Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    18/08/2021    1 recensioni
“Come andiamo oggi?” chiede Moblit, entrando nella stanza carico di biancheria pulita.
Non si scompone di fronte al silenzio che riceve come risposta, si libera le mani e si avvicina per posargli lievemente il palmo sulla fronte.
“Molto bene” commenta allegro, “la febbre non è risalita. Immagino ti senta abbastanza in forze, considerato che hai cacciato Jean.”
Genere: Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Moblit Berner
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Hurt/Comfort

What-if

Alive!Marco

Postural defects

Caretaker!Moblit

JeanMarco

 

 

Just a little bit imperfect

 

 

 

 

Pulviscolo.

Marco lo osserva da almeno un'ora: lo fa per non pensare.

Segue la traiettoria dei granelli di polvere che volteggiano lievi nella stanza illuminata dal sole.

Li osserva da quando lo sbattere secco della porta ha fatto da eco al suo ingiusto vattene Jean, lasciami solo; da quando il senso di colpa ha preso a rosicargli le viscere come certi disinfettanti che ha avuto modo di sperimentare sulle proprie ferite quando era ancora ricoverato nell'ospedale di Trost.

Non voleva mandarlo via, Jean è il motivo per cui è vivo, per cui sente di poter vivere nonostante tutto, ma non voleva neanche che lo spogliasse e lo portasse in braccio fino alla vasca, per poi fargli il bagno come a un neonato.

Non sarebbe neanche stata la prima volta, per la verità, sono passati quasi due mesi dall'incidente e Jean si è sempre occupato di lui, ma sono cinque giorni che non ha febbre, le sue ferite sono per buona parte cicatrizzate e nonostante la debolezza, scalpita per riprendere il controllo del suo corpo.

Un lieve brusio di voci si leva da dietro la sua porta chiusa, seguito dallo scatto secco della maniglia e dal cigolio dei cardini.

“Come andiamo oggi?” chiede Moblit, entrando nella stanza carico di biancheria pulita.

Non si scompone di fronte al silenzio che riceve come risposta, si libera le mani e si avvicina per posargli lievemente il palmo sulla fronte.

“Molto bene” commenta allegro, “la febbre non è risalita. Immagino ti senta abbastanza in forze, considerato che hai cacciato Jean.”

Sussulta, il senso di colpa lo punge con una perfidia tutta nuova, Moblit finge di non accorgersene.

“A proposito” aggiunge, “l'ho trovato qui fuori, seduto a terra con la testa tra le braccia e la schiena curva” continua con noncuranza, mentre scosta il lenzuolo dal suo petto per controllare le fasciature. “Un cane bastonato avrebbe avuto un aspetto migliore.”

“Per favore, fallo entrare” prorompe Marco pentito. “Devo scusarmi, non avrei dov-”

“L'ho mandato in città con la squadra degli approvvigionamenti” lo interrompe Moblit, senza alzare gli occhi dalle bende che ha iniziato a sciogliere. “Sarà di ritorno stasera. Riesci a sederti?”

Non glielo ha mai chiesto nessuno da quando è stato ferito. Del resto è stato talmente debole e così bisognoso d'aiuto che infilargli un braccio sotto le spalle e sollevarlo era diventato un rituale necessario.

E probabilmente, qualcosa dello stupore che prova deve essersi stampato sul suo volto, perché Moblit accosta una sedia al letto, si siede e gli rivolge un sorriso incoraggiante.

“Ruota sul fianco destro” gli dice, “posa il palmo sul materasso all'altezza del bacino e fai forza sul braccio.”

Marco impiega qualche istante a comprendere che quelle direttive prevedono di appoggiarsi sul fianco ferito.

“Tranquillo” lo rassicura Moblit. “Le ferite si stanno cicatrizzando bene. Puoi farlo.”

È strano per Marco ricominciare a considerare il lato destro come parte utile del suo corpo: l'ha sempre ritenuto intoccabile e inutilizzabile.

Una zavorra.

