Ta-dan! Vi avevo promesso un
aggiornamento prima di Ferragosto e così è stato ^^ visto come sono stata
brava?
In realtà sarebbe arrivato anche
prima di oggi, ma non sono stata propriamente al top dopo la seconda dose di
vaccino… in compenso ho sviluppato un 5G da paura! Ne è proprio valsa la pena
:D
Ma visto che so che delle mie
disavventure sanitarie e tecnologiche non vi importa un accidente, vi lascio direttamente
alla lettura del capitolo e vi do già appuntamento per il prossimo! Stavolta ho
deciso di risparmiarvi lo sproloquio finale… sono doppiamente brava, vero? ;)
D.
In the still of the night
39.
-
Non ne sono capace, Gale – mormoro, angosciata. – Non l’ho mai fatto prima, ho
solo visto mia madre che-
-
Fallo e basta, Katniss – mi zittisce lui.
-
Sei comunque la persona più competente tra di noi – mi incoraggia Peeta.
Non
sono competente, penso. Stringo tra pollice e indice
l’ago ricurvo e, in qualche modo, nella mia testa si tramuta in un’arma molto
più pericolosa. Gli sguardi di Pollux e Cressida sembrano trasmettermi le
stesse sensazioni. Non uno strumento curativo, ma una bomba a mano.
-
Muoviti – dice Gale digrignando i denti.
Li
digrigna ancora e trattiene il respiro quando inizio a praticare la sutura
sulla ferita che ha lungo il collo.
-
Mi dispiace – bisbiglio.
Cerco
con tutta me stessa di concentrarmi sui punti da applicare e di resistere alla
tentazione, molto forte, di mollare tutto e di scappare via, fuori da questa
cantina in cui abbiamo trovato rifugio.
Del
numeroso gruppo di cui facevamo parte fino a due ore fa, solo in cinque siamo
riusciti a sopravvivere. Cinque, su quattordici. La Squadra di Stelle si è
trasformata in una Squadra di Morte. La fortuna non è stata esattamente dalla
nostra parte… ma quando mai lo è stata?
Lasciare
quell’appartamento per tentare di farci strada nelle fogne, sottoterra, ha
funzionato all’inizio: mentre in superficie i Pacificatori e le squadre di
intervento cercavano di rinvenire i nostri cadaveri, che pensavano essere
carbonizzati e sepolti al di sotto delle macerie del condominio che avevano
dato alle fiamme, noi ci facevamo strada al di sotto dei loro piedi per
arrivare il più possibile vicini all’abitazione del presidente Snow. Tentavamo
di arrivare alla nostra meta, alla meta che ho finto essere lo scopo della
missione che la stessa Coin mi aveva fintamente incaricata di portare a
termine. Così come avevamo appreso dalla tv di stato, fino all’indomani mattina
dovevamo essere in una botte di ferro e nessuno, prima di allora, avrebbe
capito che, in realtà, eravamo vivi e vegeti. Siamo anche riusciti a riposare
per qualche ora, al riparo di una sorta di sgabuzzino pieno di macchinari di
qualche altra sorta.
Eravamo
certi, grazie anche alla guida di Pollux che, essendo un senza voce, per anni
era stato costretto a lavorare al servizio di Panem in questi corridoi
sotterranei, di avere ormai un certo vantaggio sui nostri eventuali inseguitori
e di poter trovare, prima dell’inizio delle ricerche vere e proprie, un rifugio
sicuro. Un posto per riposare, per riprendere le forze e per capire e studiare
come andare avanti coi nostri piani.
Ed
invece…
Capitol
City ci ha sguinzagliato dietro gli ibridi. Degli orribili, disgustosi e
terrificanti ibridi metà uomini e metà lucertola che puzzavano di rose. Persino
nelle fogne, in mezzo al puzzo dell’immondizia, dei liquami e delle scorie
chimiche, il loro odore riusciva a prevalere. Il mio olfatto ne è stato vittima
prima ancora che questi ci fossero abbastanza vicini da vederci e da
attaccarci. Mi sono bloccata, a causa di quell’odore. È lo stesso odore delle
rose di cui si circonda sempre il presidente Snow, l’odore che cerca di
camuffare quello del sangue che proviene dalle piaghe nella sua bocca. L’odore
delle rose che usa per comunicare esclusivamente con me, per comunicare gli
eventi che accadranno di lì a poco. L’odore che usa per colpirmi, per
spaventarmi.
