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Autore: Persej Combe    08/08/2021    1 recensioni
Volevo soltanto sapere come stai, se nel frattempo sei riuscita ad alzarti dal letto. Che te ne pare di Kanto? Spero che le cose laggiù da quel Bill vadano bene.
Non mi ricordo, con quale Pokémon avevi detto che si era fuso? ...Ah, sì, ecco. Un Clefairy. Beh, se è così allora immagino che andrete d’accordo...

[Aetherskullshipping]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Guzman, Iridio, Plumeria, Samina
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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C a p i t o l o   5 :  A l   v a r c o
 
 
 
 
 
  Guzman con le donne aveva sempre avuto un rapporto altalenante. Plumeria però era diversa, e spesso si ritrovava a dirle che in realtà era un uomo come lui, a volte per il semplice gusto di farla incazzare, ma in realtà in certi momenti ci credeva veramente. Adorava questa donna tanto decisa e ferma, salda ai propri principi e carica di una forza dirompente, ostinata, la trovava così terribilmente virile, e in questa sua virilità si rispecchiava, vi trovava un punto d’incontro viscerale e intimo sebbene talvolta si ritrovasse a invidiarla.
  Nel corso degli anni avevano sempre avuto questo legame avulso da qualunque schema gli si sarebbe potuto apporre, pur coltivando separatamente i loro amori senza mai renderne conto all’uno o all’altra, se non quando c’era bisogno di ragionarci sopra, di capire un sentimento, superare una rottura; un appartenersi a vicenda che nella propria consapevolezza non sfociava mai in dipendenza, come invece accadeva spesso a Guzman nel momento in cui si intratteneva con qualche donna. Plumeria era la sua base sicura.
  Ancora spossato dal sonno e dal piacere, egli si trattenne a guardare la pelle nuda e bruna di lei, ne sentiva l’odore tutt’attorno e nei ricordi la vedeva tendersi e piegarsi, appena percettibile sotto lo spiraglio di uno spicchio di luna. Quella notte non era stato prestante come al solito, e il motivo era che tra le striature di una ciocca di capelli, nelle curve dei suoi seni, talvolta involontariamente vi aveva apposto l’immagine di Samina, la stessa che accogliendolo al proprio petto non gli aveva concesso il proprio bacio mentre intanto con le gambe si attorcigliava alle sue. Il pensiero di desiderarla martellò sulle sue tempie contratte nello sforzo di scacciarla, soltanto un attimo, perché per un motivo che non sapeva spiegarsi a parole ne era asfissiato, e tuttavia solo aggrappandosi a lei sapeva che avrebbe tratto il respiro.
  Gli veniva da piangere – ma il grande Guzman non piange mai. 
  Il sole del primo mattino penetrava dalla finestra abbagliando la stanza a soqquadro, le lenzuola accartocciate, i peluche caduti a terra. Un bagliore si poggiò di riflesso contro la finestra sopra il viso di Plumeria. Guzman vide le sue palpebre fremere con le ciglia che scivolavano sopra le guance e i suoi occhi aprirsi nel risveglio.
  Plumeria si distese su un fianco e portandosi indietro i capelli gli rivolse una smorfia sonnolenta, che aveva però la freschezza di un sorriso. Lo salutò, si avvolse nelle coperte e rimase a guardarlo dal basso raggomitolata al cuscino. Guzman poteva percepire la sagoma dei suoi fianchi oltre le lenzuola e sebbene altre volte ne avrebbe approfittato senza tirarsi indietro, oggi invece c’era questo senso di smarrimento che lo paralizzava – ecco ancora i fianchi di Samina oscillare sul materasso, visione mai veduta eppure inconsapevolmente alimentata ogni notte; l’illusione gli diede la nausea, eppure, di nuovo, allo stesso tempo lo stregava.
  «Va meglio adesso?» chiese Plumeria stirando la schiena. Allungò la mano a raccogliere il pigiama.
  Guzman però non la sentiva né la guardava.
  «Oggi rapiamo la ragazzina», disse.
  La spalle di Plumeria ebbero un sussulto. Ella si volse a fissarlo.
  «Mi serve il suo Pokémon. Dobbiamo aprire il portale per l’Ultramondo, io e Samina».
  Guzman non le aveva mai confidato nei dettagli in che cosa consistessero i suoi servizi per Samina, né l’esistenza delle Ultracreature, di quell’universo sconfinato e astruso che gli si era rivelato una volta messo piede nell’Æther Paradise. Si era generalmente appigliato a dipingerle un’alleanza di convenienza, talvolta un consulto, una compagnia di cui potesse avere bisogno una donna sola. Prese quindi, con la voce che vibrava dentro la gola, ancora arrochita e profonda, a snocciolare qualunque cosa gli apparisse nella mente, i risvolti segreti che erano dietro la fuga di Iridio, la scomparsa di Paver, i Pokémon rubati e quelli dentro le teche – che freddo, che freddo all’improvviso, a stare nudi senza potersi più coprire nelle proprie certezze idealizzate – le vomitò il terrore e insieme l’ossessione palpitante che lo scuoteva al pensiero di poter schiudere finalmente lo squarcio nel cielo stellato che tante volte aveva scrutato dai monitor, il tunnel verso l’infinito che vi si intravedeva dentro.
  Plumeria ascoltava, seduta accanto a lui, e le sue unghie si aggrappavano talvolta alle lenzuola con tale forza che i suoi polpastrelli sbiancavano. Guzman vedeva le sue mani, ma non riusciva a distinguerle dal flusso di immagini che ormai aveva preso a scorrere davanti ai suoi occhi. Soltanto quando si sollevarono a strattonarlo per una spalla ritornò con fermezza al presente, e allora si accorse dell’espressione contratta di lei, la piega asciutta che le prosciugava la bocca carnosa.
  «Guzman» e il fatto che lo chiamasse per nome completo mentre erano a letto esprimeva la gravità della situazione. «Stai delirando. Quella donna...».
