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Autore: Hoel    27/09/2021    5 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Ecco qua il ventinovesimo capitolo!

Ulteriori note si trovano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.

Avvertimenti: altre peculiarità.

Un ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94, Semperinfelix,  Sagitta72 e Vanya Imaryek. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.

Vi auguro una buona lettura,

H.

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PARTE TERZA:

Treviso

(28 settembre – 20 ottobre 1511)

 

 

 

 

Capitolo Trentesimo

Domenica 28 settembre 1511

(prima parte)

 

 

 

 

 

Aveva incominciato il suo cammino determinato, sicuro e confidando nella presenza della dama fuori dal padiglione del suo carceriere, il quale se ne stava seduto immobile e reclinato in avanti, quasi l’avesse all’improvviso colto la morte.

Non s’era attardato a meditare su tale stranezza, spinto dall’urgenza di fuggire e di ricongiungersi alla sua salvatrice.

Che però non trovò ad attenderlo.

Ogni fiammella di coraggio gli si spense in cuore, righermendolo il gelido panico che fin a quel momento l’aveva tartassato; circospetto avanzò di qualche passo giusto per nascondersi dietro qualche carro, tenda, un qualsiasi angolo che potesse offrirgli protezione dalle occhiate vigili dei soldati intenti a smontare l’accampamento per l’imminente partenza.

Studiò il campo e ogni singolo movimento attorno a sé, sperando nell’altrui distrazione o di un punto poco sorvegliato dove sgattaiolare via indisturbato. La saliva gli si seccò in gola, percepiva lo stomaco contrarsi ogniqualvolta evitava, per il rotto della cuffia, di finire scoperto da una sentinella. Spuntavano militi da ogni angolo, parevano possedere mille occhi e mille orecchie, come i serpenti che s’accorgono della preda alla minima sua movenza.

Non esisteva via d’uscita. Erano dappertutto. Non ce l’avrebbe mai fatta, sicuramente l’avrebbero catturato e ricondotto davanti al suo carceriere.

E una volta lì … lo avrebbe … lo avrebbe … nel peggiore dei modi … delle umiliazioni … delle torture …

Tremò da capo a piedi, ricacciando indietro le lacrime di paura e frustrazione: a che pro sciogliersi dalle sue catene, se poi doveva rimanere intrappolato nell’accampamento? Un ultimo istante di gioia e speranza, prima della sua definitiva caduta nell’abisso della disperazione?

La strada, la strada! Dov’era la strada verso la libertà?

Non la trovava, non la conosceva, smarrito e solo, circondato da nemici.

S’accoccolò per terra, le ginocchia al petto, dondolandosi sempre più in affanno avanti e indietro, imponendosi di recuperare la fredda calma e d’elaborare una strategia di fuga. Peccato che la sua mente non cooperasse, ostaggio degli affilati artigli del terrore.

La strada! La strada! Dov’è? dov’è?

“Concentrati su di Lei”, udì all’improvviso e nitidamente la voce di Padre, che credeva averlo abbandonato, invece tramite i suoi insegnamenti continuava a vivere in lui, a guidarlo e proteggerlo. “Odigitria, dal greco, vuol dire: Colei che conduce e che mostra la direzione. Lei ti guiderà sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani, quando ti sentirai perduto o non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei soltanto e non ti perderai mai.”

Disperato, in cerca di un segno, La invocò nuovamente. Vieni ancora in mio sostegno, indicami la strada … indicami …

Una mano gli si posò sulla spalla, afferrandolo e costringendolo in piedi …

Hironimo gridò angosciato, mulinando esagitato le braccia sia per difendersi sia per scacciar via chi stava tentando di tenerlo fermo per le spalle, chiamandolo ad alta voce e pregandolo di tranquillizzarsi, ch’era al sicuro.

In questo scontro da gatti i due indugiarono per un po’, finché il giovane Miani esaurì le poche energie accumulate durante il sonno, cedendo  sfinito e in attesa del suo destino, il quale possedeva il volto benevolo e preoccupato del monaco sedutogli accanto.

Non apparteneva all’ordine dei benedettini – constatò il patrizio, già di questo sentendosi un poco sollevato – bensì o di un agostiniano o di un canonico regolare. Il che significava che non si trovava più a Nervesa (e qua Hironimo si schiaffeggiò mentalmente: ovvio, che non era Nervesa) ed era capitato in un altro convento o monastero. Ma dove? Non riconosceva l’ambiente, o meglio, intuiva trattarsi di un’infermeria o comunque dove giacevano i malati in degenza, ma non il luogo esatto.

Dov’era finito? Dove l’avevano condotto? Possedeva della notte scorsa ricordi così confusi …

Una gentile presa dietro la nuca lo distolse dai suoi scoordinati pensieri, conducendolo in posizione seduta. L’orlo d’un bicchiere s’appoggiò alle sue labbra e il fresco liquido di un’acqua finalmente salubre e pulita s’infilò nella sua bocca, ammorbidendo la secchezza in gola.

“Piano, piano … bevi piano”, l’avvertiva il religioso, in una curiosa prova di forza tra i due, lui che tratteneva l’angolazione del bicchiere acciocché la bevanda scorresse lentamente; Hironimo, al contrario, che insisteva su di una sua accelerazione. Inghiottì a rumorose sorsate, avido e assetato, dimenticandosi sia di respirare sia le piccole dolorose contrazioni dell’esofago fuori allenamento, finché qualche goccia d’acqua sfuggì al suo controllo e scese nella trachea, provocandogli un improvviso colpo di tosse e conseguenti sputacchi di liquido in eccesso. “Ecco … che ti dicevo?”, roteò gli occhi il monaco, battendogli delicatamente dietro la schiena.

“A-acqua … acqua …”, gracchiò ansimando il giovane Miani, passando la lingua sugli angoli umidi della bocca, asciugandoli. “Acqua …?”

L’uomo annuì. “D’accordo, te ne porto ancora. Basta che mi prometti di berla senza fretta, sì?” e si alzò per riempire la brocca vuota, uscendo momentaneamente dalla stanza.

Così facendo, il religioso aveva privato Hironimo di uno scudo umano, rendendolo visibile ai pazienti in letto, che il patrizio s’affrettò a squadrare uno alla volta, alla ricerca d’indizi sulla sua nuova ubicazione. Quand’ecco, che il suo sguardo s’incrociò con uno a lui assai noto e non in circostanze felici. La sua mano corse istintivamente alla ricerca di qualcosa con cui difendersi, raccogliendo solo il cuscino che comunque afferrò.

“Tu!”, esclamò Zilio Madalo al limite dello sconcerto, gli occhi comicamente tanto sgranati da far concorrenza ad un paio di uova all’occhio di bue. “Che diavolo ci fai qui?”

Ad Hironimo, altrettanto sorpreso, risultò arduo formulare una risposta adeguata a quella domanda legittima, ignorando lui per primo il luogo e lo schieramento dov’era incappato. Il suo cervello, nel frattanto, formulava imbizzarrito mille teorie.

“Sei vivo …”, dichiarò infine il giovane, sbattendo disorientato le ciglia, neanche avesse le traveggole. “Tu sei vivo”, ripeté incredulo, mentre una rabbia montante gli ribolliva in petto: ogni sevizia subita per mano di Mercurio Bua, negli ultimi giorni, era figlia della collera del greco-albanese, il quale aveva creduto, erroneamente, morto il suo luogotenente per colpa (indiretta) della fuga d’Hironimo. Vederselo dunque lì, davanti a sé, vivo e vegeto anche se ridotto maluccio, la giudicò la più ingiusta delle beffe.

Simili ragionamenti attraversavano la mente dello stradiota, che contemplava tramite il Miani il fallimento del suo capitano, ogni suo sforzo per tenerlo presso di sé vanificati da una fuga che lui primo aveva sempre ritenuto impossibile.

“E tu non puoi essere qui!”, ringhiò Zilio, appoggiando una gamba per terra. Immediatamente, Hironimo levò in alto il cuscino, pronto alla pugna. “Tu non devi essere qui! Come sei scappato? Che cosa ne hai fatto del mio capitano?!”, poiché nella sua testa egli era giunto all’ovvia conclusione che, se l’ex-castellano si trovava lì, di sicuro Mercurio Bua o era stato ucciso o in ogni modo attaccato per privarlo del suo ostaggio.

“Niente, s’è soltanto addormentato, il brocco!”, gli disse la nuda e cruda verità Hironimo, ossia ciò che si ricordava della notte precedente.

Peccato che Zilio non la gradì. “Schifoso rospo di palude, io ti …!” e avanzò furioso verso il giovane, che gli tirò prontamente il cuscino contro, colpendolo alla spalla ferita. Al che lo stradiota afferrò uno sgabello e s’apprestò a spaccarlo in testa ad Hironimo, che si schermò con le braccia e …

“Ciò! Siete omeni o puteli?”, ruggì il monaco infermiere, ritornato dalla pompa dell’acqua potabile e osservando stupefatto e deluso i due contendenti. “Vi paiono atteggiamenti consoni alla vostra età?”, rincarò la dose severo. “Di domenica, poi, giorno di Domine Iddio!”

“Ha incominciato lui!”, indicò petulante Zilio il suo avversario, che, dopo avergli elargito una solenne linguaccia, si discolpò in fretta:

“Io non gli ho detto niente d’offensivo, m’ha attaccato così, senza motivo!”

Stringendo le labbra in una linea dura, il religioso si portò dubbioso accanto a Giorgio Madalo. “Chi dei due afferma il vero?”, lo interrogò e questi replicò salomonicamente:

“Ambedue e nessuno dei due, Fra’ Mauro. Mio fratello gli ha parlato da zaffo, mentre questo qua ha ingiuriato il suo capitano. Non che ci sia nulla di male in ciò, tuttavia mio fratello lo adora, di conseguenza l’ha presa sul personale.”

Il canonico regolare sospirò snervato. “E perché mai avrebbe dovuto insultare il capitano di tuo fratello?”

“Da quanto sto capendo”, asserì meditabondo Giorgio, “costui”, e indicò Hironimo, “dev’esser stato un prigioniero del signor Mercurio, ch’è riuscito a scappargli da sotto il naso, se non l’ha ammazzato nel processo.”

“Se l’ha fatto, lo squarto a mani nude!”, fu la macabra promessa di Zilio, nel frattanto che Fra’ Mauro, intuendo l’antifona, lo trascinava lontano dal giovane Miani, il quale protestava indignato che lui aveva visto il condottiere orizzontale in quanto addormentato, mica morto.

“Calmati, Oreste, siamo in guerra: morir uccisi rientra nell’equazione!”, lo rimbeccò scocciato Giorgio.

“Non a tradimento!”, digrignò i denti Zilio, posto forzatamente seduto da uno sbuffante Fra’ Mauro.

“Sì, perché io in battaglia t’avverto, prima d’aprirti le budella!”, lo sbeffeggiò il maggiore, provocando un rictus nel bizzoso minore, prontamente bloccato dal monaco infermiere.

“Ciò, basta voi due!”, brontolò quegli,  sfinito da tante bambinate. “Invece, raccontatemi un po’ questa storia della fuga dal capitano Mercurio Bua!” figurarsi se l’uomo non conosceva bene quel nome, pronunciato col medesimo timore riservato al Barababao. “Incominciando da te”, incalzò Hironimo che, riprendendo possesso del cuscino gentilmente raccoltogli da Fra’ Mauro, cercò di riassumere in maniera semplice ed esauriente l’intera faccenda:

“Mi chiamo Hironimo Miani, del fu magnifico missier Anzolo Miani da Carità-San Vidal. Sono un patrizio veneziano e castellano di Quero”, e deglutì, vergognoso e furente contro se stesso al ricordo della sua sconfitta militare. “Per un mese sono stato prigioniero del capitano Mercurio Bua Spata, da cui, come vedete, sono riuscito a fuggire la notte scorsa”, disse, glissando su di essa, fintanto che la memoria non gli si fosse raddrizzata, permettendogli di porre in chiaro ordine cronologico eventi e dinamiche.

