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Autore: moira78    21/09/2021    5 recensioni
Missing Moments: il ritorno di Albert dall'Africa in tre parti. Tra i vari episodi che non ci sono mai stati raccontati in maniera approfondita dall'autrice c'è il tribolato viaggio di rientro che Albert affronta prima di giungere a Chicago senza memoria. Ho immaginato i vari scenari, basandomi su manga, romanzo e anime e ho provato a descrivere la mia visione della sua storia.
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: William Albert Andrew
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing Moments'
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Grazie mille a Tiger Eyes per le sue preziose informazioni e conoscenze sull'Africa condivise con me e a Sonietta74 per l'attenta betalettura!
 
I miei occhi si aprono lentamente nella luce quasi arancione che filtra attraverso la tenda. Il lenzuolo aderisce al mio corpo sudato e, prima ancora che cominci a chiedermi come mai ho la netta sensazione di essere nudo, lei si muove accanto a me lamentandosi nel sonno. Faccio un sospiro profondo.
Il profumo della sua pelle mi solletica le narici e decido di darle le spalle per evitare tentazioni che non vorrei assecondare.

Sono sempre stato ligio ai miei principi, molto più che agli insegnamenti che mi sono stati imposti quale patriarca di famiglia. Ma la natura imperfetta di un uomo, specie se si trova in un ambiente così libero e selvaggio come l'Africa, a volte può farlo vacillare.

Annabelle è bella come il suo nome.

È americana ma il padre è francese, il che mi ricorda le origini di Georges. Fisicamente è quasi identica a Candy e questo è stato il problema maggiore. Mi sono ripetuto mille volte, prima di cedere ai suoi occhi luminosi e alle sue labbra piene e incurvate in un perenne sorriso, che non era per quel motivo che mi sentivo così attratto da lei.

Che siamo entrambi soli e senza legami e desideravamo solo lasciarci un po' andare.

Ma, mentre le sue braccia sottili mi serpeggiavano dietro alla schiena per stringermi in un abbraccio timido, mi inebriavo del suo aroma baciandole un punto dietro l'orecchio, facendola ridacchiare: "Mi fai il solletico!", aveva mormorato con la voce, di solito così limpida, arrochita per l'emozione di ciò che stavamo per vivere.

"Vuoi che la smetta?", le ho chiesto scostandomi per guardarla.

"No", mi ha risposto fissandomi con un sorriso lieve e l'espressione ferma.

"Lo sai che mi piaci e ti voglio bene. Ma...", avevo cominciato.

"Ma non sei innamorato di me, lo so. Neanche io so bene cosa provo per te. Vogliamo discuterne fino all'alba?". Aveva alzato le spalle e per un attimo mi è sembrata davvero disposta a farlo.

Ovviamente, non ne abbiamo parlato. Non più, fino a stamattina.

Non mi pento di ciò che c'è stato fra noi, perché bello e delicato, ma soprattutto sincero. Io non la giudico affatto per le sue scelte: ha quasi vent'anni e non vuole legami fissi per il momento, troppo concentrata sulla sua missione.

Mi ha confessato che non vuole sposarsi e non vuole avere figli, almeno per ora, ma non per questo intende rimanere sola.

"Prima di te mi ero innamorata di un uomo che mi ha spezzato il cuore. E ha preso anche la mia virtù. Pensavo avesse intenzioni serie, invece è stato un mascalzone". Quando mi ha fatto quella confessione mi sono irrigidito, ma lei mi ha sorriso: "Tu sei stato l'unico a dirmi la verità. Per questo mi piaci... beh, non solo per questo, è ovvio".

Sono scoppiato a ridere anche io e le ho ricordato che sarei partito entro qualche ora. Posso avvertire ancora la sensazione della pelle della sua spalla sotto ai polpastrelli mentre l'accarezzavo.

"Lo so", ha sospirato quasi con tristezza, "peccato non avere avuto più tempo per conoscerci. Saremmo potuti diventare una bella coppia. Siamo molto simili". Ed era vero.

È ancora vero, dannazione. Eppure, mentre i venti di guerra rischiano di farmi rimanere bloccato qui per chissà quanto tempo, mi ritrovo a fuggire per tornare a casa prima che diventi troppo tardi. Prima che io non sia più in grado di tornare dalla mia famiglia alla quale ancora devo palesarmi.

Mi ripeto, mentre mi alzo cercando di non svegliarla e rivestendomi con gesti lenti, che il motivo per cui mi sto affrettando è solo questo e non riguarda il timore di non vedere lei per troppo tempo. Una lei di cui dovrei essere tutore o persino patrigno. Una lei che è ancora una ragazzina, ma già mi ha marchiato così a fondo nel cuore che nessun affetto per altre donne sarà mai paragonabile a ciò che somiglia in modo così delizioso all'amore.

Quello vero.

Quello che non dura il tempo fittizio di un abbraccio intimo, così raro nella mia vita frenetica e piena solo di dolori e fughe.

Quello che mi porterebbe a desiderare che stia al mio fianco per tutta la vita.

Sto cercando delle parole da lasciarle su un foglio: Annabelle si merita il mio rispetto più profondo per quello che mi ha donato senza alcuna pretesa e voglio trasmetterle il mio affetto sincero. Non desidero che veda nel mio messaggio il freddo ringraziamento di un uomo con cui ha solo passato la notte.
Desidero che sia felice e che non ripensi a me più del dovuto. Sono abbastanza inesperto, ma non stupido: ho compreso bene che il trasporto che l'ha portata fra le mie braccia era molto, troppo vicino a quel sentimento che io stesso sto cercando di reprimere con tutte le mie forze. L'ho riconosciuto nel suo sguardo: era come se mi vedessi allo specchio.

Capisco che tra noi l'attrazione e l'intesa sono stati presenti fin dal primo giorno, tuttavia è come se entrambi avessimo atteso di concretizzare il nostro rapporto solo in vista di un addio imminente. Il rischio che lei si innamorasse di me col tempo, specie dopo un passo del genere, era troppo alto. Fino all'ultimo, infatti, non ero convinto che fosse una buona idea assecondare i nostri desideri.

Spero solo di averle lasciato un bel ricordo e che, alla fine, Annabelle trovi invece un uomo tanto intelligente e devoto da seguirla nella sua missione e sposarla.

Le suole dei miei stivali fanno rumore sul fondo sabbioso mentre mi avvio verso l'uscita della tenda e mi volto a guardare la sua schiena ancora una volta. La immagino che finge di dormire. Forse sta piangendo, ma se mi fermo a consolarla o parlarle so che le farei ancora più male, così rispetto la sua muta decisione e mormoro un addio appena percettibile prima di andarmene.

Fuori, il sole africano splende e scalda già con tutta la sua forza.
 
- §-
 
Il capo tribù Abasi mi viene incontro per salutarmi e regalarmi delle provviste da portare in viaggio: si tratta soprattutto di noci di cocco, però vedo nella cesta anche del mais e alcune piante di piretro, che dovrebbero proteggermi dagli insetti e dalle zanzare.

Ma il regalo più grande consiste in una coppia di bellissimi dromedari.

"Non posso accettare!", protesto scuotendo la testa e cercando di utilizzare la lingua locale per farmi capire meglio.

Ma Abasi insiste e fa ampi gesti verso i due animali. Poupee, sulla mia spalla, emette dei gridolini in risposta, come se volesse convincermi a sua volta ad accettare.

"Hai molta strada da fare prima di arrivare al porto di Alessandria", dice con veemenza. Non ha tutti i torti, devo attraversare almeno altri due Stati dopo essere uscito dai confini del Kenya e non sono sicuro di trovare animali o mezzi adeguati, anche se la mia intenzione è quella di risalire il Nilo. Potrei viaggiare per mesi solo nel tentativo di raggiungere le coste.

