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Autore: Xeire    11/08/2021    1 recensioni
Un mondo devastato e un ragazzo che ha perso tutto. Un organizzazione ribelle e un giovane capo che deve dimostrare costantemente di essere meritevole del suo posto. Un soldato costretto a nascondere i propri sentimenti. In questa realtà, dove conta solo essere forti per sopravvivere, c'è spazio per l'amore, la fiducia, l'amicizia? Ma, soprattutto, sono stati davvero degli eventi naturali a distruggere l'umanità, oppure, c'è dietro qualcosa di più grande?
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4.
Julie dovette prendersi un minuto per ricomporsi e nascondere l’inevitabile sorpresa. Avevano catturato un Pulcino? Era una spia? Si era costituito di sua spontanea volontà?
Dovette scacciare tutte le domande, i dubbi e le incertezze che le affollavano la mente e indossare la sua miglior maschera di indifferenza: lei era il Capo e da tale doveva comportarsi. Sguardo duro, schiena dritta e nessuna esitazione.
Si prese qualche secondo per studiare scientificamente -come faceva quando studiava ancora alla facoltà di Chimica e si trovava davanti un composto da identificare- il ragazzo che aveva davanti: alto (circa 1.85) abbastanza muscoloso (all’incirca 80 kg), capelli neri, occhi neri, tratti ispanici. Posizione eretta e ben salda, (come un leone appostato dietro un albero e pronto a saltare addosso alla sua preda): probabilmente è una persona abituata a correre, scappare e reagire a qualsiasi stimolo, pensò.
Sguardo confuso ma risoluto; pugni stretti, spalle rigide. Non sa perché si trova qua e pensa di dover in qualche modo combattere per fuggire, concluse Julie.
Era estremamente brava a capire le persone. Negli ultimi anni aveva avuto a che fare con qualsiasi tipo di individuo -i furbi, gli ingenui, i paurosi, i crudeli, i meschini, i gentili- e, ormai, dopo un’attenta osservazione di chi aveva davanti riusciva a dedurre parecchie cose. Sapeva che il ragazzo era spaventato, ma non voleva darlo a vedere (provava a ostentare sicurezza in ogni modo), sapeva che era molto stanco e debole (i suoi occhi erano cerchiati di nero e, anche se voleva nasconderlo, il suo corpo era estremamente spossato), sapeva che era pronto a tutto per non farsi imprigionare.
Tuttavia, una semplice osservazione non era sufficiente per capire le cose fondamentali: chi era e cosa ci faceva lì.
Julie chiuse il libro e lo appoggiò con calma sulla scrivania di legno, su cui aveva disteso le gambe. Doveva sembrare calma e rilassata, come se il ragazzo non rappresentasse una minaccia: non doveva in alcun modo pensare di essere un pericolo.
Lo guardò negli occhi con fermezza. “Hai cinque minuti per dirmi chi sei e che cosa vuoi” disse severamente “e non mi piacciono le cazzate. Vedi di essere sincero”
Il ragazzo non rispose; la stava osservando, ma in modo strano. Non stava facendo una valutazione scientifica, come aveva fatto prima lei, ma sembrava... curioso. La guardava come un ragazzo normale avrebbe guardato una ragazza normale. Questa cosa mise Julie in imbarazzo e si sentì avvampare le guance: nessuno l’aveva mai osservata in quel modo, da molti anni.
“Lo vedi quell’orologio? Sono già passati 30 secondi. Parla o ti farò parlare io”
Lui fece una smorfia e Julie sussultò: aveva appena soffocato un sorriso? Chiaramente non la riteneva degna di rispetto. Sentì la rabbia crescerle dentro, montare dalle viscere del suo stomaco e risalire per l’esofago, bruciandola da dentro. Per tutta la vita aveva dovuto faticare per farsi rispettare. Sia prima, quando il compagno di sua madre le diceva che non valeva niente e che, se almeno fosse stata bella, avrebbe combinato qualcosa, quando all’università era l’unica femmina in laboratorio e i suoi colleghi maschi la ignoravano, sia dopo, quando, da ragazzina quale era aveva dovuto lottare per farsi ascoltare, per non mostrarsi mai debole e per riuscire a guadagnarsi il rispetto di tutti. E c’era riuscita: nessuno vedeva una ragazza, ma tutti vedevano un leader.
Poi questo sconosciuto, con quel sorriso soffocato, come a dire:” ma chi vuole prendere in giro questa ragazzina? Vuole davvero farmi paura?” aveva vaporizzato tutto e le sue più grandi insicurezze stavano tornando a galla.
