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Autore: catto sulla montagna    19/09/2021    0 recensioni
Un caldo asfissiante. Dei ricordi impressi nella memoria di una persona qualsiasi innamorata.
La storia è stata scritta di getto nel giro di un paio d'ore e l'ispirazione è stata tratta dalla canzone Heat Waves di Glass Animal, e attribuisco a questo brano la mia riconoscenza.
Molte frasi sono state tratte dal testo originale.
Spero che vi piaccia, e ringrazio anticipatamente tutti per l'attenzione.
Cattosullamontagna.
Genere: Romantico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Il cielo era un velo nero che si estendeva a vista d’occhio. Su questo velo erano tessuti dei puntini bianchi. Alcuni erano vicini, altri erano lontani e costruivano delle forme ben definite, mentre altre invece sembravano messe completamente a caso; gli altri puntini erano raggruppati così intensamente che sembrava creassero una scia unica.
Brillavano. Alcune stelle sembravano squarciare quel tessuto perché si muovevano da una parte all’altra del cielo.
Ogni tanto riusciva a vedere anche dei puntini lampeggianti rossi che comparivano e sparivano in questo tessuto nero.
Un vento sempre più veemente e freddo si alzava e iniziava a soffiare tra le foglie degli alberi in lontananza, che protestavano sfrigolando l’una sull’altra. I fili d’erba alta danzavano assieme, seguendo il ritmo del soffio. Alcune di loro accarezzavano il volto del ragazzo disteso, che fissava quel cielo quasi mistico, e lo fece sentire ancora più inerme e piccolo di quanto già non si sentisse.
Nella sua mente, l’immagine di un ricordo.
Si trovava nel suo appartamento in città. Faceva così caldo che si svegliò sudato.
Guardò verso la finestra, spalancata e poi abbassò lo sguardo sul suo letto.
Sdraiato su un fianco, con il viso rivolto verso di lui e due mani sotto il cuscino, c’era un bellissimo ragazzo che dormiva beatamente. Aveva il respiro pesante, lo sentiva.
Invidiava il sonno del suo ragazzo dall’aria serena.
Si alzò dal letto. I piedi nudi toccarono il parquet tiepido, ma comunque leggermente più freddo del suo corpo, e per un momento gli sfiorò l’idea di dormire per terra.
Accantonò quell’idea e si diresse verso il bagno, accese la luce soffusa e si sciacquò il viso sudato con dell’acqua fredda.
Sentì la pelle ringraziarlo per quella rinfrescata che fu come una boccata d’aria dopo intensi minuti di apnea.
Si diresse poi in cucina, sempre in punta di piedi per non svegliare il compagno. Aprì delicatamente il frigorifero e prese una bottiglietta d’acqua fredda, e la tracannò tutta sentendo come scivolava direttamente nel suo stomaco.
Nonostante questo rituale che gli dava un sollievo momentaneo, il caldo insisteva a dargli il tormento.
Guardò l’orologio. Tre del mattino.
Sonno non ne aveva, ormai lo aveva perso da mesi, dalla notizia che aveva scosso il mondo intero.
Aprì la porta e uscì fuori sulla terrazza, alla ricerca di uno spiffero d’aria fresca.
Le strade che brillavano movimentavano la sua vista.
Si sporse con le braccia sul muretto e puntò lo sguardo sull’appariscente scritta bianca sulla collina in fondo a tutto.
Faceva caldo. Davvero troppo caldo.
Qualcosa di morbido ed umido si poggiò sulla prima vertebra, seguita da uno schiocco. Poi due braccia gli cinsero la vita da dietro e infine una testa si poggiò sulla sua spalla.
“Ti ho svegliato?” chiese lui poggiando il mento sulla testa del compagno. “No.” mentì con voce assonnata.
“Come mai non dormi?” gli chiese con quella tenera voce, che gli faceva venire solo voglia di abbracciarlo e stringerlo a sé nonostante il caldo.
“Ho troppi pensieri per la testa.” Mentì, pensando che se avesse detto la verità avrebbe perso l’abbraccio del suo ragazzo.
Non importava quanti gradi potessero esserci, il suo contatto in quel momento valeva qualsiasi cosa per lui.
“Vuoi parlarne?” mormorò.