"So quanto siano rari i dromedari qui, me ne basta uno solo. Lo lascerò riposare a giorni alterni", cerco di patteggiare.

Il capo tribù continua a scuotere la testa: "Puoi rivenderli se trovi un carovaniere poco prima del Nilo Bianco".

Dietro di lui ci sono anche gli altri membri della tribù che, vedendomi con la sacca in spalla, si stanno avvicinando, uscendo man mano dalle loro capanne, di certo per salutarmi. Conosco quasi ognuno di loro, compresi i bambini che ho contribuito a visitare con l'aiuto di Annabelle e di un medico volontario.

Mi dispiace lasciarli, mi ero davvero affezionato a tutti, ma sento l'impellente necessità di tornare in America quanto prima. Forse un giorno tornerò. Magari non ci sarà nessuna guerra e tutto si risolverà, oppure la mia presentazione sarà rimandata.

Non so cosa mi riserverà il futuro, però so che non è un addio definitivo.

Alla fine, commosso e grato, accetto il dono che mi fa Abasi e comincio a salutare tutti. All'improvviso, Poupee salta via dalla mia spalla e si getta fra le braccia di uno dei bambini che più le si è affezionato in questo lungo periodo di permanenza.

I saluti si spostano su di lei e io rimango per un attimo a osservare la scena. Un nodo mi si stringe in gola e capisco che sto per prendere una decisione che invece rappresenterà un vero addio.

Ho trovato Poupee nei boschi di Lakewood quando ero ancora un ragazzino, quindi non è proprio un cucciolo, ma una signora anziana almeno quanto la zia Elroy, nonostante la sua vitalità.

"Ehi, Poupee!", la chiamo e lei mi salta in braccio, abbandonando i membri della tribù con una velocità sorprendente. Le accarezzo il pelo e guardo il musetto mentre le parlo: "Vuoi rimanere qui con loro?".

Come sempre, sembra capirmi e ancora dopo tanti anni resto impressionato dalla sua intelligenza, che è paragonabile solo a quella di certi primati. Annusa l'aria davanti al mio viso, sfiorandomi il naso con il suo, poi mi lecca la guancia come per salutarmi. In un impeto di emozione, me la stringo al petto.
"Addio, amica mia. Grazie per essermi stata accanto fino ad oggi. Sii felice", le mormoro con voce arrochita, posandole un bacio sulla testolina.

Lei mi riserva un ultimo squittio e salta di nuovo in mezzo al gruppetto di bambini che l'accolgono con gioia. Mi basta vederli così felici per essere definitivamente sicuro di aver preso la decisione giusta.

"Non ti mancherà il tuo animale?", mi domanda Abasi accostandosi un poco a me.

"Sì, ma so che starà bene con voi. Mi darete sue notizie?". So che il capo tribù è un uomo abbastanza moderno, che se necessario è in grado di recarsi in paese per telegrafare. In pratica gli sto chiedendo di avvisarmi su come saranno gli ultimi anni della sua vita e la vista mi si appanna.

"Certo che lo farò, signor Albert. Ti prego, avvisa anche tu quando sei a casa sano e salvo", mi prega lui. "Non sapremo mai ringraziarti abbastanza per quello che hai fatto per noi".

Prendo un respiro profondo prima di parlare: "Sono io che ringrazio voi per avermi accolto con tanto calore e fatto sentire utile, nel mio piccolo. Qui ho imparato valori che dubito ritroverò in America. Mi state donando più di quanto meriti", concludo accennando alle provviste che tengo in mano e ai dromedari.

Lui scuote la testa e sorride. Un sorriso sincero, pieno di sole come quello che picchia implacabile sulle nostre teste.

Sistemo la cesta con la frutta e il mais sulla groppa di uno dei dromedari e ne afferro le briglie prima di montare sull'altro. Il gruppo ora è più numeroso e tante mani si agitano per salutarmi.

L'ultima immagine che colgo, prima di allontanarmi, è quella di un bambino, guarito per miracolo da una polmonite circa due mesi fa, che accarezza con amore la mia piccola Poupee.
 
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Man mano che mi addentro nella Rift di Gregory riesco ad assistere allo spettacolo dei geyser, rimanendone affascinato come la prima volta che li vidi, al mio arrivo. In più di un'occasione mi sono fermato ad ammirare la colonna di acqua e vapore che s'innalza imponente fino a svariati metri, spruzzando goccioline e creando piccoli arcobaleni.

Ed è stato proprio in una di queste occasioni che ho allungato la mano sulla mia spalla per esclamare: "Guarda, Poupee! Non ti sembra...?". La mia voce si è affievolita e il sorriso è scomparso dal mio volto, mentre con un sospiro mi sono dato dello stupido sentimentale.

Non è facile abituarmi a stare senza la mia piccola amica, dopo tanti anni insieme. Ma mi abituerò, come ho imparato a farlo per tante altre cose, nella mia vita: d'altronde, Poupee è felice e con lei tutti gli abitanti del villaggio.

Mentre procedo, mi rendo conto che l'unico lato negativo di queste zone è che mi sono lasciato alle spalle il fiume Tana e l'acqua dolce da queste parti scarseggia, specie perché quella della maggior parte dei laghi, qui, è salata.

So che però, se mi avvicino ai Monti Mau, troverò fiumi e laghi di acqua dolce e il Turkana mi accompagnerà almeno fino al confine. Ora la vegetazione non è molto rigogliosa, ma i dromedari trovano abbastanza cibo e io ho ancora le mie scorte, per cui è tutto sotto controllo.

Mentre accatasto della legna per accendere il fuoco in una vallata che pare abbastanza sicura, mi rendo conto di quanto sia in errore. Avevo visto il branco di leoni prendere il sole, ore fa, molto lontano da qui, e solo ora mi accorgo che una leonessa ha avuto la mia stessa idea sull'ospitalità di questa piccola radura.

Esce dal nascondiglio, una specie di buca naturale creata da un affossamento del terreno, e mi fissa con i suoi occhi felini. La guardo affascinato e per nulla spaventato, posando uno dei grossi ceppi che tengo in mano con gesti lenti e calcolati.

Cercando di non incontrare in maniera diretta i suoi occhi, mi ritrovo a sorriderle e a parlarle: "Fammi indovinare: sei qui con i tuoi cuccioli appena nati nascosti da qualche parte e io sono venuto a romperti le uova nel paniere, dico bene?".

La sua bocca si arriccia in una specie di ringhio basso che mi ricorda il miagolio di un grosso gatto e capisco che è il suo modo di avvertirmi: "Sì, e ti consiglio di sparire prima che decida di farti diventare la mia cena". I suoi denti aguzzi scintillano come perle sporche contro i raggi del sole morente.

Naturalmente la leonessa non può aver capito quello che ho detto, ma di certo ha compreso che mi stavo stabilendo qui vicino e la cosa non le va a genio.
Sospiro, rassegnato a lasciare alla mia ospite felina tutto lo spazio di cui necessita, anche se sono piuttosto stanco e dovrò allontanarmi con il buio, che ormai è imminente. Lei abbassa il muso e quello che vedo mi fa capire che non sto rischiando di essere attaccato, almeno non nell'immediato: tra i denti, stringe i resti di quello che sembra uno gnu. Le zampe sono tese come bastoni e, mentre lo trascina cominciando a voltarsi, vedo una scia di sangue disegnarsi sul terreno colando dal collo squarciato.

Non è la prima volta che osservo scene del genere e non mi impressiono più di tanto.