Julie era sempre stata una persona calma e razionale, una persona che preferiva valutare e pianificare, piuttosto che agire senza riflettere. In quel momento si comportò diversamente dal solito. Appena vide quel sorrisetto subito soffocato non riuscì a mantenere la calma: prese di scatto il suo coltello da lancio che stava sulla scrivania e lo lanciò. Un dilettante avrebbe colpito il ragazzo, ma lei era un cecchino esperto, la migliore della Compagnia dopo Igor. Il coltello passò a pochi millimetri dall’orecchio destro del ragazzo e si conficcò nel bersaglio delle freccette che teneva appeso alla parete.
Lui sgranò gli occhi e si passò le dita sull’orecchio: ovviamente non c’era sangue, perché il tiro di Julie era stato preciso e pulito.
“Un’altra cosa che non mi piace è dover aspettare. Comincia a parlare o la prossima volta il bersaglio sarà la tua fronte”
Il ragazzo fissò le dita che si era passato sul lobo, come se si aspettasse di veder comparire del sangue da un momento all’altro. Alzò la testa e disse “Mi chiamo Marco. Vengo da un lungo viaggio. Sono stato rapito dalle Ali e sono fuggito. Ho rubato la giacca ad uno di loro e il loro furgone per scappare lontano, ma poi sono rimasto a piedi e sono arrivato fino qua”
“Tutto qua? Mi sembra un po’ troppo breve e comoda come storia. Devi convincermi che non sei una spia mandata da loro o che non hai a che fare in alcun modo con quei Pulcini”
Il ragazzo, Marco, trasse un profondo sospiro, come se non avesse voglia di sorbirsi quell’interrogatorio. Questo fece di nuovo infuriare Julie, che, stavolta, si impose di rimanere calma.
“La mia storia è molto lunga. Non rientrerei nei tuoi cinque minuti” disse, beffardo.
“Tutti di questi tempi hanno una storia lunga, non sei speciale, conne” . Si augurò che Marco sapesse il francese, perché gli aveva appena dato dell’idiota. Quando era arrabbiata le scappava qualche parola in quella lingua. “Tu comincia a parlare: se la tua storia è interessante non starò a guardare l’orologio”
Lui iniziò a parlare con un finto tono solenne: ”Sono nato a Chicago, nel South Side, da Maria Sanchez…”
Julie avrebbe voluto alzarsi e dargli un pugno in faccia, ma non c’era motivo di dargli soddisfazione. Continuò a guardarlo in faccia con fermezza, come se non le importasse in fatto che la stava sottilmente prendendo per il culo.
“Poi, all’età di tre anni, mentre andavo in bicicletta… aspetta forse sono partito troppo dall’inizio? Ti sto annoiando?”
Non può comportarsi così. Devo fargli capire chi è che comanda, pensò. “Forse qualche giorno nella cella di isolamento ti farà passare la voglia di scherzare.” Si alzò in piedi e vide, finalmente, vacillare quello sguardo sarcastico e strafottente. “Niente cibo, solo acqua, per tre giorni. Poi, magari, avrai voglia di raccontarmi la tua storia e di essere sincero con me” concluse.
“Aspetta!” esclamò, con un’espressione di panico dipinta sul volto. Poi si ricompose. “Non è necessario arrivare a misure così drastiche, stavo solo scherzando un po’, sai… per smorzare la tensione”
Non ci voleva un genio per capire che a Marco non piacesse essere tenuto prigioniero. Julie si sentì soddisfatta: aveva fatto centro sul suo punto debole.
“Va bene, ma è la tua ultima possibilità. Altri scherzetti e i giorni in isolamento non saranno tre, ma una settimana intera. Puoi cominciare”
 
 
Quando Marco venne spinto nella stanza da Igor o da John, si aspettava di trovarsi davanti una persona corpulenta, coperta di cicatrici o tatuaggi, con uno sguardo duro, sui quarant’anni. Invece si trovò davanti una ragazzina bionda con due trecce, che la facevano sembrare ancora più piccola. Marco le dava sui sedici, massimo diciassette anni, a causa di quel viso tondo di quegli enormi occhi scuri.
Era da tanto che non vedeva una ragazza, e si trovò, sorpreso, ad osservarla. Era un po’ in penombra, e non riusciva a vederla bene, ma gli ricordava molto sua cugina Alba: voleva apparire determinata, ma sotto sotto era solo una bambina spaventata. Aveva un naso aquilino, che le dava un’aria un po’ più dura, e le spalle larghe, le braccia molto più muscolose del normale, per una ragazza della sua età.
Quando lei si sporse in avanti, per vederlo meglio, Marco vide una cicatrice sul suo volto, che si estendeva sulla parte destra della faccia, come il prolungamento di un sorriso. Non era decisamente quella che potesse essere definita una bella ragazza, ma in lei c’era qualcosa di affascinante: non riusciva a distogliere la vista dai suoi occhi. Erano neri, ma incredibilmente luminosi, come il cielo di notte illuminato dalle stelle e dalla luna.