So
dove ti trovi.
So
come raggiungerti.
So
come fare per uccidere te e tutti gli altri.
La
Jackson è stata la prima vittima di quelle creature spietate ed orribili,
perché il suo ultimo gesto è stato spintonarmi verso gli altri, verso Pollux
che, davanti a tutti, tentava di mostrarci la via più sicura per la salvezza.
Homes, Messalla, Finnick… anche loro sono caduti a causa degli ibridi.
Sono
rimasti indietro per consentirci di risalire dalle fogne attraverso un
cunicolo, accessibile solo grazie ad una scala traballante. Sono stata l’ultima
a vedere Finnick vivo, vivo e ferito, circondato da tre di quelle creature che
lo dilaniavano con i loro artigli e le loro fauci. Urlava il mio nome, mi
implorava di ucciderlo. Non di salvarlo, ma di risparmiargli altre sofferenze.
Di uccidere lui, non gli ibridi. Ho innescato il sistema di autodistruzione
dell’Olo e l’ho lasciato cadere lungo il cunicolo; mi sono scostata e riparata
come potevo mentre l’esplosione provocata dall’Olo uccideva tutti quanti, più
in profondità. Ibridi, mostri… e Finnick.
Come
avrei potuto confessare ad Annie di essere stata proprio io ad aver causato la
morte di suo marito? Suo marito, ed il padre del suo bambino. Un bambino
rimasto orfano del padre mesi prima di venire al mondo.
Il
cunicolo ci ha portati dritti al Transito, l’area costruita subito sotto le
strade di Capitol City adibita allo scarico e alla consegna delle merci. È una
zona perennemente buia anche durante le ore del giorno, e frequentata per la
maggior parte dai senza voce come Pollux. Lui ha iniziato a correre, ci ha fatto
segno di seguirlo ma abbiamo scoperto di essere circondati da parecchie figure
vestite di bianco. Ho temuto che fossero altri ibridi, ma invece erano i
Pacificatori incaricati di far fuori noi superstiti sbucati dalle fogne. Hanno
cominciato a spararci addosso, hanno colpito Castor che è caduto a terra e non è
più riuscito a rialzarsi, gli occhi improvvisamente ciechi come quelli che ho
visto sul volto di Boggs. Abbiamo risposto al fuoco con i fucili, riversando
interi caricatori sulle truppe, ed io e Gale gli abbiamo lanciato contro anche
le nostre frecce incendiarie, ma non quelle esplosive: rischiavamo di far
saltare in aria tutto quanto, compresi noi. Le frecce hanno attivato alcuni
baccelli e li hanno neutralizzati sul nascere, prima che potessero colpirci… ma
non potevamo fare nulla contro quelli che ci colpivano dall’alto.
Con
il Transito sgombero dai Pacificatori, abbiamo ripreso la nostra folle corsa
verso le vie superficiali e superato una serie di raggi gialli ed abbaglianti
che si attivavano al nostro passaggio, simili ad innocue colonne decorative ma
mortali, decisamente più mortali. Il corpo di un Pacificatore morto è svanito
all’improvviso, si è dissolto nel nulla al contatto col raggio. Abbiamo corso a
zig-zag per evitarli, incitandoci a vicenda, e quando è svanita la zona delimitata
dai raggi il pavimento dietro di noi ha cominciato a sbriciolarsi,
trasformandosi in un enorme baccello che invece di fermarsi sembrava
inseguirci, col solo intento di raggiungerci ed inghiottirci nel sottosuolo. Le
scale per l’accesso alla strada distavano meno di cento metri e le abbiamo raggiunte
nel più insperato dei miracoli. L’ultimo a saltare prima che il pavimento si disintegrasse
del tutto è stato Gale, con la balestra stretta in una mano e l’altra a coprire
uno squarcio sanguinante sul lato sinistro del collo.