"Buon appetito, allora", la saluto accennando ad andarmene. Una parte di me vorrebbe seguirla e vederla allattare i piccoli mentre consuma la sua cena, ma so che non mi lascerebbe neanche avvicinare alla tana, così come non lascerà avvicinare altri maschi della sua specie per timore che possano uccidere i cuccioli.

Cammino per più di un miglio a est da qui tenendo i dromedari per le briglie e mi adopero per accendere il fuoco prima di mangiare qualcosa e infilarmi nel sacco a pelo per la notte.

Mentre sto per chiudere gli occhi, sopraffatto dalla stanchezza, noto alla mia destra una fila di animali con delle lunghe corna muoversi alla luce della luna. Sono solo ombre lontane, molto di più di quanto mi si sia avvicinata la leonessa solo un paio d'ore fa. Alcune sembrano più piccole e mi ritrovo a immaginare che possano essere giovani gnu cui la leonessa abbia appena ucciso il padre o la madre, oppure solo un membro del branco.
 
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Mi chino per sciacquarmi il viso cercando di non disturbare i fenicotteri che stanno facendo il loro bagno serale nel lago Turkana, o Rodolfo, come l'hanno ribattezzato due esploratori del secolo scorso per celebrare un principe austro-ungarico. Il fatto che sia stato proprio quel regno, con una dichiarazione di guerra, a scatenare tutto questo caos che mi sta facendo letteralmente fuggire dall'Africa mi porta a fissare quest'acqua un po' salata che scorre fra le mie dita come se potessi trovarvi delle risposte.

Perché gli uomini si ostinano a combattere e uccidersi, fin dalla notte dei tempi? A volte mi sembra una domanda ingenua, altre mi sembra il quesito più intelligente che un essere umano possa porsi su questa Terra.

Mi alzo in piedi, deciso a tornare in tenda a bollire dell'acqua dolce che ho raccolto dall'ultima pozza che ho incontrato per renderla potabile e mi ritrovo a desiderare di immergermi per fare un bagno. Scruto la superficie del lago, osservando gli uccelli rosa che appaiono tranquilli, e quasi comincio a spogliarmi, ma quelli volano via di colpo in un frusciare d'ali.

Riabbasso le braccia con cui mi stavo sfilando la maglietta alzando lo sguardo verso di loro, poi osservo ancora il pelo dell'acqua. Non vedo sagome di coccodrilli, ma come posso avere la certezza che uno di loro non si sia avvicinato di soppiatto per poi andarsene?
E se capita a me, di certo non ho ali per scappare così velocemente. No, direi che il mio bagno può aspettare, anche se non profumo certo di fiori dopo la lunga traversata di oggi. Torno in tenda e prendo il necessario per accendere il fuoco poco lontano, creando una specie di cerchio scavato nel terreno per impedire alle fiamme di fuggire e attecchire dove non dovrebbero. 

Nell'ultimo villaggio che ho incontrato, questo pomeriggio, mi hanno donato della carne di gnu appena cacciata e, dopo essermi accertato che fosse davvero fresca, ho ringraziato di cuore. D'altronde, aiutare queste genti a costruire capanne o a fare qualsiasi altro lavoro sia necessario rappresenta l'unico modo che ho per approvvigionarmi.

Ho provato a cacciare un paio di volte, ma la verità è che odio uccidere gli animali, è qualcosa che va oltre la mia natura. Preferisco nutrirmi con i frutti offerti dalla terra come grano, frutta o riso, anche se non sono vegetariano e se posso mi metto a pescare senza problemi.

Scuoto la testa mentre guardo le lingue di fuoco prendere vita, sorridendo della mia palese contraddizione: se a Chicago mi presentano della carne la mangio di gusto, ma se devo guardare negli occhi un animale intrappolato e poi ucciderlo mi attanagliano disgusto e senso di colpa.

Un boato lontano mi indica che un branco di elefanti è in avvicinamento e guardo all'orizzonte per capire da quale direzione provengano. Costeggiano il lago sul lato opposto e sembrano diretti verso nord.

Chiudo gli occhi e ripercorro con la mente la mappa che ho consultato solo un'ora fa: se voglio affrettarmi, devo deviare un poco verso ovest per cercare di varcare il confine con il Sudan, anche se suppongo che mi possa accadere di sconfinare fino in Etiopia per qualche miglio.

Sto cercando di seguire percorsi battuti, dove possa trovare accampamenti abitati da qualcuno e acqua. Soprattutto acqua. Eppure, la fretta di giungere fino ad Alessandria diventa sempre più urgente: nonostante le notizie che riesco a raccogliere sulla situazione europea siano frammentarie e imprecise, non posso fare a meno di pensare che dovrò ancora attraversare l'Italia e la Francia, prima di imbarcarmi per l'Inghilterra e da lì procedere fino in America. A meno di non trovare una nave che parta direttamente dalle coste francesi.

All'andata ci ho messo quasi tre mesi, prima di potermi inoltrare nelle savane africane, ma me la sono anche presa comoda godendomi il viaggio a ritmo non troppo sostenuto.

Ora devo sbrigarmi, o non potrò...

"...vedere Candy che ha deciso di frequentare la scuola per infermiere", concludo in un sussurro, mentre un barrito lontano sembra sottolineare la mia frase.

Pensavo che sarei rimasto qui molto più a lungo, a volte ho sognato che fosse per sempre. D'altronde, lei era inarrivabile e io volevo solo vivere come mi piaceva. Ho accarezzato a lungo il desiderio di stabilirmi in Africa rinunciando al mio nome, anche a costo di ricevere le maledizioni del clan e soprattutto di zia Elroy, fino in Kenya o ovunque fossi arrivato. E sapevo che altri membri molto più anziani di me sarebbero stati ben lieti di prendere il mio posto, se i Cornwell non si fossero fatti avanti.

Ma questa maledetta guerriglia che preoccupa il continente non mi ha fatto titubare un attimo sulla necessità di tornare a casa prima che fosse tardi. Continuo a ripetermi, come il giorno in cui sono partito dal villaggio, che lo sto facendo per la mia famiglia e non solo per vedere Candy.
Però il mio cuore non riesce a mentire e l'uomo che è in me mi ha gridato, forte e chiaro più volte, che non sarei mai potuto davvero stabilirmi qui senza tornare almeno qualche volta.

Per vederla diplomarsi, se quella fosse stata sul serio la sua strada. Per vederla sposarsi... forse proprio con Terence e magari accompagnarla all'altare come suo tutore.

Questo pensiero spegne di nuovo il mio sorriso e mi rendo conto che, anche se non scoppierà davvero una guerra così pericolosa, mi attenderà comunque qualcosa di simile nella mia vita.
 
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Negli anni ne ho provate tante di esperienze uniche, specie in questi ultimi mesi in Africa. Ma fare una doccia sotto la pioggia del Sudan mi mancava. Mi sono reso conto che sarebbe venuto a piovere poche ore dopo aver lasciato l'accampamento dove mi sono fermato per un paio di giorni a rifornirmi di provviste e far riposare i dromedari, così ho avuto un'idea.

Ho cercato di mettere al riparo sotto al telo della tenda non ancora montata la mia sacca e il cibo, come fosse un grande impermeabile, quindi ho predisposto alcuni contenitori per raccogliere altra acqua e mi sono semplicemente spogliato dopo essermi accertato che intorno non ci fosse nessuno.

William Albert Arlday, nudo come un verme con i piedi affondati nella sabbia del deserto: penso che persino Georges sgranerebbe gli occhi per l'incredulità e l'indignazione, se mi vedesse ora.

Ma la sensazione di stare sotto una doccia gigante offerta dalla natura è stata così elettrizzante e impagabile che ho alzato il viso al cielo e ho cominciato e ridere di cuore, come un ragazzino che si stia divertendo un mondo.

