In the still of the night
40.
You
ask me if there’ll come a time
When
I grow tired of you
Never
my love
Never
my love
You
wonder if this heart of mine
Will
lose its desire for you
Never
my love
Never
my love
Tigris
ci invita ad uscire dalla cantina una volta giunta la sera, quando l’orario di
chiusura del suo negozio è passato da un pezzo e di gente nelle strade non ce n’è
più traccia. Noto che è già buio, quando mi arrischio a scostare appena la
tenda della vetrina, e che la via deserta al di fuori del negozio ha assunto un
aspetto spettrale. La neve, bianca, ha ricoperto totalmente l’asfalto, a parte
qualche impronta qua e là. Come stamattina, ho l’impressione che quella in cui
abbiamo trovato rifugio non sia una delle vie più frequentate di Capitol City.
Il
piccolo televisore sul bancone è acceso, già sintonizzato sul canale del
notiziario che aggiorna, per ventiquattr’ore al giorno tutti i giorni, la
capitale sugli avvenimenti più importanti. Gale e Pollux sono in piedi ed
osservano le immagini che passano veloci. I loro visi sono accesi di blu grazie
al riflesso. Mi avvicino a loro e non ho bisogno di ascoltare la voce della telecronista
per comprendere le ultime notizie: i volti di Finnick, di Messalla, di Boggs e
degli altri caduti sono più che sufficienti.
-
Hanno identificato i loro corpi – mormora Gale. – Sanno che siamo
sopravvissuti.
Le
mani di Pollux si muovono in fretta, indicando prima lo schermo, poi noi
stessi, e poi la strada. Aggiunge qualche altro segno, ed anche se non sono in
grado di capire la lingua dei senza voce so cos’è che vuole dirci. È chiaro a
tutti, ormai: siamo molto più che dei semplici ricercati. Siamo diventati le
più grandi minacce per la nazione intera.
-
Non saremo più in grado di passare inosservati – constato.
E
più tempo rimango davanti al televisore, più ne divento consapevole, e le
poche, deboli certezze che ancora reggevano dentro di me, crollano frusciando
come un castello di carte. Se c’è una cosa che l’intera giornata di ieri e la
notte appena trascorsa mi hanno insegnato, è che noi non saremmo mai stati in
grado di passare inosservati. La Squadra di Stelle partiva già svantaggiata per
avere all’interno dei suoi membri tre giovani vincitori degli Hunger Games,
vincitori che per forza di cose erano già di loro fin troppo riconoscibili. Ad
essi, vanno aggiunte le centinaia di telecamere di sorveglianza che registrano
ogni secondo di ciò che accade in strada. È così che ci hanno trovato e sarà
così che ci troveranno ancora se non stiamo attenti. Siamo stati fortunati se,
per giungere fino al negozio di Tigris, non siamo stati segnalati o seguiti da
chicchessia. Uscire allo scoperto adesso, quando tutti sono sull’attenti ed in
attesa di scoprirci, non è la migliore delle mosse.
-
Dobbiamo escogitare un piano.
-
L’unica cosa che dovete fare, ora, è mangiare – annuncia la voce carezzevole di
Tigris alle nostre spalle. – Vi ho preparato qualcosa in cucina.
Il
cibo che ci offre Tigris non è molto: giusto un po' di pane ed un pezzo di
formaggio, ma davanti alla gentilezza di questa donna gatto rifiutare il suo
cibo è l’ultima cosa che potremmo fare. Ci sta aiutando nascondendoci nella
cantina del suo negozio, sta correndo un rischio incredibile per salvarci la
vita, così mangiucchiamo senza parlare molto. Abbiamo tutti la mente piena di
dubbi, di domande e, almeno la mia, infinite ipotesi su come poter procedere
nei prossimi giorni.
Quando
scendiamo di nuovo nella cantina umida, la prima cosa che faccio è indossare
una pelliccia per scacciare il senso di freddo improvviso: anche dentro il
negozio di Tigris fa freddo, ma non così tanto. Infagottata come un orso, tiro
fuori la cartina dal mio zaino e chiedo a Cressida di indicarmi lì sopra il
punto in cui ci troviamo.
-
Siamo qui – dice, puntando l’indice sulla carta. – E qui – sposta di poco il
suo dito per posarlo in un altro punto – si trova la villa di Snow.
-
Aspetta, dove?