Intanto, nelle cucine, Fra’ Anselmo combatteva la sua personale battaglia, onde impedire che Thomà ne combinasse l’ennesima delle sue: il giorno scorso, infatti, il capo-bombardiere Orlando da Bergamo era venuto all’Ospedale a riportargli indietro un imbronciato fantolino, spiegando al monaco come questi avesse approcciato i suoi uomini, domandando se avessero bisogno di qualcuno per mescere le polveri da sparo.

“Perché non posso aiutarvi? Odio quanto voi i Tedeschi e i Francesi e conosco bene il mestiere!”

“Stare tra i soldati nelle casematte non è il posto più adatto ad un bambino!”

“Balle di musso! Io ho servito a Castel Novo di Quer e ho condiviso il tetto con uomini, donne e bestie senza alcun problema!”

“Ugualmente non li servi, hanno già i loro aiutanti.”

“Allora prendetemi al vostro servizio!”

“No, in campanile non ci stai.”

“Perché no?”

“Perché mi saresti d’intralcio.”

“Non avete spazio per me, ma per ingrumarvi con la Zanze sì, eh?”

Fra’ Anselmo avvertì un certo calore avvampargli le gote al ricordo di tal prosaico litigio tra il bambino e il bergamasco, conclusosi con quest’ultimo che tirava le orecchie a Thomà, apostrofandolo irritato e chiamandolo birba, canaglia, manigoldo. Orecchie, a giudicare dal rossore, che ancora bruciavano all’indispettito fanciullo, concentrato in quel momento a girare la polenta, borbottando maledizioni e improperi in un misto di veneto-feltrino e ladino.

“Suvvia, mescere la farina di polenta non sarà entusiasmante quanto le polveri da sparo, ma almeno essa produce un pasto, che aiuterà i nostri ammalati a guarire presto e tornare a combattere. Anche se indirettamente, lo stesso ti renderai utile.”

Thomà gracidò un gutturale e profondo verso scettico.

“Ho promesso che avrei vegliato su di te, proteggendoti e assicurandomi che tu stessi al sicuro”, gli ricordò paziente il benedettino. “Fai torto al sacrificio del tuo padrone, arrischiando così sventatamente la tua vita.”

Il piccoletto s’arrestò brusco, tirando su col naso e guardando battagliero Fra’ Anselmo. “Punto perché xéo ancor prexon dil Bua, che mi vojo combatar: cussì quel cancaro lo gh’avarà da liberar, se lo spediamo a la malhorra!”

Il monaco tentò di controbattere quell’ostinata logica, sennonché Fra’ Mauro lo interruppe, scendendo a prendere la colazione per i suoi ammalati. “Sei in ritardo”, fu lieto l’uomo di cambiar discorso, nel frattempo che una conversa scostava Thomà in modo da levare la pentola dal fuoco e rovesciarla su di un panno steso previamente sul lungo tavolo da lavoro. Un’altra delle conseguenze della parata dimostrativa di La Palice era che gli oblati e i novizi sia provenienti dalla città sia tra i fuggitivi fossero stati precettati a montar di ronda assieme ai soldati, rimpiazzati dunque dalle converse e le suore meno schizzinose.

“Mea culpa”, ammise contrito Fra’ Mauro. “Purtroppo, mi sono ritrovato a separare due litiganti, che saranno pur ammalati, ma abbastanza pieni d’energie per menarsi …”, si lagnò, scroccandosi il capo indolenzito per la notte trascorsa sullo scomodo sgabello.

“Beati i costruttori di pace”, citò la conversa con ironica enfasi, intromettendosi, mentre dava una forma di cupola alla polenta con la punta del batocchio bagnato in acqua fredda. Thomà, in punta dei piedi, dopo aver immerso le mani sempre nell’acqua fredda, l’aiutava modellandola alla base.

“E’ pronta?”, tossicchiò il canonico regolare, ignorando l’espressione divertita di Fra’ Anselmo.

“Se mi aiutassi …”, brontolò sottovoce le donna, concentrandosi sul suo lavoro. “Bon da niente”, aggiunse e Thomà sogghignò d’accordissimo.

Fra’ Mauro, approfittando della distrazione di lei, si guardò sospettoso intorno, accostandosi poi al benedettino con fare cospiratore. “Appena avrò dato da mangiare a quelle belve, mi recherò subito dal sior Provedador: prima lo saprà, meglio sarà per noi.”

“Perché? Cos’è accaduto?”, inquisì perplesso Fra’ Anselmo, arcuando sospettoso il sopracciglio e conducendolo in un angolo più appartato. “Cos’hai combinato?”, corresse la domanda, intuendo l’imbroglio nel quale il religioso s’era ritrovato suo malgrado invischiato.

“Ebbene”, fissò contrito Fra’ Mauro i suoi piedi, “stamattina s’è aggiunto un … un paziente in più … e …”

“E …?”, pendeva il benedettino dalle sue labbra, spronandolo a non cincischiare e ad arrivare al dunque. Thomà, dal canto suo, s’era allontanato in punta dei piedi dalla conversa e origliava sfacciato, smettendo quasi di respirare, le orecchie drizzate a guisa di gatto.

“Avrei forse dovuto avvertire immediatamente il sior Provedador, però … Poareto, era giunto così malmesso e … e m’ha fatto pecà doverlo svegliare, anche perché, insomma, a quell’ora di sicuro il missier Zuam Paulo se ne stava dormendo e non mi pareva il caso di svegliarlo …”

“Ciò, stringi!”

“E niente! Ho scoperto che il nostro paziente non solo è un fuggitivo di quel barbaro di Mercurio Bua, ma addirittura il castellano della fortezza conquistata il mese scorso!”, gli rivelò Fra’ Mauro tra l’eccitato e l’apprensivo, strabuzzando gli occhi dinanzi all’espressione sconvolta dell’altro religioso.

“Me-Mercurio Bua? Mese scorso?”, balbettò stralunato Fra’ Anselmo, passandosi una mano sulla bocca asciutta e sulla barba pepe e sale. Vacillò indietro di un passo, rischiando così di pestare i piedi a Thomà, che rinculò anch’egli, finendo contro il muro. “Ne sei sicuro?”, esigette conferma, avvertendo la testa divenirgli leggera.

“Ovvio che sì, me l’ha raccontato lui stesso”, confermò Fra’ Mauro energicamente, nel suo intimo contento d’essere portatore di tale novità. “Il castellano. Sier Hironimo Miani.”

In un attimo, due reazioni contrastanti si svolsero sotto lo sguardo attonito del povero frate: la prima, in cui si vide spintonato via da Thomà che scattò a guisa di lepre verso l’uscita della cucina; la seconda, in cui dovette sorreggere un Fra’ Anselmo leggermente instabile sulle sue gambe, il tutto mentre la conversa li fissava disorientata.

“Fratello, che vi succede? Vi sentite male? Non sarà la febbre?”

“Oh, Misericordia Divina …”, si portò la mano al cuore l’uomo, accettando il bicchiere d’acqua dalla solerte donna, inginocchiatasi davanti a lui. “Quel … quel volpone ce l’ha fatta …”

“Cosa …?”

Sennonché, un impaziente Thomà lo distolse dai suoi confusi pensieri, tirandolo poco educatamente per il saio. “Ndove xélo? El mio patron, indove teo gh’ha messo?”, insistette, battendo nervoso il piede per terra. “Sto hospeal xé massa grando!”, fu l’unica spiegazione di cui lo degnò. “Mo’ via, vecio! Resussita, no me vardare sì inbaucato!”

E notando Fra’ Mauro totalmente imbambolato, Fra’ Anselmo si ripigliò dal suo incantamento e prese in mano la situazione e con essa il braccio del fantolino, dirigendosi a grosse falcate laddove sospettava trovarsi il patrizio.

“No! No!”, li corresse finalmente il canonico regolare, sbracciando mentre li inseguiva. “Dall’altra parte! Dall’altra!”

“Ma … e la polenta non ve la prendete?”, rimase interdetta la conversa, lì col tagliere in mano in mezzo alla cucina, per poi sbuffare e correre a sua volta dietro a quegli sciocchi invasati.

Sicché, entrando per l’ingresso principale dell’Ospedale dopo la Messa mattutina e domenicale, le madone Maria Malipiero Gradenigo ed Helena Spandolin Miani e le loro fantesche osservarono sbalordite la curiosa processione ch’attraversa in fretta e furia il cortile interno, con Thomà aprifila diretto da Fra’ Mauro che da dietro gli urlava le indicazioni, seguiti da Fra’ Anselmo che teneva la mano presumibilmente sulla milza e la conversa che li seguiva reggendo in equilibrio precario la polenta.

“Cos’è tutto questo trambusto?”, protestò indignata madona Maria, la cui bocca non riusciva a chiudersi dallo stupore e sconcerto. “Che razza di comportamenti sono questi? Dove si credono di essere? In un’osteria? In piazza il dì della fiera?”, s’inalberò, mettendosi subito alle calcagna dei gaglioffi col chiaro intento di rampognarli per bene. “Non tollero codesta gazzarra da bastasi! Di domenica, poi!”

All’oscuro di quanto avveniva fuori dallo stanzone, Hironimo e Zilio seguitavano a scrutarsi in cagnesco, sfidandosi a vicenda a compiere il primo passo; Giorgio, invece, spostava apprensivo lo sguardo dal fratello al veneziano, elaborando rapido un piano onde evitare che s’azzannassero ambedue alla gola.

“E così … siete fuggito?”, intavolò un tentativo di conversazione, sperando di distrarli tramite cicaleggio.

“Sì”, soffiò il giovane Miani, gli occhi tuttavia puntati guardinghi sull’altrettanto truce Madalo minore. “Quindi …”, esitò, neppure lui credendo a quell’inaspettata svolta d’eventi. “Quindi sul serio siamo a Trevixo? Non … non mi stai … ingannando?”

Giorgio scosse il capo. “Perché dovrei? Questa è Trevixo, dove siete giunto verso … boh, manco mi ricordo … comunque poco prima dell’alba. Due sentinelle vi hanno condotto qui all’Ospedale da Porta San Tomaso, purtroppo eravate svenuto o addormentato e non vi siete, immagino accorto di niente”, disse e indicandosi orgoglioso il petto: “Sono stato io che ho aiutato Fra’ Mauro a districarvi da quelle orride, orride catene. Ma che diamine pensava quel matto di Napoli di Romania? Manco un forzato nelle galee turche lo legano così! Io l’ho sempre detto, che quello là …” e fece un gesto sconciamente furbetto “Il kyrie Petros, secondo me, s’è pigliato una turca per seconda moglie, perché io non ho mai …”

Al che, balzando in piedi, Zilio ruggì, interrompendo bruscamente il fratello: “Avanti, bastardo! Confessa! Cosa gli hai fatto? Era impossibile fuggire dal capitano, mi ricordo bene come t’ha incatenato! Lo hai ucciso, vero?” e d’un tratto i suoi occhi si spalancarono inorriditi. “E’ stato il Gambara! Tu e lui eravate in combutta fin dall’inizio! Il capitano aveva ragione! Quell’infame traditore bresciano! Alla prima occasione, giuro che … che …”, sputò bile, impappinandosi, il collo rosso e gonfio dallo sforzo.

“Il Gambara, razza di cretino, si trova ammalato a San Salvatore, dai Collalto!” , lo sferzò snervato Hironimo, sporgendosi in avanti e mulinandogli contro il pugno. “E non ho ammazzato certo il tuo moroso” qui Giorgio ridacchiò a disagio e a Zilio andò di traverso la saliva, “anche se Iddio m’è testimone quante volte abbia accarezzato l’idea di strangolarlo con le mie catene. Ma non l’ho fatto: il tuo capitano l’ho visto addormentato sul tavolo assieme ai suoi degni compari, probabilmente ubriachi della loro stessa boria!”

“Ugualmente non potevi scappare!”, insistette Zilio, paonazzo in volto. “Non hai notato con che sorta di catene sei arrivato? Nessuno avrebbe potuto camminare fin qui senza attirare l’attenzione, nessuno! E non ti sei guardato allo specchio? Sei pelle e ossa, potrei spezzarti in due come l’ala d’un pollo!”, gli puntò contro l’indice. “Qualcuno ti ha aiutato a fuggire! Parla! Chi è il tuo complice? Che cosa ne avete fatto del mio capitano?”

