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Autore: Deruchette    04/08/2021    2 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 39

Ta-dan! Vi avevo promesso un aggiornamento prima di Ferragosto e così è stato ^^ visto come sono stata brava?
In realtà sarebbe arrivato anche prima di oggi, ma non sono stata propriamente al top dopo la seconda dose di vaccino… in compenso ho sviluppato un 5G da paura! Ne è proprio valsa la pena :D
Ma visto che so che delle mie disavventure sanitarie e tecnologiche non vi importa un accidente, vi lascio direttamente alla lettura del capitolo e vi do già appuntamento per il prossimo! Stavolta ho deciso di risparmiarvi lo sproloquio finale… sono doppiamente brava, vero? ;)

D.

 

 


 

 

 

In the still of the night

 

39.

 

- Non ne sono capace, Gale – mormoro, angosciata. – Non l’ho mai fatto prima, ho solo visto mia madre che-
- Fallo e basta, Katniss – mi zittisce lui.
- Sei comunque la persona più competente tra di noi – mi incoraggia Peeta.

Non sono competente, penso. Stringo tra pollice e indice l’ago ricurvo e, in qualche modo, nella mia testa si tramuta in un’arma molto più pericolosa. Gli sguardi di Pollux e Cressida sembrano trasmettermi le stesse sensazioni. Non uno strumento curativo, ma una bomba a mano.
- Muoviti – dice Gale digrignando i denti.
Li digrigna ancora e trattiene il respiro quando inizio a praticare la sutura sulla ferita che ha lungo il collo.
- Mi dispiace – bisbiglio.
Cerco con tutta me stessa di concentrarmi sui punti da applicare e di resistere alla tentazione, molto forte, di mollare tutto e di scappare via, fuori da questa cantina in cui abbiamo trovato rifugio.
Del numeroso gruppo di cui facevamo parte fino a due ore fa, solo in cinque siamo riusciti a sopravvivere. Cinque, su quattordici. La Squadra di Stelle si è trasformata in una Squadra di Morte. La fortuna non è stata esattamente dalla nostra parte… ma quando mai lo è stata?
Lasciare quell’appartamento per tentare di farci strada nelle fogne, sottoterra, ha funzionato all’inizio: mentre in superficie i Pacificatori e le squadre di intervento cercavano di rinvenire i nostri cadaveri, che pensavano essere carbonizzati e sepolti al di sotto delle macerie del condominio che avevano dato alle fiamme, noi ci facevamo strada al di sotto dei loro piedi per arrivare il più possibile vicini all’abitazione del presidente Snow. Tentavamo di arrivare alla nostra meta, alla meta che ho finto essere lo scopo della missione che la stessa Coin mi aveva fintamente incaricata di portare a termine. Così come avevamo appreso dalla tv di stato, fino all’indomani mattina dovevamo essere in una botte di ferro e nessuno, prima di allora, avrebbe capito che, in realtà, eravamo vivi e vegeti. Siamo anche riusciti a riposare per qualche ora, al riparo di una sorta di sgabuzzino pieno di macchinari di qualche altra sorta.
Eravamo certi, grazie anche alla guida di Pollux che, essendo un senza voce, per anni era stato costretto a lavorare al servizio di Panem in questi corridoi sotterranei, di avere ormai un certo vantaggio sui nostri eventuali inseguitori e di poter trovare, prima dell’inizio delle ricerche vere e proprie, un rifugio sicuro. Un posto per riposare, per riprendere le forze e per capire e studiare come andare avanti coi nostri piani.
Ed invece…
Capitol City ci ha sguinzagliato dietro gli ibridi. Degli orribili, disgustosi e terrificanti ibridi metà uomini e metà lucertola che puzzavano di rose. Persino nelle fogne, in mezzo al puzzo dell’immondizia, dei liquami e delle scorie chimiche, il loro odore riusciva a prevalere. Il mio olfatto ne è stato vittima prima ancora che questi ci fossero abbastanza vicini da vederci e da attaccarci. Mi sono bloccata, a causa di quell’odore. È lo stesso odore delle rose di cui si circonda sempre il presidente Snow, l’odore che cerca di camuffare quello del sangue che proviene dalle piaghe nella sua bocca. L’odore delle rose che usa per comunicare esclusivamente con me, per comunicare gli eventi che accadranno di lì a poco. L’odore che usa per colpirmi, per spaventarmi.
So dove ti trovi.
So come raggiungerti.