Il moro guardò il paesaggio della Città degli Angeli. “Va’ a dormire, domani devi andare a lavorare.” Gli consigliò sentendosi dispiaciuto per averlo svegliato.
“Il lavoro può aspettare, tu sei più importante.” Disse sbadigliando e stiracchiandosi sempre sul compagno.
Il cuore gli palpitò quando sentì quelle parole, e fu colto da un’ansia ed una tristezza terribile. Come se gli fosse appena caduto il cielo addosso.
“Non è necessario.”
“Voglio godermi ogni istante con te, e se significa perderci il sonno, fa niente. Avrò tutta l’eternità per riposare, un giorno.” Ammise sorridendogli.
Quel sorriso.
La sua mente immortalò quel volto sorridente, che riusciva a calmarlo sempre nelle situazioni più stressanti. E così fu anche in quel momento, il suo cuore si rilassò e iniziò a riprendere il suo battito normale.
“Ehi.” Disse il moro voltandosi verso il suo ragazzo afferrandolo per la vita e avvicinando i loro corpi.
Poggiò la sua fronte su quella del compagno e la strofinò lentamente con un movimento dolce.
“Lo sai che ti amo?” domandò insicuro.
“Lo so.” Rispose lui con una sicurezza che fece tremare il moro. “Anche io ti amo.” Ribatté lui scrivendo tre lettere sulla pelle nuda del moro, all’altezza del pettorale sinistro.
“ILY”
“Non dimenticartelo mai, okay?” fece lui baciandolo sulle labbra. Un gesto scontato per certi versi, ma che colse alla sprovvista il moro, il quale si lasciò trasportare da quel momento.
Era così concentrato sulla persona che aveva davanti a sé, che si dimenticò del caldo asfissiante della città.
Ora, invece, si trovava su quel prato. Al buio. Ad osservare le stelle del cielo. Riuscì a muovere una mano addormentata sull’erba che era un po’ pungente e bagnata per la tipica condensa che si formava la sera.
A volte, tutto quello a cui pensava era lui.
Quelle tarde nottate di metà giugno, con le ondate di caldo che lo illudevano e lo svegliavano.
Non aveva un sonno decente da circa due anni ormai.
Il caldo torrido che avvertiva sotto al tendone, lo aveva svegliato, come accadeva proprio nei suoi ricordi, tanto tempo prima. Si alzò dalla sua brandina, vestito con i suoi abiti militari e gli anfibi già ai piedi.
Acuì l’orecchio e sentì qualcosa nell’aria. Seguì quella voce famigliare, e vide quell’ombra nel buio.
Era lui, l’amore della sua vita.
Strizzò gli occhi per accertarsene, e si tolse il berretto, nel quale aveva una foto instax. La guardò e confrontò quel viso con quello del ragazzo che si nascondeva dietro l’albero che gli sorrideva. Un sorriso inconfondibile.
Stava per andargli incontro, quando qualcuno lo fermò.
“Dove stai andando?” domandò un ragazzo, vestito con la tuta militare come la sua, mentre reggeva un fucile d’assalto in braccio.
“Da lui.” Rispose indicando il ragazzo come se fosse ovvio. Il militare guardò nella direzione indicata, e poi lo guardò con aria seria.
“Lui chi?”
“Il mio ragazzo, guardalo. È lì.” disse camminando verso il suo ragazzo che lo stava salutando, ma il militare lo fermò con una mano sul petto.
“Mi prendi per il culo?” domandò, continuando ad osservarlo con quell’aria seria e crucciata.
“Spostati.” Parlò scacciando la sua mano infastidito.
L’espressione del militare si trasformò da seria a preoccupata.
“Ehi, aspetta.” Disse, pensieroso. “Voglio venire con te.”
Quella risposta lasciò di stucco il moro. “Posso… conoscere il tuo ragazzo?” domandò con aria seria.
Il moro sorpreso annuì semplicemente e si diresse verso il bosco, dietro l’albero dove il suo compagno lo stava aspettando. Quando girò l’albero di scatto per sorprenderlo, non lo vide.
Girò attorno al tronco ben due volte, ma lui non c’era. Lo chiamò per nome e iniziò a cercarlo nei dintorni.
“Ehi.” Attirò la sua attenzione il militare armato. “Guardami un attimo.” Affermò in tono cauto.
“Sei sicuro di averlo visto?”
“Ma sì ovvio… stava proprio qui.”