Una limitazione.

Non qualcosa che può ancora usare.

Fatica a crederlo, ma quando comincia a muoversi si rende conto che è più facile di quello che pensava; Moblit annuisce con consapevolezza di fronte a ciò che per lui è una scoperta e posandogli una mano sul ginocchio, accompagna i suoi movimenti fino a guidargli le gambe fuori dal bordo del letto.

Marco si ritrova seduto prima che possa rendersene conto, ed è una strana sensazione, dopo essere stato sdraiato per così tanto tempo.

Così strana da fargli piegare le labbra in un sorriso e lacrimare nello stesso istante.

“Perfetto” dichiara Moblit permettendosi un colpetto al suo ginocchio per sottolineare il proprio entusiasmo. “D'ora in poi migliorerai a vista d'occhio” aggiunge, porgendogli comprensivo un fazzoletto.

“La Caposquadra Hanji, stamani, non ne sembrava così convinta” si sente in dovere di chiarire Marco, tamponandosi l'area sotto la benda che gli copre l'occhio destro. “Jean si è spaventato e non voleva lasciarmi solo neanche per... e io...”

“Hanji ha perso un paziente stanotte” lo blocca Moblit; gli posa una mano sul collo e aggancia il suo sguardo: “Sapevamo che sarebbe successo. Non ha mai avuto speranza di farcela, non come te, Marco, ma Hanji certe volte” sospira “ha bisogno di credere nei miracoli e quando non avvengono...”

C'è qualcosa nel modo in cui Moblit chiude gli occhi, che a Marco ricorda la quieta accettazione che ha visto molte volte sul volto di sua madre nei periodi aspri.

Vorrebbe dirgli che gli dispiace, che dannazione, avrebbe dovuto essere più comprensivo con le persone che gli hanno salvato la vita e che in fondo volevano soltanto il suo bene, ma Moblit scuote la testa come se avesse seguito il filo dei suoi pensieri.

“Hanji sta riposando ora, e quando si sveglierà sarà di tutt'altro avviso riguardo al tuo stato di salute, vedrai” lo rassicura. “Quanto a Jean” riprende dopo un istante, “vedrà la verità con i suoi occhi.”

Si alza di nuovo allegro, gli posa un palmo sotto il mento e l'altra mano tra le scapole.

“Raddrizza la schiena” gli dice, esercitando una lieve pressione.

E Marco ha quasi paura di farlo, di stare dritto e impettito, mostrando con disinvoltura il suo corpo menomato.

“Coraggio” lo incita Moblit. “Hai vinto la tua battaglia, sei sopravvissuto laddove molti si sarebbero arresi. Devi esserne fiero.”

Lo fa sembrare eroico, e un paio di mesi fa l'avrebbe creduto anche lui, ora invece...

Si sforza di non pensarci, solleva la testa e tira indietro le spalle: è sbilanciato sul lato sinistro, se ne rendo conto da solo.

“Esatto” conferma Moblit, intuendo la domanda che non è riuscito a farsi uscire dalle labbra. “Il peso è maggiore da quel lato, adesso.”

Sposta una mano sotto il suo gomito e lo spinge piano verso l'alto, riallineando le sue spalle.

“T'insegnerò a correggere la postura” gli dice, “ma non ora. Adesso finiamo di togliere queste bende.”

Cambiare le fasciature è sempre stata una procedure lunga e dolorosa per Marco, non è abituato a vederle cadere sulle sue ginocchia con facilità: il sangue che le macchia è poco e quasi non sente dolore.

Moblit osserva con attenzione ogni ferita, poi solleva il volto soddisfatto.

“Sei quasi guarito” dichiara con decisione. “Jean è stato preoccupato per te così a lungo, che non se n'è accorto. E Hanji era spaventata.”

È solo un commento, pronunciato con semplicità.

Per Marco è la chiave che lo libera dalla gabbia, quella che aprendosi gli restituisce autonomia e dignità.