Se Marco pensò per un secondo che potesse essere una persona interessante, quella rovinò tutto parlando: si atteggiava con superbia e tentava di infondere nella voce un tono intimidatorio, inchiodandogli addosso, con espressione decisa, quegli occhi nerissimi. A Marco venne da ridere: non riusciva proprio a far combaciare quel viso da bambina con quel modo di fare autoritario; cercò di soffocare il sorriso, ma, a quanto pare, non era stato abbastanza veloce e, l’attimo dopo, pensò che la sua vita sarebbe terminata così: la ragazza si alzò -era veramente alta, per la sua età-, prese un coltello e, senza esitazione, lo lanciò nella sua direzione. Accadde tutto così in fretta che Marco non ebbe nemmeno il tempo di schivarlo: rimase immobile come un blocco di ghiaccio, mentre l’arma gli passava a qualche millimetro dall’orecchio. Questa è loca, pensò. Questo gesto, invece di intimorirlo, lo fece infuriare. Aveva attraversato tutta Italia, era stato catturato, scappato, fatto prigioniero di nuovo per trovarsi davanti una ragazzina che gli lanciava coltelli addosso: non avrebbe fatto il suo gioco.
Iniziò a rispondere in modo beffardo alle sue domande, sia perché raccontare la sua storia equivaleva a una coltellata nel petto, sia perché non voleva darle soddisfazione. Vedeva come cercava di trattenersi, il modo in cui tentava di mantenere il controllo e pensò di averla in pugno, ma si sbagliava: fu lei ad averlo in pugno quando nominò l’isolamento. Essere imprigionato era la cosa che lo spaventava di più al momento.
Il momento peggiore che Marco potesse immaginare era decisamente arrivato: raccontare tutta la sua storia a voce alta. Ciò voleva dire dover rivivere uno per uno quegli eventi e ammettere che erano stati reali e non un interminabile incubo.
Iniziò a parlare di cosa era successo in America -“Ecco perché ha un accento strano” commentò sottovoce lei-, dell’epidemia, dei governi, dei ghetti. Non menzionò mai Javier, non ce l’avrebbe fatta: rischiava di iniziare a piangere davanti a lei, ed era l’unica cosa che voleva. Disse che aveva organizzato una fuga in Europa, che aveva preso una nave ed era approdato in Sicilia. Parlò del suo viaggio verso il nord Italia, di tutta la gente che aveva incontrato, ma non proferì parola sulle persone che aveva visto morire. La sua continua fuga dalle Ali, il periodo in cui si era stabilito a Urbino, dove aveva conosciuto la zia Jo e tutti gli altri al Mercato locale. Proseguì con la fuga dalla città dopo l’esplosione del Mercato provocata dalle Ali (e qui ebbe una terribile fitta al petto), fino a quando, giunto in Piemonte, era stato catturato dalle Ali, era scappato ed era giunto lì.
La ragazza continuò a fissarlo per tutto il tempo con il suo sguardo intimidatorio, senza dire niente. Quando lui ebbe finito di parlare lei disse: “Bene. Adesso mi serve tempo per riflettere sulla tua storia.”
Schiacciò un pulsante e la porta si aprì. “Igor, portalo nella cella numero 33. Domani mattina faremo un’assemblea per decidere cosa farne”
Marco non riusciva a crederci. Aveva fatto quello che voleva lei e si ritrovava comunque imprigionato. Non era giusto, non poteva accettarlo.
“Tu mi hai mentito! Ti ho detto tutto! Non puoi mettermi in isolamento!”
“Punto primo: io sono il Capo, e posso fare quello che voglio. Punto secondo, ti ho detto che ti avrei mandato in isolamento se non avessi parlato, ma non ho mai detto che se l’avessi fatto ti saresti salvato. Punto terzo la cella 33 non è d’isolamento, avrai un compagno”
Marco non ci vide più. Fece per andare verso quella spocchiosa ragazzina e prenderla per il collo, ma venne fermato da Igor, che era il doppio di lui. Cominciò a urlare e scalciare, a insultare quella ragazza di cui non sapeva nemmeno il nome. Dovette venire anche John per tenerlo fermo e trascinarlo fuori da quella stanza. Lui continuò ad agitarsi, finché Igor non estrasse una pistola. “Adesso farai un sonnellino” disse, e lo colpì in testa.
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Ciao a tutt*! Finalmente sono tornata con uno dei capitoli piò importanti, ossia l'incontro tra i due protagonisti che avete conosciuto fino ad adesso. Ho preferito farlo corto, in modo  da approfondire meglio le varie questioni nei capitoli successivi. Ho voluto fare due pov, in modo da far capire cosa provano entrambi i protagonisti quando si incontrano. Spero che vi sia piaciuto. Come sempre recensioni e critiche costruttive sono ben accette.
PS: il prossimo capitolo sarà su Matthias, il luogotenente; ha parecchie cose da raccontare ;)
A presto, Xeire. 

 
   
 
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