Inconsciamente, il patrizio incrociò le braccia al petto, sulla difensiva. Non necessitava delle ovvie constatazioni di Madalo per ricordarsi che sì, grazie al trattamento del Bua era divenuto più emaciato d’un gatto randagio. “Figurati se a te vado a raccontare i fatti miei!”, ribatté altezzoso.

“Perché sei uno schifosissimo bugiardo, ecco il motivo!”

“Puoah! Non m’importa se mi credi o no; ho detto la verità e della tua opinione, in tutta franchezza, mi ci sciacquo le …”

“Patron!!”

Hironimo non riuscì a finire la sua prosaica arringa, essendosi infatti all’improvviso ritrovato scaraventato all’indietro sul materasso e il viso bagnato da quelli che suonavano come umidi schiocchi di labbra e singhiozzi. Avvertendo un certo peso molesto sullo stomaco, il patrizio si sciolse da quell’inaspettato abbraccio, afferrando il suo assalitore per le spalle e costringendolo seduto.

“Patron!”

Gli occhi del giovane Miani si riempirono d’istintive lacrime di gioia: davanti a sé, piangente e pure col moccoletto al naso, il suo Thomà si sforzava titanicamente di darsi un contegno, sorridendogli però beato. Immediatamente, il patrizio gli circondò il viso con le mani, studiandolo fino all’ultimo dettaglio e soltanto allora, in quel momento, la consapevolezza che era a Treviso, al sicuro, gli si presentò chiara e nitida nelle fattezze del suo fantolino, che mai più aveva sperato di riabbracciare in quella vita.

Ed eccolo là, invece, più paffuto di quando l’aveva lasciato nel bosco del Montello, le gote di nuovo rossicce e lo sguardo sveglio e limpido. Tremante, gli passò la mano tra i capelli biondi, decisamente più corti e meno ingarbugliati. Era così bello. Così perfetto. La speranza del futuro.

Dio l’aveva salvato. Aveva ascoltato la sua richiesta e l’aveva condotto, contro ogni aspettativa, in salvo. E nella Sua infinita e imperscrutabile misericordia, gli aveva concesso la grazia di poterlo stringere di nuovo a sé, a testimonianza che nulla Gli era impossibile.

Si portò il bambino al petto, cullandolo, appoggiando la fronte sulla sua piccola spalla; gli massaggiò la schienuccia, il battito eccitato del suo cuoricino tanto dolce e rassicurante quanto il coro angelico dell’intera corte celeste, i suoi baci teneri e puri come le preghiere dei santi.

“Gh’avé mantegnuo ea promesa, patron!”, cinguettò contento Thomà, mescolando risate a singulti. “Gh’avé mantegnuo ea promesa …” e per lui, maltrattato e disilluso dalle menzogne e dall’opportunismo degli adulti, essa corrispondeva alla più sublime dichiarazione d’amore. Il suo patron gli aveva giurato di ritornare e così era stato, aveva mantenuto la parola data, di non abbandonarlo e di vivere e lottare per proteggerlo.

“Brutto cancaro!”, s’intromise una voce più anziana ed Hironimo, senza aver il tempo di processare, venne circondato da un secondo paio di braccia e il viso mezzo soffocato dalla stola di Fra’ Anselmo. “Ti avevo creduto morto!”, farfugliò commosso.

“No!”, protestò bellicoso Thomà, sottraendogli il capo del patrizio, per tenerselo appresso, gelosissimo. “Teo ghavevo dito, che nol gera possibile ch’el mio patron se fasesse copar da quel turcho travestio da cristian!”

Il benedettino, sopraffatto dall’emozione, neanche si premurò di ribattere, annuendo demente e seguitando ad accarezzare la zazzera ingarbugliata del giovane Miani, tra i cui capelli sporchi indugiava ancora quell’intenso profumo di rose. Inoltre, quando il giovane levò la mano destra per detergere via i rimasugli delle lacrime dalle guance del fantolino, l’uomo s’accorse che detta mano si mostrava inspiegabilmente pulita, intatta, le unghie rosee e regolari, contrariamente alla sinistra che rimaneva sporca, graffiata, quasi una zampa d’animale. Com’era possibile? – si domandò confuso, girandosi verso Fra’ Mauro, in piedi dietro di lui, e il suo boccheggiare gli confermò che no, il canonico regolare non aveva avuto ancora occasione di lavare il patrizio e perfino la conversa assisteva in muta contemplazione, le narici dilatate dallo sforzo di annusare quell’odore così forte e avvolgente, più delle corone di rose sugli altari della Madonna a maggio.  

“Una fuga davvero straordinaria”, mormorò Fra’ Anselmo, avvertendo nel cuore una strana sensazione, conscio di trovarsi dinanzi a qualcosa di misterioso e magnifico, sebbene racchiuso in un avvenimento in apparenza normale, quanti fuggitivi prima del Miani s’erano presentati a Treviso? Ma nessuno di essi gli aveva provocato quello smarrimento e al contempo sollievo, sentendosi testimone dell’inizio di un progetto più grande e imperscrutabile.

“Hieronymos! Oh, Hieronymos!”

Degne emule di Marta e Maria davanti al fratello Lazzaro redivivo, madona Maria e madona Helena erano rimaste dapprincipio impietrite all’uscio della porta, le mani alla bocca o al petto; scuotendo il capo, avanzavano incerte verso Hironimo, gli occhi velati di stupore e per la greca di lacrime, la quale in un balzo sorpassò la nobildonna più anziana e raggiunse il capezzale del cognato. Si bloccò tuttavia all’ultimo, allungando cauta una mano, quasi temesse in un’allucinazione.

“Eleni”, la salutò Hironimo, le gote vermiglie perché, sotto il lenzuolo, non indossava alcunché, scoprendo che la premura di Fra’ Mauro e Giorgio Madalo s’era allargata a liberarlo dalle mutande sporche, oltre che dalle catene.

Sua cognata, infischiandosene del suo palese imbarazzo, l’abbracciò d’istinto, baciandogli ambedue le guance barbute. Thomà si scostò pieno di gentile discrezione, in paziente attesa però di riavere il suo patron non appena possibile. “Ci rodevamo dall’ansia per te! E quello sciagurato non ci ha mai contattato né per un riscatto né per uno scambio! Abbiamo scritto ai nostri fratelli e allo zio Baptistes per trovare una soluzione … anche mio padre è andato a negoziare con la moglie di quel tanghero …” Il giovane Miani trattenne il fiato, avvertendo un nodo allo stomaco: dunque la sua famiglia s’era attivata con ogni mezzo per liberarlo? Non s’erano dimenticati di lui? Malgrado i suoi difetti, le sue intemperanze e meschinità, gli volevano ancora bene?

“Abbiamo tentato di ottenere informazioni sul tuo conto, di metterci in contatto con te, però ci dicevano che eri sempre tenuto sottocchio dal Buas e che impossibile perfino avvicinarsi al suo padiglione … ma …”, farfugliò esagitata Helena e ghermitolo per il volto e strizzandolo per le guance, lo costrinse perentoria a guardarla dritto negli occhi: “Ma come sei riuscito a fuggire? Quand’è successo? Quando sei arrivato qui?”, lo scuoteva, incalzandolo.

“Dasin, dasieto, madona Helena, così finirà per ingoiare la lingua!”, le pose madona Maria le mani sulle spalle, invitandola a cessare il suo serratissimo interrogatorio. “Tre domande di fila sono troppe per questo poveretto”, scherzò, per quanto anche la sua voce tremasse impercettibilmente e anch’ella contemplasse stranita il giovane patrizio, il quale anguillava a disagio sotto le coperte. “Non potete immaginare quanta gioia ci arrechi il vostro ritorno”, confessò sincera ad Hironimo, che ricambiò in un debole sorrisetto, il lenzuolo fin quasi sotto il mento, da imitare il bozzolo d’un baco da seta.

“A tal riguardo”, l’assicurò Fra’ Mauro, cogliendo l’occasione favorevole per minimizzare l’impatto che tale notizia avrebbe avuto sul provveditore, “mi stavo giusto recando a Palazzo per notificare il vostro sior marido. Di certo vorrà anch’egli apprendere i dettagli della fuga di sier Hironimo.”

Come tutti all’interno di quella stanza, d’altronde.

“Indubbiamente”, convenne madona Maria, riacquistando il suo usuale piglio determinato e programmatore. “V’accompagnerò e per la via mi spiegherete quanto già sapete”, aggiunse, elargendo un’occhiata significativa al canonico regolare, che tartagliò qualche frase di circostanza su quanto la prospettiva gli recasse un immenso piacere. Dopodiché, sorridendo maternamente benevola al Miani: “E voi adesso badate a recuperare le forze. Mangiate, lavatevi, dormite. I vostri tormenti sono finiti: siete a casa, nella vostra terra. Sorella”, si rivolse poi alla conversa, che scattò sull’attenti. “Quando avrai finito di servire la colazione, corri a preparare una tinozza d’acqua calda e soprattutto vai a raccogliere della cenere di legna. Ne avrai molto bisogno …”, le ordinò, alludendo alla massa informe di capelli d’Hironimo, di sicuro impestata di pidocchi.

Ponendosi in piedi e lisciandosi la gonna, Helena aggiunse: “Io mi recherò invece dal barbiere e poi a casa dei Cimavin, a prendere i vestiti che il Marcolin ti ha lasciato.”

“Marcolin è stato qui?”, strabuzzò gli occhi Hironimo, incredulo e speranzoso. “Non era a Padoa?”

“No, s’è trasferito qui, ma poi s’è ammalato ed è dovuto rientrare a Veniexia e … oh, insomma! Non mi distrarre!”, protestò falsamente indispettita la greca, in realtà sorridendogli raggiante, tanto da ingarbugliarsi in un contraddittorio balletto, indecisa in quale direzione andare, se a destra o sinistra, tipica sua reazione quando presa dall’entusiasmo. “T’aggiornerò più tardi, promesso!”

E nell’allegra confusione creatasi, laddove ognuno s’affannava di qua e di là o ronzava attorno al Miani, ricoprendolo di domande e attenzioni, tre persone erano rimaste in disparte, aliene da tanta contentezza: la prima, Zuaneta, ch’era sgattaiolata via in direzione del Castello; e la seconda, Giorgio Madalo, che fosco in volto osservava suo fratello mangiare ignaro la sua colazione, temendo in cuor suo come il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, venendo a conferire col fuggitivo, avrebbe potuto cogliere l’occasione per trasferire definitivamente Zilio nelle stinche e lì interrogarlo.

 

***

 

Solitamente, niente nuove buone nuove; peccato che l’ennesimo ritardo d’informazioni da parte delle spie nell’accampamento nemico più ch’ispirare ottimismo, formasse teorie d’opposta natura. Gli unici che ritornavano erano gli stradioti in esplorazione: il loro aspetto scarmigliato e le ferite riportate (uno di loro, piuttosto grave, era stato spedito immediatamente in ospedale) confermavano i sospetti del provveditore di Treviso, ossia di come i Collegati si stessero avvicinando sempre di più alla città.

Rientrato dalla funzione domenicale e seduto a tavola, sier Zuam Paulo Gradenigo, disertato dalla moglie, aveva invitato sier Lunardo Zustignan a colazionare con lui e non soltanto per della mera compagnia, bensì per confrontarsi su alcuni suoi dubbi. Infatti, quando il trentaduenne patrizio lo aveva raggiunto, il provveditore aveva già compilato una lettera lunga due mani per la Signoria, lamentando l’eterna penuria di uomini e di danari per le paghe e, di conseguenza, richiedendo ambedue in gran pressa.

“Di tasca mia ho già pagato buona parte della guarnigione”, lo informò Zustignan, addentando una fetta di pane, burro e lardo. “Cosicché per altri quaranta giorni i loro servigi – e il loro collo, in caso d’indisciplina – sono stati assicurati.”