Fuori,
per le strade deserte, è ancora buio, anche se non manca poi molto all’arrivo
dell’alba. La neve ha cominciato a cadere, lenta, e a ricoprire l’asfalto sotto
i nostri piedi. Faceva freddo, ci muovevamo rapidi e ci guardavamo attorno
circospetti, tesi e pronti a colpire al minimo accenno di allarme. Eravamo
rimasti in pochi, eravamo debilitati, scossi e feriti, come Gale, e facilmente
riconoscibili, come me e Peeta. I nostri manifesti da ricercati sembravano
seguirci ad ogni angolo, ad ogni incrocio. I loro occhi sembravano scrutarci
come se nascondessero gli obiettivi delle telecamere. Ho provato l’impulso di scagliare
una freccia contro la mia stessa foto da ricercata, ma ho evitato: una freccia
sarebbe stato un dettaglio difficile da non notare qui in mezzo. Chiunque, qui,
sa chi è che ha la passione per le frecce, e non avrebbero impiegato che pochi
secondi a capire chi l’aveva scagliata.
-
So dove siamo! – ha soffiato Cressida ad un certo punto. – Riconosco queste
strade.
Ci
ha fatto segno di seguirla e, dopo aver attraversato un incrocio deserto, si è fatta
strada lungo una via dall’aria cupa, semi abbandonata e poco raccomandabile.
Non assomigliava per niente al resto delle vie della città; a smentire il
tutto, le pazze vetrine dei negozi che abbiamo superato di corsa e su cui il
nostro sguardo scivolava veloce. Cressida si è fermata davanti alla porta di un
negozio che vendeva indumenti di pelliccia, ha bussato sul vetro smerigliato ed
è rimasta in attesa, e noi dietro di lei.
La
figura alta e slanciata che ha aperto aveva le sembianze di una donna gatto:
non ho trovato altre parole per descrivere il suo volto magro, pesantemente
ritoccato dalla chirurgia, ed i tatuaggi neri e arancioni che simulavano il
manto di una tigre. Aveva persino i baffi. Si stringeva in una pelliccia tigrata
arancione e, nonostante l’insieme disturbante, ne sono comunque rimasta affascinata.
Cressida
l’ha chiamata Tigris, e questo nome ha richiamato qualcosa in me. Ma certo: gli
Hunger Games. Ancora, di nuovo e sempre gli Hunger Games. Tigris era una
stilista dei giochi, una delle più famose e iconiche; sono anni che si è
ritirata dalla carriera stilistica, ma non avevo mai pensato che… cosa? A
cos’è che non avevo pensato? A parte Cinna e Portia, gli unici stilisti che
abbia mai conosciuto, non ho mai pensato nulla riguardo a questa professione in
particolare. Non ho mai avuto attrazione ed interesse per cucito, tessuti e via
dicendo. E di certo, la donna gatto che avevo davanti era l’ultima delle
persone che avrei mai pensato di incontrare nel corso della mia assurda vita.
-
Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Tigris – l’ha implorata Cressida.
La
donna ci ha fatto entrare e, dopo aver chiuso di nuovo a chiave l’ingresso del
negozio, ci ha condotti verso il retro; ha spostato un sacco di espositori
straripanti di pellicce, ha sollevato un falso pannello del pavimento ed ha
rivelato la botola che vi si celava sotto. Ha sollevato anche quella,
mostrandoci il passaggio buio da seguire.
-
Seguite la scala – ci ha detto con voce graffiante e roca; esattamente la voce
che potrebbe avere un gatto se avesse la possibilità di parlare.
La
scala ci ha portato in questa cantina semi buia ed umida, piena anch’essa di
vecchie pellicce forse troppo fuori moda per essere esposte e vendute, ma per
quanto buia e umida, almeno era sicura. Cressida ci ha detto che era un luogo
sicuro approvato da Plutarch. Per quanto scomodo, era un posto in cui poter
curare le ferite e riposare senza sentire la minaccia continua delle autorità,
e senza avere una pattuglia di Pacificatori contro il collo.
Continuo
a praticare la sutura sulla ferita finché anche l’ultimo punto non è stato
applicato; taglio il filo, osservo la linea di punti frastagliata che è uscita
fuori e penso che avrei potuto fare di meglio. Qualcun altro avrebbe saputo
sicuramente fare di meglio, qualcuno con le nozioni necessarie e la competenza
necessaria per ricucire la ferita di Gale. Stringo le labbra, demoralizzata.
-
Non deve essere bella, Catnip, deve reggere – dice Gale, forse
intuendo la linea dei miei pensieri. – Se regge, allora hai fatto un lavoro
meraviglioso. Non mi lamenterò della cicatrice.