Ripensandoci ora, mentre ormai indosso vestiti asciutti, è stato un bene che il fenomeno non sia durato molto, o avrei rischiato di rimanere bagnato davvero troppo a lungo.

Ora però l'umidità è diventata insopportabile e, come mi aspettavo, sto ricominciando a sudare e bere più spesso. Voglio stare attento alle scorte d'acqua perché qui ne ho in abbondanza, ma una volta arrivato più a nord la siccità potrebbe crearmi qualche noia.
 
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Ero convinto che il mio maggior problema sarebbe stato attraversare le zone paludose dove il tasso di umidità mi avrebbe portato a bere di più, invece mi sto rendendo conto che ho sottovalutato le zanzare. Sto cercando di ripetere tutti i gesti preventivi che ho fatto anche all'andata, ma sembrano più aggressive del solito e non c'è piretro o zanzariera che tenga.

Stamattina mi sono svegliato avvolto proprio nella zanzariera come fosse un lenzuolo e mi sono ritrovato con una decina di punture sulla fronte, sulle tempie e persino sulle palpebre: basta offrire un millimetro di pelle scoperta e queste succhiasangue si mettono a banchettare senza essere mai sazie.
Nonostante il fastidio, ridacchio pensando che sarebbe molto peggio se fossi pelato, allora sì che sarebbero... grattacapi! Sono alcuni giorni che non mi rado perché appena mi avvicino a uno specchio d'acqua arrivano orde di questi insetti e l'altra sera ho visto di nuovo i coccodrilli.

Avevo un piccolo specchio ma l'ho perso, quindi rimanderò l'operazione a quando troverò un po' di civiltà dalla quale rifornirmi. Il grosso guaio è che il prurito mi sta facendo davvero impazzire.

Le punture di zanzara, la barba che ricresce... mi sembra di avere un'orticaria perenne in ogni angolo del corpo. L'altro ieri mi sono grattato tanto la schiena che ho trovato del sangue secco sotto le unghie: devo davvero sbrigarmi ad abbandonare questi luoghi prima di perdere il senno.
E prima di fare incontri ben più sgradevoli con qualche mosca tse tse: mi manca solo di beccarmi la malattia del sonno!

Salgo sul dromedario avendo cura di essere coperto almeno fino al collo, poi ci ripenso e uso un lungo foulard per avvolgermi anche la faccia. Infilo gli occhiali scuri ma so che le zanzare penetreranno dove possono: mi stanno già massacrando le mani.

Il caldo e l'umidità, bardato così, mi asfissiano e mi trovo nell'impasse di dovermi scoprire un poco per non svenire, ma di dare così a queste molestatrici più possibilità. Cerco anche di dominare la sete causata dal fatto di sudare così tanto.

Tutto questo va avanti da troppo tempo e comincio davvero a perdere la pazienza: ho incontrato leoni, elefanti, coccodrilli e persino una mandria di gnu, ma nessun animale potenzialmente letale mi ha mai causato tanto fastidio.

In alcuni momenti, vorrei urlare per la frustrazione, ma non sono tipo da perdere la calma per così poco. All'ennesima palude smonto dal dromedario e mi tolgo la maglietta zuppa di sudore, prendo del fango e me lo spalmo sul torace e sulle braccia come fanno col proprio corpo gli elefanti o gli ippopotami: la sensazione di fresco è immediata e riesco a tenere lontane le zanzare per quasi un minuto intero prima che ricomincino a ronzarmi nelle orecchie con quel suono che ho imparato a odiare.

Prendo altro fango e me lo metto sul viso e persino tra i capelli, quindi riprendo il viaggio imprecando contro gli insetti più inutili del mondo. Amo la natura e tutti gli animali del creato, ma le zanzare devono essere frutto di un errore nell'evoluzione.
 
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La vegetazione è sempre più scarsa a mano a mano che mi inoltro nella zona nord del Paese, dove tutto appare più arido: quando arrivo a Rabak decido che è ora di cominciare a navigare sul Nilo, così scambio i miei dromedari per delle provviste e un po' di soldi, necessari per affittare una feluca.

C'è qualcosa di magico nel navigare su questo fiume che si snoda per miglia e il movimento costante di questa piccola imbarcazione a vela rende tutto più affascinante. La prima sera ho chiesto di poter dormire a bordo e l'equipaggio e i pochi passeggeri mi hanno guardato come se fossi impazzito.
All'andata non l'ho fatto ed era un'esperienza che volevo provare.

La mattina dopo ero in un bagno di sudore e, tanto per cambiare, le zanzare avevano banchettato con me. Il mio orgoglio ha accusato il colpo quando gli altri mi hanno raggiunto e hanno scoperto la mia notte insonne.

"All'interno è più fresco e anche sicuro, qui c'è troppa umidità", mi ha detto uno dei rematori indicando la sponda, usando la sua lingua madre che ho compreso più che altro per i gesti eloquenti, visto che era un dialetto piuttosto diverso da quello masai.

"Già, me ne sono accorto", ho ribattuto ripetendomi che mi meritavo tutte le loro risatine più o meno discrete.

Ormai siamo nei pressi di Khartoum, dove ho intenzione di unirmi a una carovana per evitare le due grandi anse del Nilo che renderebbero il viaggio molto più lungo. Dovremo tagliare per il deserto, ma sono fiducioso: non voglio che il cammino duri più del dovuto e sono disposto a trasformarmi in un tuareg per arrivare quanto prima al porto.

L'unica carovana in cui m'imbatto non è molto numerosa e questa tribù parla un dialetto che non ho mai sentito, quindi la comunicazione è abbastanza difficile. Ho sempre sostenuto che non bisogna mai giudicare nessuno dalle apparenze, ma a dirla tutta questi uomini mi ispirano poca fiducia: forse per il loro numero ridotto, o forse per gli sguardi indagatori su uno straniero come me, eppure sono una scelta obbligata se non voglio stare qui ad attendere di meglio.

L'intento è quello di arrivare almeno fino ad Al Ghabah evitando le anse e le cateratte del corso del fiume percorrendo una linea retta.

La vita nel deserto non è facile, anche se ormai ci ho fatto l'abitudine. Per evitare il sole cocente abbiamo deciso di avanzare durante le ore serali e parte della notte: i primi tempi è stato complicato, perché si è trattato di invertire le abitudini vivendo quasi come vampiri, ma ora le cose sono più semplici.

Sono tentato di fare a modo mio e ricominciare la marcia più velocemente ma sarebbe una specie di suicidio avanzare da solo: nonostante non sia mai stato una persona fatalista, sento comunque la necessità di accelerare il passo. Non riesco a non pensare che la guerra potrebbe bloccarmi in qualunque momento e io non ho notizie da settimane, visto che mi trovo in mezzo al nulla.

Cerco di non pensarci e mi concentro su questo cielo trapuntato di stelle che ci domina e illumina il nostro cammino. Resto incantato come sempre dalla sua magnificenza, è uno di quegli spettacoli che più mi mancherà dell'Africa: qui non ci sono alberi e montagne che ne nascondono una parte, è come se tutto il firmamento fosse sopra la mia testa e ovunque guardi ne sia circondato.

Ma tu... vieni dallo spazio?   

La voce di una Candy bambina mi fa sorridere d'improvviso. Il ricordo è così vivido che mi pare quasi di sentire il profumo dell'erba fresca lì, sulla Collina di Pony. Chissà che faccia farebbe se sapesse, se solo sapesse...

Una voce concitata, proveniente da un uomo che si trova quasi a capo della carovana, interrompe in modo brusco quei ricordi così dolci. Lo vedo gesticolare e altri si accodano alle sue urla, indicando l'orizzonte, così scruto nella medesima direzione.