  Ma proprio mentr’egli si concentrava ad ascoltare la sua voce, dalla biancheria si sollevava una medusa bianca, ed era all’improvviso immerso da solo nel buio; gli pareva che il suo ombrello rilucesse di una luce misteriosa da cui era attratto. Provò ad allungare una mano per afferrarla, ma le dita di Plumeria furono più rapide nel trattenerlo.
  «Ho detto tutto a Iridio».
  Guzman ebbe bisogno di qualche istante per realizzare, come se si fosse per un attimo, un’altra volta, dissociato da tutto.
  «Ti avevo espressamente detto di non fargliene parola!».
  «Parliamoci chiaro, Guzman, quella donna ti sta palesemente sfruttando! La situazione ti è sfuggita di mano da un pezzo, e io mi rifiuto di prendere parte alle tue stronzate! L’ho già fatto troppe volte, se non ci arrivi da solo io non so come fartelo capire!».
  Un rifiuto. La chiusura che trapelava dal suo tono austero mise Guzman sulle difensive, cominciarono a urlare e a litigare, ed egli non poteva accettare che lei per una volta si astenesse dall’offrirgli il suo aiuto, e per quale motivo proprio adesso te ne vai? Non lo vedi che io soffro, che non ho idea di cosa dovrei fare? Perché mi fai questo? Non avevi detto, non avevi fatto, non avevi, tu...?
  Poi, l’ultima sentenza, perentoria: «Ti ho già detto che non sono una madre!».
  Plumeria lo cacciò dalla stanza gridandogli di andarsene. Oltre la porta chiusa battevano i peluche che gli lanciava contro per mandarlo via. Guzman ascoltò le sue imprecazioni finché non ne fu saturo. Soltanto quando la sua voce si fu affievolita a spezzettarsi in singhiozzi trovò la forza di incamminarsi lungo il corridoio. Pareva insolitamente tetro, quella mattina, più di quanto la Villa Losca in realtà non fosse. Nelle orecchie gli rimbombava a ogni passo il battito del cuore affannato dallo sforzo di mantenere la calma, e procedeva a tentoni per una strada che all’improvviso gli sembrava sconosciuta. Più avanzava lungo il corridoio e più aveva la percezione di precipitare in un abisso di pensieri malsani, un mulinello di rancore e angoscia lo trascinava in basso alla radice di una rabbia ineluttabile, che cresceva e cresceva.
  In quel momento Guzman provava una profonda collera, ma non era né per Plumeria, né per Samina. Germinava come una corona di rovi intorno alla sua fronte un fastidio martellante verso sé stesso. Raggiunse in qualche modo la cima della scalinata oltre cui si trovava la sua stanza. Ad un tratto vide, non seppe come, le sue dita macchiate di sangue e i tagli sulle mani, le bottiglie sparse a terra sfracellate e scagliate lontano dalla libreria. Bestemmiò e intanto il dolore che gli soffocava i palmi e le nocche bruciava sempre più forte e concreto. Respirò pesantemente percependo l’odore del proprio sangue affiorare fin dentro alle narici, mentre in fondo alla gola prudeva il pianto che non riusciva a sfogare dagli occhi troppo presi dalla visione dei rivoli rossi, dei vetri sparsi a terra, dei vetri sparsi a terra, i legni e i ferri fatti a pezzi – ma quando, questo, quest’immagine sovrapposta, quando? In un tempo impensabile che si era convinto di aver cancellato.
  E stava meglio. Intanto che l’adrenalina lo abbandonava e le sue braccia si facevano pesanti, tornava a percepire una quiete inviolata, che gli alleggeriva la testa, e i pensieri ora vuoti, dissolti nella furia, scomparsi. Il dolore acquisiva un senso, una percezione tangibile agli occhi. La rassicurazione di un qualcosa che poteva essere spiegato, analizzato, gestito, risolto.
  Si pulì le ferite come poté, e tolse da solo i vetri dalla carne, quelli che riusciva a vedere, gli altri li sentiva sotto la cute bruciare in una maniera terribile, ma erano talmente piccoli, talmente profondi, che non era in grado di rimuoverli. Quindi ve li lasciò, e per nascondere tutto coprì le mani nelle bende. Se le fissava avvolte nella garza con un senso di incantamento, rigirandole a poco a poco. Non c’era più niente – solo le guance ancora umide, seppur gli occhi asciutti; come ci si sente dopo aver sfogato un tormento.
  Tornò sui propri passi, rianalizzando ciò che si era detto di fare e che aveva dimenticato. Lentamente ricordò, rabbrividì nel riportare alla mente le immagini dell’Ultravarco, e decise che sarebbe andato a prendere Cosmog da sé.
  Non appena uscì dalla villa incrociò lo sguardo di Plumeria che stava facendo l’ennesima ramanzina alle reclute più giovani. Si era accorta delle sue mani fasciate e aveva già capito, Guzman glielo leggeva negli occhi fattisi improvvisamente torvi; ritrasse rapidamente le dita dentro alle tasche, che non voleva farsi vedere anche dagli altri.
  Plumeria gli si accostò, fissando con insistenza là dove era andato a riparare le mani. Guzman non riusciva a decifrare il suo stato d’animo – come attonita o delusa. Spaventata.
  «Ti aiuto», gli disse «Ma devi promettermi che una volta portata la ragazzina col Pokémon, tu chiudi qui la faccenda. Se Samina vuole andare nell’Ultramondo, qualsiasi cosa sia, che ci vada da sola. Tu ti sei già sacrificato abbastanza, non puoi permetterle di rovinarti».
  «D’accordo, Plum».
  «Guardami negli occhi quando lo dici».
