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Autore: Soul Mancini    10/08/2021    1 recensioni
Tre momenti della vita di Bess.
La storia di una ragazza ferita dalla vita, nata in un luogo sbagliato, la cui infanzia è stata strappata via troppo presto. Tra prime esperienze. rabbia, lacrime represse e amici fedeli, imparerà a trovare la sua strada anche se nessuno gliel'ha indicata. Una bambina fragile che si tramuterà pian piano in una giovane donna piena di cicatrici sul cuore, ma più forte e matura.
- Il primo capitolo, "Forsaken", si è CLASSIFICATO PRIMO al contest "Let's Cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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Stripped
 
 
 
 
Toccai per la prima volta il suolo inglese il giorno di San Valentino del 1986; trovai ad accogliermi una sinistra foschia, un freddo pungente e un cielo plumbeo che sapeva di pioggia. La mia nuova vita non prometteva nullo di troppo spettacolare, insomma.
Circondata da volti sconosciuti – anche se dopo innumerevoli ore di volo cominciavano a risultare familiari – e segnati dalla stanchezza, mi mossi in fretta per recuperare il mio misero bagaglio e dirigermi verso l’uscita. Zio Lawrence sicuramente mi stava già aspettando all’esterno della struttura, come mi aveva preannunciato per telefono qualche giorno prima, e non volevo farlo attendere troppo; già sapevo di essere un’ospite e un’intrusa che avrebbe fatto irruzione nella sua famiglia, non volevo arrecare ulteriore disturbo.
Mentre camminavo tra la folla col mio piccolo trolley pieno fino a scoppiare mi venne da sorridere: chissà cosa pensavano tutti quegli sconosciuti che mi vedevano passare. Chissà che effetto doveva fare vedere una ragazzina minuta e troppo magra che non dimostrava affatto i suoi diciassette anni, totalmente vestita di nero e coi capelli tinti di blu, con lo sguardo basso, una sigaretta tra le dita e l’espressione corrucciata di chi ha voglia di spaccare la faccia a chiunque le rivolga la parola.
Eppure eccomi lì, sempre la stessa, sempre sola. Pronta – più o meno – a ricominciare da capo ancora una volta.
Fuori dall’aeroporto mi guardai attorno in cerca di mio zio; lo trovai accanto alla sua auto, che mi faceva cenno di avvicinarmi. Era da solo.
“Ciao Bess. Com’è andato il viaggio? Sei stanca?” mi domandò con la sua solita distaccata cortesia quando l’ebbi raggiunto, prendendo il mio bagaglio per caricarlo in macchina.
“Ciao zio. Tutto bene, non c’era granché da fare sull’aereo…” Mi sforzai di rivolgergli un sorriso cordiale, sebbene quelle conversazioni di circostanza mi irritassero parecchio. “Grazie mille per il passaggio, comunque.”
“Figurati, non ti avremmo mai lasciato arrivare da sola fino a casa.” Richiuse lo sportello del portabagagli, poi apri la portiera dal lato del passeggero in un gesto di galanteria, per invitarmi a salire. “Andiamo?”
Salii sulla vettura senza fiatare. Non ero particolarmente in vena di parlare quel giorno, ancor meno se il mio interlocutore consisteva nello zio Lawrence: non avevo nulla contro di lui, ma non avevamo nulla da spartire e il suo atteggiamento così composto e freddo mi metteva a disagio.
Ero cresciuta per strada, non sarebbe stato facile ambientarmi in una famiglia britannica di classe medio-alta come quella dei miei zii.
Il viaggio in auto trascorse in silenzio per i primi minuti: lo zio Lawrence, concentrato sulla guida, fissava la strada dritto davanti a sé e io facevo altrettanto, seguendo con gli occhi le goccioline che avevano cominciato a rigare il parabrezza. Nell’abitacolo riecheggiava solo la radio in sottofondo e il ticchettio irregolare della pioggia.
A riscuotermi da quello stato di torpore fu una melodia che giunse alle mie orecchie, accompagnata da una voce che non mi era del tutto nuova ma che non ero capace di identificare; proveniva dalle casse dello stereo. Affinai l’udito e mi misi in ascolto, rapita: si trattava di una canzone che non avevo mai sentito, completamente diversa dalla solita roba allegra o melensa che passavano in radio; aveva un’atmosfera quasi tetra, resa ancora più suggestiva dai suoni elettronici.
 
Come with me into the trees
We'll lay on the grass and let the hours pass
Take my hand, come back to the land
Let's get away just for one day

Quella voce calda, che mi invitava a fuggire via quasi sussurrandomi all’orecchio, mi faceva quasi venir voglia di piangere.
 
Let me see you stripped down to the bone
Let me see you stripped down to the bone
 
Mi accorsi solo allora che una miriade di brividi avevano cominciato a percorrermi la schiena e le braccia, coperte da un giubbotto forse troppo leggero. Ma non avevo freddo – sentivo perfino la mia anima tremare.
 
Metropolis has nothing on this
You're breathing in fumes, I taste when we kiss
Take my hand, come back to the land
Where everything's ours for a few hours
 
Let me see you stripped down to the bone
Let me see you stripped down to the bone
 
Non avevo mai sentito una canzone più bella e coinvolgente di quella. Più la ascoltavo e mi lasciavo rapire da quell’atmosfera, più sentivo la mia anima che si spogliava fino all’osso, proprio come recitava il ritornello.
Mi sentivo capita e rassicurata, sentivo di essere stata colpita e affondata.
 
Let me hear you make decisions
Without your television
Let me hear you speaking just for me
 
Let me see you stripped down to the bone
(Let me hear you speaking just for me)
Let me see you stripped down to the bone
(Let me hear you crying just for me)
Let me see you stripped down to the bone
(Let me hear you speaking just for me)
 
Mentre il brano volgeva al termine, gettai un’occhiata in direzione di mio zio per la prima volta dopo diversi minuti: continuava a guidare rilassato e non sembrava essersi accorto di nulla.
Certamente. Come poteva accorgersi della tempesta che si era scatenata dentro di me? Come poteva intuire che il sorrisetto ebete che mi si era dipinto in faccia dipendeva dalla canzone che avevamo appena sentito? Lui, con tutta probabilità, non l’aveva nemmeno ascoltata.
Continuai a prestare attenzione alla voce dello speaker, nella speranza che annunciasse il titolo del brano.
Abbiamo appena ascoltato il nuovo singolo dei Depeche Mode, pubblicato esattamente quattro giorni fa! Anticiperà un album? Chi può dirlo…
Ecco come mai avevo avuto l’impressione di conoscere quella voce: avevo già sentito qualche canzone dei Depeche Mode, li passavano alle feste o in discoteca a volte. Tuttavia non potei fare a meno di rimanere spiazzata: li avevo sempre confusi tra i mille insignificanti gruppi dell’ultimo periodo, mentre quella nuova canzone era così diversa dal solito. Così profonda, così speciale.
Chissà come si intitolava.
Sarebbe stata la colonna sonora della mia nuova vita, ne divenni improvvisamente consapevole. Avrei fatto qualsiasi cosa per ritrovarla, a costo di comprare tutti gli album della band e ascoltarli uno a uno per cercarla.
“Zio?”
“Sì?”
“Posso cambiare?” domandai, accennando all’autoradio.
Lui annuì. “Metti pure la musica che preferisci.”
La ricerca cominciava in quel momento.
 