-
Le cicatrici sono affascinanti – si intromette Peeta.
-
Smettetela – dico in fretta.
Rimetto
il kit di sutura all’interno della cassetta del pronto soccorso e recupero una
garza pulita con cui coprire la ferita di Gale. Osservo con la coda dell’occhio
Cressida e Pollux che, poco lontani, sistemano un mucchio di pellicce per
trasformarle in letti provvisori. La cantina è davvero troppo umida ed il
freddo, qui, riesce a penetrare senza alcun problema, quindi usare le pellicce come
coperte non è per niente una brutta idea. Cressida aveva accennato ad istituire
dei turni di guardia, ma non credo che li faremo: abbiamo tutti, chi più chi
meno, bisogno di riposare come si deve. Inoltre, non penso che qualcuno verrà a
cercarci proprio qui, sotto il pavimento di un dimenticato ed altrettanto fuori
mano negozio di pelletteria. Pollux sembra essere della mia stessa idea: afferra
una pelliccia, se la avvolge sul corpo e si sistema in un angolo, con la faccia
rivolta verso la parete grigia. L’ho già visto fare altre volte, ma da altre
persone: è il momento in cui ci si prepara ad accogliere il dolore per la
perdita di un caro.
-
Ho trovato un po' di antidolorifici – dico a Gale dopo avergli messo la benda.
– Dovresti prenderli.
-
Oppure no. Non sento dolore. Dormire sarà più che sufficiente.
Cinque
minuti dopo, il suo russare riempie tutto lo spazio. È l’unico rumore che
sento, a parte quello delle pellicce con cui Peeta sta trafficando e quello,
lieve, che proviene da Pollux; ogni tanto tira su col naso ed io faccio di
tutto per ignorarlo, per non fargli capire che so che sta piangendo il fratello
morto. Faccio di tutto, compreso trafficare per l’ennesima volta all’interno
della cassetta del pronto soccorso e, quando il suo contenuto resta impresso
nella mia memoria, traffico con la scorta di cibo che siamo riusciti a salvare
dalla fuga nel sottosuolo.
La
mano di Peeta si posa sulla mia spalla. - Non vieni a dormire? – bisbiglia per
non disturbare gli altri. Anche se, grazie al russare di Gale, il suo bisbiglio
è di certo l’ultima cosa di cui si deve preoccupare.
-
Solo un secondo – bisbiglio di rimando. Sollevo lo sguardo verso di lui ed è
così che mi rendo conto che è ferito. – Peeta! Il tuo mento…
-
Cosa? – si passa una mano sul lato destro del mento e sussulta appena. – Ah!
Devo essermi fatto male prima… sono scivolato.
-
Abbassati, per favore. Così lo pulisco.
-
Non è niente, Katniss-
-
Fallo decidere a me se non è niente! – esclamo. Lo afferro per un braccio e lo
tiro giù, così è costretto ad assecondare i miei gesti.
-
Va bene, va bene! Basta che non urli – si siede davanti a me e solleva la testa
per mostrarmi la parte lesa.
È
un’escoriazione che deve aver smesso di sanguinare da un bel pezzo, ormai, e
come ha già detto Peeta non è nulla di che. Ma per oggi ho già visto troppo
sangue e troppe morti per lasciar correre, così comincio a pulirla e a
disinfettarla con la tintura e con la garza; non starei tranquilla, sapendo di
non aver fatto nulla per evitargli un’infezione o peggio. Forse è una reazione
esagerata, e sono sicura che lui la pensi allo stesso modo ma non dice nulla.
Mi lascia fare, lascia che le mie mani si occupino di lui. Dopo un minuto,
l’innocua escoriazione diventa ancora più innocua.
-
Devi mantenerla pulita per evitare che si crei l’infezione – dico, sovrappensiero.
-
So cos’è l’avvelenamento del sangue, Katniss – mi risponde lui,
abbassando il viso. – Anche se mia madre non è una guaritrice.