So come fare per uccidere te e tutti gli altri.
La Jackson è stata la prima vittima di quelle creature spietate ed orribili, perché il suo ultimo gesto è stato spintonarmi verso gli altri, verso Pollux che, davanti a tutti, tentava di mostrarci la via più sicura per la salvezza. Homes, Messalla, Finnick… anche loro sono caduti a causa degli ibridi.
Sono rimasti indietro per consentirci di risalire dalle fogne attraverso un cunicolo, accessibile solo grazie ad una scala traballante. Sono stata l’ultima a vedere Finnick vivo, vivo e ferito, circondato da tre di quelle creature che lo dilaniavano con i loro artigli e le loro fauci. Urlava il mio nome, mi implorava di ucciderlo. Non di salvarlo, ma di risparmiargli altre sofferenze. Di uccidere lui, non gli ibridi. Ho innescato il sistema di autodistruzione dell’Olo e l’ho lasciato cadere lungo il cunicolo; mi sono scostata e riparata come potevo mentre l’esplosione provocata dall’Olo uccideva tutti quanti, più in profondità. Ibridi, mostri… e Finnick.
Come avrei potuto confessare ad Annie di essere stata proprio io ad aver causato la morte di suo marito? Suo marito, ed il padre del suo bambino. Un bambino rimasto orfano del padre mesi prima di venire al mondo.
Il cunicolo ci ha portati dritti al Transito, l’area costruita subito sotto le strade di Capitol City adibita allo scarico e alla consegna delle merci. È una zona perennemente buia anche durante le ore del giorno, e frequentata per la maggior parte dai senza voce come Pollux. Lui ha iniziato a correre, ci ha fatto segno di seguirlo ma abbiamo scoperto di essere circondati da parecchie figure vestite di bianco. Ho temuto che fossero altri ibridi, ma invece erano i Pacificatori incaricati di far fuori noi superstiti sbucati dalle fogne. Hanno cominciato a spararci addosso, hanno colpito Castor che è caduto a terra e non è più riuscito a rialzarsi, gli occhi improvvisamente ciechi come quelli che ho visto sul volto di Boggs. Abbiamo risposto al fuoco con i fucili, riversando interi caricatori sulle truppe, ed io e Gale gli abbiamo lanciato contro anche le nostre frecce incendiarie, ma non quelle esplosive: rischiavamo di far saltare in aria tutto quanto, compresi noi. Le frecce hanno attivato alcuni baccelli e li hanno neutralizzati sul nascere, prima che potessero colpirci… ma non potevamo fare nulla contro quelli che ci colpivano dall’alto.
Con il Transito sgombero dai Pacificatori, abbiamo ripreso la nostra folle corsa verso le vie superficiali e superato una serie di raggi gialli ed abbaglianti che si attivavano al nostro passaggio, simili ad innocue colonne decorative ma mortali, decisamente più mortali. Il corpo di un Pacificatore morto è svanito all’improvviso, si è dissolto nel nulla al contatto col raggio. Abbiamo corso a zig-zag per evitarli, incitandoci a vicenda, e quando è svanita la zona delimitata dai raggi il pavimento dietro di noi ha cominciato a sbriciolarsi, trasformandosi in un enorme baccello che invece di fermarsi sembrava inseguirci, col solo intento di raggiungerci ed inghiottirci nel sottosuolo. Le scale per l’accesso alla strada distavano meno di cento metri e le abbiamo raggiunte nel più insperato dei miracoli. L’ultimo a saltare prima che il pavimento si disintegrasse del tutto è stato Gale, con la balestra stretta in una mano e l’altra a coprire uno squarcio sanguinante sul lato sinistro del collo.