 
 
Due ragazzine di tredici anni, quasi identiche, mi guardavano con la stessa espressione corrucciata e scettica, aggrottando le sopracciglia sottili e conferendo ai loro lineamenti delicati un aspetto più affilato.
Avevano entrambe occhi verde smeraldo, una lunga e fluente chioma di capelli castani e lisci, erano slanciate e la loro pelle diafana spiccava in contrasto con gli abiti colorati e glitterati che indossavano.
Se non fossero state vestite con indumenti diversi, le avrei confuse.
“Questa è nostra cugina?” gracchiò la prima, portandosi una mano sotto il mento.
“E verrà a stare da noi?” aggiunse l’altra in tono sommesso, giocherellando nervosamente col braccialetto verde che indossava.
Inarcai un sopracciglio e lanciai una fugace occhiata a zia Ruth.
Già, mi ero quasi scordata di quest’ostacolo: le gemelle. Non ci eravamo mai incontrate prima e non avevo idea di cosa aspettarmi, ma certamente non potevo immaginare di trovarmi davanti due mocciose abbigliate all’ultima moda che mi scrutavano dall’alto in basso. D’accordo, l’ospite ero io, ma loro avevano pur sempre tredici anni.
Cercai comunque di mantenere la calma e non ribattere con uno dei miei soliti commenti cattivi: ci conoscevamo da meno di un minuto e già le cose non stavano andando benissimo, dovevo provare a mantenere un rapporto civile se volevo condividere la casa con loro. Mi sforzai di sorridere, ma le mie labbra si contorsero in una smorfia. “Sono io, sì. Piacere, Bess.”
Loro mi scrutarono come se avessi avuto un terzo occhio sulla fronte.
“Andiamo ragazze, presentatevi” le incitò allora la madre con un ampio sorriso che tradiva un profondo imbarazzo.
“Io sono Joice” bofonchiò quella col braccialetto verde, abbassando subito lo sguardo.
“Quindi tu devi essere Kristen?” mi rivolsi all’altra, sperando di aver azzeccato il nome. Zia Ruth e zio Lawrence le avevano nominate un sacco di volte, non potevo sbagliare.
“Crystal” mi corresse lei in tono piccato.
Ecco, appunto.
“Vieni tesoro, ti mostro la casa e ti accompagno in camera tua: sarai stanca dopo il lungo viaggio” intervenne subito la zia nel disperato tentativo di levarmi dall’imbarazzo.
Mi inquietava il modo di esprimersi che avevano lei e lo zio: parevano appena usciti da un libro inglese di fine Ottocento.
La seguii fuori dal soggiorno, ma subito il borbottio delle due gemelle catturò nuovamente la mia attenzione.
“Hai sentito con che accento parla? Quant’è sguaiata…”
“In America parlano tutti così secondo te?”
“E poi hai visto come si veste? Il nero fa schifo, e poi quella roba sembra vecchia di anni!”
Mi immobilizzai in mezzo al corridoio e strinsi i pugni. D’accordo, ci avevo provato, ma la mia pazienza aveva un limite.
Tornai indietro e mi affacciai di nuovo alla soglia per poterle squadrare da capo a piedi. “Ah, non vi piacciono i miei vestiti? Peccato… ma tanto non avevo intenzione di prestarveli!”
Loro sobbalzarono e ammutolirono per diversi istanti. Joice puntò lo sguardo sul piano lucido del tavolo attorno a cui erano sedute, mentre Crystal prese coraggio e mi guardò dritto in faccia.
Sostenni il suo sguardo con sfrontatezza.
“Senti Beatrix, mettiamo le cose in chiaro: questa è casa nostra, tu sei l’ospite, quindi non ti conviene sfidarci” sputò la ragazzina, gonfiando il petto e assumendo una posa da dura che non le si addiceva per nulla.
Ero tentata di riderle in faccia, ma ero troppo incazzata perfino per quello. “Appunto. È questa l’accoglienza che riservi agli ospiti? Non stai dando una bella immagine di casa tua.”
“Ragazze, che succede? Crystal, Joice!” intervenne zia Ruth, accortasi della discussione in atto.
Scacciai la questione con un gesto noncurante e le rivolsi un debole sorriso. “Tutto finito, tranquilla, ora puoi portarmi a vedere la casa.”
La donna lanciò un’occhiata scettica alle figlie, poi tornò in corridoio con l’intento di farmi strada.
Feci per seguirla, ma prima di lasciare nuovamente il soggiorno mi soffermai un’ultima volta su Crystal e Joice. “Se avete qualcosa contro di me, ditemelo pure in faccia: non ho nessun problema.”
Quando mi allontanai mi sentii immediatamente stupida a essermi accanita contro due ragazzine, ma come al solito avevo agito d’istinto. In ogni caso c’erano delle mancanze di rispetto che non tolleravo, e il fatto che le mie cugine avessero solo tredici anni non poteva giustificarle.
“Ti stavano dando fastidio? Devi scusarle, ci vorrà un po’ perché si abituino, sono sempre state abituate a essere solo loro due” si preoccupò subito la zia Ruth. In realtà non era parsa troppo sconvolta dall’atteggiamento maleducato delle figlie.
Mi strinsi nelle spalle. “È comprensibile.”
La casa della famiglia Middleton era la classica dimora tipo di una famiglia britannica: situata in un tranquillo quartiere residenziale, a pochi minuti di una fermata della metro che permetteva di raggiungere agevolmente il centro di Londra, era circondata da un giardino ricoperto di erba verde brillante fresca di tosatura. Le stanze, spaziose e numerose, erano distribuite tutte su un piano: quelle della zona giorno erano rivolte a sud e inondate dalla luce che filtrava da grandi vetrate, tutto l’opposto delle camere da letto.
Era una casa così bella e ben arredata, con i mobili ben coordinati in ogni stanza e un sacco di soprammobili e quadri eleganti, ma al contempo risultava così fredda e ostile. Sembrava troppo ordinata e tirata a lucido per essere abitata; mi trasmetteva un senso di straniamento e oppressione insopportabili.
Il mio concetto di casa prevedeva tutt’altro.
“Qui c’è la stanza degli ospiti, che abbiamo preparato per te, proprio a fianco a quella delle ragazze” spiegò zia Ruth una volta giunte nel piccolo corridoio su cui si affacciavano le camere da letto e il bagno della zona notte.
Feci il mio ingresso nell’unico angolo di pace che sarebbe stato solo mio e mi sedetti sul bordo del letto, guardandomi attorno con circospezione: era tutto così anonimo.
“Ti piace?” domandò la zia con un sorriso colmo di speranza.
“Sì… mi devo ancora ambientare” concessi. Non ero affatto brava a mentire, accidenti.
“Ti lascio un po’ da sola, così puoi sistemare le tue cose, darti una rinfrescata e riposarti” annunciò lei, per poi sparire nell’andito e richiudere la porta con delicatezza.
Mi sdraiai sul materasso senza nemmeno preoccuparmi di togliere le scarpe e solo allora mi resi conto di quanto mi facesse male la schiena: avevo pur sempre affrontato più di dodici ore stipata su un sedile troppo duro e scomodo.
Chiusi gli occhi, perché ero certa che se mi fossi guardata nuovamente intorno avrei dato di stomaco. Non ero più così certa di aver fatto la scelta giusta: ero fuggita per stare lontana da mio padre, da mia sorella che ormai mi aveva voltato le spalle e dal mio passato troppo pesante, non avevo avuto dubbi sul fatto che andare a Londra e ripartire da zero fosse l’unica soluzione per me, ma ora che mi ritrovavo sola e spaesata in un luogo completamente nuovo cominciavo a essere spaventata. Mi ripetevo sempre – e facevo sempre credere a tutti – che ero abbastanza forte da riuscire a cavarmela in ogni situazione e che nulla poteva davvero sconvolgermi, ma non potevo mentire a me stessa.
La mia Los Angeles mi mancava già. Yelena mi mancava già, anche se odiavo ammetterlo. E detestavo quell’ambiente così freddo e quadrato, quella famiglia inospitale e quella città immersa nel grigiore.
E chissà quanto mi sarebbe costato ricominciare la scuola…
Più mi lasciavo trascinare da quei pensieri, più sentivo il cuore sfondarmi la gabbia toracica e il respiro farsi irregolare. Sapevo esattamente cosa stava per accadere, ma non l’avrei permesso: mi misi a sedere di scatto, spalancai gli occhi e presi un profondo respiro. Non mi sarei fatta prendere da un attacco di panico durante la mia prima giornata a Londra. Quella sarebbe stata la mia nuova vita, mi sarei lasciata alle spalle tutte le mie vecchie fragilità.
Mi misi in piedi a fatica con l’intento di recuperare il mio walkman all’interno del trolley – ascoltare musica mi rilassava sempre – e solo allora mi accorsi di essere osservata.
Mi voltai di scatto verso la porta: era socchiusa e un paio di occhietti verdi mi scrutavano attraverso la stretta fessura. Non appena incrociarono i miei, l’uscio sbatté di scatto e delle risatine si propagarono per il corridoio.
Sentendo la rabbia montare dentro, percorsi in poche falcate lo spazio che mi separava dalla maniglia e la tirai con forza. “Che cazzo avete da guardare?”
Stava andando tutto a puttane, ed ero arrivata solo da un paio d’ore.
 