“Ci basteranno, questi quaranta giorni?”, s’interrogò cupo sier Zuam Paulo, appoggiando il bicchiere vuoto.

“La Peliza ha scoperto le sue carte”, cogitò ad alta voce Lunardo, due dita sotto il mento. “E’ intenzionato a porre Trevixo sotto assedio e questo significa che si sente forte dei suoi numeri. Non tarderà d’attaccare.”

“Dunque o l’esercito di Zuanne Gonzaga o dei Todeschi s’è unito a quello dei Franzosi”, concluse amaro il provveditore, tamburellando scocciato le dita sulla tovaglia.

“Quello del Gonzaga dubito assai”, replicò il patrizio più giovane. “Ricordatevi la liberazione di Soave da parte di sier Ferigo: quella fortezza era un punto nevralgico per i nostri nemici, senza di essa come collegamento tra Verona e Vicenza il signor Zuanne faticherà non poco ad armarsi e a raggiungere in tempo La Peliza e se ciò dovesse accadere, sarà o per aiutarlo ad assedio incominciato oppure per coprirgli le spalle durante la ritirata.” Morsicò un altro pezzettino di pane, masticandolo lentamente e, deglutitolo, si nettò l’angolo della bocca. “A tal proposito, cosa risponderete alla lettera di sier Christofal e sier Polo?”

I due provveditori di Padova, oltre che ad informare il loro collega Gradenigo circa la vittoria riportata contro i Collegati a Soave, proponevano una seconda cavalcata e questa volta a Noale, onde rallentare le truppe gonzaghesche partite da Vicenza ed isolare ulteriormente La Palice. Sier Zuam Paulo aveva lodato tale iniziativa, aggrottando tuttavia la fronte quando sier Moro e sier Capelo gli avevano richiesto di spostare parte delle fanterie e della cavalleria appunto a Noale, inviando Renzo di Ceri e Vitello Vitelli a sostegno degli stradioti di sier Ferigo Contarini.

“E’ una decisione molto difficile”, ammise Gradenigo, “da una parte, riconquistare Noal a qualche giorno dall’assedio vero e proprio invierebbe un messaggio molto forte a La Peliza, dimostrandogli che non solo non temiamo né lui né la sua masnada di senzadio, ma che possediamo uomini e munizioni a sufficienza per muovere guerra contro i suoi alleati. Dall’altra parte, però”, aggiunse, servendosi di un altro bicchier d’acqua, “sappiamo benissimo che non possiamo permetterci questo lusso.”

Lunardo emise un profondo sospiro. “Stamane ne ho discusso col capitano Vitelli: purtroppo, siamo a quota millecinquecento di soldati ammalati di febbre, questo escludendo i nostri gentiluomini che sono dovuti rientrare a Veniexia. Io stesso ho dovuto congedare uno dei miei fanti e anche sier Hironimo Capelo, sier Piero Gradenigo, sier Alvixe Zorzi e sier Alvixe da Canal hanno perso alla malattia alcuni dei loro.”

“Ho già richiesto almeno mille fanti alla Signoria e ancora non ho ricevuto alcuna risposta a riguardo. Non capisco perché, ma sembra concentrata esclusivamente alla difesa di Padoa. Siamo forse noialtri i figli della serva? Questa terra per due anni s’è tenuta fedele a Sen Marcho, mai occupata, meriterebbe miglior considerazione!”, si sfogò l’uomo, frustrato. “Specialmente ora, con la Patria del Friuli occupata e il Cadore minacciato!”

“Quando le nostre spie ci avranno riferito i movimenti dell’accampamento nemico, otterrete migliori argomentazioni per supportare le vostre richieste”, lo consolò pragmatico Lunardo. “Dimenticatevi delle truppe del Gonzaga: non sono che delle formichine a confronto del vero avversario, ossia dei Todeschi i quali avranno di sicuro razziato ben bene la Patria del Friuli, portando a La Peliza vittuarie, genieri, guastatori, barche, artiglierie, etc. A costoro s’appoggia veramente monsignor il maresciallo, non a quell’esercito da parata dei Mantovani.”

Malgrado il futuro tutt’altro che roseo, un mezzo sorriso sfuggì a sier Zuam Paulo, nel suo intimo contento di quel colloquio col Zustignan, che pur giovane possedeva quei nervi saldi e spirito calcolatore necessari a progetti a lungo termine, affrontando a sangue freddo ogni situazione. Similmente ai suoi fratelli Lorenzo e Pangratio, Lunardo s’era formato nello Stato da Mar e nel Levante, l’unica esperienza a detta di Gradenigo che forgiasse appropriatamente alla guerra. Quando aveva letto per la prima volta la lista di patrizi veneziani inviati a Treviso, il provveditore s’era rallegrato nel riconoscere l’ex-sopracomito agli ordini del capitano delle navi stanziate sul Po, sier Hironimo Contarini detto “il Grillo.” Era stata la rapidissima squadra navale di Lunardo Zustignan, infatti, ad aver liberato Loreo e Torrenuova [1a] dal giogo dei Collegati: le sue barche armate avevano intercettato e affondato tutte le fuste dei ferraresi, i quali, forti della loro vittoria a Polesella, avevano puntato a riconquistare l’antico avamposto veneziano o perlomeno di distruggerlo tramite un devastante incendio. Sfruttando il momentum e senza dar tregua ai ferraresi, “il Grillo” e Zustignan avevano organizzato una controffensiva nonché spedizione punitiva nei confronti di Are [1b] e Ariano, colpevoli non tanto d’essersi arrese agli estensi, bensì d’averli fornito una base d’appoggio per le loro scorrerie a Loreo.

Di confrontarsi con una persona quindi avvezza alle fatiche e ai continui imprevisti della guerra aveva bisogno sier Zuam Paulo in quei momenti, non incontrando alcuna affinità né tra i condottieri dalla precaria lealtà né nel podestà sier Andrea Donado, abile come amministratore ma pessimo nelle questioni militari.

“Sospetto”, proseguì Lunardo, distogliendo Gradenigo dai suoi pensieri, “che il ritardo delle nostre spie sia dovuto ad uno spostamento del nemico …”

“Hanno appena montato l’accampamento a Torre di Maserada, perché cambiare così improvvisamente?”

“Lo scontro contro gli stradioti dei capitani Andrea Pera – a chi Dio perdoni – e Thodaro Rali li avrà instillato il dubbio circa la nostra conoscenza della loro esatta ubicazione, al punto da persuaderli a cercare un luogo a noi ignoto e lì riorganizzarsi.”

“Una bella gatta da pelare per noialtri”, constatò pensoso sier Zuam Paulo, disegnando sul tavolo con la punta del coltello dei ghirigori concentrici.

“Dobbiamo pazientare”, s’arrese Zustignan all’evidenza. “Anche se minaccia battaglia, La Peliza si muove comunque troppo lentamente per impedire una fuga di notizie e, in tutta questa confusione, è possibile che qualcosa trapeli o che qualcuno …”

Un deciso battito alla porta li interruppe.

“An, mojer, non v’aspettavo!”, s’alzò in piedi il provveditore, tosto imitato da Lunardo, che s’inchinò, esclamando: “S-ciavo, patrona.”

Madona Maria Malipiero Gradenigo entrò in un vivace sgonnellare nella stanza, avanzando dritta verso il marito, il quale le afferrò le mani offerte, baciandogliele lievemente. “Vi credevo all’Ospedale”, dichiarò, aggrottando preoccupato la fronte. “E’ successo lì qualcosa? Vi hanno insolentita?”

“Sì e no”, rispose ambigua la donna, deliziandosi un pochettino del tormento del consorte. “Nell’anticamera v’attende Fra’ Mauro, frate canonico regolare alla Madona Granda e infermiere: vi supplica, in tutta cortesia, urgente udienza.”

Sier Zuam Paulo cambiò peso da una gamba all’altra, figurandosi in anticipo la petizione del monaco, arricchita da lamentele circa la penuria di medici e cerusici e l’arruolamento forzato di novizi e oblati, che li aveva privati d’utili braccia. O  - Dio gliela scampasse –  il canonico forse era venuto a denunciare l’ennesimo tentativo di Renzo di Ceri d’abbattere la cappella di Santa Maria Maggiore.

“Sta bene”, sospirò svogliatamente l’uomo, “vedrò come posso accomodarlo.”

“Ora però sono io che vi supplico, sior marido, d’esercitare la vostra pazienza e clemenza sia nei suoi confronti sia dei suoi, per così dire, complici. Hanno agito spinti da mera carità cristiana, senza malizia alcuna né tornaconto personale; meritano pertanto la vostra comprensione e perdono, se necessario.”

“C’intrigate, madona Maria”, colmò Lunardo la momentanea incapacità di sier Zuam Paulo di replicare dinanzi a tal criptico discorso, seguitando infatti a fissarla perplesso. “Avete scoperto una piccola congiura?”

“A fin di bene”, reiterò la patrizia, la sua mano posata delicatamente sul braccio del marito, quasi a calmarlo preventivamente. “Fra’ Mauro si è preso cura di un fuggitivo, arrivato qui a Trevixo stamattina, poco prima dell’alba …”

“Cosa?!”, sbottò appunto Gradenigo, livido in volto e subito sul piede di guerra. “Hanno osato aprire il portello di notte?! Chi è stato il folle e a quale porta?”

“Forse … forse è avvenuto quando l’ultimo corriere è partito alla volta di Veniexia …”, tentò Zustignan di giustificare quel comportamento assurdo, in piena disobbedienza del chiarissimo regolamento.

Madona Maria li chetò ambedue tramite un deciso svolazzo della mano. “Avrete tempo e modo d’esigere spiegazioni, adesso vi limiterete per favore ad ascoltarmi perché vi confesso ch’io per prima sono basita dinanzi a quest’evento. L’unica mia certezza è che, per suo merito o per intercessione di questa Nostra Donna di Trevixo, sier Hironimo Miani è riuscito a scappare dall’accampamento nemico e ora si trova all’Ospedale e …”

E suo marito e Lunardo non le permisero di concludere il discorso, dimentichi della colazione ormai abbandonata sul tavolo. Il provveditore, silente e sbigottito quanto il concittadino, s’affrettò a pigliare sottobraccio la nobildonna e i tre si diressero quasi correndo nell’anticamera, pronti all’interrogatorio prima del frate e delle sentinelle e poi dello stesso Miani.

Chissà che non fosse l’ex-castellano di Quero la tanto sospirata “fuga di notizie” di cui tanto disperatamente necessitavano per la salvezza di Treviso, dei suoi abitanti e della Signoria. 

 

***

 

 

“Oh, xé la Zuaneta!”

“S-ciavo, Zuaneta!”

“Zò, splendore, ‘ndove corestu cussì de pressa?”

La ragazzina interruppe la corsa, riprendendo fiato e sistemandosi una ciocca umida dietro l’orecchio, sfuggitale dalla crocchia. Si lisciò il grembiule, nettandolo da dell’invisibile polvere e raggiunse il gruppetto di fanti all’entrata del Castello, tra la caserma e la chiesetta di San Marco dei Bombardieri.

Memore della terribile esperienza sul Montello, Zuaneta di solito s’aggirava guardinga tra i soldati, considerandoli tutti imprevedibili e violenti alla stregua d’animali selvatici, indipendentemente dal gonfalone che servivano. Coloro che l’avevano salutata, al contrario, non la intimorivano un po’ perché o avevano o le ganze o le mogli appresso a garanzia e un po’ perché appartenevano alla compagnia di sier Marco Miani, il suo salvatore, i quali a loro modo l’avevano un poco adottata, comportandosi piuttosto protettivamente nei suoi confronti.

“Mi voria parlar col magnifico sier Marco Miani, de grassia”, dichiarò forbitamente concisa la giovinetta, le braccia dietro la schiena e il capo reclinato vezzosamente su di un lato. “Gh’ho un’imbasata di la soa clarissima siora mojer …”, abbassò la voce, ponendo la mano a cuneo agli angoli della bocca in modo che nessun altro ascoltasse la loro conversazione.