Fuori, per le strade deserte, è ancora buio, anche se non manca poi molto all’arrivo dell’alba. La neve ha cominciato a cadere, lenta, e a ricoprire l’asfalto sotto i nostri piedi. Faceva freddo, ci muovevamo rapidi e ci guardavamo attorno circospetti, tesi e pronti a colpire al minimo accenno di allarme. Eravamo rimasti in pochi, eravamo debilitati, scossi e feriti, come Gale, e facilmente riconoscibili, come me e Peeta. I nostri manifesti da ricercati sembravano seguirci ad ogni angolo, ad ogni incrocio. I loro occhi sembravano scrutarci come se nascondessero gli obiettivi delle telecamere. Ho provato l’impulso di scagliare una freccia contro la mia stessa foto da ricercata, ma ho evitato: una freccia sarebbe stato un dettaglio difficile da non notare qui in mezzo. Chiunque, qui, sa chi è che ha la passione per le frecce, e non avrebbero impiegato che pochi secondi a capire chi l’aveva scagliata.
- So dove siamo! – ha soffiato Cressida ad un certo punto. – Riconosco queste strade.
Ci ha fatto segno di seguirla e, dopo aver attraversato un incrocio deserto, si è fatta strada lungo una via dall’aria cupa, semi abbandonata e poco raccomandabile. Non assomigliava per niente al resto delle vie della città; a smentire il tutto, le pazze vetrine dei negozi che abbiamo superato di corsa e su cui il nostro sguardo scivolava veloce. Cressida si è fermata davanti alla porta di un negozio che vendeva indumenti di pelliccia, ha bussato sul vetro smerigliato ed è rimasta in attesa, e noi dietro di lei.
La figura alta e slanciata che ha aperto aveva le sembianze di una donna gatto: non ho trovato altre parole per descrivere il suo volto magro, pesantemente ritoccato dalla chirurgia, ed i tatuaggi neri e arancioni che simulavano il manto di una tigre. Aveva persino i baffi. Si stringeva in una pelliccia tigrata arancione e, nonostante l’insieme disturbante, ne sono comunque rimasta affascinata.
Cressida l’ha chiamata Tigris, e questo nome ha richiamato qualcosa in me. Ma certo: gli Hunger Games. Ancora, di nuovo e sempre gli Hunger Games. Tigris era una stilista dei giochi, una delle più famose e iconiche; sono anni che si è ritirata dalla carriera stilistica, ma non avevo mai pensato che… cosa? A cos’è che non avevo pensato? A parte Cinna e Portia, gli unici stilisti che abbia mai conosciuto, non ho mai pensato nulla riguardo a questa professione in particolare. Non ho mai avuto attrazione ed interesse per cucito, tessuti e via dicendo. E di certo, la donna gatto che avevo davanti era l’ultima delle persone che avrei mai pensato di incontrare nel corso della mia assurda vita.
- Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Tigris – l’ha implorata Cressida.
La donna ci ha fatto entrare e, dopo aver chiuso di nuovo a chiave l’ingresso del negozio, ci ha condotti verso il retro; ha spostato un sacco di espositori straripanti di pellicce, ha sollevato un falso pannello del pavimento ed ha rivelato la botola che vi si celava sotto. Ha sollevato anche quella, mostrandoci il passaggio buio da seguire.
- Seguite la scala – ci ha detto con voce graffiante e roca; esattamente la voce che potrebbe avere un gatto se avesse la possibilità di parlare.
La scala ci ha portato in questa cantina semi buia ed umida, piena anch’essa di vecchie pellicce forse troppo fuori moda per essere esposte e vendute, ma per quanto buia e umida, almeno era sicura. Cressida ci ha detto che era un luogo sicuro approvato da Plutarch. Per quanto scomodo, era un posto in cui poter curare le ferite e riposare senza sentire la minaccia continua delle autorità, e senza avere una pattuglia di Pacificatori contro il collo.