 
 
Cominciai ad andare a scuola pochi giorni dopo il mio arrivo a Londra. I miei zii avevano scelto per me un liceo piuttosto buono, anche se non si trattava di un istituto privato come quello che frequentavano Crystal e Joice.
Non avrei mai potuto pretenderlo, del resto; a dirla tutta mi sentivo già fortunata a poter terminare gli studi e a stare lontana dal mio vecchio quartiere, in cui perfino la scuola era intrisa di criminalità e disagio.
Fin dal primo giorno decisi di mantenere un profilo basso sia con i professori che con i miei compagni di classe; non avevo nessuna voglia e nessun interesse a socializzare in quel luogo, sapevo che non avrei trovato qualcuno che potesse condividere il mio stile di vita.
Dal momento che a Los Angeles avevo perso un paio d’anni, ì miei compagni erano tutti più piccoli di me e ciò non era troppo rassicurante. Non era soltanto una questione di età anagrafica: semplicemente avevo vissuto molto più di loro, ero già invecchiata e avevo commesso molte stronzate, mentre quei ragazzini stavano cominciando a staccarsi da mamma e papà in quel momento ed erano a malapena al loro primo tiro di sigaretta.
Mi imposi di mantenere la calma e soprattutto di rimettermi a studiare seriamente – attività che non mi era mai pesata e che mi veniva pure piuttosto semplice. Non ero molto sicura di riuscire nei miei obiettivi, ma dopo qualche settimana appresi che i miei voti non erano affatto male e che riuscivo a non cedere alle provocazioni dei miei compagni. Evitavo di rispondere ai professori – cosa che fino a quel momento era stata impensabile – e talvolta mi ritrovavo a essere dalla loro parte quando rimproveravano i miei compagni.
Non ero diventata meno ribelle del solito, ero solo più matura e soprattutto avevo imparato a farmi i cazzi miei. In fondo l’unico mio obiettivo in quel luogo era prendere il diploma.
Per gli altri liceali ero soltanto la tipa bizzarra e taciturna con i capelli blu e la sigaretta sempre tra le dita. Nessuno sembrava particolarmente interessato ad attaccare bottone con me – forse li intimorivo – e, anche in quelle rare occasioni in cui qualche coraggioso si faceva avanti, mi mantenevo sempre distaccata.
L’unica persona con cui trascorrevo il mio tempo durante le ore scolastiche era Tara, una ragazza taciturna ed emarginata come me. Era bellissima, aveva un fisico mozzafiato, un viso armonico e dei lunghi capelli mossi color cioccolato che facevano invidia alla maggior parte delle ragazze, ma era talmente timida che si ritrovava a essere sempre nell’ombra e non essere notata da nessuno. Era palese, si trovava a disagio in mezzo alla gente e non riusciva a rispondere quando qualcuno le rivolgeva la parola; mi raccontò che questi suoi problemi erano sfociati in vere e proprie crisi d’ansia, e che la sua incapacità di parlare in pubblico l’aveva portata a essere rimandata perché non riusciva ad affrontare le interrogazioni, per quanto studiasse e si preparasse.
Nonostante i nostri background fossero completamente diversi, la sentivo affine a me in un certo senso. Non potevamo considerarci amiche, ma ci tenevamo compagnia a vicenda, racchiuse com’eravamo nella nostra solitudine.
 
 
 
“Perché lei può uscire anche di sera e noi no?” Crystal incrociò le braccia al petto e mise su un broncio indispettito, che faceva somigliare ancora di più il suo visetto delicato a quello di una bambina.
“Perché tu e Joice avete tredici anni, non è bene che andiate in giro per Londra quando fa buio” ribatté zia Ruth pazientemente, affettando la torta appena sfornata che aveva preparato quel pomeriggio.
“Ma potrebbe succederle comunque qualcosa, anche se ha diciassette anni! Perché è da sola! Invece noi siamo in due!” contestò Joice, dando di gomito alla gemella per cercare il suo appoggio.
“Grazie mille per l’augurio” ribattei piccata, consultando l’orologio da parete.
“Dai, mamma! Io e Joice vogliamo solo andare a fare shopping! Ti giuriamo che andremo solo in giro per negozi e saremo a casa all’ora che vuoi tu!” tentò ancora Crystal, sbattendo le ciglia con fare implorante.
“Ho detto di no. E questo mese vi ho già portato a fare shopping.”
Forse era il caso di defilarmi: quelle due palle al piede stavano già cominciando a farmi venire mal di testa. Era bastato poco più di un mese di convivenza per portarmi al limite della sopportazione; quello era uno dei motivi per cui cercavo di stare lontano da casa il più possibile.
“Ma adesso sta uscendo la nuova collezione estiva” piagnucolò Joice con tanto di labbro inferiore tremante.
“Papà!” sbottò quindi Crystal, voltandosi di scatto verso lo zio Lawrence che, accomodato sulla poltrona, era intento a leggere il giornale.
Lui non si scompose e alzò solo per un attimo gli occhi dalla pagina. “Avete sentito la mamma? Non se ne parla.”
“Non è giusto! Io esco lo stesso!” ringhiò la ragazzina, pestando un piede a terra.
“Crystal!” la rimproverò sua madre senza troppa convinzione.
“D’accordo, si sta facendo tardi” annunciai, afferrando la mia borsa e dirigendomi verso l’uscita del soggiorno.
“Ciao cara! Divertiti e stai attenta!” mi salutò zia Ruth, seguita subito dopo dallo zio.
“Ma non è giusto… perché lei può e noi no?” sentii ancora Joice.
Mi voltai e guardai dritto negli occhi prima lei e poi Crystal. “Sapete perché io posso e voi no? Perché io qui non ho né mamma né papà che dicono ciò che devo fare, e poi sono quasi maggiorenne.”
Se alle orecchie delle mie cugine suonava come un motivo per cui vantarsi, alle mie suonava come una verità tremendamente triste. Quelle due non si rendevano nemmeno conto di quanto fossero fortunate ad avere due genitori che si preoccupavano e non facevano mancar loro niente.
Non risposero, ma sulle labbra di Crystal potei leggere un ti odio appena sussurrato.
Decisi che non valeva la pena spaccarle la faccia e mi allontanai, pronta a lasciarmi tutto alle spalle e immergermi nel caos di Londra. Ormai scene del genere erano all’ordine del giorno, non ricordavo un solo giorno di pace da quando avevo messo piede in quella casa.
Raggiunsi la fermata della metro e attesi l’arrivo del mio treno.
C’erano degli aspetti della mia nuova vita per cui potevo ritenermi abbastanza fortunata: innanzitutto avevo piena libertà sulla mia vita e potevo gestirmi totalmente da sola, non avevo orari da rispettare o imposizioni di alcun tipo. I miei zii sapevano bene che fino a qualche mese prima me l’ero sempre cavata con le mie sole forze e mettermi dei paletti a quel punto, a quasi diciotto anni, sarebbe stato davvero ridicolo; avevo promesso loro che non avrei causato problemi – non era di certo mia intenzione mancare di rispetto alle persone che avevano deciso di ospitarmi senza ricevere niente in cambio – e loro, reputandomi una ragazza matura e responsabile, avevano riposto in me la più totale fiducia.
Qualche stronzata avrei anche finito per combinarla, perché fuori dai guai non ci sapevo proprio stare, ma non li avrei mai e poi mai coinvolti.
In secondo luogo lo zio Lawrence e la zia Ruth avevano messo a mia disposizione i loro soldi e, oltre a darmi una sorta di paghetta settimanale, erano disponibili a darmi degli extra nel caso ne avessi avuto bisogno. Io in ogni caso non approfittavo mai della loro bontà e cercavo di non spendere troppo: gli unici costi che dovevo affrontare riguardavano le sigarette e le tinte periodiche, oltre a qualche sfizio occasionale riguardante trucchi e vestiti. Comunque mi facevo bastare ciò che mi davano – ero sempre stata abituata a mantenermi con molto meno, quello per me equivaleva al lusso.
Forse non avrei mai fatto davvero l’abitudine a quel tenore di vita.
Emersi dalla metro e per prima cosa mi recai al negozio di dischi a qualche metro di distanza. Sceglievo sempre quella fermata proprio perché, passando da quelle parti, mi fermavo a osservare la vetrina e scoprire le nuove uscite in ambito musicale. Non avevo ancora fatto nessun acquisto, non mi era mai veramente importato: nelle cuffie del mio walkman risuonavano sempre le solite cassette che avevo portato con me da Los Angeles e che mi ricordavano le giornate spensierate trascorse all’Alibi con i miei amici.
Quella sera però, quando giunsi davanti alla solita vetrina gremita di vinili e riviste, un articolo in particolare attirò subito la mia attenzione. Si trattava di un album con la copertina dalle tinte cupe, su cui tuttavia spiccavano le scritte Depeche Mode e Black Celebration sulla parte alta. Era la prima volta che mi capitava di vederlo, sicuramente si trattava di una nuova uscita.
Non avevo affatto dimenticato la canzone che mi aveva rubato il cuore non appena ero giunta a Londra, udita quasi per caso nell’auto di mio zio; avevo continuato a cercarla per tutto il tempo, ma in quel mese non avevo avuto tante occasioni di ascoltare la radio.
Forse poteva essere contenuta in quel nuovo album.
Senza nemmeno rifletterci su, entrai nel negozio e cominciai a cercare la versione in audiocassetta dell’album – l’unico formato che potevo acquistare, dal momento che non avevo un giradischi.
Il proprietario del negozio mi lanciò un’occhiata dalla sua postazione dietro il bancone, ma non disse nulla.
Trovai ciò che mi interessava sullo scaffale delle novità, presi in mano la custodia e la feci ruotare per poter leggere la tracklist. Un brivido mi corse lungo la schiena quando, al numero sette, trovai il titolo Stripped.
Non sapevo il nome della canzone che mi era piaciuta, ma avevo riconosciuto quella parola: il cantante l’aveva ripetuta un sacco di volte durante il ritornello. Doveva essere quella, senza dubbio.
Tra i titoli ne trovai alcuni che mi intrigarono fin da subito: Black Celebration – la title track –, A Question Of Lust, Here Is The House, World Full Of Nothing, Dressed In Black. C’era qualcosa di sinistro, magico e meraviglioso tra quelle tracce, qualcosa che mi rappresentava davvero. Solo a stringere quella cassetta tra le dita, mi pareva di avere in mano un frammento del mio cuore.
Senza rifletterci troppo su, mi accostai al bancone e vi poggiai il mio acquisto. “Prendo questo.”
Non avevo nemmeno controllato il prezzo, ma non importava.
 