I cinque fanti sghignazzarono maliziosi. “Ahi, ahi … cossa ghalelo combinà el missier, qua, per meritarse ambasador et imbasada?”, commentò Cabriel, strizzando l’occhio ed elargendo al commilitone una giocosa gomitata. “Demo, su”, le fece cenno di seguirlo dentro in caserma, intanto che gli altri, rimasti alle loro postazioni, confabulavano peggio delle comari sulla natura del misterioso messaggio di madona Helena al marito.

La peculiare coppia s’imbatté in sier Marco proprio mentre quest’ultimo stava uscendo dai suoi alloggi, appena cambiatosi per il suo turno di ronda. Cabriel attirò l’attenzione del superiore, fermandolo e traendolo in disparte, acciocché non intralciassero il viavai degli altri militi lungo il corridoio. “Zelenza colendissima, ea tosatela qua gh’ha da comunicharve qualcossa. Xéa vuostra siora mojer chea manda.”

Il Miani spostò circospetto lo sguardo su Zuaneta, la quale avvertì un familiare calore alle guance, avvampando pudicamente lusingata da quell’attenzione. “Donca?”, le domandò cortese, intanto che infilava i guanti di cuoio. “Cos’ha la mia siora mojer da riferirmi?” e manteneva un tono neutro, cosicché non tradisse alcun’ansia, non attendendosi infatti un messaggio da parte di Helena a quell’ora sì temprana e già la sua mente formulava lugubri scenari circa il suo contenuto.

“Patron”, soffiò eccitata la giovinetta, intrecciando le dita e saltellando quasi da un piede all’altro, “la vuostra siora mojer a me gh’ha comandà de dirve, ch’el sior vuostro fradelo xé fuzito da le man de’ inimici!”, gli annunciò tutto d’un fiato e sorrise complice, sperando di rallegrare il patrizio veneziano, la cui espressione invece si tramutò in pietra, irrigidendosi da capo a piedi in un battibaleno.

Marco strabuzzò gli occhi, deglutì di traverso e arretrò d’un passo, scuotendo la testa come per riordinare i pensieri d’un tratto impazziti peggio d’un vespaio. La lingua gli s’attaccò al palato, sicché solo mezzi versi e parole sconnesse uscirono dalla sua bocca, mentre il suo cervello ripeteva ostinato e all’infinito quella semplice parolina. Fuzito. Suo fratello, il suo Momolo, costretto alla prigionia, separati da un esercito e da un mercenario senza scrupoli, il suo fratellino della cui sorte poteva solo immaginare e per la cui liberazione aveva incessantemente sofferto e pregato, ecco, era scappato. Fuggito, evaso dalla sorveglianza del nemico, scavalcando quel triste ostacolo che gli impediva di ricongiungersi, di figurarsi assieme.

Fuggito, fuggito, fuggito.

Aveva tanto sperato in quell’evento, da non capacitarsi ora della sua concretizzazione. Momolo era libero. Libero. Gli era stato restituito. Gli pareva assurdo, una beffa. Troppo bello per essere vero.

“Non ti stai burlando di me?”, si sforzò l’uomo di rimanere calmo, ricordandosi che la ragazzina gli veniva incontro soltanto in veste d’ambasciatore e infierire su di lei non serviva a niente. “Mio fradelo …?”, sbiascicò, mordendosi a sangue le labbra, il petto stretto in una morsa dolorosa, neanche temesse che Hironimo si sarebbe volatilizzato, se avesse pronunciato ad alta voce quelle parole.

“Patron, ch’el liom di Missier Sen Marcho me squarti a morseghi, se ve conto el falso!”, si pose una mano sul cuore Zuaneta, levando contemporaneamente l’indice e il medio in alto. “Vuostro fradelo stà horra a l’Hospeal, lo gh’ho visto mi co sti ocij!”, gli raccontò celere e il suo visetto si deformò in una triste maschera. “Poareto, se savesse chome lo gh’han maltrattà! Xélo cussì secho-secho, pì dil fiol di la miseria!”

Marco cacciò fuori un secondo, profondo sospiro, sforzandosi di respirare normalmente. Gli sorse perfino un piccolo riflusso acido in gola. “Devo … devo informare sier Alvixe che … non posso assentarmi senza … Torna da Helena e dille … dille che la raggiungerò appena potrò … non ci impiegherò molto tempo …”, fu il suo distratto congedo dalla ragazzina, la quale scoccò un’occhiata perplessa a Cabriel, che replicò tramite una scrollata di spalle.

Dal canto suo, il Miani si diresse nella direzione opposta, alla ricerca di sier Alvixe da Canal, onde persuaderlo a coprirlo per qualche ora, giusto il tempo di recarsi all’Ospedale e lì verificare con mano della veridicità della notizia. Un po’ per la sua innata santommaseria; un po’ perché fremeva dalla voglia di stringere al petto il suo fratellino finalmente salvo; un po’ per valutare gli interessi da far pagare a quel maledetto di Mercuria Bua …

 

“Ciò! Ciò! Vacci piano col mangiare! Il tuo stomaco non è abituato!”

Cacciandosi in bocca un’intera fetta di soppressa, previamente arrotolata ad arte, Hironimo dissentì dal cauto approccio di Fra’ Anselmo, che sottolineava i suoi consigli tentando di sottrarre qualsiasi alimento nel raggio d’azione dell’affamatissimo giovane.

Tutto era incominciato quando Helena, chiedendo un’altra porzione alla conversa, s’era sentita rispondere: “Ma siora madona, quello era il pranzo!” e soltanto allora la greca s’era accorta della piccola pila di piatti appoggiata per terra, accanto al letto. “Cosa faccio? S’è mangiato due porzioni di stufato, un’intera pagnotta, una grossa fetta di formaggio, tre uova sode, mezzo pollo … gli servo l’altra metà? Gli preparo un brodetto di pan fritto e uovo?”

“Basta che te me s-ciopi!” (esplodi, ndr.), si contese il benedettino la ciotola della zuppa ad Hironimo, il quale premeva una mano al petto dell’uomo e lo allontanava da sé, intanto che, voltato dalla parte opposta, ingollava a grosse sorsate il delizioso brodo. Sarebbe stato più facile strappare una bistecca ad una tigre. “Nessuno ti toglie né il pranzo né la cena, non c’è bisogno d’ingozzarsi!”

“Hieronymos, Fra’ Anselmo ha ragione: potresti soffrire più tardi d’indigestione …”, mediò Helena tra i due avversari. “Per favore, sii ragionevole!”

“Ho fame!”

“Aspetta magari l’ora di pranzo, ti serviranno tutto il cibo che vorrai.”

“Ho fame adesso!”

Thomà convenne partecipe all’impellenti necessità del patrizio, approfittando dell’alterco a tre per pelarsi indisturbato un uovo sodo.

L’intera mattinata per fortuna era stata spesa in modo più proficuo, avendo avuto la conversa l’accortezza di servire ad Hironimo la colazione solamente dopo il bagno e l’incontro col barbiere. Infatti, una volta addentato il primo boccone, non c’era più stato verso di farlo smettere di mangiare, buttandosi egli a pesce su ogni portata.

Fra’ Anselmo e Thomà l’avevano aiutato ad entrare nella tinozza, in quanto zoppicante per via delle piaghe aperte sotto le piote. Il fantolino, armato di spugna e sapone, s’era arrotolato le maniche e gli aveva sfregato la schiena con tutta la forza delle sue braccine, mentre il Miani provvedeva al resto, di tanto in tanto interrotto da qualche proditoria secchiata versatagli in testa da uno sghignazzante benedettino, rendendo il bagno tutto fuorché rilassante. Del resto Hironimo per primo s’era adoprato alacremente a levarsi di dosso quell’insopportabile sudiciume, grattando via croste, pelle morta e altre schifezze appiccicatesigli, impaziente di contemplare infine il vero colore della sua pelle. Ad operazione terminata, l’acqua si presentava talmente sporca, d’aver assunto una tinta grigio-verdastra, manco l’avessero attinta da una palude. 

Dopodiché, il monaco benedettino gli aveva disinfettato le ferite e bendato i piedi, le caviglie, i polsi e parte del busto, aspettando la rasatura della barba prima di fasciare il collo, che comunque presentava escoriazioni meno profonde. Indossare gli abiti di Marco Contarini aveva poi sortito un insolito effetto nel patrizio, il quale continuava a scorrere deliziato le dita sulle maniche dello zipone e sulle braghe, assaporando il tepore e la morbidezza degli indumenti contro la sua pelle dopo un mese di forzata nudità, perennemente martoriata dal freddo e dagli insetti. Soltanto i piedi aveva per il momento lasciato scalzi, ragionando Helena e Fra’ Anselmo se fosse il caso di dargli delle pianelle piuttosto che delle vere e proprie scarpe, almeno fintanto che le piaghe non si fossero asciugate.

Non che Hironimo dovesse recarsi chissà dove, semmai era il mondo che veniva da lui, come il barbiere, il quale lo liberò sia dalla fitta barba irsuta sia dai fastidiosi pidocchi a furia di riempirlo di cenere di legna, questo però a scapito della sua capigliatura. Il giovane Miani aveva trattenuto fin allo stremo il doloroso fastidio ai tentativi del barbiere di districare i nodi ai capelli, alcuni di essi talmente duri e compatti, da sembrare dei ciuffi di lana. Sicché, scuotendo la testa, l’uomo aveva sbrigativamente pigliato le forbici e ad Hironimo s’era stretto il cuore nell’assistere, una ad una, le sue ciocche scure cascargli ora in grembo ora ai piedi, accomiatandosi da coloro ch’erano state un suo motivo di vanto.

Mo’ via, patron! Vi ha tagliato fino a quattro dita dall’orecchio! Sempre meglio di me, che sembro aver in testa le chiappe d’un pulcino!”

“Ecco, ed io faccio il nido!”

In tutta onestà? Malgrado i disagi delle ferite, della nuova acconciatura, dei crampi della fame e delle liti con Fra’ Anselmo, Hironimo scoppiava di felicità, beandosi della gioia di trovarsi circondato da persone che gli volevano bene e che lui ricambiava altrettanto appassionatamente. Non ricordava l’ultima volta, in cui aveva provato tanta pura e spensierata allegria, sentendosi leggero e in pace con se stesso. Svanita la sottile e ben radicata collera, la cupezza dell’invidia e del risentimento, ingoiati dalla luce di una nuova serenità interiore. I rami pieni di spine del suo cuore s’erano seccati, lasciandolo respirare e ritornare alla sua iniziale morbidezza. Da un lato non trovava in sé alcuna differenza da prima; ciononostante, il giovane Miani era sicuro che qualcosa invece fosse cambiato, ma non in maniera eclatante, bensì discreta, sottovoce ma persistente …

“Hé-oh! Posa quel coltello, razza di brigante! Non incominciare, ciò!”, sottrasse Fra’ Anselmo a Thomà la posata indispensabile per tagliarsi la soppressa, ponendola in alto cosicché il fantolino ebbe il suo daffare a saltare in alto onde afferrarla.

Hironimo ed Helena, davanti a quel giocondo quadretto, se la risero a crepapelle, specie quando il bambino cambiò tattica, optando per l’arrampicata diretta sul saio del frate.

Quand’ecco, che la greca scattò in piedi, correndo verso la porta. “Markos!”, esclamò felice, stringendosi al braccio del marito, i cui occhi fissavano indecifrabili il fratello. “Hai visto chi è arrivato? È riuscito a fuggire, a menare quel tartaro del Buas per il naso! Non è meraviglioso?”

Realizzando l’identità del nuovo arrivato, il sorriso svanì in un colpo dal viso d’Hironimo, rimpiazzato dal pallore della vergogna; d’istinto abbassò in fretta lo sguardo, concentrandolo sulle mani fasciate e artiglianti la stoffa delle braghe nel vano tentativo di zittire l’eco dell’ultimo suo diverbio col maggiore. Inconsapevolmente, Thomà gli coprì il dorso della mano con la sua più piccina, quasi indovinasse il suo malessere e volesse perciò consolarlo.