Mi
indica di nuovo la nostra posizione e, usando come matita la punta di una
freccia, traccio la distanza che ci separa da Snow. Tre chilometri,
approssimativamente, se ciò che ha detto prima Cressida è giusto. E quando mi
alzo per osservare in un’immagine d’insieme la cartina, e la distanza che ci
separa, noto che l’abitazione del presidente è posizionata proprio al centro.
Al centro della cartina, al centro della città. Francamente, non mi stupisco.
Avrei dovuto intuirlo anche senza guardare la cartina.
-
È vero ciò che hai detto alla Jackson, Peeta? – gli chiedo voltandomi nella sua
direzione. È dietro di me, ma si avvicina ancora di più quando sente che lo
chiamo. – Sei stato all’interno della villa di Snow?
-
Ci sei stata anche tu, Katniss. Non ero mica da solo durante il Tour della
Vittoria – constata lui.
Scuoto
la testa, ricordando improvvisamente il luogo in cui si è tenuta la festa organizzata
dal presidente per onorare la fine del nostro Tour. Che sciocca. Ovvio
che ci sono stata anche io.
-
Ma non abbiamo visto granché durante la festa. Solo la biblioteca, il parco e-
-
E la sala dei ricevimenti – continua Peeta.
-
Giusto. E quando sei stato catturato dopo la seconda arena… cosa hai visto?
-
Niente. Non mi hanno mai portato da Snow, né tantomeno nei suoi appartamenti
privati.
-
Ma allora perché…
Cressida
mi interrompe. – Ha mentito. Come ho fatto anche io, Katniss. Per cercare di
convincere la Jackson che la tua missione fosse vera.
Questo
non ci è di nessun aiuto. – Quindi tutto ciò che conosciamo
della villa presidenziale… è ciò che abbiamo visto l’anno scorso?
-
Credo di sì.
Peeta
si offre di tracciare una sorta di bozza dell’edificio, riportando le stanze
che conosciamo ed il modo in cui ci siamo arrivati. Il tutto, purtroppo, si
limita al pianterreno: l’entrata, l’ampia entrata in cui si snodano almeno
cinque corridoi e che, a parte quello che ci ha condotti fino alla sala
riservata ai ricevimenti, non sappiamo dove portano. La sala ricevimenti ha,
tutt’intorno, alcune porte nascoste che conducono in altrettante stanze, e noi
abbiamo visto solo la biblioteca, dato che Effie ci teneva moltissimo a
mostrarci le migliaia di volumi con cui era stata riempita. E accanto alla
biblioteca due enormi bagni.
Ecco
tutto ciò che sappiamo del luogo in cui vogliamo provare ad intrufolarci.
-
Non è molto – osserva Gale.
-
Ma non è nemmeno poco – lo rimbrotta Cressida.
Molto,
poco:
vorrei che tra queste due parole ci fosse una via di mezzo, un qualcosa che
possa esserci di aiuto, ma purtroppo non esiste. Dobbiamo accontentarci delle
poche nozioni che abbiamo. Abbandono la punta della freccia sulla cartina e
decido che per stasera può bastare. Forse domani, a mente riposata, riusciremo
a cavare fuori un ragno dal buco.
Lasciamo
la luce accesa, l’unica lampadina dalla luce gialla che pende dal soffitto, e
torniamo a sdraiarci sui nostri giacigli improvvisati. Non mi tolgo di dosso la
pelliccia bianca e ne aggiungo un’altra a mo’ di coperta, dato che il freddo
non sembra volermi abbandonare. Porto le gambe contro il petto, rannicchiandomi
come ho fatto così tante volte nel corso della mia vita, quando avevo freddo,
ma anche quando avevo paura, quando sentivo qualcosa che minacciava me stessa e
gli altri. Sento il rubinetto che torna a sputacchiare ed immagino che qualcuno
stia facendo scorta d’acqua prima di mettersi a dormire.
Quel
qualcuno, scopro, è Peeta. Posa la sua borraccia accanto al suo zaino e si
sdraia dopo aver sistemato la pelliccia che ha usato come materasso anche oggi.
Si gira verso di me. – Senti tanto freddo? – mi chiede.
-
Va meglio, adesso – mormoro.
Lui
annuisce, mettendo il braccio sinistro dietro la testa come cuscino; l’altro è
fermo sulla pancia. Osserva la lampadina sul soffitto mentre io osservo lui,
osservo i suoi occhi fissi sulla luce gialla. Sono sicura che avverte il mio
sguardo fisso, ma non credo che gli dia fastidio, e non dice nulla a riguardo.