In
un istante svanisce tutto quanto: la cantina, Gale, Cressida e Pollux, la
guerra e le persone che sono morte meno di un giorno fa. In un istante, grazie
alla sua frase, veniamo di nuovo catapultati nella grotta dei nostri primi
Hunger Games. C’è Peeta, mezzo morto e febbricitante a causa della ferita che
Cato gli ha inflitto alla gamba, e ci sono io che cerco di pulirla e di
disinfettarla con i pochi mezzi a mia disposizione: acqua, e foglie. Erano i
giorni prima del festino, prima dell’attacco di altri ibridi, prima della nostra
vittoria. Erano i giorni in cui l’idillio amoroso era solo una tattica di
sopravvivenza. Erano i giorni in cui ho temuto di perderlo, di vederlo morire
davanti ai miei occhi.
Temo
ancora di vederlo morire davanti ai miei occhi.
Torno
alla realtà e mi sforzo di distogliere gli occhi dal suo viso per posare la
tintura disinfettante e chiudere la cassetta. Impiego tanto tempo per farlo, lo
faccio per non fargli vedere il modo in cui le parole che mi ha rivolto mi hanno
scossa. Ma forse lo ha capito già: rimango un libro aperto, io, un libro pronto
per essere decifrato. E lui sa fin troppo bene come decifrarmi. No, forse non così
troppo…
-
Lo capirò se… se non vorrai più stare con me – gli confesso.
Mantengo
lo sguardo basso, ma Peeta posa due dita sotto al mio mento per portarlo di
nuovo in alto, davanti al suo. I suoi occhi mi stanno interrogando, silenziosi.
– Per quale motivo non vorrei più stare con te?
-
Per… - scuoto le spalle. – Per ciò che ti ho detto l’altra notte.
-
Per ciò che- si interrompe, capendo anche lui. Inarca le sopracciglia e
raddrizza la schiena. – Perché non vuoi avere altri figli?
Annuisco.
-
Non è un buon motivo per lasciarti andare via.
-
Ma tu ne vuoi, Peeta! – esclamo. Non mi interessa se stanno dormendo tutti. –
L’ho capito, non sono stupida! E so che con me non portai mai averli. Io… non
posso darti ciò che desideri. È un buon motivo per liberarti finalmente di me.
-
Lascialo decidere a me questo.
-
Peeta-
-
Katniss, lasciami parlare – dice, alzando una mano. – Capisco il perché
hai scelto di non avere altri bambini. Non è facile. Hai sofferto, stai ancora
soffrendo. Stiamo soffrendo entrambi… ma devi capire che questa è una decisione
che non puoi prendere da sola, e a cuor leggero.
-
Non l’ho presa a cuor leggero-
-
Quello che sto cercando di dirti è che avresti dovuto parlarmene prima,
Katniss. Dovevi dirmelo. È questo che si fa tra marito e moglie: si parla.
E tu hai sbagliato a non rendermi partecipe dei tuoi pensieri e delle tue
decisioni. Ti sei sempre lamentata quando io e Haymitch avevamo dei punti di
discussione di cui non eri subito messa al corrente… e per una volta, non
stupirti quando qualcuno reagisce nello stesso modo alle tue notizie.
Ho
continuato a mantenere il contatto visivo con i suoi occhi anche se, a mano a
mano che proseguiva, il mio coraggio veniva meno. E mi vergogno di essere
stata, ancora una volta, tanto egoista da pensare solo a me stessa, ai miei
desideri e a tenere lontani da questi i desideri di Peeta, anche se sono tanto
diversi. Anche se desideriamo cose diverse che non si realizzeranno mai. E
vorrei tornare indietro, a ieri, prima di metterlo al corrente della mia
decisione. Vorrei almeno avere la possibilità di diglielo con parole diverse…
ma ormai è tutto inutile. So di averlo ferito e non basterà un semplice “mi
dispiace” a sistemare le cose.
-
Scusami – so che anche questo non servirà a molto.
-
Non scusarti, Katniss. Ti ho perdonata ore fa. E questa – solleva la
mano sinistra per mostrarmi l’anello che ha all’anulare, – ha ancora un
significato per me. Finché la vedrai, saprai che non ho alcuna intenzione di
lasciarti.
-
Peeta… ma come-
-
Non è questo il momento migliore per affrontare l’argomento, no? – dice
stancamente. – Per quel che mi riguarda, domani potremmo essere belli che morti.
E da morti, non dovremmo più preoccuparci di mettere al mondo dei bambini.