All'inizio non mi sembra di vedere nulla di anomalo, poi li noto anche io: sembrano membri di una seconda carovana ma si aggirano in modo disordinato a una certa distanza da noi, come se ci spiassero.

Non ho bisogno di capire cosa stiano dicendo i miei compagni di viaggio, mentre tiro piano le briglie per rallentare.

Potrebbero essere predoni e l'attenzione, da qui in poi, dovrà essere massima.
 
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Alla fine, nonostante tutte le accortezze e i turni per dormire, di certo grazie anche al numero esiguo di uomini, i predoni ci hanno derubati.

C'erano un paio di noi che dovevano rimanere svegli a fare la guardia, invece a quanto pare si sono addormentati e ci hanno portato via quasi tutte le provviste e la maggior parte dei dromedari. Quando sono uscito dalla tenda, verso sera, e ho visto i membri della carovana discutere in maniera animata ho compreso immediatamente ciò che era accaduto e ho fatto un sospiro frustrato.

Forse, dopotutto, la mia prima impressione era corretta.

E non ci voleva, dannazione! Tutto questo è molto pericoloso perché, nonostante siamo non troppo lontani da Al Ghabah, ci troviamo ancora nel pieno del deserto e i nostri unici punti di riferimento sono le bussole, le stelle e il sole.

Ma il problema peggiore è l'acqua: centellinarla per tutti potrebbe creare problemi e tensioni non indifferenti e, naturalmente, i predoni ci hanno portato via anche quella.

Come sempre, cerco di concentrarmi sul cammino, ora più lento perché molti di noi sono rimasti a piedi e anche di notte la fatica è triplicata.

Mentre avanziamo nell'ennesima notte stellata sento un urlo straziante dietro di me.
Parole concitate e incomprensibili mi fanno imitare gli altri e avvicinarmi al capannello di persone nella parte posteriore della carovana. Vedo un uomo gridare e illuminare con la torcia un serpente che sta zigzagando sinuoso tra le dune.

Il sangue mi si gela nelle vene.

Le grida continuano e individuo subito l'uomo che è stato morso. Il che è tragicamente inopportuno perché, se la vista non mi ha ingannato, il rettile somigliava tanto a una vipera delle Piramidi. Siamo lontani chissà quanto dal primo villaggio attrezzato, figuriamoci da un vero ospedale ed è notte.
Deglutisco con difficoltà, e mentre qualcuno si premura di avvicinarsi con le proprie torce per fare più luce, mi avvicino con cautela. Il poveretto si lamenta in modo pietoso ed è seduto a terra, una gamba tesa che un altro sta cercando di pulire con degli stracci. Un terzo membro della carovana si china su e si appresta a fare qualcosa che mi fa reagire senza più pensare.

Capisco che qui la medicina sia molto indietro rispetto alle grandi città, ma non posso lasciargli fare una cosa inutile e persino pericolosa. Mi precipito accanto a lui e lo scosto prima che possa portare la bocca a contatto con il sangue infetto dal veleno: "No! Non è la maniera corretta!", esclamo rimediando una spinta.

Sono inginocchiato accanto al ferito e basta quella pressione per sbilanciarmi ma, prima che possa cadere, l'altro mi afferra sotto le ascelle e mi tira su sferrandomi un pugno che schivo all'ultimo momento. Dannazione, non so come farmi capire! Provo a spiegare che ho lavorato in una condotta medica nella lingua masai, ma continuano a blaterare e spintonarmi.

Di sicuro, se prima mi guardavano con un certo distacco, ora devo essermi appena attirato la loro diffidenza eterna.

Non amo alzare la voce, né essere violento, però se non comprendono la mia lingua devo usare quella del corpo per farmi capire. Diffidenti o meno dovranno ascoltarmi se vogliono dare una possibilità di sopravvivenza al loro compagno: "Non si succhia il veleno da una ferita! Va fasciata e immobilizzata!", dico a voce alta, gesticolando nel tentativo di indicare la gamba del ferito e muovendo le mani in aria per simulare un nodo.

Finalmente mi pare di attirare la loro attenzione, così mi adopero per cercare quello che mi serve, mentre il poveretto continua a gemere di dolore. Forse la mia determinazione è servita a scuoterli e darmi fiducia.

Cerco dei fazzoletti più puliti frugando nella mia sacca. Li trovo e chiedo agli altri di farmi spazio, piegandomi di nuovo sul ferito.

Non abbiamo disinfettante e non possiamo usare l'acqua potabile per lavarci, così ripiego il fazzoletto quasi nuovo senza toccare con le mani la parte che andrà a contatto con la ferita e ve lo appoggio con fermezza. Quindi comincio a fare una fasciatura piuttosto stretta partendo dalla caviglia e risalendo fin dove la lunghezza me lo consente.

Il pover'uomo, però, si agita tanto che devo ricominciare un paio di volte, così mi rivolgo agli altri due che sono d'improvviso ammutoliti e mi guardano restando in piedi: "Aiutatemi a tenerlo fermo!", ordino in tono più duro di quello che vorrei, facendo il gesto di bloccargli un piede perché capiscano meglio.
L'effetto è immediato e si chinano ai due lati per tenergli fermi la gamba e le braccia. Il sudore e la sabbia mi entrano negli occhi mentre procedo, concentrandomi sul mio compito e cercando di ignorare i suoi mugugni di dolore.

Quando ho finito, mi passo il braccio sulla fronte con un sospiro e mi lascio cadere seduto. I lamenti non cessano e gli altri due cominciano a parlottare tra loro.

Le mie poche conoscenze sono sufficienti perché io comprenda che, a meno che non accada un miracolo, quest'uomo senza cure rischia di morire. Di certo lo hanno capito anche loro e magari è proprio quello che stanno dicendo.

D'improvviso mi rendo conto che c'è un'unica soluzione: qualcuno deve andare avanti portando con sé il ferito, ciò significa che la carovana dovrà dividersi. Sto per suggerirlo, preparandomi a farmi capire in ogni modo possibile, quando mi accorgo che stanno già prendendo proprio questa decisione.

Caricano l'uomo su un dromedario e un paio di suoi compagni prendono altri due animali mettendosi ai lati per tentare di tenerlo fermo mentre si muovono al suo fianco: non sarà affatto facile, perché il dolore dovuto alle emorragie interne a breve sarà insopportabile e forse si contorcerà rischiando di cadere.
Nel silenzio della notte africana, vediamo il trio allontanarsi con le grida del ferito come unico, inquietante suono. Anche quando sono troppo lontani per scorgerli, mi pare di udirle ancora.
 
- §-
 
La canicola è insopportabile e un paio di uomini della carovana sono venuti alle mani per via dell'acqua: le scorte sono quasi finite e per muoverci in maniera più rapida abbiamo cominciato a viaggiare anche di giorno, fermandoci solo nelle ore più calde.

Anche il cibo scarseggia e le energie sono diminuite per tutti così, nonostante un maggior numero di ore di cammino, abbiamo comunque rallentato. Io cerco di non lamentarmi e accontentarmi delle razioni che mi riservano, ma comincio ad avvertire i morsi della fame, per non nominare la sete che pare consumarmi come una febbre.

Nel paesaggio piatto fatto solo di dune che sembrano sfrigolare al sole, individuo una sagoma proprio davanti a noi. Bastano pochi passi per capire che si tratta degli uomini che un paio di giorni fa si sono allontanati con il ferito. L'uomo non è più con loro e il terzo dromedario giace morto su un fianco, forse sfiancato dalla corsa e dalla fame.