  Guzman non poteva arrivare a prometterle una cosa del genere, perché ormai dentro di sé aveva già preso una decisione. Ma il suo aiuto era fondamentale, e per la benevolenza di Samina – continuare ad annichilirsi dentro il suo sentimento non corrisposto rimaneva l’unica consolazione – si spinse persino a rompere il legame che aveva con lei.
  «Te lo prometto».


  Guzman sedeva sul proprio trono annoiato, con Yungoos sulle ginocchia, lo teneva nella mano e lo accarezzava, lo stritolava al ricordo di un qualcosa passato che però non voleva schiudere – la sua prima lotta. Proprio ora che stava giungendo la fine e ne sentiva scorrere gli attimi, tornava da capo all’inizio, all’albore di un vita stentata e inconcludente. Yungoos guaiva, i suoi occhi si facevano grandi e lacrimosi, brillavano di una lucentezza terrorizzante come pietra cristallina, e questa era purezza.
  «Non sono mai stato puro», si disse. Un memento.
  Sun apparve a riprendersi la mangusta. Si compieva uno scambio a sua insaputa, e pure sconfitto Guzman rideva, rideva mentre lui se ne andava.
  Poco dopo Plumeria fece il suo ingresso accompagnata dalle reclute che schiamazzavano e ghignavano sbeffeggiando il bottino conquistato. Guzman sollevò la schiena dal suo trono e spingendosi in avanti fissò Lylia, la pelle pallida come una bambola di porcellana, fragile, graziosa – la copia in miniatura di Samina. Di nuovo quell’impressione che aveva già avuto nel loro primo incontro gli si rifece concreta, intanto che la guardava intrappolata per un braccio nella morsa di Plumeria – una Salazzle che avesse appena agguantato la sua vittima e si divertisse a frustrarla. Guzman vedeva però negli occhi della compagna che lo sguardo affettato e minaccioso che le stava rivolgendo era una montatura, e si capiva dalla maniera in cui talvolta era colta in fallo ad allentare il controllo sulla ragazzina, cui concedeva per un istante di sfogarsi. Poi Plumeria faceva la voce grossa: «Ti ho detto di farlo uscire, hai capito sì o no?», e tornava a strattonarla.
  Lylia si dimenava trattenendo le lacrime, le sue guance rosse s’infiammavano sempre più nello sforzo di resistere alle loro imprecazioni. A Guzman ricordava tanto Samina, la sera in cui era scoppiata a piangere e gli era sembrata una bambina sola. Forse anche per questo esitava e si asteneva dall’intervenire. Poi però:
  «Lylia» la chiamò a un tratto. «Non vogliamo farti del male».
  Le si accostò cercando di dimostrarsi conciliante, ma nonostante questo la vide bloccarsi e guardarlo spaurita, con questi occhi grandi e verdi che erano anche quelli di Iridio. Ricordò la sensazione che lo aveva colto assieme a lui sul tetto – paterno, il ruolo che non gli apparteneva e che era di Paver. Fitte lancinanti lo colpirono alle mani, e Guzman dovette portarvi conforto riparandole dietro la schiena a massaggiarle.
  «Non vogliamo farti del male», ripeté, cercando intanto di ignorare il dolore che gli veniva al pensiero del sangue e dei vetri. 
  «E allora lasciatemi stare!» gridò con voce acuta lei.
  La borsa oscillò contro il suo fianco e si udì il verso del Pokémon tintinnare in segno di protesta. Subito Lylia portò il braccio libero a proteggere l’apertura della tracolla premendovi sopra con forza. Plumeria le diede uno strattone.
  «Lasciala, Plum», disse «Ci parlo io».
  Plumeria si voltò sorpresa verso di lui. Liberò la ragazzina poco dopo. Lylia si portò le dita ad accarezzarsi il polso. Appena Guzman si chinò a scrutarla però tornò a proteggere con cura la sua borsa e se la strinse al petto – una cura materna, che a Samina ormai non apparteneva più e che tuttavia da lei in qualche modo doveva aver appreso.
  «Senti un po’, farfallina», e dava davvero l’impressione angosciante di una farfalla bianca che tremi nella rete di un ragno «Mi dispiace per l’accoglienza indelicata. Certo, con Kukui devi esserti abituata bene. C’è solo una cosa da te che vogliamo ed è Cosmog».
  «Nebulino, il suo nome è Nebulino! Voi adulti non sapete fare altro che cancellare i nomi degli altri! Le loro identità!».
 Per qualche ragione tanta sincerità espressa in una frase così semplice lo colpì. Lasciò quindi vagare pensoso gli occhi per un poco, mentre rifletteva, e nello stesso istante si riconobbe dentro lo specchio che stava dietro di loro. La chioma di Lylia prese a crescere e ad allungarsi fino a prendere la forma di quelli di Samina ed egli si rivide di fronte a lei, mentre si spogliava e poi percepiva le sue mani accomodare le pieghe di Paver sopra le spalle, sagomandole a inglobare i suoi interi contorni. La sofferenza prolungata che si acuiva sopra i palmi gli rese l’immagine nello specchio rifratta e spezzata in un ammasso senza senso che erano i vetri rotti distrutti quella mattina, e gli parve di scoprire sé stesso in lacrime, dissolto in tante facce, abominevole. Agguantò d’istinto la ragazzina per le spalle.
  «Adesso però mi hai proprio rotto!» sibilò.
  Lylia tentò di liberarsi, si lasciò sfuggire un grido spaventato. Senza rendersene conto Guzman stava conficcando a forza le dita contro la sua pelle – quanto era gracile anche lei, sottile, indifesa, ma di una grazia che Vicio non avrebbe avuto mai.
  Guzman, che diamine combini?
  Si fermò, subito si rivolse agli altri.
  «Plumeria, prendile la borsa, tiralo fuori!».
  Cosmog schizzò fuori seguito da una cascata di scintille, brillava tra i fumi dei suoi aloni gassosi con una lucentezza fatata. Le reclute si affrettarono a rincorrere il Pokémon, se lo passarono di mano in mano. Plumeria lo racchiuse nelle proprie dita. Ormai era fatta.