-
I bambini nasceranno lo stesso, Peeta. Anche se moriremo. Non sarà la nostra morte
ad impedire ai bambini di nascere. Stanno già nascendo…
-
Non… non ti seguo. Che vuoi dire?
-
Annie – il suo nome mi esce in un sussurro roco, a causa del magone che ha
preso posto nella mia gola e che non riesco a mandare via. – Annie aspetta un
bambino…
Una
frase che genera sempre gioia adesso genera dolore, tristezza, pena. La
tristezza prende posto anche sul viso di Peeta. – Oh, Katniss…
-
Il suo bambino sta arrivando, ed io ho ucciso il suo papà…
-
No! – esclama tra i denti, afferrando con slancio il mio viso. – Non è così,
Katniss. Non. È. Così. Non sei stata tu a uccidere Finnick.
-
Sono stata io! – pigolo, cercando di svicolare dalla sua presa. – Sono stata
io, avevo l’Olo e l’ho azionato! L’ho ucciso, anche se sapevo che stava per
avere un bambino…
-
No, no… non è stata colpa tua. Non è stata colpa tua…
Peeta
mi abbraccia, mi stringe contro il suo corpo e preme la guancia contro i miei
capelli. A parte questo, a parte stringermi, a parte circondarmi col suo
calore, non fa altro per calmare il mio pianto ed i miei singhiozzi. Ed io non
faccio nulla per calmarmi, anzi, faccio l’esatto contrario: questo pianto sembra
essere alimentato proprio dalle sue rassicurazioni, dal suo conforto. E allora
sfrutto il suo conforto, lo uso come valvola di sfogo per tutto ciò che è
andato storto in questi giorni. Tutta la sofferenza e lo stress che si sono
accumulati, tutto il dolore che sento per le persone che abbiamo perso… è tutto
qui. Piango per Boggs, per Castor, per le sorelle Leeg e per Messalla. Piango
per Finnick.
Piango
per il figlio che non avrà mai la possibilità di conoscere.
Piango
per il mondo in cui viviamo, che lascia morire tanti padri e costringe i loro
figli a crescere come orfani.
I
miei incubi pullulano di bambini, stavolta. Bambini che nascono, bambini che
crescono, bambini che esplodono. Bambini che assistono alla morte dei loro
genitori. Bambini che si assumono troppo presto responsabilità troppo grandi
per la loro età. Bambini piccoli con le responsabilità di una persona adulta.
Bambini che vengono sorteggiati alla mietitura. Bambini che sono costretti ad uccidere
altri bambini.
Apro
gli occhi, spossata e frastornata come se non avessi chiuso occhio, per
ritrovarmi davanti il volto addormentato di Peeta. E guardarlo addormentato,
così perso nella pace del sonno, mi riporta la sensazione di essere ancora
all’interno del mio incubo. Nonostante i segni delle ferite, Peeta ha in tutto
e per tutto l’aria e l’aspetto di un bambino addormentato. Un bambino troppo
cresciuto che sta affrontando, a sua volta, i suoi incubi.
Scosto
la pelliccia e cerco di mettermi a sedere senza movimenti bruschi, mi muovo il
più lentamente possibile per evitare di svegliarlo. Il russare di Gale, anche
se è diventato più leggero rispetto a prima, mi avverte che sta ancora
dormendo. Due sagome informi poco distanti, immobili, mi dicono che anche
Pollux e Cressida dormono della grossa. Non devono essere trascorse molte ore
da quando siamo entrati in questa cantina; non c’è nessuna finestra per
osservare il mondo che c’è al di fuori, e se anche ci fosse, l’unica cosa che
potremmo vedere sarebbe il buio che circonda la zona di Transito. Lancio
un’occhiata all’orologio che ho al polso, quello che hanno dato ad ognuno di
noi insieme al resto della dotazione destinata ai soldati, e scopro di avere
ragione. Non è ancora arrivato mezzogiorno: ho dormito meno di tre ore.
Strofino
le palpebre chiuse con la punta delle dita, convinta come molte altre volte di
non voler tornare a dormire per paura di sprofondare di nuovo nell’incubo pieno
di bambini. Mi alzo, e ringrazio di aver tolto gli scarponi prima di coricarmi:
il pavimento è gelido, il freddo penetra attraverso le calze, ma riesco a
camminare senza fare rumore. Raggiungo silenziosamente il rubinetto e mi
maledico subito dopo averlo aperto: l’acqua esce sputacchiando dai tubi,
rischiando di svegliare tutti quanti. Riempio in fretta la borraccia che mi
sono portata dietro e torno al mio posto dopo aver bevuto.