Continuo a praticare la sutura sulla ferita finché anche l’ultimo punto non è stato applicato; taglio il filo, osservo la linea di punti frastagliata che è uscita fuori e penso che avrei potuto fare di meglio. Qualcun altro avrebbe saputo sicuramente fare di meglio, qualcuno con le nozioni necessarie e la competenza necessaria per ricucire la ferita di Gale. Stringo le labbra, demoralizzata.
- Non deve essere bella, Catnip, deve reggere – dice Gale, forse intuendo la linea dei miei pensieri. – Se regge, allora hai fatto un lavoro meraviglioso. Non mi lamenterò della cicatrice.
- Le cicatrici sono affascinanti – si intromette Peeta.
- Smettetela – dico in fretta.
Rimetto il kit di sutura all’interno della cassetta del pronto soccorso e recupero una garza pulita con cui coprire la ferita di Gale. Osservo con la coda dell’occhio Cressida e Pollux che, poco lontani, sistemano un mucchio di pellicce per trasformarle in letti provvisori. La cantina è davvero troppo umida ed il freddo, qui, riesce a penetrare senza alcun problema, quindi usare le pellicce come coperte non è per niente una brutta idea. Cressida aveva accennato ad istituire dei turni di guardia, ma non credo che li faremo: abbiamo tutti, chi più chi meno, bisogno di riposare come si deve. Inoltre, non penso che qualcuno verrà a cercarci proprio qui, sotto il pavimento di un dimenticato ed altrettanto fuori mano negozio di pelletteria. Pollux sembra essere della mia stessa idea: afferra una pelliccia, se la avvolge sul corpo e si sistema in un angolo, con la faccia rivolta verso la parete grigia. L’ho già visto fare altre volte, ma da altre persone: è il momento in cui ci si prepara ad accogliere il dolore per la perdita di un caro.
- Ho trovato un po' di antidolorifici – dico a Gale dopo avergli messo la benda. – Dovresti prenderli.
- Oppure no. Non sento dolore. Dormire sarà più che sufficiente.
Cinque minuti dopo, il suo russare riempie tutto lo spazio. È l’unico rumore che sento, a parte quello delle pellicce con cui Peeta sta trafficando e quello, lieve, che proviene da Pollux; ogni tanto tira su col naso ed io faccio di tutto per ignorarlo, per non fargli capire che so che sta piangendo il fratello morto. Faccio di tutto, compreso trafficare per l’ennesima volta all’interno della cassetta del pronto soccorso e, quando il suo contenuto resta impresso nella mia memoria, traffico con la scorta di cibo che siamo riusciti a salvare dalla fuga nel sottosuolo.
La mano di Peeta si posa sulla mia spalla. - Non vieni a dormire? – bisbiglia per non disturbare gli altri. Anche se, grazie al russare di Gale, il suo bisbiglio è di certo l’ultima cosa di cui si deve preoccupare.
- Solo un secondo – bisbiglio di rimando. Sollevo lo sguardo verso di lui ed è così che mi rendo conto che è ferito. – Peeta! Il tuo mento…
- Cosa? – si passa una mano sul lato destro del mento e sussulta appena. – Ah! Devo essermi fatto male prima… sono scivolato.
- Abbassati, per favore. Così lo pulisco.
- Non è niente, Katniss-
- Fallo decidere a me se non è niente! – esclamo. Lo afferro per un braccio e lo tiro giù, così è costretto ad assecondare i miei gesti.
- Va bene, va bene! Basta che non urli – si siede davanti a me e solleva la testa per mostrarmi la parte lesa.
È un’escoriazione che deve aver smesso di sanguinare da un bel pezzo, ormai, e come ha già detto Peeta non è nulla di che. Ma per oggi ho già visto troppo sangue e troppe morti per lasciar correre, così comincio a pulirla e a disinfettarla con la tintura e con la garza; non starei tranquilla, sapendo di non aver fatto nulla per evitargli un’infezione o peggio. Forse è una reazione esagerata, e sono sicura che lui la pensi allo stesso modo ma non dice nulla. Mi lascia fare, lascia che le mie mani si occupino di lui. Dopo un minuto, l’innocua escoriazione diventa ancora più innocua.
- Devi mantenerla pulita per evitare che si crei l’infezione – dico, sovrappensiero.
- So cos’è l’avvelenamento del sangue, Katniss – mi risponde lui, abbassando il viso. – Anche se mia madre non è una guaritrice.
In un istante svanisce tutto quanto: la cantina, Gale, Cressida e Pollux, la guerra e le persone che sono morte meno di un giorno fa. In un istante, grazie alla sua frase, veniamo di nuovo catapultati nella grotta dei nostri primi Hunger Games. C’è Peeta, mezzo morto e febbricitante a causa della ferita che Cato gli ha inflitto alla gamba, e ci sono io che cerco di pulirla e di disinfettarla con i pochi mezzi a mia disposizione: acqua, e foglie. Erano i giorni prima del festino, prima dell’attacco di altri ibridi, prima della nostra vittoria. Erano i giorni in cui l’idillio amoroso era solo una tattica di sopravvivenza. Erano i giorni in cui ho temuto di perderlo, di vederlo morire davanti ai miei occhi.