  Prima Yungoos, ora Cosmog. Era come se nelle mani stringesse i fili di un prima e di un dopo, i nessi che lo avevano legato alle persone che aveva incontrato lungo il tempo – ancora dolevano e prudevano, e Guzman lo interpretava come un qualche tipo di punizione, e non capiva per quale ragione proprio adesso doveva ritornargli tutto addosso. Tratteneva la creatura nel palmo per uno dei suoi bracci, percependo la pelle solleticare mentre i suoi vapori fluivano caldi verso l’alto.
  Cantava. Ininterrottamente cantava con quella sua vocina stridula di campanelli stonati, come che anziché provare soggezione si divertisse nell’essere trattenuto dalla sua presa violenta, ma in realtà tremolante, nervosa e insicura, poi piegava la testa a guardare l’espressione seccata di Guzman e sorrideva. Lui ricambiava la sua occhiata per un breve istante e distoglieva lo sguardo, esasperato da quella gioia prorompente, fastidiosa. Cosmog era di fatto una piccola palletta fluttuante e fastidiosa, nel suo complesso, ai suoi occhi ora che l’osservava da vicino. E si chiedeva scettico se davvero un essere del genere, che Samina gli aveva dipinto come meraviglioso, incredibile, fantastico, possedesse il potere di evocare il portale per l’Ultramondo.
  Proprio mentre pensava a lei, la vide aprire la portiera del velivolo che aveva inviato loro dalla fondazione per recuperarli alla Villa Losca e raggiungerlo.
  «L’hai preso», disse, e i suoi occhi si rischiararono di cupidigia, allungò le mani a toccare Cosmog, che però spaventato si rincantucciò contro Guzman.
   «Tra poco, insieme...».
  Intanto Plumeria usciva dall’abitacolo trascinandosi Lylia da parte. Le reclute che avevano voluto unirsi alla missione la seguirono fuori, vennero accolte con sufficienza dagli scienziati Æther, impettiti con le solite visiere impenetrabili a mascherare i volti. Strappato dalle dita di Guzman senza preavviso, Cosmog venne costretto a forza nelle catene e intrappolato nella gabbia per lui progettata, sotto gli occhi impotenti della ragazzina che intanto guardava la scena in silenzio, ormai fin troppo satura per potersi spingere a ribellarsi ancora.
  Egli intanto, ascoltando in sottofondo lo strepitio del Pokémon imprigionato, cominciava a provare una leggera apprensione mentre osservava Plumeria rivolgersi per la prima volta a Samina, e viceversa. Le loro figure cozzavano senza che potessero trovare una conciliazione, e Guzman si ritrovava a soppesare le loro voci, i loro toni, a riconoscerne le cadenze che risultavano assieme e che singolarmente non era finora stato in grado di individuare. C’era una freddezza meccanica, nelle loro parole, una ostilità malcelata nell’indifferenza con cui si scrutavano, Samina dall’alto del suo privilegio, Plumeria dal basso nel suo orgoglio più umile e spartano. Tra di loro la bambina, avviluppata, schiacciata, nelle loro dita, costretta con lo sguardo a terra, silenziosa, arrendevole. Per pietà Guzman la prese e la portò via.
  La condusse nella stanza di Samina. La lasciò accomodarsi e avrebbe scommesso che sarebbe scoppiata a piangere non appena avrebbe richiuso la porta dietro di loro, invece Lylia resisteva, con un coraggio ostinato, più grande e saldo di quanto Guzman avrebbe potuto immaginare in un corpo così piccolo. E da una parte pensava che forse, l’essere ricondotta in questo modo alla residenza non fosse in realtà per lei cosa insolita, che anzi, nella calma con cui si accovacciava sul letto, tutta composta, precisa, ci fosse invece una consuetudine, una monotonia messa in atto con un ritmo cadenzato da battute ben definite e consapevoli.
  Fu probabilmente perché in soggezione per questo autocontrollo quasi sterile, impassibile, in un frangente di pericolo e disperazione, che senza riflettere le disse che sarebbe rimasto a fare da guardia e che sarebbe stato meglio per lei non muoversi, men che meno tentare di scappare. Non ebbe in risposta alcuna reazione.
  Cominciò quindi uno scontro teso, di un silenzio prolungato ed estenuante, finché:
  «Questi, sai, li ho scelti per lei».
  Lylia si stringeva nelle piccole dita i lembi della gonna, si allisciava i vestiti, per noia si avvoltolava i veli e i nastri tra le mani. Guardò Guzman, di una occhiata lunga e prudente. Egli la fissava, seduto alla toeletta, a cavalcioni sulla sedia, le braccia incrociate sopra la spalliera, stanco.
  «Anche tu hai indossato abiti non tuoi. E lo hai fatto per lei», sentenziò Lylia, la voce ferma, piatta.
  Guzman rabbrividì. Sedeva di fatto lì dove erano stati quel giorno i panni di Paver, le spoglie con cui si era travestito a rubare il suo posto.
  «Non è vero», disse «Non è vero, non sono stato io a sceglierli».
  «Ma anche così, l’averlo scelto o meno avrebbe davvero importanza? Lo abbiamo fatto, e questo è ciò che rimane».
  Scorsero nella mente come visioni lontane gli abiti consumati da ragazzino, le polo appese ad asciugare al sole nel giardino coi giochi, i pesci nella lavatrice, le tute slargate, rattoppate, sfilacciate, un nodo alla gola, il letto di Samina, le gambe intrecciate.
  «È per questa ragione che prima hai avuto paura. E mi hai aggredita».
  «Zitta! Zitta, stai zitta!».
  Il pianto che non era riuscito a far affiorare quella mattina sembrava tornare di prepotenza a gonfiargli il petto, e sentiva che adesso fluiva senza che potesse porvi un freno. Nel sollevare gli occhi si avvide tuttavia che in realtà a piangere era lei, e che, nello stringersi a lui, lo sosteneva.