Chiudo gli occhi, frustrato, chiedendomi se almeno abbiano dato degna sepoltura al poveretto. Sono talmente stanco che non mi accorgo del colpo finché non mi arriva, forte e deciso sulla guancia.

Cado a terra di peso, portandomi la mano alla parte lesa in un gesto istintivo e incontro gli occhi scuri del membro della carovana che mi ha colpito: il suo ghigno lascia scoperti i denti e mi sembra di rivedere la leonessa che ho incontrato in Kenya qualche settimana fa.

Mi urla parole incomprensibili, indica dietro di sé e il suo compagno si avvicina, minaccioso: davvero devo mettermi a fare a pugni in mezzo al deserto con questo caldo? E per quale motivo, poi? Mi stanno forse incolpando di aver contribuito a far morire il loro amico?

Cerco di concentrarmi sulle parole e scopro che, nel loro dialetto, la parola 'veleno' si pronuncia come in quello masai. Per me è la conferma che ho ragione: secondo loro, se li avessi lasciati succhiare via il veleno, il loro compagno sarebbe ancora vivo.

Potrei spiegare che si sbagliano, che forse ho persino salvato anche le loro, di vite. Se avessero avuto una ferita in bocca avrebbero potuto rimanere avvelenati a loro volta e di certo non avrebbero impedito a quello inoculato dal serpente di agire.

Ma sono così furiosi che posso solo difendermi senza sprecare fiato. Sono lontani i tempi in cui Terence è stato aggredito da un gruppo di ubriachi a Londra: allora, la mia forza fisica non aveva risentito di una marcia forzata nel deserto con acqua e cibo razionati.

Per mia fortuna, anche i loro colpi sono lenti e imprecisi e gli altri non sembrano intenzionati a partecipare, forse anche loro sono sfiniti. Più che colpire, cerco di evitare i pugni e uno di loro cade sotto il suo stesso slancio dopo che mi sono spostato.

Sospiro, scuotendo la testa: "Non serve a niente tutto questo, adesso", dico in tono calmo, sperando che almeno colgano l'inflessione tranquilla della mia voce.

Alla mia destra, un uomo grida una parola che ho imparato a riconoscere dopo tanti giorni: "Attenzione!".  

Sono sempre stato ottimista di natura. Eppure, quando in lontananza vedo un gran polverone che sembra sollevato da una mandria di bufali inferociti, quasi mi preparo per spostarmi assieme agli altri per non esserne travolto quando appariranno.

Gli altri cominciano a parlare ad alta voce e a muoversi in maniera scomposta come in cerca di un rifugio.

Allora capisco.

Capisco che quelli non sono bufali perché siamo in pieno deserto, ben lontani dalle savane, bensì una tempesta di sabbia in piena regola dalla quale non sappiamo come proteggerci. Imitando gli altri e secondo quello che ho imparato, mi affretto ad avvolgermi il foulard su tutto il viso e indosso anche gli occhiali scuri che ho nella sacca.

Mi domando, confuso, come faranno i dromedari e rimango impietrito quando vedo che li stanno disponendo in cerchio, raccogliendosi all'interno di quella specie di muro improvvisato. Senza dare loro tempo di discutere, mi aggrego anche io mentre i primi venti sabbiosi cominciano a colpire ferendomi gli occhi nonostante gli occhiali.

Il tempo diventa relativo. Anche se i dromedari sono uno scudo inaspettatamente efficace, il boato del vento copre il mio mondo e non mi azzardo nemmeno ad aprire gli occhi. D'improvviso, nonostante l'emergenza, rannicchiato come sono su me stesso, avverto la stanchezza invadermi le membra.

Non so bene se sto perdendo i sensi o mi sto solo addormentando.
 
- §-
 
Continuo a camminare verso quell'orizzonte dove il fiume mi attende, con il suo refrigerio e la promessa di un insediamento dove potrò finalmente trovare acqua e cibo. Soprattutto acqua.

Ma, nonostante cammini o, meglio, mi trascini ormai da ore, la distanza sembra sempre la stessa. La mia mente è sempre più annebbiata e continuo a domandarmi quando le cose hanno cominciato ad andare storte.

Ricordo l'inizio della tempesta di sabbia e la sensazione di esaurimento fisico che doveva essere colpa della disidratazione. Devo essere svenuto mentre la mano implacabile del vento penetrava in quella sorta di nicchia offerta dai dromedari.

Quando mi sono svegliato pensavo di essere stato sepolto vivo: sentivo la sabbia in bocca, nelle narici e persino nelle orecchie e ho tossito a lungo fino a vomitare prima di riuscire a respirare in maniera normale.

Mi sono guardato attorno, attonito, e mi sono reso conto di essere solo.

Quegli sciagurati mi hanno abbandonato nel deserto senza altro che i miei vestiti e la sacca da viaggio. Ho subito frugato dentro, notando con orrore che avevo pochissima acqua e delle fave secche. Oltre alla mia indispensabile bussola.

Nonostante il momento tragico, ho sentito una risatina nervosa salirmi alle labbra: pensano davvero che con questo banchetto, una bussola e pochi altri oggetti sopravvivrò a lungo?

Ho scosso la testa, lasciandomi cadere in ginocchio. È evidente che mi vogliono riservare lo stesso destino che ha avuto il loro compagno morso da una vipera, anche se io non morirò avvelenato, ma di sete ancor prima che di fame.

E ormai non li sento neanche più i morsi della fame. Però sto per morire di sete, e non in senso figurato: sono almeno due giorni che ho terminato la poca acqua che avevo. So che, per trattenere al massimo le scorte dell'organismo, camminare sotto la canicola è la cosa peggiore che possa fare, ma non posso fermarmi perché ogni miglio percorso può portarmi più vicino alla meta.

Se mi fermo rischio di morire. Se cammino accelero il processo. Ironico, no?

Resistendo all'impulso irrazionale di sfilarmi gli stivali e strapparmi i vestiti di dosso per diminuire il senso di caldo soffocante, cerco invece di concentrarmi su ricordi gradevoli, mentre mi rendo d'improvviso conto che il fiume che vedo in lontananza non è che un dannato miraggio.

La mia casa nei boschi di Lakewood, con gli animali che mi accolgono ogni volta che vi entro. Il sorriso di Candy. La pelle profumata di Annabelle che si stringe a me offrendomi la morbidezza dei suoi seni. L'ultima carezza a Poupee prima di lasciarla in Kenya.

Amica mia, ancora oggi mi capita di alzare la mano sulla spalla per toccarti, ma incontro solo il vuoto.

Inghiotto le lacrime perché piangere significherebbe disidratarmi ancora di più: d'altronde ho imparato a non farlo per anni. Ma il mio corpo minato da giorni di arsura non ha più il controllo dei movimenti, né delle emozioni.

Un passo, un altro passo, la sabbia mi è penetrata fin dentro la camicia e decido di usare la giacca come parasole per non prendere un'insolazione. Avrei dovuto pensarci ore fa! Ieri, forse. Ora, di certo, brucio già di febbre. E meno male che non ho davvero tolto i vestiti altrimenti sarei già ustionato.

Una forma sinuosa saetta verso di me sulla sabbia e riconosco un serpente. Un'altra vipera? Un aspide? Non lo so, ma devio per evitare di essere morso e spero di non svenire mai qui in mezzo perché diventerei con facilità vittima del veleno di serpenti e scorpioni, avverando questa sorta di contrappasso ingiusto che mi hanno riservato.

E, forse, cibo per le iene.

Ho tagliato tutti i collegamenti con Georges perché volevo mettermi alla prova e ci sono riuscito fino ad oggi: ho superato tutti i miei timori e insicurezze ma mi è bastato commettere un errore per cacciarmi in guai seri.