Le orecchie d’Hironimo riascoltavano nitidamente ogni crudeltà da lui vomitata contro Marco e gli altri suoi fratelli, così come l’occhio della sua mente assisteva di nuovo all’indecorosa scena, stupendosi ancora della sua stolta puerilità. Il ricordo del volto furioso e deluso di Marco, se all’epoca gli aveva provocato un leggero rimorso, adesso lo schiacciava, sopraffatto dal senso di colpa. Madre gli aveva suggerito di rinfoderare per una volta la spada dell’orgoglio e d’abbracciare il mite spirito di riconciliazione; ovviamente Hironimo non aveva seguito il suo consiglio, considerandosi nel giusto quando al contrario era ben conscio dei suoi sbagli e per questo aveva promesso di riappacificarsi con Marco, in caso di successo della sua fuga.

Perché allora se ne rimaneva lì seduto, imbambolato e muto?

Il problema era l’imbarazzo - unito al senso d’inadeguatezza e all’ansia di un eventuale rifiuto - che gli impediva di parlare e di conseguenza di compiere il primo passo. Marco lo avrebbe mai perdonato?, si tormentava interiormente Hironimo. Gli avrebbe concesso una seconda opportunità? Oppure era ancora arrabbiato con lui? E se lo avesse biasimato per il suo fallimento a Castelnuovo di Quero? E se fosse giunto fin lì all’Ospedale giusto per comunicargli la sua delusione? O come lo disconoscesse? O per deriderlo? O …

Tanto aveva desiderato riabbracciare il fratello, quanto adesso si vergognava anche solo di guardarlo negli occhi. L’amaro calice doveva esser bevuto fino in fondo, però. Qualsiasi fosse stato il risultato finale – se di perdono o di condanna – Hironimo doveva affrontarlo a testa alta, pur abbassandosi in umile supplica e accettare il verdetto. Defilarsi dall’inevitabile confronto gli avrebbe guadagnato soltanto ulteriori critiche, potenziate dall’accusa di viltà.

E così sia. Hironimo si pose con difficoltà in piedi, strascicando qualche instabile passo verso Marco. Anche in quel frangente il suo orgoglio si rifiutava d’abbandonarlo del tutto: pur rassegnandosi all’imminente sua aspersione di ceneri sul capo, ugualmente il giovane Miani voleva serbare una parvenza di dignità e non dar spettacolo. Che suo fratello si sfogasse pure su di lui, purché in privato, lontano da occhi e orecchie indiscrete, non giudicandosi Hironimo ancora pronto d’affrontare anche le altrui sentenze, oltre a quelle del parente.

E per quel legame speciale, che li aveva uniti sin da piccini, Marco dovette intuire la volontà del minore, giacché si voltò verso la moglie per congedarsi momentaneamente da lei, rassicurandola quando Helena, temendo in uno scontro tra i due, protestò con lo sguardo contro quella decisione.

I due uomini uscirono così dallo stanzone ed Hironimo, appoggiandosi alla parete mentre scendeva le scale lentamente, costrinse a prolungare il teso silenzio, spingendosi fino all’uscita interna. Avvertiva benissimo il peso dello sguardo insistente del maggiore sulla sua schiena, rimasto infatti Marco leggermente indietro, la testa reclinata appena sul lato, la medesima movenza di Madre quando scrutava i figli alla ricerca di che cosa li turbasse o quale menzogna le stessero rifilando. Suo fratello stringeva la bocca in una linea sottile, le nari appena-appena dilatate e il cuoio dei guanti sfrigolante a causa della ferrea presa del pugno stretto. Hironimo riconosceva alla perfezione i segni di quell’apparente calma, la quale preannunciava invece una montante collera gelida e su questo avevano sempre differito, essendo l’ultimogenito di Ca’ Miani vulcanico nell’ira, rumoroso e violento e privo di senno, contro l’opposta reazione di Marco, silenziosa, di ghiaccio e che non colpiva mai a caso, semmai laddove egli sapeva dolere di più alla sua vittima. E se Hironimo dopo l’esplosione si calmava e voltava tranquillamente pagina, Marco no, v’impiegava maggior tempo a perdonare senza però mai dimenticare. Se Hironimo era rapido nella vendetta, il tempo per Marco non significava nulla, se ciò gli avesse permesso di far soffrire doppiamente chi l’aveva contrariato.

Perciò, in quel momento, Hironimo avrebbe preferito che il fratello pronunciasse almeno una parola, che lasciasse trapelare una piccola spirale d’emozione, perfino di stizza. Pur avvezzo al suo carattere, il giovane patrizio non sapeva come intavolare il discorso, procedendo alla stregua d’un condannato a morte e, ironicamente, quando giunsero nel cortile interno dell’Ospedale egli udì l’eco di una campana, sicché anche il suo Malefizio era per lui suonato. [2]

Tanto Hironimo si stava auto flagellando in recriminazioni, da sbagliare l’interpretazione dell’umore di suo fratello: Marco ribolliva sì di rabbia a viva forza repressa, tuttavia non era il minore l’oggetto verso cui desiderava riversarla. La sua fronte aggrottata, i denti digrignanti dietro la bocca serrata e i guanti strizzati dalle dita non erano destinati a nessun altro se non a Mercurio Bua, lamentando di non averlo potuto torturare di più, se proprio il destino aveva decretato di sottrarglielo come prigioniero.

Che cosa gli aveva fatto quel maledetto, da ridurlo così?, s’interrogava furente e protettivo. Suo fratello, quand’era partito a marzo per Castelnuovo di Quero, lo ricordava bello, fiero, nel pieno del vigore e sicuro di sé, orgogliosamente in groppa al suo ubbidientissimo Eòo, il perfetto esempio dell’esuberante speranza della gioventù. Nulla di quel ragazzo rimaneva, al punto che Marco dubitava dell’identità della persona davanti a sé: quell’incedere circospetto, la testa china, le spalle ricurve, quel suo evitare ogni contatto fisico quasi Hironimo avesse paura di lui … No, non quasi. Il Miani conosceva bene ogni movenza del minore, quando questi provava timore verso qualcosa o qualcuno. Perché era spaventato? Non aveva nulla da temere da lui. Il litigio? Orrido, certo, ma ormai apparteneva al passato e dopo aver sperimentato l’angosciosa prospettiva di perdere per sempre il suo fratellino, esso gli appariva assai futile, indegno d’essere rivangato. Voleva soltanto abbracciare il suo Momolo, stringerlo al petto e scusarsi di non aver potuto né proteggerlo né aiutarlo.

Finalmente Hironimo individuò un angolino tranquillo dove discorrere, interrompendo quella loro deprimente marcia. S’appoggiò ad un muro, gli occhi puntati sulle pianelle da cui spuntavano le fasciature. Marco si morse l’interno della guancia alla vista delle macchioline rosse comparirvi, così come l’intero aspetto del fratello lo straziava quanto un pugnale conficcato e roteato tra le viscere. Pallido, pallido, malsanamente pallido tanto da risaltare le profonde occhiaie e le ecchimosi sparse sul viso, una bella tavolozza di blu e giallognolo che s’accompagnava alla macabra striscia rossa sul collo, là dove lo aveva stretto il collare e che il monaco infermiere non aveva ancora avuto tempo di fasciargli. I capelli più corti e arruffati, spenti, i vestiti decisamente più larghi, a Marco suo fratello appariva così giovane e indifeso, come il giorno del funerale di Padre. Sconfitto, annientato, un guscio vuoto.

Il Miani avanzò d’un passo verso il minore, un braccio teso in avanti onde accarezzarlo o scuoterlo dal suo guscio protettivo, quand’ecco che Hironimo sollevò inaspettatamente il capo, alzò il mento e nelle sue iridi nerissime fiammeggiò un ché di preternaturale, ma al contempo di limpido e sereno che da molti anni egli non contemplava nel fratellino.

Indietreggiò inconsciamente, interdetto.

“Menego, Trovaxo, Vico e Nadalin sono morti”, esordì infine Hironimo, sostenendo lo sguardo del maggiore che lo fissava stranito, non comprendendo il motivo dietro quell’incipit: perché non raccontava della sua prigionia e della sua fuga, o semplicemente non manifestava la sua gioia per la ritrovata libertà? “Mi sono rimasti accanto fino alla fine, non hanno ceduto d’un sol passo al nemico ed io … ed io non ho potuto neanche offrire loro una sepoltura cristiana, permettendo che venissero gettati nella Piave alla stregua di spazzatura …”, continuò il patrizio, grattandosi inconsciamente i polsi fasciati. “Non ho niente da restituire all’Orsolina su cui piangere … Niente a Zanetta … niente ad Eudokia … Io glieli ho strappati via per sacrificarli alle mie ambizioni, esponendoli al nemico … Ho giocato con le vite dei loro figli … Capisci? Ero già il loro padrone, già m’appartenevano i loro servigi e così … anche delle loro vite ho potuto disporre. Tanta devozione verso la nostra famiglia, ripagata versando il sangue della loro, mentre il mio … il mio continua a scorrere, malgrado sia colpa mia, mia, mia! …”, si batté forte tre volte sul petto. “Potevo scegliere chiunque altro, ma ho voluto loro perché non mi fidavo dei locali e come biasimarli? Non ho fatto nulla per meritarmi il loro affetto e la loro stima … Li consideravo alla stregua di strumenti utili  ai miei obiettivi e non m’importava un fico secco di loro; allo stesso modo ho trattato Menego, i suoi figli e Nadalin. Li ho dati per scontati. Sono stato cieco e imprudente, avrei dovuto congedarli acciocché rientrassero a Veniexia, una volta terminata la torre. Non erano soldati! Non dovevano morire così! Non … non dovevano finire gettati in acqua! Non ho mai … non mi sono mai fermato a pensare che … Sono morti per la mia negligenza e incapacità. Ed io ancora vivo.”

Marco aprì la bocca, tentò in svariate occasioni d’interrompere il cupo monologo del fratello, finendo sempre per tacere poiché neanche lui sapeva come replicare a quel severo esame di coscienza. “Sono sicuro che Menego, i suoi figli e suo nipote non abbiano mai nutrito alcun dubbio sulla bontà della loro scelta”, provò a contro-argomentare. “Erano uomini dabbene, leali, ti avrebbero difeso fino alla morte. A questo scopo ti avevano seguito a Castel Novo.”

“Mi erano fedeli per amore di Padre”, negò schietto Hironimo. “Io non mi sono mai meritato la loro lealtà.”

“Così fai torto al loro sacrificio”, s’intestardì Marco.

“E perché avrebbero dovuto rinunciare alle loro vite in favore della mia? Possiede forse la mia vita più valore delle loro? In che modo? Soltanto per via del mio rango di patrizio? Così si misura la sostanza di un individuo? Sul ceto? Quelli in alto sempre che se la cavano, sempre scusati per ogni loro porcheria e quelli in basso al contrario schiacciati, uccisi, umiliati peggio degli animali? Menego e i suoi erano uomini degni di ogni rispetto, eppure non ne hanno ricevuto, perché?!”

“Sono morti sapendo quale fosse il loro posto al mondo: di proteggere te e la Signoria Nostra! Hanno vissuto con onore e con altrettanto sono morti. Non c’è nulla di riprovevole in quanto successo! È stata la mano dei nemici ad averli uccisi, non la tua!”

“Allora il mondo gira in un buffo verso, senza giustizia e senza pietà, se risparmia i vili e uccide i valorosi …”, ridacchiò amaro Hironimo, per poi abbandonarsi ad un piccolo singulto.

“Vile?! Benedetta Trinità, in che modo sei stato vile? Vigliacco è stato il castellano di Covolo di Butistone, che pur avendo mezzi per resistere s’è arreso! Vigliacco è stato il Batagin Bataja che neppure ha sfoderato la spada per combattere, preferendo fare dietro-front e rifugiarsi sui monti!  Vigliacco è stato quel cane di Antonio Savorgnan, che pur di salvarsi la pelle s’è venduto al nemico! Tu, al contrario, sei rimasto! Potevi anche tu arrenderti, scappare o cambiar bandiera: niente di tutto ciò hai fatto, non ti sei schiodato dalla tua fortezza e hai virilmente affrontato la sorte. Potrei elencare molti tuoi vizi, ma la codardia non è certo uno di questi!”