Peeta non dice mai nulla riguardo a queste cose. Fa sempre finta di niente al
contrario di ciò che faccio io, che quando mi accorgo di qualcosa che non va
come dico lo faccio notare con le mie occhiate truci.
Siamo
così diversi, ed il pensiero torna inevitabilmente alla sorta di discussione
che abbiamo avuto oggi, stamattina. Nonostante il nostro essere così diversi,
nonostante lui desideri altri figli mentre io non ne voglio più, non ha nessuna
intenzione di lasciarmi: resterà insieme a me anche se questa sua decisione
potrebbe renderlo l’uomo più infelice del pianeta. Non mi capacito di essere
proprio io la fonte della sua infelicità, la fonte dei suoi patimenti.
Potresti
vivere cento vite e ancora non lo
meriteresti, lo sai?
E mai le parole di Haymitch mi sono sembrate più
vere di così. So di non meritarlo, so che potrebbero esserci altre persone,
altre ragazze migliori di me al di fuori di questa cantina che potrebbero
renderlo altrettanto felice. Molto più felice…
Ma lui ti ama. Ti ama, e vuole te. Le altre ragazze non gli interessano.
Scivolo lentamente verso il suo corpo e poso la
testa nell’incavo della sua spalla. Poso delicatamente le labbra sul suo collo,
lo sfioro nel più innocente dei baci; non c’è malizia nel mio gesto, non voglio
provocarlo o altro. Il mio è più un gesto di conforto: per me, per la mia
coscienza, per il mio cuore che vuole troppe cose tutte insieme. Il mio cuore
vorrebbe lasciarlo andare, ma allo stesso tempo sa che non ci riuscirebbe. E
non è solo il mio cuore che non ne sarebbe in grado, ma tutto il mio essere:
così come ho capito di amarlo, capisco che senza di lui non riuscirei ad andare
avanti. Peeta è necessario alla mia sopravvivenza, e ne ho già avuto la prova
quando è stato fatto prigioniero qui a Capitol City. Non potrei passarci di
nuovo… ne morirei.
Peeta mi abbraccia, circonda le mie spalle e mi
trascina quasi sopra di sé. Mi abbandono contro di lui, inspiro l’odore della
sua pelle e chiudo gli occhi. Cerco di abbandonarmi al sonno.
E quasi non mi rendo conto di non sentire più
freddo.
What makes you think love will end
When you know that my whole life depends
On you (on you)
Never my love
Never
my love
Arriva l’alba, e risaliamo di nuovo nel negozio
per la colazione e per un aggiornamento delle notizie. Il televisore è già
acceso sul canale del notiziario, o forse lo è stato per tutta la notte. Credo
che questo negozio sia anche la casa di Tigris, oppure lei vive al piano di
sopra, dove ha un piccolo appartamento. Non conosco le abitudini dei
commercianti di città, ma forse sono identiche a quelle che avevano anche i
nostri commercianti del Distretto 12.
Mentre mangiamo, scopriamo che alcuni comandanti
delle truppe dei Ribelli hanno intrapreso delle tattiche che vanno ad emulare
ciò che l’onda nera aveva fatto l’altro giorno nel tentativo di imprigionarci.
Lasciano percorrere a dei mezzi pesanti lunghi tratti di strada allo scopo di
far attivare i baccelli in agguato, in modo poi di avere campo libero per
avanzare all’interno della città. Se per i primi tentativi i risultati sono
eccellenti, non lo sono i successivi: i baccelli vengono disattivati dagli
Strateghi e riattivati quando i Ribelli percorrono le strade. Non è un bello
spettacolo ciò a cui assistiamo subito dopo.
Nel mentre, le immagini del telegiornale vengono
intervallate di tanto in tanto con quelle dei Pass-Pro, soprattutto degli
ultimi che abbiamo realizzato in città. Sorrido, riconoscendo il tocco di
Beetee dietro a questa manovra di depistaggio.
- C’è movimento, qui fuori – annuncia Cressida,
distogliendo totalmente la nostra attenzione dal piccolo schermo.
La raggiungo, stando attenta a non scostare
troppo la tenda, e vedo che “movimento” non è il termine giusto per definire il
mare di persone, vestite in modo assurdo persino per gli standard di Capitol
City, che invade la strada su cui affaccia il negozio. Centinaia, forse
migliaia di corpi, che marciano, stringendosi addosso cappotti, vestaglie e
sciarpe per affrontare il gelo di fine autunno e che si trascinano dietro gli
oggetti più disparati, anche i più inutili.