Se non trovo dell'acqua entro oggi, gli Ardlay rimarranno senza patriarca e forse non troveranno mai nemmeno il mio corpo.

Alzo il volto verso il cielo, dove il sole implacabile sembra una palla infuocata e quasi mi aspetto di vedere gli avvoltoi che mi svolazzano intorno. Mi gira la testa e con un verso strozzato mi accascio sulla sabbia rovente, lamentandomi di dolore quando viene a contatto con la bocca e il mento.

Cerco di tirarmi in piedi prima di perdere i sensi e mi guardo ancora una volta attorno per tentare di individuare una fonte d'acqua qualsiasi: una pianta, un sasso umido. Ma qui non piove anche per decenni e, a parte la sabbia, non c'è altro.

Senza che io me ne renda conto, i miei pensieri vanno di nuovo a lei: sarà già fidanzata con Terence? Si saranno riuniti dopo la fuga da scuola? L'ho già persa per sempre?

Non è mai stata tua, se non come una protetta, una figlia addirittura.

Scuoto la testa, ridendo di me stesso, cercando di ignorare il dolore alle braccia per la posizione innaturale in cui cammino, con la giacca sopra la testa come una specie di tenda e la sacca stretta in una mano. Mi fermo, confuso: la disidratazione mi sta facendo davvero sragionare.

Muovendomi come un ubriaco che debba concentrarsi, lascio cadere la sacca a terra, posiziono la giacca sul capo come il velo di una suora e faccio due passi prima di rendermi conto che sto lasciando il mio bagaglio. Mi volto imprecando tra i denti e lo recupero, sentendomi davvero come se avessi bevuto troppo.

Bere. Acqua. Acqua...

Ho sentito alcuni indigeni raccontare che, dopo giorni nel deserto, sono stati costretti a bere le loro stesse urine pur di non morire e il mio volto si contrae in una smorfia di disgusto.

Sono certo che non dovrò arrivare a tanto, così come sono certo che difficilmente nel mio corpo ci sia altro liquido se non qualche litro di sangue denso e imbevibile. Oppure si può bere anche quello?

Non posso morire a un passo dalla meta...

Quanto è lontana davvero Al Ghabah? Quando sono partito con la carovana ero certo che, una volta attraversato il deserto, tutto sarebbe stato più facile. Invece il deserto sta diventando la mia tomba.

Un altro miraggio mi fa sbattere le palpebre, che bruciano per il sudore che mi finisce negli occhi. Incredibile che io abbia ancora del sudore, magari è un buon segno.

Eppure, anche se sono certo che sia una pia illusione dettata dalla sete, la pozza mi sembra proprio vera e i miei piedi accelerano prima ancora che io formuli un pensiero coerente.

Come, ad esempio, che quell'acqua possa provocarmi una dissenteria mortale o non sia affatto reale.

La mia faccia affonda nella sabbia e mi penetra nella bocca aperta, secca e rovente, prima che la risputi via disgustato, le labbra in fiamme. Non ho mai sentito di uomini che vedono pozze d'acqua inesistenti, forse sono il primo caso al mondo: devo essere più grave di ciò che temevo se ho addirittura le allucinazioni. Oppure la sabbia che mi è finita negli occhi con la tempesta mi ha parzialmente accecato.

Se l'episodio non fosse così drammatico, riderei di me stesso e della mia idiozia. Semmai dovessi sopravvivere, penso che non avrò neanche il coraggio di raccontarlo.

Non trovo più la giacca, né la sacca dove ci sono il sacco a pelo e qualche altra cosa che non ricordo più. Mi rendo conto che sono steso sulla sabbia e che non mi brucia sulla guancia solo perché sono posizionato su un fianco con un braccio sotto la testa.

Lotto strenuamente per tenere gli occhi aperti ma il sole è troppo forte e mi ferisce la vista. Dopo la mia recente performance sento la lingua secca ed enorme in bocca e il sapore disgustoso simile a quello della terra mi indurrebbe a vomitare di nuovo, ma non ho più neanche la forza di emettere un singulto.

Però ne trovo per sussurrare un nome, con una voce arrochita che non riconosco come mia. Forse, dopotutto, sono davvero giunto alla fine. La zia Elroy mi ucciderà... no, non può farlo di nuovo.

"Candy", gracchio prima che la mia coscienza mi abbandoni.
 
- §-
 
Le voci parlano una lingua che non conosco. Il Paradiso deve essere una specie di Babele, oppure sono in Purgatorio per qualche peccato che ho commesso.

Come fuggire dalle mie responsabilità tagliando i ponti con tutti.

Con sommo affanno, cerco nella mia mente motivi per essere all'Inferno, visto il caldo che sento, ma per quanto mi sforzi non credo di essere stato tanto cattivo nella mia vita.

Ho abbandonato Annabelle.

Mentre mi incolpo e mi scagiono subito dopo, ripetendomi che lei era più che consenziente e sapeva della mia imminente partenza, qualcosa di umido e fresco sulle mie labbra mi fa acuire i sensi e sento un fiotto di adrenalina scorrermi nelle vene.

Capisco così che sono ancora vivo.

E che qualcuno mi sta facendo gocciolare dell'acqua sulla bocca. D'istinto, la apro per averne di più, le palpebre che scattano in alto come tapparelle. Un uomo semi-nudo che tiene in mano ciò che bramo allontana all'improvviso la metà di noce di cocco nella quale è immerso un pezzo di stoffa: forse è con quello che stava facendo cadere le gocce sulle mie labbra.

Con un gesto di rabbia, frustrazione e maleducazione dettati dal bisogno nudo e crudo di bere, gli strappo dalle mani la noce di cocco e scolo il contenuto in un unico sorso. Mentre lui protesta ad alta voce con parole che solo lui e i membri della sua tribù possono comprendere, alfine comprendo anche io.

Ma è troppo tardi.

Il mio stomaco vuoto di acqua e cibo da giorni si ribella, anche se il liquido è potabile: però è davvero troppo tutto in una volta e mi ritrovo con le ginocchia bagnate e la gola che brucia. Disgustato da me stesso e più assetato di prima, mi lascio ricadere sdraiato su quello che sembra un giaciglio di erba secca e rametti.

Non sono mai stato attratto dalle ricchezze materiali, ma al momento darei un braccio per una doccia e una tavola imbandita.

"Ho sete...", imploro sull'orlo delle lacrime. Mi sentivo quasi meglio quando credevo di essere morto: con la coscienza, il mero bisogno fisico di bere sta rischiando di farmi impazzire.

L'uomo sta dicendo qualcosa ad altre persone vicino a lui e sembra concitato. Tra le sue mani scure vedo comparire di nuovo la semisfera che immagino colma di liquido.

Mi lecco le labbra a secco, anelandolo, e lui me lo porge dicendo qualcosa in un modo così accorato che mi sembra davvero di capirlo, stavolta. In realtà so benissimo che ora devo essere più cauto e mi limito a un piccolo sorso.

Mi sembra di assaporare il più dolce dei nettari e non distinguo bene se si tratti di acqua di sorgente o di acqua di cocco, ma so che ogni cellula del mio corpo mi ringrazia profusamente e che mi sento commosso da tanto sollievo.

Contro ogni mio impulso, allontano da me il liquido, perché stavolta ho intenzione di andare piano e dare al mio corpo il tempo di riprendermi. Sto per sdraiarmi di nuovo, desideroso solo di dormire, quando l'uomo mi avvicina al naso qualcosa di zuccherino che, ancora una volta, mi risveglia i sensi.
Addento la polpa con avidità e riconosco il sapore dolce di un dattero. Se non ricordo male sono frutti ricchi di acqua e vitamine e per poco non mando giù il grosso nocciolo al centro mentre lo spolpo. Intorno a me sento delle risate e un battere di mani, oltre ad altre parole divertite che continuo a non comprendere.