Temo ancora di vederlo morire davanti ai miei occhi.
Torno alla realtà e mi sforzo di distogliere gli occhi dal suo viso per posare la tintura disinfettante e chiudere la cassetta. Impiego tanto tempo per farlo, lo faccio per non fargli vedere il modo in cui le parole che mi ha rivolto mi hanno scossa. Ma forse lo ha capito già: rimango un libro aperto, io, un libro pronto per essere decifrato. E lui sa fin troppo bene come decifrarmi. No, forse non così troppo…
- Lo capirò se… se non vorrai più stare con me – gli confesso.
Mantengo lo sguardo basso, ma Peeta posa due dita sotto al mio mento per portarlo di nuovo in alto, davanti al suo. I suoi occhi mi stanno interrogando, silenziosi. – Per quale motivo non vorrei più stare con te?
- Per… - scuoto le spalle. – Per ciò che ti ho detto l’altra notte.
- Per ciò che- si interrompe, capendo anche lui. Inarca le sopracciglia e raddrizza la schiena. – Perché non vuoi avere altri figli?
Annuisco.
- Non è un buon motivo per lasciarti andare via.
- Ma tu ne vuoi, Peeta! – esclamo. Non mi interessa se stanno dormendo tutti. – L’ho capito, non sono stupida! E so che con me non portai mai averli. Io… non posso darti ciò che desideri. È un buon motivo per liberarti finalmente di me.
- Lascialo decidere a me questo.
- Peeta-
- Katniss, lasciami parlare – dice, alzando una mano. – Capisco il perché hai scelto di non avere altri bambini. Non è facile. Hai sofferto, stai ancora soffrendo. Stiamo soffrendo entrambi… ma devi capire che questa è una decisione che non puoi prendere da sola, e a cuor leggero.
- Non l’ho presa a cuor leggero-
- Quello che sto cercando di dirti è che avresti dovuto parlarmene prima, Katniss. Dovevi dirmelo. È questo che si fa tra marito e moglie: si parla. E tu hai sbagliato a non rendermi partecipe dei tuoi pensieri e delle tue decisioni. Ti sei sempre lamentata quando io e Haymitch avevamo dei punti di discussione di cui non eri subito messa al corrente… e per una volta, non stupirti quando qualcuno reagisce nello stesso modo alle tue notizie.
Ho continuato a mantenere il contatto visivo con i suoi occhi anche se, a mano a mano che proseguiva, il mio coraggio veniva meno. E mi vergogno di essere stata, ancora una volta, tanto egoista da pensare solo a me stessa, ai miei desideri e a tenere lontani da questi i desideri di Peeta, anche se sono tanto diversi. Anche se desideriamo cose diverse che non si realizzeranno mai. E vorrei tornare indietro, a ieri, prima di metterlo al corrente della mia decisione. Vorrei almeno avere la possibilità di diglielo con parole diverse… ma ormai è tutto inutile. So di averlo ferito e non basterà un semplice “mi dispiace” a sistemare le cose.
- Scusami – so che anche questo non servirà a molto.
- Non scusarti, Katniss. Ti ho perdonata ore fa. E questa – solleva la mano sinistra per mostrarmi l’anello che ha all’anulare, – ha ancora un significato per me. Finché la vedrai, saprai che non ho alcuna intenzione di lasciarti.
- Peeta… ma come-
- Non è questo il momento migliore per affrontare l’argomento, no? – dice stancamente. – Per quel che mi riguarda, domani potremmo essere belli che morti. E da morti, non dovremmo più preoccuparci di mettere al mondo dei bambini.
- I bambini nasceranno lo stesso, Peeta. Anche se moriremo. Non sarà la nostra morte ad impedire ai bambini di nascere. Stanno già nascendo…
- Non… non ti seguo. Che vuoi dire?
- Annie – il suo nome mi esce in un sussurro roco, a causa del magone che ha preso posto nella mia gola e che non riesco a mandare via. – Annie aspetta un bambino…
Una frase che genera sempre gioia adesso genera dolore, tristezza, pena. La tristezza prende posto anche sul viso di Peeta. – Oh, Katniss…
- Il suo bambino sta arrivando, ed io ho ucciso il suo papà…
- No! – esclama tra i denti, afferrando con slancio il mio viso. – Non è così, Katniss. Non. È. Così. Non sei stata tu a uccidere Finnick.
- Sono stata io! – pigolo, cercando di svicolare dalla sua presa. – Sono stata io, avevo l’Olo e l’ho azionato! L’ho ucciso, anche se sapevo che stava per avere un bambino…
- No, no… non è stata colpa tua. Non è stata colpa tua
Peeta mi abbraccia, mi stringe contro il suo corpo e preme la guancia contro i miei capelli. A parte questo, a parte stringermi, a parte circondarmi col suo calore, non fa altro per calmare il mio pianto ed i miei singhiozzi. Ed io non faccio nulla per calmarmi, anzi, faccio l’esatto contrario: questo pianto sembra essere alimentato proprio dalle sue rassicurazioni, dal suo conforto. E allora sfrutto il suo conforto, lo uso come valvola di sfogo per tutto ciò che è andato storto in questi giorni. Tutta la sofferenza e lo stress che si sono accumulati, tutto il dolore che sento per le persone che abbiamo perso… è tutto qui. Piango per Boggs, per Castor, per le sorelle Leeg e per Messalla. Piango per Finnick.
Piango per il figlio che non avrà mai la possibilità di conoscere.
Piango per il mondo in cui viviamo, che lascia morire tanti padri e costringe i loro figli a crescere come orfani.