- Sono profughi – mormoro, senza che ce ne sia
l’effettivo bisogno.
- Stanno evacuando le zone della città più a
rischio. Lo hanno detto appena un minuto fa – è ciò che ci dice Gale.
- Dove stanno andando? – domanda Peeta.
Già: dove?
Tigris ci promette che cercherà, durante la
giornata, di uscire dal negozio per raccogliere informazioni utili ai nostri scopi
mentre noi ce ne staremo in cantina, a cercare di ideare un modo per uscire di
qui senza farci scoprire dopo due secondi. Non andiamo molto avanti, però: è
come se ci fossimo impantanati, bloccati davanti a ciò che non sappiamo.
Pensiamo, ci scervelliamo, e non arriviamo a nulla. L’unica cosa che riusciamo
a fare è mangiare, e forse sbagliamo perché in questo modo rischiamo di
terminare le nostre provviste. Non sappiamo per quanto tempo ancora dovremmo stare
chiusi qui.
Le ore passano, il giorno avanza, e non arriviamo
a nulla. Osservo in cagnesco la cartina mentre assemblo le frecce extra di cui
Beetee ha rifornito me e Gale. Dopo le prime tre, il meccanismo diventa
talmente automatico da poterlo fare ad occhi chiusi: prima la punta, poi l’asta,
divisa in più parti, infine l’impennaggio dotato di cocca… sento che potrei
continuare all’infinito.
Ho finito di montarle da un bel pezzo quando
Tigris apre la botola e ci consente di tornare a farle compagnia per la cena.
Cena che ha cucinato lei stessa, e che a confronto del pane e formaggio di ieri
sera assomiglia ad un vero e proprio banchetto di festa: ci ha preparato uno
stufato di carne. E non è solo la cena sostanziosa l’unica novità che porta con
sé.
In strada ci sono moltissime persone che cercano
un riparo e che, se non saranno abbastanza fortunate, rischiano di trascorrere
la notte fuori, in balia del gelo. La donna gatto ha barattato un bel po' di
indumenti di pelliccia con loro per assicurarci questa cena, ed ha scoperto
anche che non molto lontano da qui molte famiglie hanno avuto l’ordine di
ospitare alcune di queste persone. Capiamo immediatamente che l’ordine potrebbe
estendersi per chiunque abiti in città, e che Tigris non ne è esonerata. Rischiamo
di restare imprigionati in cantina mentre cinque, dieci o quindici persone
prendono possesso come ospiti del suo negozio. Non è la migliore delle
prospettive.
Ma in aiuto arrivano le parole che escono dagli
altoparlanti del televisore.
L’annunciatrice del telegiornale ci informa che
nemmeno cinque minuti fa è stato emesso un decreto dal presidente Snow in
persona, in cui ha dato direttive immediate per consentire l’ingresso nella sua
abitazione alle migliaia di profughi che affollano le strade della città.
Snow
apre le porte della sua casa?
-
Snow apre le porte della sua casa?
Io
l’ho solo pensato, Gale invece l’ha urlato.
Questo
è il tipo di notizia che potrebbe davvero aiutarci. Se Snow consente l’ingresso
ai cittadini, ai profughi, non c’è nulla che vieti anche il nostro ingresso…
nulla, a parte le nostre facce fin troppo note. Siamo ancora fin troppo
riconoscibili.
E
la notizia successiva a quella di Snow ne è la prova. Un ragazzo biondo è stato
aggredito dalla folla ed è morto per le ferite riportate perché somigliava a
Peeta. La sua foto appare sullo schermo e, a parte il colore dei capelli, non
gli somiglia per niente.
-
È il mio gemello! – esclama Peeta per sdrammatizzare.
L’espressione
che gli regalo è tutta un programma.
-
Domani potrebbe essere l’occasione giusta per agire – si intromette Gale.
-
Agire?
Annuisce.
– Possiamo mescolarci con i cittadini in fuga e penetrare nella residenza. Non
dovrebbe essere difficile.
-
Tigris può aiutarci a camuffare il nostro aspetto – si intromette Cressida. –
Vero, Tigris?
La
donna gatto le sorride, complice.
Non
so perché, ma l’idea di agire domani, con così poca preparazione e senza avere
un vero piano da seguire non mi piace per nulla. Nulla ci assicura che la
notizia appresa poco fa dalla televisione sia vera, nulla ci dice che possa
essere una tattica studiata apposta per farci uscire allo scoperto. Eppure,
allo stesso tempo, risulta essere proprio l’occasione che stavamo aspettando.