Camminare
scalza non è stata una buona idea e adesso ho i piedi gelati. Prendo la
pelliccia che ho usato come coperta fino ad ora e me la avvolgo intorno al
corpo, seppellendo i piedi in un'altra pelliccia che ho davanti, una tra le
tante che non abbiamo utilizzato.
Resto
seduta per quelle che mi sembrano ore nella stessa e identica posizione,
ascoltando i respiri regolari dei miei compagni che seguitano a dormire. Resto
seduta nonostante stia scomoda, immersa nel ripercorrere le ore passate, le
perdite subite, i baccelli che abbiamo azionato. Resto seduta, e penso che se è
accaduto tutto questo lo devo solo a me stessa. A me stessa, e alle mie
decisioni stupide e improvvise. È colpa mia se nove di noi sono morti, è colpa
mia se ho scelto di seguire la mia testa e non gli ordini della Jackson, di
sicuro una mente migliore della mia e una persona molto più capace nel gestire
una situazione di emergenza come quella in cui ci trovavamo. Dirigerci verso la
residenza presidenziale… ma cosa mi è saltato in mente?
Avrei
dovuto agire come volevo all’inizio: cercare di rubare l’Olo a Boggs e poi
fuggire da sola, senza nessuno che potesse seguire le mie tracce, e cercare di
raggiungere il mio obiettivo con le mie sole forze. Non doveva seguirmi
nessuno, all’inizio… poi Boggs è morto, e prima di morire ha trasferito il
nulla osta di sicurezza dell’Olo a me. A me, non alla Jackson. Capisco che se
ho inventato una balla del genere l’ho fatto solo perché, se avessi dato alla
Jackson ciò che voleva, poi non avrei più avuto nessuna possibilità di andare
via per uccidere Snow. Non ci sarei riuscita con l’Olo nelle sue mani. E non mi
capacito di Cressida, di Peeta e degli altri che hanno retto la mia bugia
aggiungendocene sopra delle altre.
A
cosa ci porterà tutto questo?
Ho
questa domanda impressa nella mente quando Cressida si sveglia, quando si alza
e va a bere anche lei dal rubinetto sputacchiante. Ce l’ho ancora in testa
quando, uno dopo l’altro, si svegliano anche Gale e Pollux. Ed è con il bacio
con cui Peeta mi annuncia il suo risveglio, premuto contro il mio collo
scoperto, che decido di dare voce ai miei dubbi e alle mie paure.
-
Sapevamo che mentivi, Katniss – dice Cressida quando ho spiegato loro tutta la
questione. – E lo sapeva anche la Jackson. Lo sapevano tutti.
-
Ma allora…
-
Perché ti abbiamo seguito nonostante sapessimo dell’inesistenza di questo
piano? – Cressida sorride. – Katniss, chiunque di noi avrebbe fatto qualsiasi
cosa tu ci avessi ordinato di fare. E senza battere ciglio.
-
Non ha ancora capito l’effetto che è capace di scatenare – commenta Gale. Mi
osserva stando a braccia incrociate, e solleva le sopracciglia, divertito.
-
Non l’ha mai capito davvero. E glielo dico da più di un anno – aggiunge Peeta.
Sospiro,
porto le mani sulla fronte e scuoto la testa. Non mi sono di nessun aiuto con i
loro commenti ammiccanti. Katniss di qua, Katniss di là, Katniss che è la
meraviglia di Panem, Katniss che è capace di smuovere una popolazione intera…
io non sono così, io non sono nulla di tutto ciò. Io sono capace solo di
portare dolore, disperazione e morte a chi mi circonda.
-
Dove pensate che ci porterà tutto questo? – esprimo, finalmente, la domanda che
si è fissata come un tatuaggio all’interno della mia memoria. – Cosa dovremmo
fare adesso?
-
Continueremo il tuo piano, Katniss – è la risposta, ovvia, di Cressida. – Ci
troviamo a meno di tre chilometri dalla villa del presidente.