 

I miei incubi pullulano di bambini, stavolta. Bambini che nascono, bambini che crescono, bambini che esplodono. Bambini che assistono alla morte dei loro genitori. Bambini che si assumono troppo presto responsabilità troppo grandi per la loro età. Bambini piccoli con le responsabilità di una persona adulta. Bambini che vengono sorteggiati alla mietitura. Bambini che sono costretti ad uccidere altri bambini.
Apro gli occhi, spossata e frastornata come se non avessi chiuso occhio, per ritrovarmi davanti il volto addormentato di Peeta. E guardarlo addormentato, così perso nella pace del sonno, mi riporta la sensazione di essere ancora all’interno del mio incubo. Nonostante i segni delle ferite, Peeta ha in tutto e per tutto l’aria e l’aspetto di un bambino addormentato. Un bambino troppo cresciuto che sta affrontando, a sua volta, i suoi incubi.
Scosto la pelliccia e cerco di mettermi a sedere senza movimenti bruschi, mi muovo il più lentamente possibile per evitare di svegliarlo. Il russare di Gale, anche se è diventato più leggero rispetto a prima, mi avverte che sta ancora dormendo. Due sagome informi poco distanti, immobili, mi dicono che anche Pollux e Cressida dormono della grossa. Non devono essere trascorse molte ore da quando siamo entrati in questa cantina; non c’è nessuna finestra per osservare il mondo che c’è al di fuori, e se anche ci fosse, l’unica cosa che potremmo vedere sarebbe il buio che circonda la zona di Transito. Lancio un’occhiata all’orologio che ho al polso, quello che hanno dato ad ognuno di noi insieme al resto della dotazione destinata ai soldati, e scopro di avere ragione. Non è ancora arrivato mezzogiorno: ho dormito meno di tre ore.
Strofino le palpebre chiuse con la punta delle dita, convinta come molte altre volte di non voler tornare a dormire per paura di sprofondare di nuovo nell’incubo pieno di bambini. Mi alzo, e ringrazio di aver tolto gli scarponi prima di coricarmi: il pavimento è gelido, il freddo penetra attraverso le calze, ma riesco a camminare senza fare rumore. Raggiungo silenziosamente il rubinetto e mi maledico subito dopo averlo aperto: l’acqua esce sputacchiando dai tubi, rischiando di svegliare tutti quanti. Riempio in fretta la borraccia che mi sono portata dietro e torno al mio posto dopo aver bevuto.
Camminare scalza non è stata una buona idea e adesso ho i piedi gelati. Prendo la pelliccia che ho usato come coperta fino ad ora e me la avvolgo intorno al corpo, seppellendo i piedi in un'altra pelliccia che ho davanti, una tra le tante che non abbiamo utilizzato.