  «Per favore, restituiscimi Nebulino», gli chiese, con espressione lucida e commossa.
  Samina venne poco dopo; Guzman si ritrasse, si congedò, e oltrepassò la porta coi singhiozzi della bambina che ronzavano nell’orecchio, mentre sentiva sua madre parlare e chiamarla figlia degenere.
  Uscito dalla villa sorprese Plumeria rannicchiata con le gambe scomposte su un gradino dirimpetto al piazzale, e rifletteva tra sé e sé a voce sul modo in cui Samina dava gli ordini, su quel suo fare autoritario nei confronti dei suoi, imperturbabile, come avesse sotto controllo qualunque cosa nelle proprie dita, potente. Ella si accorse della sua presenza, si tirò in piedi e lo squadrò.
  «Adesso capisco per quale motivo sei così attratto da quella donna», disse. «Lei è tutto quello che vorresti essere tu».
  Guzman tacque, e sebbene non ci avesse mai pensato davvero prima d’ora, sembrava che Plumeria avesse centrato il punto.
  «Beh, basta», disse ancora lei all’improvviso saltando giù dalla scalinata «Quello che dovevo fare l’ho fatto. Adesso sta a te. Io me ne vado, questo posto mi dà la nausea. Voi, forza, alzatevi!».
  Ma le reclute volevano rimanere con Guzman, allettate e ringalluzzite dal compito importante che gli era stato chiesto di svolgere. Plumeria ebbe da ribattere, ma capendo che ormai non c’era più nulla da fare rinunciò: «Come vi pare», concluse, e si avviò lungo il viale assolato, che bruciava sotto il sole in tutta la sua aridità. Guzman la guardò allontanarsi. Rimase a fissarla finché non raggiunse l’ascensore. Plumeria non si voltò. Gli rimase soltanto l’immagine della sua schiena contratta dalla rabbia – ed era così diversa da quella sinuosa che aveva intravisto nella notte.
  Samina era riapparsa alla porta. L’aveva richiamato dentro e Guzman aveva dovuto abbandonare le reclute a sé stesse, intimando loro di stare in allerta e tenere la guardia, che un contrattacco sarebbe sicuramente avvenuto e sarebbe stato imminente.
  Arrivati in salotto, Samina chiese a Guzman di sedersi sul divano. Prima d’ora in quella casa erano sempre stati da soli, completamente saturi l’uno in compagnia dell’altra, adesso invece non era possibile ignorare la presenza degli scagnozzi di fuori – e di là, chiusa in stanza, Guzman credeva di udire ancora la ragazzina singhiozzare, i suoi sospiri stanchi e disillusi.
  «Lasciami guarire le tue ferite», disse lei, cominciando a svolgere le bende sulle sue mani. Guzman si sentì denudare a mostrare una vergogna, una debolezza che ella non doveva svelare. Non appena il primo taglio venne scoperto, ritrasse istintivamente le dita.
  «Io non volevo...» disse.
  «Sst», lo zittì lei, rassicurante. Guzman cedette.
  Samina prese ad accarezzare i lividi sulle sue nocche, scorrendo lungo l’intero dorso di una mano. Guzman sentiva che lì dove la pelle si era scorticata ancora bruciava a contatto con l’aria, e il sangue rappreso lo raccapricciava. Ma lei invece esplorava con solerzia ogni rossore, e vi portava conforto col proprio tocco leggero. Mentre gli rigirava il palmo, nel distendersi della carne una ferita si riaprì. Samina si portò la sua mano alle labbra e ve la premette sopra. L’estrema dedizione con cui si curava di lui lo impietosiva, e assieme si sentiva commosso, restò con il fiato mozzato a scrutare il sacrificio di ungersi la bocca col suo stesso sangue. Sentì che in quel modo si sugellava un patto vitale tra di loro. Mentre lei premeva la bocca, poteva sfiorarle con le dita la guancia e i capelli, e la delicatezza di quella visione lo colpì al punto da arrivare a trovare qualcosa di disgustoso sensuale, e non capiva più nulla, nell’apice della follia cui Samina si dimostrava capace di condurlo.
  A un tratto, lo scoppio improvviso del pianto della bambina lo distolse dalle malizie di Samina, e si tirò indietro, piegò un poco la testa ad ascoltare quel lamento.
  «Forse dovremmo...», tentò di dire.
  Si accorse che Samina lo fissava, probabilmente attendendo che finisse di parlare. Nel vedere la sua bocca sporca di una chiazza rossastra, gli parve per un attimo di scorgerla adesso sotto una luce maligna, come una vampira che succhi sangue.
  Lo schiamazzo crescente delle reclute fuori, intanto, lo richiamava ancora a distogliere la mente da quei suoi vagheggiamenti. Samina terminò di medicarlo, gli richiuse rapidamente le bende.
  «Va’», gli disse «Di Lylia mi occupo io».
  Guzman avrebbe voluto dirle di non essere cattiva, ma tacque anche quello. Si diresse all’ingresso e varcata la porta notò all’orizzonte una certa confusione tra i suoi scagnozzi, che si erano fatti più agitati.
  «Che diavolo vi prende?».
  «Iridio, Guzman! Sta arrivando insieme a due ragazzini!».
  «Due ragazzini?».
  «I suoi amichetti, il nipote di Hala e quell’altro figlioccio di Kukui».
  Guzman vide per un attimo l’immagine di Hala e di Kukui materializzarsi davanti ai propri occhi, e pensò che l’avrebbe fatta finita, che l’apertura dell’Ultravarco gli avrebbe dato finalmente quel senso di riscatto che da anni ricercava. Ma bisognava stare attenti e non abbassare la guardia.
  «Quelli della Æther che fanno?».
  «Se ne sta occupando Vicio. Guzman, che cosa facciamo noi?».