Con la borsa occupata dalla mia nuova cassetta e lo stomaco pieno di un raviolo al vapore acquistato da un ambulante cinese, passeggiavo per le pittoresche vie di Camden. Era la prima volta che visitavo quel quartiere di sera e lo trovai ancora più bello e suggestivo del solito: mi ricordava tanto l’atmosfera delle boulevard di Los Angeles, col chiacchiericcio dei ragazzi che si disperdeva nell’aria e la musica che fuoriusciva dalle porte spalancate dei locali. Era il luogo degli eccentrici come me, mi sentivo a casa. E nonostante fossi sola non avevo paura, camminavo a testa alta, quasi come se avessi calcato quelle vie un milione di volte.
Un pub in particolare attirò la mia attenzione: una band, probabilmente punk, si stava esibendo dal vivo al suo interno e alcuni ragazzi erano sparpagliati sul marciapiede di fronte all’ingresso, intenti a fumare e chiacchierare tra loro. A giudicare dal poco che si poteva scorgere, l’ambiente non doveva essere molto grande ma aveva un aspetto accogliente, conferitogli dalle luci calde e rossastre delle lampade a muro.
Mentre mi facevo più vicina, sentii subito gli sguardi dei presenti addosso. Era esattamente ciò che volevo: conoscevo bene sia le strategie per passare inosservata sia quelle per farmi notare, e quello era il momento adatto per sfoggiare le seconde.
Mi fermai accanto a due ragazzi che mi parevano dei tipi a posto – uno aveva capelli quasi del tutto rasati ed enormi occhi scuri, l’altro sfoggiava dei dread castano chiaro e stringeva tra le dita uno spinello – e mi accesi una sigaretta con nonchalance. “Ehi.”
“Ehi” ribatté il tipo dai capelli corti, accennando un sorriso.
“Vuoi un tiro?” offrì gentilmente l’altro, accennando alla stecca d’erba.
Mi aprii in un sorriso. “Gentile! Accetto solo se è roba di qualità” puntualizzai.
Lui annuì. “Garantito.”
Mi passò la canna e io aspirai una boccata. Era da quando avevo lascialo Los Angeles che non fumavo un po’ d’erba; non era mai stato uno dei miei principali vizi e non conoscevo nessuno spacciatore affidabile da quelle parti.
“Americana?” indagò quello coi capelli rasati.
“Beccata. Vengo dalla mitica California” confermai.
“Che figata!” si entusiasmò subito lui.
“Oh sì. Comunque questa roba è buonissima, dovete presentarmi il vostro pusher” aggiunsi, prendendo un altro tiro prima di riconsegnare lo spinello al proprietario.
Lui lo afferrò e sorrise soddisfatto. “Te l’avevo detto! Sarà fatto. Prima però dobbiamo aspettare che scenda dal palco.”
“Ah, è uno della band?”
“Il bassista.”
“Quindi conoscete i tipi che stanno suonando?”
Il ragazzo dai capelli corti fece un ampio cenno di assenso e ridacchiò. “Conosciamo ogni singola band che si esibisce nel sobborgo.”
“Quindi siete abituali della zona. Questa è una buona notizia!”
“Tu invece sei qui di passaggio o hai intenzione di restare?” mi chiese il ragazzo coi dread.
“Resto. Non so per quanto, ma di certo resterò per un po’.” Lanciai un’occhiata all’ingresso del locale. “Ehi, io sono curiosa di sentire la band! Chi viene dentro con me?”
I due ragazzi sorrisero e mi seguirono.
Non appena mi ritrovai avvolta dalla musica e da quegli sconosciuti tutti da scoprire, una scarica di adrenalina mi invase le vene. Mi sentivo a casa, nel mio ambiente, e improvvisamente avevo voglia di essere la Bess di sempre: volevo divertirmi, ridere, stringere amicizia, flirtare, avere gli occhi di tutti addosso, essere la star. Volevo indossare nuovamente quella maschera che negli anni passati avevo faticato tanto per costruire e che ormai era una parte della mia identità.
Ordinai da bere e poi mi gettai sotto il palco, pronta a scatenarmi e provocare chiunque avesse posato lo sguardo su di me.
 
Meno di un’ora dopo mi trovavo schiacciato contro la porta del bagno, ansimante e col corpo in fiamme, con la mano di un perfetto sconosciuto infilata nelle mutandine. Era esattamente ciò che volevo e che avevo cercato.
Eccomi, la vecchia Bess con le sue vecchie abitudini. Eccomi, la solita puttanella che si divertiva a fare baldoria e sesso col primo che capitava.
Beh, non esattamente il primo. Ci voleva anche buon gusto per scegliere la giusta scopata.
Mi lasciai sfuggire un gemito spudorato, poi spinsi via il ragazzo – un moretto ben piazzato niente male – e mi calai i pantaloni, scalciandoli via. Rivolsi un sorriso malizioso al mio amante occasionale, poi gli diedi le spalle e mi piegai leggermente in avanti. “Prendimi. Fammi vedere ciò che sai fare!”
Certe cose non sarebbero mai cambiate, perché in fondo mi andavano bene così.
 
 
 