Sente la frenesia crescergli in petto, non ricordava neanche che sensazione fosse, ma sente che vuole con tutte le sue forze quella libertà.

Rivuole indietro la sua vita.

“Che ne dici” gli chiede Moblit, sfoggiando un sorriso complice. “Facciamo una sorpresa al tuo ragazzo?”

 

***

 

Esita.

Moblit seduto di fronte a lui, evita in ogni modo di fargli pressioni.

Marco si sente quasi in colpa per l'espressione bonaria e indulgente che gli sta rivolgendo da quando, tra i denti, ha mormorato di aver bisogno di un paio di minuti, prima di provare a reggersi in piedi sulle proprie gambe.

“Mi dispiace” si scusa, quando è chiaro che di minuti ne sono passati almeno dieci e l'attesa sta diventando imbarazzante. “Immagino che ci siano altri pazienti, in questo momento, che hanno bisogno d'aiuto.”

“Adesso sono con te, Marco” gli risponde tranquillo. “Comunque, Nifa e Lauda si stanno occupando degli altri, e c'è anche Lia con loro. Ma forse” azzarda piegando la testa di lato, “c'è qualcosa che ti spaventa...?”

A Marco fa paura persino la domanda che lo costringe a pensarci.

Teme lo spazio intorno a lui e l'idea di essere lì in mezzo, solo, esposto, nudo. E si chiede perché senta così tanto la mancanza del dispositivo per il movimento tridimensionale, sa che non ci sono giganti pronti a divorarlo lì...

Sospira, e s'impone di mostrare una calma che non sente.

Moblit gli posa incoraggiante una mano sul ginocchio.

Le coperte del letto, per quanto vi fosse costretto dalle ferite e dalla debolezza, circoscrivevano l'aria entro la quale sapeva di potersi muovere in sicurezza: lo facevano sentire al sicuro.

Adesso, che quelle stesse coperte sono un groviglio ai piedi del letto e che le sue gambe penzolano dal bordo come sul crinale di un baratro, si sente come se ad attenderlo non fosse la vasca da bagno dall'altro lato della stanza, ma un salto nel vuoto.

“Non so cosa mi prenda” ammette. “So di non aver danni alle gambe, ma...”

Esita di nuovo.

L'espressione di Moblit si fa pensosa: “Bè, in realtà sull'equilibrio influiscono anche altri fattori” riflette, “ma non credo che sia una buona idea preoccuparsene prima del tempo.”

Gli afferra la mano e la guida sulla propria spalla.

“Coraggio” gli dice. “Ci alziamo insieme.”

La mano che posa sul suo fianco sinistro, pronta a sostenerlo nel caso cadesse, ha una presa salda; quella sul destro invece è lieve come una piuma.

“Distanzia i piedi e fai forza sulle gambe” gli dice. “Reggiti alla mia spalla.”

Caccia via i pensieri che non riesce a comprendere del tutto e si sforza di seguire le direttive: lo ha fatto anche quando prevedevano cose difficili, dolorose e imbarazzanti, si ripete che questa, al confronto, è facile e può farcela.

La stanza cambia prospettiva mentre si alza: rimpicciolisce, le zone tagliate fuori dal suo campo visivo sulla destra, invece, rimangono le stesse; si spostano solo leggermente, ed è solo un caso, si ripete, che vadano a colpire proprio quelle parti che non gli piace rimangano nascoste: come la porta, ad esempio.

Volta di scatto la testa al suono improvviso dei cardini che cigolano e barcolla.

La stanza gira intorno a lui, sente le ginocchia cedere, distingue a stento due voci nella stanza, mentre contro il suo torace si espande il calore confortante di qualcuno che lo sta sostenendo.

“Ti tengo, stai tranquillo” sussurra la voce di Moblit, vicino al suo orecchio, mentre il respiro si fa pesante nel suo petto, imbrigliato dalla paura e da una tensione che non riesce a comprendere.

“Adesso, con calma, ci sediamo di nuovo” continua, guidandolo sul letto senza allentare la presa sotto il suo braccio.

