo di agosto. Nell'estate del 1980 però aveva deciso di spostarle e partire il 12. Al bancone del Self Service c'era anche la quarantanovenne bolognese Euridia Bergianti. Stava lavorando quando esplose la bomba, insieme alla ventitreenne Rita Verde e alla ventenne Franca Dall'Olio, che lavorava lì da appena quattro mesi.

Per caso c'era anche Flavia Casadei, una diciottenne di Rimini che stava andando a trovare lo zio a Brescia. Faceva la quarta al liceo scientifico.

C'era anche Giuseppe Patruno, di 19 anni, insieme al fratello minore Antonio. Anche il veronese Davide Capriolo, 20 anni, era lì, come il coetaneo giapponese Iwao Sekiguchi che aveva sempre voluto vedere l'Italia. 

C'era Vito Ales, anche lui ventenne, che a quell'ora avrebbe già dovuto essere a Cervia e la ventunenne Brigitte Drouhard aspettava di arrivare a Rimini. Anche la sessantunenne  Irene Breton era francese come Brigitte. Mauro Alganon avrebbe compiuto ventidue anni il diciannove di agosto se quella mattina non fosse stato in stazione con un amico. C'era anche Maria Angela Marangon, anche lei 22 anni, uno in più lo aveva il catalano Francisco Gómez Martínez, che lavorava da quando aveva 16 anni per poter viaggiare. Mauro di Vittorio di anni ne aveva 24, viveva a Londra e stava tornando a casa, invece Sergio Secci, suo coetaneo, stava andando da Terni a Bolzano per incontrare un gruppo teatrale. Roberto Gaiola aveva 25 anni e doveva tornare a Vicenza.

C'era Angelo Priore, di Messina, 26 anni. Resistette per due mesi in ospedale a Bologna prima di spirare. Raccontò di essersi seduto accanto ad una valigia abbandonata su un tavolino.

C'era Onofrio Zappalà, di 27 anni, che il giorno successivo avrebbe dovuto incontrare la sua fidanzata danese.

C'erano due operai della Stracuzzi, una ditta che si occupa dell'installazione delle apparecchiature elettriche di segnalazione ferroviaria, Antonino Di Paola e Salvatore Seminara, 32 e 31 anni.

C'erano i due trentatreenni di Ferrara Nazzareno Basso e Mirco Castellaro, che in realtà era originario di Pinerolo. Sempre di Ferrara era anche Vincenzo Pettenei, 34 anni, che doveva andare in vacanza in Tunisia ma non aveva trovato posto in aereo.

C'erano Umberto Lugli e Carla Gozzi, 38 e 36 anni, sposati. Stavano andando in vacanza alle Tremiti.

C'era il tassista trentottenne Fausto Venturi, che quel giorno aveva marcato il cartellino per il turno 8-20. C'era anche un suo collega, Francesco Betti, che di anni ne aveva 44.

C'era il dipendente delle Ferrovie dello Stato Argeo Bonora, di 42 anni, e l'avvocato responsabile del servizio personale ATAC Mario Sica, 44. C'era Pier Francesco Laurenti, anche lui 44 anni, che dalla riviera stava tornando a Parma. Il treno doveva fare una sosta di un quarto d'ora e lui ne aveva approfittato per fare una telefonata.

C'era il muratore cinquantenne Paolino Bianchi, il cui corpo fu riconosciuto solo cinque giorni dopo. 50 anni li aveva anche Vincenzina Sala, che era lì col marito, la suocera e il nipote e quello fu il loro ultimo momento insieme a lei. Anche la casalinga di Bolzano Berta Ebner,  50 anni anche lei, era lì. Lina Ferretti di anni ne aveva 53, faceva la casalinga ed era la moglie di un impiegato delle ferrovie.

C'era il cinquantunenne romagnolo Vincenzo Lanconelli che aveva sempre fatto l'ispettore del lavoro a Forlì e da poco era andato in pensione. Anche Romeo Ruozi, 54, che viveva a Bologna da quarant'anni, era in pensione. Stessa età l'aveva anche Amorveno Marzagalli.

C'era Rosina Barbaro, di 58 anni, che era alla prima vacanza senza figli dopo anni di attesa, e col marito aspettava il treno per Pesaro.

C'era il sammarinese Pietro Galassi, di 66 anni, che faceva il preside in un istituto di Viareggio ed era laureato in fisica e matematica.

C'era Lidia Olla, di 67 anni, che era lì col marito. Lui rimase gravemente ustionato e che Lidia era scomparsa lo scoprì solo dopo essersi ripreso.

C'era Maria Idria Avati, 80 anni precisi, che avrebbe dovuto andare in vacanza in Trentino. Antonio Montanari invece ne aveva 86. Erano sopravvissuti a due Guerre Mondiali e sono morti per la bomba piazzata alla stazione di Bologna quel 2 agosto del 1980.


 

Le indagini furono un casino. Puntarono ad alcuni esponenti dell'estrema destra - Cavallini, Fioravanti, Mambro - ma chi l'abbia fatta mettere quella bomba alla stazione di Bologna il 2 Agosto del 1980 ancora adesso, dopo quarantun'anni, non è chiaro. Le indagini sono andate avanti tra depistaggi e insabbiamenti, la Procura di Bologna aveva addirittura richiesto l'archiviazione per l'indagine sui mandanti e lo aveva fatto nel 2020, poi si è deciso di proseguire. 

Il processo ai mandanti è iniziato quarantun'anni dopo, il 16 aprile 2021 e ancora non si sa come andrà a finire. Probabilmente nessuno di loro si farà un giorno di carcere.




 

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Angolo Autrice

Lucia Cavina, Giulia del Bene, Giulio Ferrari sono tutti personaggi inventati di santa pianta, ma i nomi delle 85 vittime della Strage di Bologna sono veri, potete leggerli nella sala d'aspetto della stazione di Bologna dove c'è ancora il segno della bomba.
Io non ero ancora nata, sono nata nove anni dopo - l'anno del crollo del muro di Berlino - e quelle immagini le ho viste solo in foto. Anche se non c'ero, da bolognese quell'evento resta vivo nel cuore. Ogni anno la consapevolezza che il governo italiano per anni abbia tentato di mascherare le colpe e che ancora, ad oggi, non ci siano dei responsabili - almeno non accertati penalmente dalla giustizia - fa arrabbiare.

Questo pezzo è per le vittime: è per i morti che se ne sono andati, per i feriti e per tutte le persone - militari e civili - che hanno vissuto quel giorno alla stazione, aiutando come potevano, e che dopo più di quarant'anni lo ricordano ancora, perché il ricordo sarà un trauma che porteranno sempre nel cuore e che non potranno più cancellare. 

  
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