“Si può sapere cosa stai facendo in camera mia?” ringhiai quando, una volta rientrata da scuola, trovai Crystal che frugava tra i miei vestiti.
Vivere con quelle due marmocchie si rivelava ogni giorno più complicato: ora che mi avevano conosciuto meglio, si sentivano ancora più in diritto di ficcare il naso nella mia vita e tormentarmi.
Lei sobbalzò e si voltò di scatto. “Stavo cercando… non trovo più la mia giacca rossa, in camera mia e di Joice non c’è. Volevo vedere se l’avevi rubata tu!”
“Rubata? E cosa dovrei farmene?” sbottai.
“Ma magari è finita nella tua stanza per sbaglio.” Joice ci raggiunse e si piazzò sulla soglia, ispezionando l’ambiente con lo sguardo.
“Potevate anche chiedermelo come fanno tutte le persone normali, invece che intrufolarvi come delle ladre in camera mia e frugare senza il mio permesso” feci notar loro, mentre riordinavo alcuni trucchi che avevo lasciato sul comodino quella mattina, per via della fretta.
“Ma dovevo immaginarlo: una che si veste sempre da vedova non può avere una giacca rossa in camera. Poi gli altri vestiti si spaventano per tutto quel colore” mi punzecchiò Crystal col suo solito tono impertinente. “Una tipa che ascolta questa musica strana non può mica vestirsi di rosso” aggiunse dopo qualche istante di silenzio.
Tra le due lei era la peggiore: se in Joice si poteva intravedere un minimo di umanità, Crystal era una sorta di mostro. Viziata, egoista, impertinente e irrispettosa.
Lasciai ricadere l’eyeliner che avevo in mano e mi voltai a guardarla: la ragazzina soppesava la mia audiocassetta di Black Celebration, la sventolava in aria e la osservava con disprezzo.
Feci un balzo in avanti con l’intento di strappargliela dalle mani e la incenerii con lo sguardo. “Lasciala subito. Hai capito?”
Poteva prendersi anche tutto il mio armadio, ma quella cassetta doveva lasciarla stare. Era l’oggetto più prezioso che possedevo.
“E se invece non la lascio?” mi sfidò, nascondendola dietro la schiena.
Non esisteva nessuno al mondo in grado di farmi incazzare tanto. In preda a un accesso d’ira, la immobilizzai e le afferrai una ciocca di capelli, strattonandola. Lei strillò e tentò di dimenarsi, ma non mollai la presa.
“Lascia subito quella cassetta o ti stacco i capelli uno a uno” la minacciai in un ringhio.
“Ma solo se tu ci presti i tuoi trucchi” provò a contrattare. Piccola bastarda, non cedeva nemmeno sotto ricatto.
“Lascia. Quella. Cazzo. Di. Cassetta” ripetei, scandendo bene ogni parola e tirandole nuovamente i capelli per ribadire il concetto.
Lei piagnucolò per qualche istante e poi mi restituì la copia di Black Celebration senza fare ulteriore resistenza.
“Tanto quella musica fa pure schifo” bofonchiò una volta liberatasi dalla mia presa.
“Certo, tu sì che ci capisci qualcosa di musica” replicai ironica, sistemando il mio album preferito il più lontano possibile dalle grinfie di Crystal.
“Madonna, lei sì che è veramente brava!” intervenne Joice, puntandosi le mani sui fianchi.
“Certo…” Evitai di far notare loro che Madonna non era nemmeno capace di cantare.
“E poi hai visto il suo stile? È troppo bella!” proseguì la ragazzina, assolutamente convinta della sua posizione.
“Sì…”
“Preso! Scappa, Joice!” strillò all’improvviso Crystal.
Feci appena in tempo a vederla correre via con un mio kajal in mano, al fianco della gemella, e non ebbi nemmeno il tempo di reagire. Le loro grida e risate si persero in corridoio, poi la porta della loro stanza sbatté forte.
Feci uno scatto in avanti con l’intento di inseguirle, poi mi passai una mano sulla fronte. Era dura, tremendamente dura.
Cos’avevo fatto di male per dover combattere contro quelle due mocciose?
 
 
 
C’erano giorni, più di altri, in cui il suolo sembrava cedere sotto i miei piedi e volermi inghiottire.
C’erano giorni in cui le mura della casa sembravano volermi schiacciare, sommandosi al peso della mancanza che provavo nei confronti della mia vecchia vita. Quella vita che mi ero voluta lasciare alle spalle, ma che in fondo mi aveva seguito fino a lì.
C’erano giorni in cui Crystal e Joice facevano il possibile per farmi impazzire, e ci riuscivano talmente bene che non avevo più la pazienza per tener loro testa. C’erano giorni in cui riuscivano a darmi fastidio anche se infilavo le cuffie del walkman e impostavo il volume al massimo.
C’erano giorni in cui il panico mi coglieva alla sprovvista, ma ormai avevo imparato cosa dovevo fare in quei casi per riprendere il controllo di me stessa: mettere in riproduzione Black Celebration, uscire di casa e camminare. Non avevo mai una meta ben precisa, non mi saltava nemmeno in mente di prendere la metro e recarmi in centro. Camminavo per le vie quasi deserte del quartiere, mi lasciavo avvolgere dalla musica e respiravo a fondo, finché le lacrime non mi si asciugavano sulle guance e tornavo a sentirmi tutta intera.
Quel pomeriggio di inizio giugno era così.
Pensavo che non me ne sarebbe importato niente e che il mio cervello avrebbe addirittura rimosso quell’informazione, eppure lo sapevo benissimo: era la prima volta che trascorrevo l’anniversario di morte di mia madre lontano da casa. In un luogo in cui a nessuno importava davvero di me, in cui non potevo sfogarmi con nessuno, in cui non avevo una sola persona con cui distrarmi.
Non appena rimisi piede in casa dopo la scuola un forte senso di colpa mi invase, insieme alla prima dose di panico dritta in vena. Lo conoscevo fin troppo bene e sapevo anche che, se non avessi fatto al più presto qualcosa per calmarmi, quel giorno non ne sarei uscita troppo semplicemente.
L’unica cosa che volevo era farmi trovare nel bel mezzo di una crisi dai miei zii e dalle mie cugine – non ero nemmeno certa che sapessero di quel mio piccolo problema, era qualcosa che avevo sempre gestito da sola –, perciò infilai le cuffie alle orecchie e uscii di nuovo senza preoccuparmi di salutare o avvisare, con le lacrime che già mi ustionavano la pelle del viso e la sensazione di vuoto al centro del petto.
Camminai e piansi mentre ascoltavo le voci di Dave Gahan e Martin Gore accarezzarmi le orecchie, e mi sentii infinitamente stupida e patetica. Non sapevo nemmeno dire per quale motivo mi sentissi così disperata, se per la mia attuale vita o per tutto ciò che avevo perso. La verità era che quel senso di vuoto e solitudine avevo cominciato a provarlo esattamente sei anni prima e nessuno era mai stato in grado di colmarlo davvero. Volevo sentirmi ancora una volta una bambina indifesa e fragile che si rifugiava tra le braccia della madre, invece ero più sola che mai.
Sollevai gli occhi al cielo, chiedendomi se lei mi stesse osservando da lassù, ma una coltre di nubi grigiastre mi impedivano di scorgere l’azzurro. Anche loro si prendevano gioco di me, si divertivano a scatenare quel senso di claustrofobia che mi toglieva il respiro.
Le lacrime smisero di piovere giù per le mie guance quando finalmente Stripped inondò le mie orecchie, infondendomi l’ormai familiare senso di pace e libertà. La mia adorata Stripped, colei che mi aveva fatto conoscere il gruppo musicale che mi aveva salvato la vita e continuava a salvarla ogni giorno, la mia dose di serotonina giornaliera, la mia canzone preferita in assoluto.
 
Come with me into the trees
We'll lay on the grass and let the hours pass
Take my hand, come back to the land
Let's get away just for one day
 