  Di Vicio Guzman non poteva fidarsi e poi non aveva messo in conto che Ciceria senza dubbio sarebbe stata dalla parte dei ragazzini, troppo buona per sottostare alle violenze di quel giorno. Non bastò neppure il tempo per elaborare una strategia, che già in lontananza si apriva l’ingresso al piano e tre figure minute facevano la loro entrata nel piazzale.
  «Quel coglione di Vicio», sibilò Guzman tra i denti. Poi vide Iridio che sollevava la testa a guardarsi intorno con gli occhi infuocati. Incrociò il suo sguardo e si atteggiò sopra la scalinata preparandosi a fronteggiarlo. Iridio correva verso di lui, e nei suoi pugni serrati Guzman percepiva tutta l’ira che doveva scuoterlo dentro. Nello scontrarsi sempre più pressante dei loro occhi ebbe inizio la lotta.
  Tipo Zero uscì di volata dalla Sfera, schizzò a prendere la rincorsa nel piazzale bianco, ma Golisopod fu più rapido nel parare l’urto e gli oppose una feroce Schermaglia – la prima devastante impressione di cui Guzman adorava fare sfoggio nei suoi scontri. Iridio incitava a non cedere, Guzman rincarava la dose e Golisopod si faceva sempre più subdolo e prepotente. Lo scagliava lontano con le scintille che scoppiavano nello stridore delle loro armature che collidevano una addosso all’altra. Tipo Zero si riavvicinava ogni volta a frantumargli la corazza coi propri artigli acuminati, lo colpiva a testate, cozzando il metallo della propria museruola, disperatamente nello sforzo di urtarlo, di causargli dolore, stremato, col proprio stesso sangue che schizzava dalle fratture della maschera. Soltanto allora, sopraffatto dalle percosse, Golisopod parve tentennare. Per un attimo si ebbe una tregua, un momento di silenzio.
  «Prima scappi di casa...» rifletté Guzman ad alta voce «Poi entri a far parte del Team Skull per diventare più forte... E se ti fossi limitato a questo mi saresti pure andato a genio. Ma opporti così a tua madre è davvero troppo! Non sopporto chi non porta rispetto ai genitori!».
  Iridio batté un piede a terra, gli gridò: «Parli proprio tu che da tua madre non ci sei più tornato!».
  Sollevò un braccio a intimare Tipo Zero di tornare all’attacco. Il Pokémon si mosse sulle zampe affaticate dalla lotta. Golisopod tornava in posizione, mantenendo il sangue freddo, al contrario di Guzman che nel frattempo alzava la voce a esortarlo con rabbia, e forse erano proprio l’odio e lo sconcerto nella realizzazione di essere entrambi due scappati di casa e nient’altro, con aspirazioni che non avrebbero portato che a una completa disfatta.
  Tanto opprimenti erano la furia e la stanchezza che bastò un ultimo colpo ad atterrare Tipo Zero, e Guzman distrusse le speranze di Iridio con la stessa facilità con cui avrebbe potuto sbriciolare della terra infeconda nelle dita. Il Pokémon si contorse sotto la mole di Golisopod, sforzandosi di liberarsi, fiatava, graffiava. La museruola, rotta e consumata, traballava sul suo muso tra le giunture pericolanti e instabili. Un ultimo sibilo vi spirò prima che perdesse completamente i sensi. Tipo Zero si accasciò a terra urtando di peso sul pavimento imbrattato di sangue e sudore. Golisopod scostò con lentezza gli artigli affilati, e Guzman si sorprese della gentilezza di quel gesto, come volesse accompagnarlo a ricadere sul suolo senza arrecargli altro dolore o umiliazione. Si rivolse a Iridio e lo vide tremare, visibilmente scosso dalla disfatta, mentre si cacciava un braccio a coprire gli occhi.
  «Tutti questi anni di solitudine non mi hanno portato a niente...», lo sentì mormorare da lontano con la voce soffocata, e quelle parole risuonarono acute anche dentro di lui. Man mano che si liberava della tensione dello scontro, Guzman si soffermava con sempre maggiore attenzione su questa immagine triste, di un Iridio insolitamente fragile. Gli parve di rispecchiarsi nelle lumeggiature dei suoi capelli biondi, per un attimo bruni e scarmigliati, e di rivedersi coi vestiti strappati e Wimpod tra le braccia. Golisopod si stava intanto affiancando per farsi rimettere in sesto: nella fiacchezza con cui si piegava verso di lui a ricevere le sue cure, Guzman ebbe come la sensazione che il suo Pokémon stesse pensando la stessa cosa. Mentre passava una mano a saggiare gli squarci sulla sua corazza provò una fitta conosciuta, ed era quella assopita del sentimento della solitudine, che tanto tempo addietro li aveva legati indissolubilmente. Nelle orecchie riecheggiava il pianto di Lylia, e gli occhi lucidi di lei erano gli stessi di Iridio ora.
  In quel momento accorse Sun, con il suo Decidueye già pronto fuori dalla Poké Ball a vendicare il compagno. Nel momento in cui posò gli occhi sull’arco e sulle frecce del Pokémon, Guzman avvertì un capogiro, e sapeva già che di fronte ai suoi dardi infuocati Golisopod sarebbe stato di nuovo incapace di difendersi. Accolse tuttavia il ragazzino coi migliori ossequi, sfogando tutta la violenza di cui potesse essere capace. Nella foga dello scontro percepì nel proprio respiro affannoso l’ira passata che lo aveva invaso di fronte a Kukui, nelle lotte senza soluzione – gli somigliava. Lungo il nastro consumato che si riavvolgeva in continuazione quel giorno al suo sguardo, una malinconia crescente lo colpiva a tratti nel petto, e gli sembrava sempre di più che presto avrebbe detto addio a tutto quanto. Non si risparmiò, neppure nei frangenti più critici, di fronte alle mosse più subdole. Sollevava le braccia come a scagliare lui stesso i colpi, prendendo la mira e ruotando tutto il corpo ad accompagnare l’attacco in backswing, e si sentiva leggiadro col sangue che pompava al cervello e gli dava alla testa. Non bastò.