Distingue a malapena la voce di Lia che si scusa ed esce dalla stanza, e bagna la spalla di Moblit con un sospiro umido, quando finalmente sente sotto di sé la solidità del letto: non si era nemmeno reso conto di aver chiuso l'occhio.

“Sei andato bene, Marco” mormora ancora, “non avere paura, è stato solo un capogiro.”

E ora che non deve più sorreggerlo, sente il suo braccio avvolgergli le spalle e massaggiarlo con dita abili in punti che cancellano la rigidità dolorosa del suo corpo.

“Ci riproveremo, ma adesso rilassati” ordina, e sono le sue mani più che il comando a sciogliere il terrore che gli attanaglia le viscere: scorrono su e giù per la sua schiena, di tanto in tanto si fermano per esercitare una leggera pressione sui muscoli contratti e l'unica cosa che Marco riesce a fare è posare la guancia sulla sua spalla e respirare piano, seguendo il ritmo di quelle mani.

Ha quasi la sensazione di essersi appisolato quando Moblit lo riporta alla realtà con una breve carezza sulla nuca. Si scosta da lui, solo quando è sicuro che sia in grado di rimanere seduto da solo e afferra dal tavolino un bicchiere d'acqua.

“Bevi questo” gli dice porgendoglielo.

Marco osserva le proprie dite avvolte attorno al vetro: sono ancora scosse da un tremito lieve, ma riescono comunque a portare il bicchiere alle labbra; Moblit di fronte a lui sorride con simpatia.

“Ti va di riprovare?” gli chiede.

 

***

 

Al terzo fallimentare tentativo di fermare la camicia sulla spalla destra e infilare la manica sinistra, Marco sente scomparire tutto l'entusiasmo.

Moblit l'osserva con espressione concentrata e non commenta.

“Non ci riesco” si arrende, gettando l'indumento sul letto e rifiutandosi di sollevare di nuovo il viso.

Non si sente particolarmente maturo, mentre volta la testa verso il muro, serrando le labbra, ma ha la mano che trema, la schiena che duole e quella camicia continua a scivolargli dalle spalle, e lui...

“Sei stanco” decreta Moblit.

Ha ragione, ammette Marco a se stesso, posando il braccio in grembo con un sospiro; lo era ancor prima d'infilarsi nella vasca da bagno: gli sono bastati i pochi metri che ha percorso con le proprie gambe a rendere il suo respiro affannoso e il suo corpo troppo pesante da spostare.

Adesso, seduto sul letto appena rifatto, non riesce a far altro che respirare piano per ostacolare la nausea e sperare che Moblit, davanti a lui con un espressione per la prima volta indecifrabile, non gli ordini di sdraiarsi e dormire, perché quella è l'ultima cosa che il suo ritrovato orgoglio gli permetterebbe di fare.

“Posso darti un consiglio?” esordisce Moblit dopo lunghi istanti carichi di silenzio.

Marco abbozza un cenno di assenso sotto il broncio.

“Lascia perdere le camice.”

 

Alla fine indossa una delle casacche che usava prima di arruolarsi.

Gli sta grande, anche se è vecchia di tre anni, ma si sente più simile a se stesso di quanto non lo sia stato nelle ultime settimane.

“Meglio, non credi?” ne conviene Moblit, arrotolando su se stesso il tessuto inutile della manica destra.

Marco vorrebbe dirgli che sì, è meglio, è molto meglio.

E spera che Moblit possa capirlo, perché ha un nodo di commozione che gli blocca la gola e non riesce a parlare, altrimenti gli direbbe che indossare da solo vestiti veri è una bella sensazione e che ritrovarsi finalmente solo dietro al paravento della vasca ha significato per lui più di una ritrovata modestia: è il ritorno dell'autonomia, della padronanza del suo corpo, anche se non alcune parti non rispondono più all'appello.

Si sente un essere umano e non più un ammasso di membra doloranti incapace di attendere alle più basilari necessità fisiologiche, ed è felice.