Resto seduta per quelle che mi sembrano ore nella stessa e identica posizione, ascoltando i respiri regolari dei miei compagni che seguitano a dormire. Resto seduta nonostante stia scomoda, immersa nel ripercorrere le ore passate, le perdite subite, i baccelli che abbiamo azionato. Resto seduta, e penso che se è accaduto tutto questo lo devo solo a me stessa. A me stessa, e alle mie decisioni stupide e improvvise. È colpa mia se nove di noi sono morti, è colpa mia se ho scelto di seguire la mia testa e non gli ordini della Jackson, di sicuro una mente migliore della mia e una persona molto più capace nel gestire una situazione di emergenza come quella in cui ci trovavamo. Dirigerci verso la residenza presidenziale… ma cosa mi è saltato in mente?
Avrei dovuto agire come volevo all’inizio: cercare di rubare l’Olo a Boggs e poi fuggire da sola, senza nessuno che potesse seguire le mie tracce, e cercare di raggiungere il mio obiettivo con le mie sole forze. Non doveva seguirmi nessuno, all’inizio… poi Boggs è morto, e prima di morire ha trasferito il nulla osta di sicurezza dell’Olo a me. A me, non alla Jackson. Capisco che se ho inventato una balla del genere l’ho fatto solo perché, se avessi dato alla Jackson ciò che voleva, poi non avrei più avuto nessuna possibilità di andare via per uccidere Snow. Non ci sarei riuscita con l’Olo nelle sue mani. E non mi capacito di Cressida, di Peeta e degli altri che hanno retto la mia bugia aggiungendocene sopra delle altre.
A cosa ci porterà tutto questo?
Ho questa domanda impressa nella mente quando Cressida si sveglia, quando si alza e va a bere anche lei dal rubinetto sputacchiante. Ce l’ho ancora in testa quando, uno dopo l’altro, si svegliano anche Gale e Pollux. Ed è con il bacio con cui Peeta mi annuncia il suo risveglio, premuto contro il mio collo scoperto, che decido di dare voce ai miei dubbi e alle mie paure.
- Sapevamo che mentivi, Katniss – dice Cressida quando ho spiegato loro tutta la questione. – E lo sapeva anche la Jackson. Lo sapevano tutti.
- Ma allora…
- Perché ti abbiamo seguito nonostante sapessimo dell’inesistenza di questo piano? – Cressida sorride. – Katniss, chiunque di noi avrebbe fatto qualsiasi cosa tu ci avessi ordinato di fare. E senza battere ciglio.
- Non ha ancora capito l’effetto che è capace di scatenare – commenta Gale. Mi osserva stando a braccia incrociate, e solleva le sopracciglia, divertito.
- Non l’ha mai capito davvero. E glielo dico da più di un anno – aggiunge Peeta.
Sospiro, porto le mani sulla fronte e scuoto la testa. Non mi sono di nessun aiuto con i loro commenti ammiccanti. Katniss di qua, Katniss di là, Katniss che è la meraviglia di Panem, Katniss che è capace di smuovere una popolazione intera… io non sono così, io non sono nulla di tutto ciò. Io sono capace solo di portare dolore, disperazione e morte a chi mi circonda.
- Dove pensate che ci porterà tutto questo? – esprimo, finalmente, la domanda che si è fissata come un tatuaggio all’interno della mia memoria. – Cosa dovremmo fare adesso?
- Continueremo il tuo piano, Katniss – è la risposta, ovvia, di Cressida. – Ci troviamo a meno di tre chilometri dalla villa del presidente.

   
 
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