“Perché dunque siete arrabbiato con me?”

Il Miani più anziano emise un ringhio frustrato. “E ti sorprendi? Da marzo che non ricevuto tue notizie, tutto ciò che ti accadeva lo apprendevo da Madre e Lucha! Poi, perdi Castel Novo e per un mese non sapevo neppure se tu fossi vivo o morto! E ora che sei riuscito - Dio solo sa come - a fuggire, mi vieni qui, mi imbastisci questo … sermone sulla vanità del mondo e mi domandi se sono arrabbiato?! Per chi mi hai preso?!”, berciò, schiaffeggiandosi subito mentalmente: no! no! non voleva dire questo! Idiota! Non voleva sfogare quei giorni di pena e ansia su suo fratello, non voleva finire di litigare come l’ultima volta! Il trentenne patrizio scosse il capo, appellandosi in tutti i modi stupido e attendendo la sfuriata del minore, il quale questa certamente non gliel’avrebbe perdonata. E come dargli torto? Aveva passato le pene dell’inferno, ovvio che si presentasse così scosso e d’umore pessimista! E al posto di trovare comprensione, ecco che il suo maggiore lo aggrediva e lo rimproverava alla stregua d’uno scolaretto.

“Capisco”, mormorò invece Hironimo, tranquillissimo. “Capisco …”, ripeté, sebbene il labbro inferiore avesse preso a tremargli, scivolando lungo il muro quasi volesse rimpicciolirsi e sparire in esso.

Marco scosse il capo in diniego, si passò snervato una mano sulla fronte. “Ascolta, ascolta”, afferrò il fratello per le braccia, guaendo intimamente dinanzi al sobbalzo dell’altro. D’altronde, non era stato così il loro ultimo diverbio? Con le mani addosso, afferrando violentemente lo zupone del fratello? “Ascoltami: è vero, sono arrabbiato. Ma è soltanto perché …” e si chetò bruscamente, notando infine i piccoli rii di lacrime che rigavano le gote smunte d’Hironimo.

“Ho disonorato il nome della nostra famiglia. Ho deluso la Signoria. Quanto costruito da Padre in anni di fatica, l’ho distrutto nel giro di neppure due giorni. Come non puoi essere in collera con me? Io sarei dovuto morire in quella fortezza, io gettato nella Piave! Avevi ragione: sareste stati meglio senza di me, ché solo rogne v’ho procurato, solo dispiaceri e vergogne! E ora dovrò comparire a giustificarmi davanti ai Cai di X e umiliare anche il nostro sior Barba! Sarei dovuto morire e sparire per sempre!”, si dolse acutamente Hironimo, affidandosi alla sincerità del suo pentimento, che lo soccorresse ponendogli in bocca le parole adeguate. “Quella volta vi ho insolentito, fradelo, merito il vostro odio e disprezzo. Voi e i vostri parenti avevate già messo a repentaglio la vostra vita per la salvezza dello Stato ed io ho onorato la vostra abnegazione con la calunnia, appellandovi codardi e meschini. La verità … è che nutrivo una fortissima invidia nei vostri confronti, perché avevate un vostro ruolo a questo mondo, un … uno scopo, una famiglia, dei figli … ed io … io mi sentivo un eterno minorenne, uno stupido incapace. Volevo dimostrarvi che potevo anch’io divenire qualcuno, volevo che foste tutti fieri di me. Volevo che Padre fosse fiero di me. Per anni mi sono considerato un fallimento, per quanto mi sforzassi ho procurato solo dispiaceri a Padre, a Madre e … e non ho potuto riconciliarmi con … dopo l’inchiostro lanciato al priore di Santo Stefano … E’ morto senza che potessi domandargli scusa … Ho creduto … ho creduto che fosse una punizione divina per la mia cattiveria e pertanto ho odiato me stesso, dopodiché anche gli altri, soprattutto gli altri che vivevano felici e spensierati e ignari delle loro fortune e mi dicevo: Perché loro sì ed io no? Li invidiavo e li detestavo, considerandomi a loro superiore e anche se nel processo per distinguermi ferivo le persone accanto a me e spezzavo cuori, ci passavo sopra perché tanto mi ripetevo come ormai peggio di così non potessi fare, io ero destinato a sbagliare sempre ogni cosa … Mi credevo all’apice della saggezza, quando al contrario voi tentavate di guidarmi … io facevo l’opposto credendo voleste intralciarmi …  Non volevo mai ammettere le mie colpe, preferendo attaccarmi a qualsiasi scusa, anche la più fantasiosa e improbabile, per scaricare altrove i miei sbagli. Smaniavo d’essere capito ed io per primo mi rifiutavo di prestare ascolto, denigrando e scartando qualsiasi cosa accadesse al di là della mia sfera …”

Hironimo parlava ormai a ruota libera, abbandonando ogni costruzione logica del suo discorso, neanche più lui sicuro dove volesse arrivare: aggiungeva, chiosava, riprendeva un concetto espresso poco prima, si sforzava, tra sospiri via via più tremuli e pesanti, di descrivere quel pus virulento che per quindici anni gli aveva imputridito l’animo. Ad un certo punto le gambe stanche gli cedettero e si ritrovò in ginocchio per terra, nascondendosi il viso tra le mani, sotto lo sguardo vuoto di Marco, il quale aveva preso a fissare impassibile le mattonelle del muro davanti a sé.

“… Se volete punirmi per le mie malefatte e fallimenti, se mi volete sottoporre al giudizio dei X, sono qui. Però sappiate, che nessun castigo inflittomi da voi o dalla Signoria potrà mai eguagliare la pena e il rimorso che porto nel cuore. Nutrivate per me un affetto disinteressato ed io vi ho ripagati vituperandovi e aggredendovi. Io … non sono degno d’essere chiamato vostro fratello … Ma ammetto il mio egoismo, sicché vi domando scusa per il male dettovi, fattovi e pensato nei vostri confronti e … Perdonatemi, fradelo. Perdonatemi. Vi supplico d’accordarmi il vostro perdono. Mi dispiace, mi dispiace dal più profondo del cuore per la mia stupidità, invidia, rancore, disobbedienza. Mi dispiace, mi dispiace tantissimo …” e man mano che lo ripeteva, Hironimo avvertì una dolce sensazione di sollievo, non dissimile al suo primo risveglio senza catene.

Ora poteva affrontare serenamente la decisione del fratello, qualsiasi essa fosse stata. Anche se sbrodolando talora maldestramente, la sua parte di promessa alla Madonna l’aveva mantenuta e quel benessere interiore, tipico di chi è in pace con la propria coscienza, risultò assai gradito al giovane Miani. Tirò su col naso, s’asciugò le guance bagnate col dorso della mano e attese.

“Alzati”, soffiò Marco a seguito d’un lungo silenzio, il capo reclinato all’indietro e gli occhi puntati al cielo plumbeo, manco stesse invocando dall’alto consiglio. “Su, in piedi!”, spronò con filino d’impazienza il minore, rimasto immobile al suo posto e sbattendo perplesso le ciglia.

Titubante, Hironimo tuttavia obbedì, meditando di che cosa quella richiesta fosse un preludio. “M-Marco …?”, s’azzardò, preoccupato dalla statuaria fissità del fratello. “Io … mi … mi dispiace, non … non ho altro d’aggiungere, se … se v’ho molestato me ne vado …”

All’improvviso, il giovane si ritrovò in un battibaleno contro il corsaletto di Marco, la sua mano destra alla nuca e l’altra sulla schiena. E anticipando ogni sua esclamazione e neanche concedendogli il lusso d’elaborare quanto stesse accadendo, suo fratello gli baciò freneticamente le gote, gli occhi, la fronte, le labbra, le tempie, stringendolo forte come se volesse impedirgli di prendere il volo, di scomparire di nuovo. D’istinto Hironimo ricambiò l’abbraccio, nascondendo il viso nell’incavo della spalla dell’altro e inumidendolo delle ultime lacrime, intanto che veniva ninnato e accarezzato dappertutto sul busto, volendo sincerarsi Marco d’averlo veramente tra le sue braccia, di non vivere un’illusione. Il più anziano inalò profondamente il profumo del fratellino, meravigliandosi dell’essenza di rose in esso, strusciando poi la guancia contro la sua, mentre Hironimo gli circondava il collo con le braccia, aggrappandosi a lui.  

Fradelo”, si staccò Marco dopo un po’ dal minore, incorniciandogli con le mani il viso stanco e provato dalla prigionia. “V’erano giorni in cui dubitavo di udire da te questa parola. E non negli ultimi cinque mesi, no, troppo il mio orgoglio da volerti anche solo sentirti nominare, bensì in questo mese, che mi ha aiutato a riconsiderare quanto accaduto tra di noi da una prospettiva diversa. Mi ha fatto capire che ho già seppellito una sorella, perché dunque scannarsi tra noi fratelli rimasti? Perché ostinarci in tali stupidaggini, quando invece dovremmo godere di ogni istante insieme? Anch’io ho le mie colpe, anch’io sono stato duro e ingiusto con te, gridandoti crudeltà che nessuno dovrebbe mai udire dal proprio sangue. Ti ho mentito quando m’auguravo la tua morte. Ti ho mentito quando dicevo che di te non importava a nessuno. Tutti ti vogliamo bene, a tutti importi. Ti sei guardato attorno? Hai visto come si sono rallegrati della tua fuga? Se veramente stessi sul gozzo alla gente, perché allora ti hanno accolto così festanti? Possiedi la tua buona dose di difetti, sicuro, come ogni uomo che cammina sulla terra. Non sei un mostro, un demonio, sei soltanto un uomo di carne e sangue, fallibile, ma non per questo indegno d’affetto. Perché tu sei amato, sai? Tu sei amato. Sei sempre stato amato, anche quando ci esasperavi, perché sappiamo che tu contraccambi il nostro amore con altrettanta forza. Ammetto d’aver perduto in più occasioni la pazienza con te, d’averti rimproverato talora anche quando non te lo meritavi. Mi rendo conto d’averti persuaso d’essere inutile, non ascoltando le tue opinioni anche quando erano sensate, credendoti quell’eterno decenne che mi supplicava al funerale di Padre di rammentargli il suo volto. T’ho indotto a credere che tu mi fossi invisibile, una zavorra da sopportare. Niente di tutto ciò: tu mi sei carissimo. No. Io ti amo, fratello mio. Ti ho amato da quando hai aperto gli occhi e ti amerò finché chiuderò i miei; ti amo per i tuoi pregi e per i tuoi difetti; ti amo per chi sei e per come sei, incondizionatamente. Ti amo alla stregua d’un figlio [3], perché ti considero parte della mia stessa carne. Sei il mio nome sacro [4]. A me importa il mondo di te, non dimenticartelo mai: ovunque andrai, qualsiasi scelta farai, non dimenticarti che il mio cuore è sempre con te e che ti amo fino all’ultimo mio pensiero. Ti perdono, ti perdono, ti perdono, purché tu ti ricordi che t’amo, t’amo, t’amo, fratellino mio.”

E dopo tale appassionata arringa, nella speranza che in quell’amatissima testaccia dura entrasse ben bene il concetto, Marco si concesse il piccolo sfizio di posare veloce un casto bacio sulla fronte del fratello. Ogni parola l’aveva pronunciata sul serio, non per piaggeria o per consolarlo al momento, dandogli un contentino. Mica si tirava indietro a cantargliele, se l’occasione lo richiedeva! Hironimo non gli appariva affatto orribile nelle sue colpe, nulla per la quale condannarlo ad una misera morte o per ostracizzarlo dalla famiglia; al contrario lo amava di più perché nonostante tutto dietro le sue cattiverie ancora resisteva la volontà sua di fare del bene. Un cuore generoso e sensibile seppellito e prigioniero da troppo tempo nell’oscurità della disperazione, ch’è il peccato più grande perché toglie fiducia nel prossimo, nella vita, in Dio. Marco si ripromise mille volte di far tesoro dell’esperienza vissuta, d’estirpare ogni futile tossicità dal loro legame: troppo breve e precaria la vita per avvelenarla di tali sciocchezze!