“Puoi usare questa se vuoi, d'ora in avanti” lo informa Moblit, posando sul tavolino una benda nera.

“L'occhio è guarito.”

Non ha più necessità di portare bende sul viso e sul suo torace rimangono a malapena un paio di garze a coprire gli ultimi due punti arrossati, più irritati dai movimenti che altro.

Non sente nemmeno dolore e incredibilmente quel sollievo non si accompagna alla sonnolenza di un sedativo, ed è tutto talmente bello che non riesce a trattenersi: si sporge in avanti, dove Moblit è seduto e gli getta il braccio al collo.

“Grazie” mormora sulla sua spalla.

Moblit non risponde, ma il braccio che gli avvolge la schiena è più stretto del solito.

“Domani mattina, verrà a visitarti Hanji” dice dopo un'istante, scostandosi da lui e prendendogli il volto tra le mani, “e non dubito che sarà concorde con me nel dichiararti guarito e libero di lasciare l'infermeria.”

Il cuore gli sobbalza in petto ed è sicuro che anche Moblit l'abbia sentito perché si lascia sfuggire un largo sorriso che ha poco a che vedere con la sua innata professionalità.

“Puoi stare anche da solo d'ora in poi, se lo preferisci” continua, “ma almeno per i primi tempi di suggerirei di dividere l'alloggio con qualcuno dei tuoi compagni. E detto tra noi, Jean, ha già fatto aggiungere un letto nella sua stanza.”

Arrossisce, ne è certo, sente il calore che si propaga dal collo fino alla fronte. Moblit, di fronte a lui, ride apertamente.

“Adesso però riposati” aggiunge, alzandosi e dirigendosi verso la porta “o Jean stasera ti troverà sfinito.”

 

***

 

Il bussare è lieve, la voce ancora roca, come se Jean la stesse cacciando fuori dalle profondità del suo stomaco logorato.

Gli chiede il permesso di entrare.

Marco se lo aspettava.

Punta bene i piedi a terra, cerca di non sbilanciarsi troppo a sinistra, come gli ha spiegato Moblit e posando il palmo contro il muro, raggiunge la porta.

Impiega un po' di tempo per farlo, anche se sono solo un paio di metri, e Jean dall'altro lato della porta gli chiede con voce sempre più cavernosa se va tutto bene.

Marco non ha il fiato per rispondergli: appoggia la spalla destra allo stipite della porta e abbassa la maniglia.

Nel triangolo di luce che invade la penombra del corridoio, la testa china di Jean acuisce il suo senso di colpa, e al diavolo, deve rimediare.

“Mi dispiace” gli dice senza esitare, miracolosamente in equilibrio sulla soglia.

Jean sobbalza preso alla sprovvista e dopo un istante la sua espressione crolla.

Anche Marco si sente crollare per la verità, ed è una fortuna che Jean sia pronto di riflessi, nonostante le lacrime che gli appannano gli occhi, perché sono le sue braccia a sostenerlo.

Non riesce a dirgli altro, vorrebbe poterlo fare, ma ha la gola chiusa dallo sforzo e dalla commozione e comunque dubita che Jean lo sentirebbe, preso com'è a singhiozzargli sulla spalla, mentre lo stringe contro di sé.

Dio, gli è mancato abbracciarlo così: alla stessa altezza.

La sensazione di avere i movimenti bloccati, però, lo spaventa ancora.

Jean ricorda in fretta, si allontana da lui quanto basta a lasciarlo respirare e aspetta che abbia ripreso l'equilibrio contro lo stipite della porta prima di fare un passo indietro.

“Cosa posso fare per te?” gli chiede, asciugandosi il viso con le mani.

Ha le ciglia bagnate e il naso rosso e Marco lo ama. Lo ama più di quanto credesse possibile.

“Vorresti andare a prendere due vassoi dalla mensa?” risponde con un sorriso umido. “Stasera ceniamo insieme.”

 

 

Fine.

  
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