Lui annuì. “Posso, farti un test rapido?” domandò d’un tratto.
Il moro acconsentì scettico.
Il militare prese una piccola torcia dalla tasca e si avvicinò al ragazzo. Con il pollice gli toccò la palpebra per aprirla e puntò la luce un paio di volte sulla sua pupilla. Ripetette l’operazione sull’altra.
Gli chiese il nome, il cognome, la data ed il luogo di nascita, e mentre il ragazzo rispondeva, quello gli toccò la targhetta che aveva al collo.
“Sai dove ti trovi?”
“Sì, certo mi trovo… a…” il moro si bloccò guardandosi attorno, confuso. La sua mente non riuscì a riconoscere il luogo dove si trovava. Un senso di confusione e di panico si faceva largo nella sua testa. Il respiro gli divenne pesante.
Dove si trovava? Perché c’era un militare armato davanti a lui? E soprattutto dov’era il suo ragazzo?
Il moro fu scortato di nuovo nel tendone, mentre l’amico militare gli spiegava che si trovava su un campo da battaglia.
Andarono prima in una sorta di infermeria, contrassegnata da una croce rossa all’ingresso.
Un altro ragazzo, in tuta militare, venne a visitarlo e gli fece le stesse domande che gli aveva fatto l’altro poco prima.
“Sarà DPTS. È comune fra di noi.” parlò il medico militare a quello che lo aveva scortato lì.
“Cazzo… un altro?” balbettò lui. “Sì, questo disturbo fa più strage di un proiettile, cazzo. Deve stare a riposo, posso prescrivergli delle pillole, ma non posso fare altro.”
“Non possiamo, che ne so, mandarlo a casa per un po’?”
Il medico rise.
“Se dovessimo mandare tutti i militari con DPTS a casa, non avremmo più soldati. Mi spiace, ma almeno che non sia molto grave, non posso mandarlo a casa.” Dichiarò sedendosi alla scrivania e scrivendo qualcosa su un foglio di carta.
“Ma finirà per farsi uccidere.” Protestò l’altro con una nota di rabbia. Il medico non sembrò curarsene più di tanto.
Dopo quella breve discussione a cui il moro assistette fu accompagnato nel tendone dove si era svegliato. Non sapeva precisamente tutto quello che gli era stato detto, era ancora scosso dal pensiero di non aver trovato il suo ragazzo dietro l’albero, e dal fatto che non sapesse dove si trovava. Giurava di averlo visto e sentito, ne era convinto.
Si sentiva stupido e avvertiva quello sguardo di biasimo da parte del collega che lo aveva riportato alla sua brandina. Odiava sentirsi così. Preso in giro. Illuso, e a breve anche deriso da tutti per la scenata di quella sera.
Si mise a letto, di fianco.
Provò a chiudere gli occhi, ma il caldo gli impediva di dormire.
Prese la fotografia e la guardò.
Riusciva solo a pensare a lui.
Ed ebbe un tuffo al cuore quando ripensò all’ultimo momento che aveva vissuto con lui, due anni prima.
Silenzio assordante. Un vaso ridotto in cocci sparsi per tutto il salotto.
Stava seduto per terra nella stanza da letto, con la televisione accesa per non pensare alla discussione accesa che ebbero appena avuto. Abbassò lo sguardo sul pavimento, e vide la cornice spaccata con la loro foto.
Prese un lungo sospiro e si alzò in piedi.
Uscì dalla stanza e si diresse in cucina. Lo vide seduto per terra, in lacrime.
Lui sembrava così distrutto quando piangeva, che fece sentire il moro ancora peggio di quanto già non si sentisse.
Gli si avvicinò e si sedette al suo fianco. Lui si gettò sul moro che lo abbracciò forte come se stesse scivolando via dalle sue braccia, e provò a trattenere qualche lacrima.
Vedeva il loro riflesso dalla porta cromata della lavastoviglie. Si vide in lacrime mentre il suo ragazzo singhiozzava sul suo addome.
“Hai bisogno di una vita migliore di questa.” Dichiarò il moro una volta che si calmarono le acque per tutte e due. “Hai bisogno di qualcosa che non ti posso mai dare.”
“Non è vero.” Parlò con il labbro tremante e voce nasale. Si strofinò gli occhi arrossati. “Tu sei tutto ciò di cui ho bisogno.”