Ascoltai quelle parole, quasi ipnotizzata, ed ebbi una voglia matta di fuggire e lasciarmi davvero tutto alle spalle, di afferrare questa mano immaginaria e lasciarmi trascinare via, lontano dalla società che mi ingabbiava ogni giorno di più. Di provare quella libertà che mi ero sempre illusa di avere, ma che non era mai stata mia.
Giunta circa alla metà del brano, mi guardai attorno per la prima volta da quando ero uscita di casa e mi resi conto che le mie gambe mi avevano condotto automaticamente nel mio luogo preferito, quello in cui mi rifugiavo sempre quando volevo stare da sola. Si trattava semplicemente di un piccolo spiazzo piastrellato e delimitato da un basso muretto. Non vi erano né panchine né aiuole, ma all’estremità opposta rispetto alla strada vi era un parapetto oltre il quale si poteva ammirare il verde rigoglioso di un parco. Non avevo mai capito a quale luogo portasse esattamente quel piccolo strapiombo, forse si trattava di un giardino privato e recintato a cui non si poteva accedere – probabilmente era perfino abbandonato, dal momento che la vegetazione cresceva indisturbata – ma non mi ero mai posta il problema: a me bastava osservarlo dall’alto.
Quando avevo scoperto quello scorcio per un attimo mi ero sentita un po’ come Mary Lennox, la protagonista de Il Giardino Segreto, ma poi mi ero data della cretina e avevo ricordato a me stessa di avere diciassette anni.
Mi recai a passo spedito verso la mia meta mentre, ancora con la musica a palla nelle orecchie, mi accendevo una sigaretta, ma rallentai di botto e mi sfilai le cuffie quando mi accorsi che lo spiazzo non era deserto come al solito.
Un ragazzo dai capelli biondi, che indossava una camicia chiara a maniche corte e un paio di jeans, se ne stava con i gomiti poggiati sul parapetto e fumava una sigaretta in silenzio, guardando dritto davanti a sé. Non fui in grado di distinguere nessun altro dettaglio, dal momento che mi dava le spalle, ma ero grata per il fatto che non si fosse voltato e accorto della mia presenza: dovevo essere in condizioni pessime e sicuramente non ero dell’umore per fare delle nuove conoscenze.
Esaminando l’ambiente con più attenzione notai una moto nera e lucente, che non avevo mai visto da quelle parti, parcheggiata sul ciglio della strada. Ne rimasi subito attratta e mi soffermai a guardarla: ero sempre stata affascinata dalle moto e, sebbene non fossi in grado di guidarne una, ero sempre salita volentieri con i ragazzi che mi offrivano un passaggio. Era tremendamente bello sfrecciare su uno di quei bolidi lungo la costa della mia adorata California, col vento tra i capelli e il mare azzurro che scorreva al mio fianco…
Mi riscossi da quei ricordi talmente belli da far male e mi domandai se fosse il caso di defilarmi, prima che lo sconosciuto si accorgesse della mia presenza. Ma ormai avevo perso troppo tempo: un attimo prima che muovessi il primo passo, lui si voltò e mi adocchiò, per poi mettere su un’espressione sorpresa.
Che tempismo…
Ormai ero in ballo, tanto valeva danzare; non era da me fuggire come una bambina colta con le mani nel sacco.
Fingendo indifferenza, presi una boccata di fumo dalla mia sigaretta e sostenni il suo sguardo. In quel modo potei scorgere anche i dettagli del suo viso: doveva avere una ventina d’anni, aveva il volto dai lineamenti affilati ma non eccessivamente aggressivi da tipico inglese, i capelli mossi non troppo corti gli incorniciavano il viso e si agitavano appena per via della brezza. Ma ciò che mi colpì maggiormente furono i suoi occhi grigio-azzurri segnati da una profonda tristezza.
Mi venne quasi da ridere: possibile che dovessi attirare a me tutte le anime più distrutte e dannate? Dovevo avere una qualche maledizione.
Lui accennò un sorriso, probabilmente fraintendendo la mia espressione.
Ero tentata di lasciarlo perdere e andare via per davvero, ma in fondo quello era il mio luogo preferito e avevo tutto il diritto di starci. Mi accostai alla balaustra e vi posai i gomiti a mia volta, stando ben attenta a tenere le distanze da quel ragazzo. Fissai un punto davanti a me, tra l’erba alta e rigogliosa, ma percepivo benissimo che il biondo mi lanciava occhiate di tanto in tanto. Sicuramente era incuriosito, anche se cercava a sua volta di fingersi distaccato.
Dopo circa un minuto decisi di dargli una soddisfazione. “È tua la moto?”
Lui annuì. “Non proprio in realtà: è di mio fratello maggiore, ma ormai non la usa più e si può dire che l’ho ereditata.”
Aveva un modo di parlare gentile e calmo e una voce piuttosto musicale. Perfettamente in sintonia col suo aspetto, in effetti.
“È molto figa. Stravedo per le Harley nere” ammisi, per poi voltarmi nella sua direzione. “Non l’avevo mai vista da queste parti.”
Mi sorpresi per la nonchalance con cui stavo conducendo quella conversazione, visto che ero appena uscita da un attacco di panico. Sicuramente avevo ancora gli occhi gonfi di pianto e la voce roca, forse un po’ di trucco mi si era sciolto e incrostato sulle guance, ma non avevo modo di nascondere tutto ciò.
“Nemmeno io ti avevo mai visto da queste parti. E il tuo accento non è inglese, di sicuro” osservò.
“Che orecchio!” ironizzai; pure una scimmia se ne sarebbe accorta. “Infatti vengo da Los Angeles. O meglio, sono per metà inglese e per metà americana, ma ho sempre vissuto in California.”
“Wow, Los Angeles” commentò con aria sognante.
Annuii e aspirai l’ennesima boccata di fumo. “Sono arrivata a Londra qualche mese fa.”
Lui mi guardò stranito.
“Che c’è?” incalzai, inarcando un sopracciglio.
“No, è che… sei qui da sola? Sembri un po’…” bofonchiò, leggermente in imbarazzo.
Mi fece quasi tenerezza: sembrava un ragazzo un po’ ingenuo e timido, non sapeva bene come comportarsi.
“Sembro un po’ piccola, intendi? Me lo dicono tutti. Ma in realtà ho diciassette anni, a dicembre di quest’anno ne compio diciotto.”
Lui sgranò gli occhi.
“E comunque sto dai miei zii, che abitano qui vicino” puntualizzai. “Tu? Siamo vicini di casa e lo scopriamo solo ora?”
“Non proprio… ho fatto un po’ di strada perché volevo… stare da solo.” Distolse lo sguardo e finì la sua sigaretta, prima di schiacciare il mozzicone sulla balaustra.
“Anche io volevo stare da sola, pensa che coincidenza… e in genere venire qui è la soluzione migliore…” gli feci notare, più per metterlo alla prova che per cattiveria. Non volevo farlo sentire davvero in colpa, in fondo quello era suolo pubblico.
Anche se un po’ la sua presenza mi aveva infastidito, specialmente all’inizio.
Lui continuò a fissare davanti a sé, senza avere il coraggio di spostare lo sguardo su di me. “Non ci vengo mai, non sapevo che fosse il tuo posto.”
Mio… ancora non l’ho comprato” gli concessi, accennando un sorriso. “Giornata di merda?” gli chiesi poi, sperando di porre rimedio alla mia aggressività che l’aveva palesemente messo in difficoltà.
Non lo facevo apposta a essere stronza, probabilmente lo ero di natura.
“Parecchio” ammise, il tono di voce più basso di un’ottava. Sembrava davvero distrutto.
“È qualcosa a cui si può porre rimedio?” mi informai ancora, improvvisamente curiosa.
“Non saprei, ma a questo punto credo proprio di no.”
“Oh.” Lasciai cadere il silenzio e continuai a fumare. Non volevo comunque essere troppo invadente.
“Anche tu non sembri troppo contenta e in pace col mondo” notò lui dopo diversi secondi.
Mi finsi stupita. “Davvero? Cosa te lo fa pensare?” scherzai.
Lui ridacchiò. “La rigiro a te: è qualcosa a cui si può porre rimedio?”
D’accordo, quel tipo era più sveglio di quanto mi fosse sembrato. Stava cominciando a piacermi.
E mi aveva anche posto una domanda a cui non sapevo rispondere.
Mi strinsi nelle spalle. “Casini in famiglia.”
Il riassunto della mia intera esistenza, in pratica.
“Senti, non ci conosciamo e non voglio sembrare inopportuno, ma…” Distolse nuovamente lo sguardo. “Se ti va di parlarne, io ti ascolto volentieri. A volte aprirsi con un perfetto sconosciuto può essere terapeutico.
“E chi mi assicura che non userai i cazzi miei per ricattarmi?” scherzai.
Lui rise. “Ma se non so nemmeno il tuo nome!”
“Ah già!” Gettai il mozzicone a terra e lo schiacciai con la punta della scarpa. “Per riassumere, si può dire che adattarsi in un luogo totalmente nuovo non è impresa facile e la famiglia dei miei zii non mi sta dando una mano, specialmente le mie cugine. Non auguro nemmeno al mio peggior nemico di vivere con loro.”
Omisi giusto un paio di dettagli, come l’anniversario di morte di mia madre, l’alcolismo di mio padre, la situazione di merda che mi aveva spinto a trasferirmi, gli attacchi di panico e il senso di spaesamento che provavo ancora nei confronti di Londra. Del resto non mi sarei mai aperta così tanto con nessuno.
“Comprensibile.”
“A te invece che è successo?” gli chiesi.
“Beh…” Si passò una mano tra i capelli, a disagio. “Oggi io e la mia ragazza abbiamo rotto dopo quattro anni di relazione.”
Sgranai gli occhi. “Cazzo!”
“Già.”
“Quattro anni!” Non riuscivo nemmeno a immaginare un legame così duraturo, visto che i miei rapporti con l’altro sesso erano durati al massimo il tempo di una scopata.
“Quando è cominciata io avevo sedici anni. Siamo praticamente cresciuti assieme.” La sua voce era colma di una sofferenza che era quasi difficile da ascoltare: doveva tenerci davvero tanto.
“E scommetto che è stata lei a lasciarti.”
“Sì.”
“Che stronza!”
Lui sorrise mestamente. “Non è stata stronza, semplicemente ha capito che stavamo crescendo e prendendo direzioni diverse.”
Sospirai. “D’accordo, non dico mai la cosa giusta. Sto zitta!”
Lui rise. “Comunque ora che entrambi abbiamo svelato qualcosa di compromettente sul nostro conto possiamo anche rivelarci i nomi. A nessuno dei due conviene ricattare l’altro.”
Sorrisi appena e gli tesi la mano – mi resi conto solo allora che mentre parlavamo ci eravamo fatti più vicini. “Bess. Devo pure stringerti la mano come fanno i vecchi?”
Lui scoppiò a ridere e la afferrò. “I vecchi?”
“Andiamo, a Los Angeles nessuno sotto i quarant’anni si presenta con una stretta di mano!”
“Nemmeno con i professori universitari?”
“E che ne so? Sono ancora al liceo! Comunque non mi hai detto il tuo nome.”
“Ah già!” Rise nuovamente. “Io sono Cole.”
Annuii. “Cole. Quindi tu ne sai più di me riguardo all’università, suppongo” indagai, studiandolo con attenzione.
Lui si strinse nelle spalle. “Ci studio.”
“Indirizzo?”
“Filosofia.”
Sollevai gli occhi al cielo. “Oddio.”
Lui piegò la testa di lato e sorrise sornione. “Adoro vedere la reazione della gente quando svelo la mia facoltà. Comunque cos’hai contro la filosofia?”
“Beh… non serve a un cazzo!”
“Oh, sì che serve. A un sacco di cose.”
Sollevai un sopracciglio. “Per esempio?”
Cole ci rifletté su per un attimo, poi schioccò le dita. “Sai cosa sostiene Nietzsche, uno dei più grandi filosofi tedeschi?”
Scossi il capo.
Senza musica la vita sarebbe un errore” enunciò lui, accennando al mio walkman.
Sorrisi beffarda. “A questo ci ero arrivata pure io, e non sono neanche Nietzsche! Però ha ragione” dovetti riconoscere, mentre estraevo la mia cassetta preferita e me la rigiravo tra le mani. La amavo così tanto che anche solo averla a contatto con la pelle mi faceva stare meglio.
“Cos’è?” si incuriosì lui dopo una veloce sbirciata.
Black Celebration dei Depeche Mode. Conosci?”
Lui scosse il capo. “Beh, veramente… non sono molto pratico, non ascolto quasi niente.”
“Ma come? Studi Nietzsche e non segui i suoi consigli? Che razza di filosofo sei?” lo presi in giro, teatralmente indignata.
Lui scoppiò a ridere. “In mia discolpa posso dire che a casa mia non si ascolta quasi mai musica, i miei genitori preferiscono il silenzio.”
“Che tristezza” commentai, pescando un’altra sigaretta dal pacchetto. “Ne vuoi una?” proposi a Cole.
“No, grazie, io non fumo.”
Mi accigliai. “E quello che avevi prima tra le dita cos’era, un bastoncino di liquirizia?”
“Era un caso eccezionale. Ma ora non ho più voglia di fumare.”
Ci scambiammo uno sguardo che significava tanto. Cole mi stava implicitamente ringraziando perché ero riuscita, grazie alle mie continue chiacchiere, a distrarlo e fargli dimenticare anche solo per un istante il motivo per cui si trovava là.
E anche io, dovevo ammetterlo, mi ero del tutto ripresa dall’attacco di panico e anche il senso di angoscia mi aveva abbandonato.
Ma come al solito mi sentii in dovere di aggiungere qualcosa per rovinare il momento quasi carino che si era andato a creare. “Certo che sei strano, comunque.”
Lui sorrise. “Anche tu non scherzi, a dire il vero.”
“Cole?”
“Sì?”
“Ho il trucco sbavato sulle guance, vero?”
Lui sorrise – aveva proprio un bel sorriso, gentile e luminoso. “Sì.”
“Cazzo!”
“Che importa? Siamo solo noi due.”
“Faccio spavento sicuramente” mi lamentai, passandomi il dorso di una mano sulla guancia – come se ormai potesse servire a qualcosa.
“È da più di mezz’ora che parliamo e ancora non sono scappato. Secondo te sono spaventato?”
Feci spallucce. “In effetti se ancora non sei fuggito a gambe levate, o non sei un essere umano o hai una pazienza invidiabile.”
Ci sorridemmo e io sentii che Cole non sarebbe più scappato.
E sentii che nemmeno io sarei più scappata.
Ma soprattutto sentii che forse, dopo anni di ricerca, avevo trovato qualcuno in grado di farmi sentire a casa. Almeno un po’.
 