"Grazie... grazie di cuore", mormoro prima di svenire in una specie di torpore che è un sonno profondo.

Quando riapro gli occhi, il firmamento mi riempie lo sguardo. La notte africana è calda ma provo anche un certo sollievo ora che il sole è calato e ho bevuto e mangiato qualcosa. Ancora intontito, mi tiro a sedere e mi rendo conto che sono in un campo piuttosto ben attrezzato dove è stato anche acceso un fuoco.

Accanto a me, trovo il mio sacco da viaggio e la mia giacca, oltre a una mezza noce di cocco piena di liquido e alcuni datteri divisi a metà. Prima di cercare qualcuno con cui parlare, nella speranza di riuscire a comunicare, bevo quella che scopro essere proprio acqua di cocco e mangio un paio di datteri.
La sensazione di rinascita è potente e impagabile, anche se sono ancora lontano dal fare un pasto completo. Mi sento davvero rigenerato e sono grato a questi uomini per avermi salvato la vita.

"Bianco di nord Europa, sì?", la voce di un uomo pelle e ossa, scuro come il tronco di una quercia, mi fa voltare di scatto.

D'istinto gli rispondo: "No, sono americano. Però ho origini scozzesi".

Lui fa una faccia pensierosa, arricciando il naso camuso: "Americano di scozzese?", ripete.

Annuisco, capendo che sarebbe inutile spiegarmi. Immagino che sappia solo qualche parola nella mia lingua, quindi non potremo fare grandi conversazioni.
"Grazie. Grazie dal profondo del mio cuore", gli dico inchinandomi dalla mia posizione seduta.

Lui annuisce con un grande sorriso e mi dice che il suo nome è Ghali. Da quello che capisco aiuta il capo tribù che è molto anziano, come fosse una sorta di braccio destro. Sorrido, pensando a Georges: chissà se è preoccupato per me, in questo momento.

A causa della mia condizione fisica mi trattengo qui per un paio di giorni, per riprendere le forze ma anche per aiutare come posso: non solo voglio sdebitarmi perché mi hanno salvato la vita, ma ho anche necessità di fare provviste e soprattutto cercare un altro mezzo di trasporto.

Per fortuna mi trovo di nuovo vicino al Nilo, quindi posso seriamente pensare di usare un'altra feluca. Ho provviste e acqua a sufficienza ma devo prima capire bene dove mi trovo: spiego la cartina davanti al capo villaggio, un anziano che somiglia in modo sorprendente a Ghali e ad alcuni ragazzini che sembrano esperti di questi luoghi.

Punto l'indice sul porto di Alessandria e loro mi indicano un punto vicino a una località chiamata Goshabi, dove di certo mi trovo ora. E io che speravo di essere arrivato ad Al Ghabah! Invece sono poco più a sud. Mi è chiaro che devo procedere per oltre mille miglia prima di arrivare a destinazione e ci vorrà tempo.

Sospiro, frustrato, e decido di rimettermi subito in cammino, sperando che, dopo aver visto la morte da vicino, non debba incontrare altri imprevisti.
 
- §-
 
Il mio arrivo ad Alessandria mi porta gioia e tensione allo stesso tempo. Il viaggio è stato lungo e al Cairo ho preso un cavallo perché volevo muovermi più veloce: nonostante le tappe obbligate, infatti, continuavo ad avvertire questo senso di urgenza che non sapevo come definire, se non la superstizione di un uomo che ha qualcosa di molto importante da raggiungere e teme di non poterlo più fare.

Candy...

E, infatti, le notizie che ho ricevuto appena arrivato in città mi gelano il cuore: nel conflitto, scatenatosi circa tre mesi fa, sono entrati anche il Regno Unito e la Francia che io devo attraversare obbligatoriamente per tornare in America. Anche se l'Italia, al momento, pare rimasta neutrale, non sono certo di poter varcare le Alpi senza rischi.

Chiudo gli occhi davanti al poliziotto che è stato così gentile da aggiornarmi e indicarmi dove acquistare dei giornali e faccio un profondo sospiro: il porto è qui vicino e devo pensare solo a prendere una nave per raggiungere le coste della Sicilia.

Una volta rimediato il biglietto, decido di concedermi una notte in una piccola pensione vicino al porto per rigenerarmi dalla lunga traversata sul fiume e per prepararmi a quella via mare. Sarà per la guerra che incombe, sarà per la fretta che ho, ma questo viaggio di ritorno non ha molto della spensieratezza di quello dell'andata.

Nonostante ciò, ora che sono più vicino all'Europa ripenso quasi con nostalgia al percorso sul Nilo: in altri tempi, avrei rallentato il viaggio per godermi le bellezze del paesaggio e della natura, specie una volta giunto in Egitto.

Se ero rimasto affascinato già in Sudan, lì la meraviglia era costante: dal centro del mondo d'acqua su cui navigavo, non potevo fare a meno di cogliere con l'avidità di un affamato l'imponenza delle pareti e delle tombe rupestri, la dolcezza delle zone più verdi costeggiate dalle palme ma, soprattutto, i tramonti.
Vale la pena vivere solo per guardarli, per sentirsi parte di questo dipinto naturale immersi nella luce arancione del sole che termina la sua corsa. Anche se ero preoccupato, tanta bellezza mi commuoveva e calmava i miei sensi.

Alla fine, posso dirmi soddisfatto, pur se ho avuto difficoltà e rischiato di morire nel deserto. A partire da Goshabi, le soste obbligate ogni sera per montare la tenda all'interno e le deviazioni per evitare le cataratte non hanno inficiato troppo sui tempi.

Mentre mi trovo, dopo mesi, immerso in una vera vasca da bagno e cerco solo di rilassarmi, mi rendo conto che ho fatto ciò che volevo: mi sono messo in discussione, mi sono misurato con me stesso e ho capito che posso cavarmela davvero in qualunque situazione. Però è ora di superare questa fase egoistica per tornare non solo da Candy, ma anche dalla mia famiglia.

Certo, l'idea di passare dalla savana direttamente in un freddo ufficio di Chicago mi mette i brividi. Eppure, so che devo prendermi le mie responsabilità e smettere di comportarmi come un ragazzo ribelle per diventare un adulto.

Questa parte libera di me non cesserà di esistere, è certo, però devo imparare a farla convivere con la realtà che tanto ho cercato di rifuggire. Non so cosa mi riserverà il destino, ma sono cosciente che cercherò di essere diverso da mio padre: semmai deciderò di sposarmi e avere gli eredi come tanto implora la zia Elroy per trasmettere il nome degli Ardlay ad altre generazioni, di certo sarò un padre più presente.

Infilo il pigiama e mi butto sul letto con un verso di stanchezza. Dietro le palpebre, che si chiudono inesorabili, si avvicendano le immagini di mio padre, con il viso altero, che mi riserva una carezza sul capo con una luce piena d'affetto negli occhi; di mia sorella, col suo sguardo innamorato rivolto a un imbarazzato Vincent che le tiene le mani; della zia Elroy, che fa un verso di stizza e mi ordina di tornare in camera mia; e di Candy, che entra nella capanna del Blue River e mi porge una piccola tartaruga da accudire.

I ricordi si susseguono diventando sogni lucidi mentre scivolo nel sonno, senza un filo logico o temporale e i volti delle persone amate sembrano chiamarmi.
Eccomi, penso, sto tornando. Ma la mia coscienza, ancora in bilico tra sonno e veglia, mi suggerisce che alcuni di loro non potrò più vederli.
 
 
   
 
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