La scelta è tra agire subito od attendere altri giorni.
-
Non siamo preparati – dico, esternando i miei dubbi. – Potremmo essere scoperti
una volta giunti tra la folla…
-
Per questo serve un elemento di disturbo – dice Peeta. – Posso creare un
diversivo, attirare l’attenzione su di me per consentirvi di avvicinarvi il più
possibile a Snow.
-
Ma sei impazzito? – esclamo, alzandomi in piedi. – Diversivo? Ma che
cazzo dici?
-
Hai visto ciò che hanno fatto a quel ragazzo, e solo perché pensavano che fossi
io – tenta di spiegarsi, mantenendo la voce calma. – Immagina cosa faranno
quando mi vedranno arrivare-
-
Ti ammazzeranno! Sei un deficiente che si farà ammazzare, ecco cosa sei!
-
Nessuno si farà ammazzare! E Katniss, smettila di strillare – dice Cressida. –
Potrebbero sentirti.
-
Non me ne importa un cazzo-
-
Smettila! A noi importa – mi rimbrotta Gale. – Ognuno di noi dovrà avere
una parte in questo piano, e se Peeta vuole offrirsi volontario per creare un
diversivo, tu non sei nessuno per impedirglielo.
Sono
livida, sorda alle sue parole e mi sento tradita per ciò che sta accadendo
davanti ai miei occhi. Il mio compagno vuole andare a farsi ammazzare dalla
folla inferocita, ed il mio migliore amico non fa nulla per distoglierlo dalle
sue intenzioni, anzi, lo sprona a proseguire. Li guardo inferocita, impossibilitata
a sfogare la mia rabbia urlando, e mentre nelle ore successive il piano prende sempre
più forma rimango chiusa in un silenzio ostinato, annuendo di tanto in tanto
per far capire loro che sono in ascolto, che sono attenta, ma che non sono per
niente d’accordo. Il piano comincerà alle cinque del mattino, l’ora in cui
Tigris aprirà la botola della cantina per consentirci di salire e camuffarci da
capitolini.
In
cantina, preparo in silenzio il mio zaino e vi sistemo accanto l’arco e la
faretra con le frecce nuove, ed altrettanto in silenzio mi preparo a mettermi a
dormire in vista della giornata che ci aspetta l’indomani. Faccio capire a
chiunque la mia intenzione di non voler comunicare con nessuno quando raccolgo
a fatica le pellicce che costituiscono il mio letto e le sposto dietro ad una
rastrelliera appendiabiti, altrettanto straripante di pellicce. La uso come
separé, come muro divisorio, e sono felice di vedere che mi nasconde totalmente
al loro sguardo.
Li
sento andare a letto uno dopo l’altro, si mormorano la buonanotte a vicenda e
poi, dopo alcuni rumori, cala il silenzio. Il silenzio viene ben presto
rimpiazzato dal solito russare di Gale.
Mi
rigiro tra le pellicce, troppo nervosa per riuscire a prendere sonno come hanno
fatto gli altri. Do la schiena alla rastrelliera e torno a raggomitolarmi su me
stessa. Seppellisco il viso nel pelo morbido e caldo, chiudendo gli occhi. Non
mi muovo da questa posizione quando sento Peeta che mi raggiunge, e non apro
gli occhi quando lo sento sdraiarsi accanto a me.
Ha
aspettato che gli altri si addormentassero per venire qui, da me. Se fossi
stata nei suoi panni non ci avrei nemmeno provato.
-
Sono ancora arrabbiata con te – dico in un soffio.
-
Sono arrabbiato anch’io, sai? – fiata accanto al mio orecchio.
La
sua risposta mi porta ad aprire gli occhi. – Perché?
-
Per lo stesso motivo per cui lo sei tu, Kat. Perché cercherai di farti
ammazzare mentre tenti di raggiungere la villa di Snow – risponde. – Solo che
io non vado in escandescenze come te.
-
Dovresti farlo, sai? – lo provoco. – Sfogarti un po' potrebbe aiutarti.
-
Sarebbe inutile, invece.
-
Perché?
Peeta,
stavolta, tiene gli occhi fissi nei miei mentre risponde. – Perché tutto questo
è inevitabile. E perché so che sei l’unica che può farlo. Devi farlo,
Katniss, anche se ti amo e anche se so che lasciarti andare potrebbe costarti
la vita.