 
 
Mi richiusi l’uscio alle spalle, sentendo il rombo della moto di Cole che sfrecciava via per la strada.
Io e lui continuavamo a vederci spesso, era l’unico che potessi considerare un amico da quando ero arrivata a Londra. Spesso andavamo in giro sulla sua moto o ci recavamo in centro per confonderci tra la folla e ricercare nuove avventure.
Lui era totalmente diverso da me, potevamo considerarci agli antipodi: Cole era un bravo ragazzo, proveniente da una buona e tranquilla famiglia, con un carattere mite e tanti sogni per il futuro. Studiava all’università, rigava dritto e non si metteva mai nei guai.
Il nostro legame era quasi surreale – l’avevo pensato fin da subito – ma c’erano tante cose che ci accomunavamo: la passione e la curiosità per l’arte, il modo di pensare fuori dagli schemi, il senso dell’umorismo e perfino la riservatezza sulle questioni che ci riguardavano.
Quando stavo con lui mi sentivo più pulita, più matura, più spensierata; una ragazza come tante altre. Era una sensazione che per le strade di Los Angeles non avevo mai provato.
Mi trovavo ancora nell’ingresso, intenta a sfilarmi il giubbotto in pelle che indossavo sempre quando salivo in moto con Cole, quando mi resi conto di essere osservata. Aggrottai le sopracciglia e lanciai un’occhiata a Joice e Crystal, che se ne stavano in piedi all’imboccatura del corridoio con gli occhi colmi di curiosità e aspettative.
“Che avete?” sbottai, già temendo la conversazione che si sarebbe sviluppata.
“Chi era quel tizio?” incalzò subito Crystal con malizia.
“Quale tizio?”
“Il biondo con la moto. Ti abbiamo appena visto con lui qui fuori!”
“Ma voi non vi fate mai i cazzi vostri?” le liquidai irritata, superandole e dirigendomi verso camera mia.
Ma, com’era prevedibile, non avevano intenzione di mollare: mi stettero alle calcagna continuando a ridacchiare e portare fuori congetture.
“È il tuo ragazzo?” domandò Joice.
Mi venne quasi da ridere: Cole, il mio ragazzo?!
“Non vi riguarda.”
“Ma noi lo vogliamo sapere! Dai!” insistette Joice. Lei e la gemella si erano intrufolate fin dentro la mia stanza.
Sbuffai e le ignorai, andando in cerca di qualcosa di più leggero da indossare. Faceva un caldo tremendo quella sera.
“Possiamo sapere almeno come si chiama?” proseguì Crystal, tuffandosi sul mio letto.
“Volete uscire o preferite che vi spedisca fuori a suon di calci in culo?”
“Se non ci vuole dire niente è perché sono davvero fidanzati” insinuò Joice in tono cospiratorio, ridacchiando.
“Non è il mio ragazzo! Contente? Che ve ne importa?”
Joice lanciò un gridolino. “Ma come no? È così bello…”
“Ora che so che non state insieme, posso farmi avanti io” cinguettò Crystal.
Mi voltai lentamente e le lanciai un’occhiata allibita. “Tu?!”
Lei sorrise sorniona e si passò le dita tra i lunghi capelli perfettamente pettinati. “Sei gelosa? Se non te lo prendi tu, è davvero un peccato lasciarlo a qualcun altro! È così bello… e così sexy! Con quella moto poi…”
Scoppiai a ridere: era surreale sentir parlare così una ragazzina di nemmeno quattordici anni che fino al giorno prima pestava i piedi per avere le caramelle da mamma e papà. Mi strinsi nelle spalle. “Se vuoi provaci pure, ma ho molti dubbi che farai breccia nel cuore di Cole.”
Joice e Crystal erano delle bambine in confronto a lui, al massimo avrebbe potuto far loro da baby sitter.
“Oh, si chiama Cole? Ha anche un nome stupendo!” si entusiasmò lei, lanciando un’occhiata complice a Joice.
“Oddio…” bofonchiai tra me, richiudendo l’anta dell’armadio. “Adesso ve ne potete andare? Grazie.”
“Sei gelosa?” si informò Joice.
“Sì, tantissimo” ribattei in tono sarcastico.
“Quando vi dovete vedere la prossima volta?” continuò Crystal.
Ora basta.
Mi avvicinai a loro, afferrai Crystal per la maglietta e la strattonai per farla alzare dal mio letto, poi la spinsi verso l’uscita e feci altrettanto con la gemella, prendendola per un polso. “Sparite o non risponderò più delle mie azioni!”
Ignorai le loro proteste e, una volta sola, chiusi con forza la porta e girai la chiave. Mi stavo già pentendo di essere rincasata e non aver direttamente cenato fuori.
 