  Richiamò a sé Golisopod e si fece di lato a lasciar passare il ragazzino: mentre correva dentro gridando il nome di Lylia, Guzman sorrise, ed era strano, un sorriso arrendevole, eppure soddisfatto. Iridio lo guardava, ancora immobile oltre il terreno di battaglia. Arrivò un altro bambino che Guzman non aveva mai visto prima, ma che dai tratti riuscì a ricollegare ad Hala.
  «Iridio! Va tutto bene?».
  «Lasciami perdere, Hau».
  «Smettila di fare l’altezzoso. Guarda che a me non la dai a bere. Aspetta, curo i tuoi Pokémon. Ecco. Ora sei a posto. Insieme siamo arrivati e insieme ne usciremo, mi hai capito?».
  Hau prese Iridio per mano e strinse le sue dita come a infondergli coraggio. Anche Guzman doveva aver fatto esperienza di un qualcosa del genere tempo addietro. Lo stesso ciuffo di capelli spettinato che Hau aveva sulla testa, una volta sbucava da una cuffietta viola – ormai stava già perdendo tutto e riportare il suo viso, la sua schiena rivolta a lui ora per sempre sarebbe stato un rammarico inutile.
  Mentre si avvicinava al portone Hau si accorse della presenza di Guzman, invalicabile, incorniciata tra gli stipiti. Egli gli lasciò campo libero, indicando dietro di sé con un sorrisaccio cattivo.
  «Passa, prima che cambi idea».
  Hau trasalì. Evitando di incrociare lo sguardo di Guzman li precedette dentro. Egli rimase in cima alla scalinata a osservare Iridio che risaliva un gradino alla volta. Quando furono uno accanto all’altro, gli disse: «Parli tanto di solitudine, ma non ti accorgi delle persone che hai intorno».
  Il ragazzo sollevò la testa, come si fosse risvegliato da una assorta riflessione.
  «Io mi fidavo», confessò. Poi entrò.
  I palmi di Guzman presero improvvisamente a bruciare un’altra volta, ma non c’era tempo per farsi prendere dai sentimentalismi.


  Dopo era successo tutto rapidamente, al punto che non aveva avuto modo di raccapezzarcisi, se non quando, di fronte al portale, Samina si era rivolta a lui: abbagliata dalla luce dell’Ultravarco pareva risplendere di un pallore inquietante, come la medusa bianca che ne era uscita – «Nihilego!» la chiamava, «Nihilego!» – ed ella si stagliava entro i confini della mandorla in cui si era squarciato lo spazio come una divinità.
  Risucchiato assieme a lei dentro il varco, aveva dovuto coprirsi gli occhi troppo sensibili alla luce delle stelle e delle comete che sfrecciavano attorno a loro. Si era sentito privato di ogni peso, e fluttuava senza poter porre un controllo alla propria traiettoria, trascinato in un vorticoso scintillio di luci psichedelico e terrificante. Non appena aveva potuto tastare nuovamente una superficie di sostegno sotto i propri piedi, bruscamente era stato inghiottito dal buio.
  La prima sensazione che provò fu di freddo. Poi il peso del proprio corpo, liberandosi della leggerezza che aveva acquisito attraverso il tunnel spazio-dimensionale, si fece a poco a poco più gravoso e insopportabile, e l’aria era scarsa. Guzman respirava a fatica. La testa girava, ed era come se le sue membra fossero in balia di una corrente ondosa. Alzando leggermente lo sguardo e ritrovandosi di fronte le Ultracreature che galleggiavano coi loro grossi cappucci bianchi per l’atmosfera, ebbe la reale percezione di stare affogando in un abisso profondo, rischiarato appena dai cristalli e dai coralli che ricoprivano ovunque le pareti della conca in cui erano atterrati e dal varco ancora aperto dietro di loro.
  Samina si mosse, arrancando leggermente sopra i tacchi. Si accostò a uno spuntone di roccia luminosa e vi poggiò la mano per sorreggersi. Guzman la vedeva ansimare sotto la morsa di quel corpetto che le avvolgeva troppo stretto il petto. Avanzò di un passo per raggiungerla, ma dovette trattenersi indietro poiché lo sforzo di quel sollevare appena una singola gamba lo sfiancò, i muscoli indolenziti.
  La luce del portale prese lentamente ad affievolirsi. L’oscurità della caverna parve pian piano cominciare a divorare quel poco di visione che riuscivano ad afferrare. Nel momento in cui il varco si richiuse completamente alle loro spalle, Guzman sentì la testa vorticare ancora di più, l’aria mancante cominciò a premere dentro ai polmoni. Si sbracciò a raggiungere le ultime scintille che ancora sfavillavano lì dove lo squarcio era stato, ma non cavò altro che polvere.
  «Non possiamo tornare indietro», sibilò, e allora rimase a scrutare spaesato davanti a sé, ancora faticando ad abituare la vista al buio. Il verso stridulo di un Nihilego lo atterrì all’improvviso. Sollevando la testa lo vide puntarli e avvicinarsi, ed era sempre più grosso e terrificante. Samina accorse a stringere la manica di Guzman con una mano: «Seguimi», gli disse, ed egli si accorse dell’impellenza con cui cercava suo malgrado di tirarlo via. E tuttavia quello di Samina non era il tentativo di allontanarsi e di salvarsi, quanto quello di esplorare celermente ogni anfratto di quel luogo.