Hironimo, dal canto suo, non riuscì a trattenere un pudico sorrisino di compiacimento. Né un adorabile rossore. Era come se si stesse convincendo che forse sì, non era esattamente una creatura da disprezzare. L’opinione di suo fratello, dopo quella di Madre, valeva per lui il mondo e il suo rifiuto l’avrebbe spezzato in via definitiva. Amava ogni suo parente, però Marco era stato l’unico veramente accanto nei suoi periodi più bui, l’unico che si fosse mai fermato ad ascoltarlo sul serio, a cercare, pur fallendo, di capire tutto il malessere urlato da Hironimo dal fondo del suo pozzo di livido rancore e sofferenza. L’unico, sin da quanto erano bambini, che si fermava e si voltava per guardare indietro, onde assicurarsi che fosse lì e che lo stesse seguendo, per tendergli la mano incoraggiante.

Come gliel’aveva tesa quella bellissima dama, aspettandolo sorridente e fiduciosa fuori il padiglione del condottiero … La sua pelle fresca e leggera come l’acqua di fontana eppure la stretta forte e sicura da condottiero, che gli impediva d’inciampare e di cadere, guidandolo nelle tenebre antecedenti l’alba … quella compagna silenziosa che però attraverso quegli occhi ricolmi di luce gli dicevano tutto ciò di cui necessitava: tu sei amato.

“Momolo?”

L’ultimogenito Miani sbatté le palpebre, stropicciandosele imbarazzato. “Scusate …”

“Scusami, ancora non sono Missier il Doxe. Poi dopo, sì, mi darai del voi e pure ti toglierai il cappello, ogniqualvolta c’incontriamo per casa, per strada e per andare alla latrina!”

Il venticinquenne patrizio sputacchiò una risata, coinvolgendo il fratello, che contraccambiò di pancia, finché altro tipo di lacrime non spuntarono agli angoli dei loro occhi. “Scusami”, si corresse Hironimo, il petto sconquassato dagli ultimi risolini. “Mi sono incantato per un istante …”

Marco aggrottò la fronte, preoccupato. “L’ho notato”, asserì cauto. “Sei forse stanco? Ti riporto a letto. Anche perché” e la sua espressione ritornò furbetta, mentre indicava in direzione di una delle tante finestre affacciate sul cortile, “non vorrei che il tuo giannizzero venisse di notte per il mio scalpo.”

“Il mio giannizzero? Oh!”, esclamò Hironimo, accorgendosi di Thomà che li scrutava attentamente dalla finestra, spinto probabilmente dal desiderio di controllare che il suo padrone non venisse eccessivamente strapazzato. Un tenero sorriso si dipinse sulle labbra screpolate: levò in alto la mano e salutò il fantolino, che si nascose sotto la traversa inferiore del telaio fisso. Marco assistette alla scena in silenzio, studiando accorto i lineamenti dell’altro e stupendosi di leggervi il medesimo affetto riservato ai nipoti.

“Ti vuole molto bene”, asserì il trentenne patrizio, “poche volte ho assistito a tanta devozione in un bambino verso uno, che non sia un parente di sangue. Mi domando se per patron non intenda pare.”

Hironimo nicchiò, scostandosi una ciocca dalla fronte. “Spero di riuscire a mantenerla e di non deluderlo … E’ un briccone, ma è il mio briccone … In un certo qualmodo, mi ha salvato, aiutandomi a capire molti aspetti del mondo che prima ignoravo …” Quand’ecco che il giovane cambiò tono e argomento, fissando serissimo il fratello: “Non esageravo prima. Dovrò affrontare la Signoria … dovrò giustificare la perdita di Castel Novo e …”

“… ed io ti resterò accanto. Affronteremo anche questa assieme, come facevamo da fanciulli. Sempre uniti. Non ti abbandonerò, neanche se il mondo intero dovesse schierarsi contro di te”, s’affrettò a rassicurarlo Marco e lo prese sottobraccio, acciocché si sostenesse a lui, essendo il suo passo ancora incerto. “Sebbene non penso sia il caso d’angustiarsi: se ti ricordi, i X non hanno condannato Lucha e vedrai che neanche tu verrai punito, perché non hai mai dato voluntarie le chiavi del castello.”

“Non avrei ugualmente potuto”, gli confidò imbarazzato Hironimo. “Nella confusione della mischia, mi devono essere cascate in acqua …”

I due Miani si squadrarono per qualche istante, per poi sganasciarsi in una grassa risata di pancia.

“Lo dirò io ad Orsolina, ad Eudokia e a Zanetta”, dichiarò di punto in bianco Hironimo. “Forse già lo sanno o lo hanno intuito, ma voglio raccontarle, faccia a faccia, quanto eroicamente siano morti i loro figli e di quanto io sia loro riconoscente per la loro fedeltà e abnegazione. In fin dei conti”, contemplò pensoso le fasce ai polsi, là dove fino al giorno prima  lo feriva il duro morso delle manette, “io vivo grazie a loro sacrificio. E il mio modo di onorarlo, sarà di vivere e combattere questa guerra non soltanto per vincerla, ma soprattutto onde evitare che altre famiglie si spezzino e che altre madri piangano i propri figli. Che altre donne vengano vergognate come quelle poverette del Montello. Per evitare che aumenti il numero di altri Thomà, di bambini strappati dalle braccia delle madri, privati dei padri; bambini corrotti dall’odio, bambini torturati e violentati, bambini della cui sorte poi non importerà a nessuno, dimenticando che quella sorte gliel’abbiamo procurata noi …”

“E’ un proposito molto nobile. Ti fa onore”, convenne Marco, tradendo la sua espressione un orgoglio pressoché paterno. “Invero sei maturato”,  aggiunse.

“Spero soltanto d’essere all’altezza di questo compito”, si schermì il minore, un poco titubante dinanzi alla gravità del suo progetto, non trattandosi, infatti, di un progetto di facile realizzazione, considerate le insidie e le incognite della vita.

“Solo tentando e ritentando lo scoprirai, senza arrenderti dinanzi ai fallimenti e alle avversità”, gli spiegò incoraggiante Marco. “Niente a questo mondo ti viene concesso presto e subito. Ai tuoi obiettivi ci dovrai arrivare poco alla volta, un passo dietro l’altro. E tu sei nato per lottare.”

Hironimo gli afferrò la mano, portandosela al cuore. “Noi non siamo altro che un piccolo tassello …

“… nell’immenso mosaico ch’è il progetto di Dio”, concluse Marco quella massima da loro imparata da Padre.

Il minore assentì, chinando il capo socchiudendo gli occhi affinché essi evocassero la sua misteriosa compagna di fuga. Se all’inizio aveva considerato la sua sopravvivenza un peso se non proprio un castigo, adesso la percepiva come un secondo inizio.

Per un motivo che neanche lui si figurava, Dio lo aveva salvato dalla strage di Castelnuovo; lo aveva protetto durante la prigionia, sottraendolo a tormenti ben peggiori di quelli subiti per mano di Mercurio Bua. Pur ammalatosi, lo aveva tenuto in vita. Aveva disposto della sua fuga, inviandogli la dama dal mantello bianchissimo. Li aveva guidati lungo tutto il cammino, indisturbati fin sotto alle mura di Treviso.

Per anni Hironimo aveva accusato Dio d’indifferenza, quando invece mai lo aveva abbandonato, poiché contro ogni umana logica, la sua vita Egli aveva deciso che non dovesse finire tra le macerie insanguinate di Castelnuovo.

Tu, che hai l’anima di Lazzaro … e se in passato aveva badato più alle allettanti promesse di gloria eterna, adesso era l’incipit della profezia della zingara ad interessarlo e a turbarlo. Lazzaro l’amico di Cristo, Lazzaro ammalatosi e morto; Lazzaro per quattro giorni rimasto nel sepolcro finché non aveva incominciato a puzzare, Lazzaro per la cui morte il Figlio di Dio versò lacrime; Lazzaro che tra lo sconcerto e l’incredulità generale era stato resuscitato acciocché tutti potessero credere. Tu, che hai l’anima di Lazzaro … Perché proprio a lui l’aveva la gitana comparato? Cosa li accumunava? Era stata forse la sua un’anima morta e putente? O forse si riferiva al suo spirito orgoglioso? Oppure ai suoi propositi di vita, sterili e fini a se stessi in passato ma ora abbastanza chiari e volti a far del bene?

E sarebbe stato questo paragone a Lazzaro ad influire il tipo sentiero da intraprendere, onde raggiungere il successo profetatogli? Abbagliato dalla prospettiva della fama, Hironimo s’era illuso di raggiungerla attraverso qualsiasi mezzo disponibile, anche a costo di pavimentare la sua via di cadaveri. Ma egli, morto e risorto come Lazzaro, doveva seguire un percorso ben definito per compiere il suo destino. Ma quale?

Il giovane Miani aprì e chiuse la mano, la medesima ch’aveva stretto le delicate dita della signora durante l’intera marcia notturna. In quel frangente non s’era sentito né smarrito né confuso, bensì guidato e protetto da un’invincibile alleata.  

“Indicami la strada … indicami … non so dove andare, non  conosco la strada …”

“Dove andare, ora lo sai. La tua strada, ora la conosci.”

Ma a che si riferiva? Alla strada verso Treviso o alla strada della sua esistenza?

Se invero lui non era che un tassello di mosaico nelle mani di Dio, dove lo voleva collocare e in quale progetto?

Hironimo non negava la sua riconoscenza d’esser sopravvissuto al massacro di Castelnuovo, sebbene tale sentimento non rispondeva all’annosa questione: perché io sì e loro no?

Che anche l’apparente follia del caos fosse governata dalla volontà di Dio?

E se era così, di nuovo, perché io sì e loro no?

Cos’hai in progetto per me, o Signore?

Perché hai fatto di me un Lazzaro?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E così siamo ufficialmente entrati nella terza e ultima parte di quest’avventura. Grazie mille a chi mi segue dal lontano 27 settembre 2019! Speriamo di finire la storia prima del terzo anniversario XD

 

Il Nostro è ufficialmente libero, urrà! Incominciano le prime reazioni alla sua fuga, non tutti i nodi al pettine sono stati affrontati (poverino, lasciamolo riprendere fiato!); nei prossimi capitoli vedremo anche le reazioni fuori Treviso, tra chi si rallegrerà e chi un po’ meno  …

 

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima,

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1a] Torrenuova= oggi Tornova; [1b] Are =  oggi Adria

[2] “Malefizio”, o “Melefico”, “Renghera”, “Dei Giustiziati” era una delle più piccole campane del Campanile di San Marco. Essa annunciava che si stava preparando una condanna a morte e suonava per tutto il tragitto del condannato dalla prigione al patibolo. Il “Malefizio” suonava dopo la “Nona” per mezzora.

I Veneziani regolavano la loro vita a seconda del suono delle campane di San Marco, di cui oggi, dopo il crollo del Campanile nel 1902, è rimasta solo la “Maragona”, la quale suonava al sorgere del sole dei giorni feriali e annunciava l’inizio del giorno lavorativo, in particolare degli Arsenalotti. “Marangon” in veneto significa “falegname”. Un’ora prima del levar del sole, suonava il “Matutin”, la prima campana della giornata. A quell’ora avveniva il cambio della guardia alla Basilica, a Piazza San Marco e a Palazzo Ducale.

La “Mezzana” o “Mezzaterza” suonava nove tocchi verso le due del pomeriggio. Era anche detta “Dei Pregadi” e indicava la convocazione dei senatori a Palazzo Ducale. La “Trottiera” l’inizio delle sedute del Maggior Consiglio.

La “Nona” batteva a mezzogiorno dai sedici ai diciotto rintocchi. La campana “De Le Dò” o “De Le Do Ore” suonava dopo il tramonto del sole e a quell’ora montava la guardia notturna alla Basilica, Piazza San Marco e Palazzo Ducale.

[3] citazione ripresa dal medesimo testamento di Marco Miani: […] mio caro fratelo, che sempre lo abuto per fiol, come lui sa”.

[4] Girolamo/Gerolamo/Geronimo derivano dal greco e significa “nome sacro”.

 

 

  
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