 
 
Le acque torbide del Tamigi scorrevano e ribollivano davanti ai nostri occhi; quando faceva caldo avevo l’impressione che fossero ancora più sporche del normale, che si trasformassero quasi in una palude. Non che mi interessasse troppo, ma quando la scrutavo sentivo la forte mancanza del mio amato Oceano Pacifico, in cui tante volte mi ero immersa.
Sbuffai fuori una nuvola di fumo e lanciai una fugace occhiata a Cole, che se ne stava appollaiato sull’erba al mio fianco e aveva a sua volta lo sguardo perso nel fiume. “Un’altra volta mi ero addormentata in spiaggia dopo un falò” ripresi il racconto che avevo lasciato a metà, “e il giorno dopo mi sono risvegliata con la faccia tempestata di punture di zanzara. Ti giuro, sembravo un colabrodo!” Sorrisi al ricordo per metà traumatico e per metà esilarante. Mi piaceva condividere le follie che mi erano capitate – e che avevo combinato – con Cole, era il modo più sincero che avevo per raccontargli del mio passato. Non gli parlavo quasi mai delle parti più brutte e dolorose, ma semplicemente perché speravo di dimenticarle e rivangarle non avrebbe aiutato.
Cole rise. “Un ricamo sulla faccia, praticamente! Ti prego, dimmi che hai una foto ricordo!”
“Non ce l’ho, e se ce l’avessi sicuramente non la sbandiererei ai quattro venti!” Gli diedi di gomito. “Tu ci ridi sopra, ma quegli stronzi dei miei amici hanno davvero provato a unire i puntini per vedere se saltava fuori un disegno…”
“Geniali!”
“Bastardi” lo corressi, per poi sorridere nostalgica. “E quella non è stata nemmeno la volta peggiore! Non hai idea dello sfogo e dell’infiammazione che ho avuto quando ho fatto questo” raccontai, accennando al piercing al sopracciglio destro.
“Quando l’hai fatto?”
“Mmh… due o tre anni fa, più o meno. E proprio quel fine settimana dovevo andare a un concerto in Sunset Strip, ero disperata! Io e Muriel avremo finito almeno due confezioni di fondotinta per coprire quel casino!” Ridacchiai, rivivendo nella mente quel momento disastroso eppure a suo modo magico. “Però alla fine è stato divertente…”
Persi nuovamente lo sguardo nel fiume e repressi un sospiro. Avevo sempre pensato di non appartenere a nessun luogo in particolare, avevo sempre detestato la mia casa e il mio quartiere che mi aveva tolto la voglia di sognare, mi ero sempre lamentata della mia vita e del mio continuo senso di insoddisfazione; quando mi si era presentata l’occasione di partire, l’avevo fatto senza pensarci due volte e senza mai voltarmi indietro.
Ma in fondo, per quanto mi costasse ammetterlo, mi mancavano quelle giornate della mia vecchia e incasinata vita. Mi mancava l’Alibi, mi mancavano i locali di Hollywood e i concerti glam rock, mi mancava il mare. Mi mancavano Muriel, Fanny e tutti i miei amici, mi mancavano i ragazzi con cui andavo a letto.
Forse stavo arrivando a sentire la mancanza addirittura di Yelena e di mio padre.
Anche se faticavo a definire Los Angeles casa, un frammento di me probabilmente era rimasto laggiù.
“Ehi” mormorò Cole, sfiorandomi appena un braccio per attirare la sua attenzione.
Non risposi e non mi mossi.
“Momento di nostalgia?” proseguì lui, la voce gentile e venata di apprensione.
“Detesto ammetterlo” replicai soltanto, prendendomi la testa tra le mani. Non era da me comportarmi così, in genere cercavo di mostrarmi sempre contenta e forte, ma certe volte il vuoto al centro del petto si faceva troppo grande. E a Cole non potevo nascondere niente, non ne sentivo il bisogno.
Lui non aggiunse altro ma, dopo qualche istante di esitazione, si accostò maggiormente a me e mi circondò le spalle con un braccio.
Rimasi spiazzata, quasi spaventata da quel contatto: nessuno mi dedicava mai gesti d’affetto come quello, nessun ragazzo osava sfiorarmi a meno che il suo intento non fosse quello di portarmi a letto – non gliel’avevo mai concesso, del resto.
Eppure non mi sentivo a disagio, sapevo che Cole era mio amico e fidarmi di lui mi veniva spontaneo. Abbandonai il capo sulla sua spalla e mi accoccolai accanto a lui, godendomi quell’insolito attimo di dolcezza e sentendo pizzicare gli occhi. Era una sensazione che mi faceva sentire debole, patetica, ma non fui in grado di sottrarmi a quell’abbraccio.
Restammo in silenzio per diversi minuti, Cole non compì nessun altro gesto e si limitò a tenermi vicina con una naturalezza talmente bella da spezzarmi il cuore. Non sapevo cos’avessi fatto per meritare un amico del genere, ma improvvisamente – forse per la prima volta dopo anni – mi sentii fortunata.
Era vero, non appartenevo a nessun luogo, la mia anima era nomade e non si era mai davvero sentita a casa. Ma un frammento di essa apparteneva a quell’angolo di mondo accanto a Cole; un frammento apparteneva alla mia vecchia casa, un frammento apparteneva all’Alibi, un altro frammento apparteneva alle strade colorate di Camden e chissà in quali altri luoghi avrei lasciato un pezzetto di me.
Quanti altri casini avrei combinato, quante altre volte mi sarei spezzata le ossa e quanti cocci avrei dovuto raccogliere da terra per rimettere insieme quel casino che era la mia vita. Ma in fondo avevo solo diciassette anni e la mia strada la dovevo ancora trovare, la mia casa la dovevo ancora cercare.
Quindi mi sarei rialzata e sarei andata avanti. Con le mie forze e le mie insicurezze, come sempre, ma non mi sarei mai fermata.
 
 
 
 
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E siamo giunti al terzo e ultimo capitolo di questa raccolta interamente dedicata a Bess! Forse qualcuno dirà “finalmente”, visto che tirando le somme sono in tutto 30.000 parole, ma a me dispiace tantissimo. Amo Bess, ho amato scrivere la sua storia e potrei scrivere ancora e ancora; la stesura di questa raccolta è di un’importanza enorme, sia per me in quanto autrice sia per la serie.
Ma non temete: questa ragazza ha ancora tanto da dire e sicuramente tornerà presto, in altre storie e in altre situazioni.
Ed ecco che, con la parentesi londinese, introduco un nuovo personaggio: Cole. Che ve ne pare di lui?
Non mi sento di aggiungere tanto, vi lascio solo a una piccola notina: Black Celebration è il quinto album dei Depeche Mode, pubblicato il 17 marzo del 1986; seppur non tra i più celebri lavori della band, segnò il passaggio della band da un synth pop allegro tipico degli anni Ottanta un sound più cupo e denso di sperimentazioni, quello che ha reso famosi e riconoscibili i Depeche Mode. Questi ultimi sono e sempre saranno il gruppo preferito di Bess – spoiler non spoiler XD – e ho pensato che questo fosse il disco giusto per farglieli scoprire, in una fase della vita così delicata.
Stripped è la settima traccia dell’album, nonché primo singolo estratto (10 febbraio 1986); a mio parere è di una bellezza e una potenza incredibili. Vi lascio qui il link:
Stripped
Grazie a chiunque sia giunto fin qui, spero davvero che leggere questa storia vi abbia emozionato e coinvolto come hs emozionato e coinvolto me scriverla!
Ci si vede presto per un nuovo viaggio e una nuova avventura ♥
 
 
   
 
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