“Hai bisogno di stabilità, amore mio. Io… non te la posso dare.”
“E invece sì. Io… io ti aspetterò ogni volta qui, a casa se lo vorrai.” Protestò lui con voce piangente.
Sta volta, fu il moro a sorridere per il suo ragazzo, cercando di nascondere dentro tutto il dolore che aveva in corpo, da bravo militare.
“E se non tornassi?” domandò. “Lo sai che c’è questo rischio.” Disse.
“Tornerai da me. Ogni volta.”
“Non posso giurartelo, amore mio. Non puoi combattere questa cosa. Dio… è tutto così… difficile. Rendi questo addio ancora più straziante di quanto non lo sia già di suo.”
“Non può essere un addio.” Scoppiò in lacrime.
Il moro lo abbracciò.
“Dici queste cose così amorevoli, ma… devo lasciarti andare.”
“No, no no!” protestò prendendolo a pugni di nuovo.
Si lasciò colpire per provare ad alleviare quel dolore interno trasformandolo in dolore fisico.
“Starai meglio con qualcuno di nuovo… Questa cosa ferisce anche me. Ma devi andare avanti. Due anni sono troppi.”
“Non m’importa. Io ti aspetterò.”
Il moro gli baciò la tempia e lo strinse a sé.
“Ti amo.” Lo disse ancora una volta, e poi disse addio. Un paio d’ore dopo, partì.
Dopo tutto quel tempo, si trovava disteso sull’erba di quel campo nel nulla. Dopo aver passato molteplici notti insonni a rincorrere quella che sembrava essere la sua ombra, a causa della sua DPTS. Per sua fortuna, qualcuno riusciva sempre a fermarlo in tempo per recuperarlo e portarlo indietro, ma quella sera fu diverso.
Quella sera fu così convinto di aver visto l’amore della sua vita, che si era allontanato troppo, e nella direzione sbagliata.
Era uscito dalla foresta, e si trovava su un enorme prato. Gli occhi erano abituati al buio ormai, e inoltre la luce dell’ultimo quarto di luna rendeva tutto più limpido.
Erano stati due anni di inferno per lui, lontano dalla sua persona a cui pensava continuamente.
La guerra era crudele con tutti, e non è per niente razzista. Miete tutti. Donne, bambine, anziani, africani, asiatici, europei, americani. Tutti. E ogni volta usa un attrezzo diverso per tirare la falce sulle persone. Che sia una bomba, un agguato, un aeroplano che si schianta su una torre, o semplicemente delle illusioni mentali, ti trae in inganno e se ti vuole, ti prende.
In quella bellissima notte in cui l’universo mostrava il suo telo di seta nera ricamato di stelle ad un semplice soldato innamorato qualunque, la guerra aveva deciso di mietere la sua anima, attirandolo fin lì con una falsa illusione e beccandolo con un proiettile in pieno petto.
Tutto quello a cui pensava ora il moro era il suo ragazzo, in una tarda nottata di giugno. Quell’ondata di caldo lo aveva illuso. Ora sapeva che non avrebbe potuto più renderlo felice.
E così, mentre era disteso sull’erba, sentendosi sempre più debole, l’ultimo gesto che riuscì a fare fu quello di prendere la fotografia dal berretto ed osservarla per un’ultima volta prima di chiudere gli occhi per sempre.
Era buio, eppure i suoi occhi riuscirono a vedere quella foto come se fosse mezzogiorno.
Il sorriso beato che riusciva sempre a tranquillizzarlo. Persino in un momento del genere, quando il dolore era diventato così insopportabile, che quasi non lo sentiva più.
Adesso aveva freddo. Una serie di brividi lo scosse, e prima di chiudere gli occhi, diede un bacio alla sua foto, e la sua mente gli mostrò l’immagine di una delle ultime sere che lo vedeva sdraiato su un fianco, con la faccia rivolta verso di lui.
Voleva sapere cos’è che sognava e che lo rendeva così felice.
Avrebbe voluto dargli quel sogno, regalargli quell’esatto sorriso che mostrava ogni volta mentre dormiva. Questo era il suo unico rimpianto.
La sensazione dell’abbraccio da dietro mentre osservava le strade che brillavano ai suoi occhi divenne così reale e piacevole, che lo accompagnò nel suo ultimo respiro.
   
 
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