  Ai loro passi, bolle di vetro si sollevavano lentamente tra le rocce, ondeggiando nell’aria per poi incrinarsi e scoppiare in frammenti affilati. Guzman tentava allora di proteggersi, ma Samina non sembrava affatto turbata e continuava a muoversi incurante dei pericoli che li circondavano. C’era nei suoi occhi una scintilla morbosa e man mano che continuavano a camminare Guzman cominciò a provarne terrore, ma ancor più forte sarebbe stato quello di separarsi da lei.
  Man mano che gli occhi si abituavano e anche il corpo ricominciava a sostenere il peso di quella gravità estranea, si palesò poco alla volta la terribile evidenza che quello spazio che era parso nel buio tanto vasto era in realtà minuscolo e ristretto, e questo gettò Guzman in una costrizione ancora più insopportabile. 
  Samina cercava, inesorabilmente, tracce di un qualcosa che non si poteva trovare, e si spostava da un estremo all’altro del percorso. Guzman ad un tratto la prese, esasperato dall’ossessione con cui si muoveva avanti e indietro in quel corridoio asfissiante, al punto da provarne la nausea.
  «È inutile, Samina», le disse. «Siamo soli. Non c’è nient’altro in questo posto».
  Samina vagò ancora con gli occhi, esaminando avidamente i luccichii tra gli spuntoni e le conchiglie arroccate alle pareti. Provò a liberarsi, ma Guzman le si oppose, e presero a gridarsi l’uno contro l’altra. Poi Samina tacque come rassegnata, prese a osservare silenziosamente un’Ultracreatura che nuotava torreggiando sopra di loro.
  «Allora, se non posso più fare niente... Voglio dare a loro il mio amore e unirmi con loro. Voglio congiungermi con Nihilego e sublimare l’amore di Paver che mi è stato strappato».
  «Smettila! Smettila di ripetere quel nome! Lui non è qui e non tornerà! Non c’è nulla a questo mondo per cui valga la pena di correre un simile rischio. Se tu me lo permettessi... Se è questo ciò che ti manca, sarei disposto a darti tutto il mio amore. Il mio cuore è tuo, Samina! Ma ti prego, ti prego non andare!».
  Guzman distolse lo sguardo. Non aveva il coraggio di rivolgerlo a lei. Tentò di trattenerla il più possibile nella presa delle proprie mani, ma sentì, inequivocabilmente, le sue spalle scivolargli sotto le dita nella decisione di allontanarsi. Nel momento in cui la sua presenza si fu del tutto disgiunta da lui, Guzman lasciò cadere le braccia, e restò immobile, con le scarpe impiantate nella sabbia, incapace di muoversi. Samina aveva scelto. Lui era di nuovo solo, insignificante dentro un mondo sconosciuto.
  Samina delirava e parlava di un uomo che si era unito a Clefairy; i suoi vaneggiamenti rimbombavano nella spelonca, si rincorrevano e si acuivano assieme in una cantilena assillante. Sempre più in lei si faceva definita la folle convinzione di potersi fondere con quelle creature che ondeggiandole attorno la corteggiavano, adulandola con le loro carezze, gli strepiti pungenti. Egli l’ascoltava, rannicchiato in un angolo, dopo aver tentato di sottrarsi alla sua voce – inutile fuggire, inutile isolarsi, inutile, inutile. Si alzò rabbrividendo, mosso da uno scatto d’impazienza. Per quanto tempo era rimasto ad aspettare che si acquietasse? Quanto aveva atteso in un segnale, un’apparizione – qualcosa, che gli mostrasse di non aver esitato invano? E gli sembrava di perdere la percezione di tutto, persino di sé stesso.
  Avendo sentito il grido che gli ribolliva dentro soffocato nelle interiora, una creatura gli si era accostata pietosa. Guzman la fissò, e non c’era altro desiderio ormai che quello di disintegrarsi, di essere divorato, dissolto, annullato. Pensò che forse il suo destino dovesse essere questo, e che le sue visioni non volevano altro che condurlo qui – distruzione assoluta.
  Presto i Nihilego presero ad ammassarsi accanto al primo che era venuto, tutti insieme a poco a poco lo accerchiarono. Colmo di rabbia e di dolore, si gettò su di loro a rincorrerli, incontrò i loro tentacoli freddi, vitrei, ma nel momento in cui uno di loro lo prese e cominciò a stringersi lungo il suo collo, il corpo non rispose al pericolo. Guzman si guardò, provò a guardarsi, a riprendere controllo dei propri movimenti, in un ultimo insperato slancio ad aggrapparsi ancora alla vita, e sentì una paura viscerale nel rendersi conto che tutto era buio, paralizzato da uno spasimo nel cervello. Senza respiro, soffocando, boccheggiava, urlava, la sua voce fu nulla, nulla – non respiro, non respiro.
  E gli parve intanto di addormentarsi.


 
 

 


Ciao a tutt* e bentornat*!
Come va? Ammetto che nella rielaborazione della trama di Sole/Luna di questi capitoli ho avuto difficoltà con la presenza dell* protagonista, perché mi sono resa conto che la risoluzione di tutti i conflitti tra i personaggi (Guzman-Kukui, Iridio-Guzman, e ovviamente il conflitto chiave Lylia-Samina) avviene o comunque è portata avanti per intercessione di l*i, cosa che nel contesto immersivo videoludico funziona, nella scrittura narrativa un po’ meno... è molto facilona come idea, però ho pensato di sfruttare Sun come replica di Kukui, anche se mi interessava di più la lotta con Iridio.
In Ultra Sole/Luna questo Ultramondo si chiama Ultrabisso, perciò ho provato a rievocare in qualche modo questo concetto, spero vi sia sembrato convincente.
Ormai siamo quasi alla fine, nel prossimo capitolo vedremo la risoluzione conclusiva e torneremo al presente. Cosa riserverà l’Ultramondo per Guzman? In attesa di scoprirlo, spero che l’aggiornamento di oggi vi sia piaciuto e vi mando un abbraccio enorme!
A presto e buon Ferragosto (in anticipo) ♥
℘ersej
  
  
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