La
rabbia che covo dentro svanisce di colpo davanti alla sua confessione. Svanisce
di colpo davanti all’ennesima sua dimostrazione d’amore, e di ciò che la mia
morte potrebbe rappresentare per lui se dovesse accadere.
Peeta
ha paura della mia morte, così come io ho paura della sua. Abbiamo entrambi
paura di ciò che la nostra, ipotetica morte potrebbe significare. Lo siamo da
sempre, spaventati dalla morte che incombe su di noi. E tutto questo non
cambierà, nonostante i nostri tentativi di essere più forti.
Non
cambia mai.
-
Potrebbe costare la vita anche a te… lasciarmi andare - lo dico talmente piano
da temere che non mi abbia sentito.
-
Che scelta ho? – e sorride, nel dirlo, quasi fosse una battuta la sua. – E tu,
che scelta hai? In un modo o nell’altro, domani sarà tutto finito.
Domani
sarà tutto finito…
Finiremo
anche noi?
Peeta
mi si avvicina e mi avvolge con le sue braccia. Un gesto automatico, un gesto che
ha già compiuto così tante volte nell’ultimo anno. Centinaia, o addirittura
migliaia di volte. Il mio corpo risponde in modo altrettanto automatico e si
stringe al suo, le mie mani si aggrappano al tessuto della sua camicia ed il
mio viso si posa proprio lì, nell’incavo della sua spalla, dove sa che sarà
sempre al sicuro. Anche se quel “sempre” durerà solo una notte…
-
Non importa cosa accadrà domani, Katniss. Non m’importa se domani finirà il
mondo… tu, per me, non finirai mai. Questa è l’unica cosa di cui sono sicuro al
cento per cento.
Neanche
tu finirai mai, Peeta. Eppure, non riesco a dirlo ad alta
voce… le mie labbra si muovono, ma non esce nulla fuori a parte il mio respiro.
Mi sollevo per poterlo guardare negli occhi, occhi che nel frattempo si sono
riempiti di lacrime che minacciano di cadere giù. Poso una mano sulla sua
guancia, balbettando il suo nome anche se la mia voce al momento non esiste.
Ed
il pensiero va ad un ricordo di noi due non molto lontano, un ricordo che
risale ad appena quattro mesi fa. Un ricordo di noi due che ci baciamo, in
preda all’angoscia, illuminati dalla luce dell’alba che annunciava il nostro
ritorno imminente nell’arena. I baci, allora, erano l’unica cosa che ci aveva
dato la forza di andare avanti. Non le parole, ma i baci.
Ed
un bacio è proprio ciò che uso adesso al posto delle parole. Premo con forza le
labbra contro le sue, cercando di trasmettere con questo bacio migliaia di
frasi non dette, e che forse sono persino superflue in un momento come questo.
Mi
dispiace.
Ti
amo.
Non
lasciarmi.
Resta
con me.
Ti
amo.
Poso
le mani sulle spalle di Peeta e ricambio lo slancio con cui risponde al mio
bacio, all’ardore che sento fuoriuscire attraverso il suo respiro. Inarco la
schiena e mi faccio più vicina, desiderosa del suo tocco, del suo abbraccio,
del suo profumo. Desiderosa di tutto ciò che Peeta rappresenta per me.
Mi
dispiace.
La
sua mano scivola al di sotto del mio maglione, sulla pancia, ed io mi ritraggo
come se avessi preso la scossa. Tremo, interrompendo il bacio. – Non farlo.
-
Perché?
-
Non farlo, ti prego – mi lamento. E non è perché temo che gli altri possano
sentirci, o scoprirci. Non è perché temo di ricongiungermi con lui. Non temo di
amarlo: questo mai. – Sarà più difficile dopo… allontanarci…
Lasciarci…
-
Sarà difficile anche senza questo – alita sulle mie labbra, scendendo sul
mento. Il suo respiro è diventato più pesante. – E senza questo – alita sul mio
collo.
-
Peeta – non riesco a trattenere il singhiozzo che sale lungo la mia gola.
-
Fa l’amore con me, Katniss – mi implora Peeta, entrambe le mani che si
fanno strada al di sotto del maglione. – Sii mia per questa notte.
-
Sono già tua – dico, arrendendomi, sollevando le braccia sulla testa. La mia
resa è la sua vittoria. – Sono sempre stata tua, Peeta.
-
Sei mia…
Peeta
mi libera del maglione e le sue mani, insieme alla sua bocca, mi accarezzano la
pancia, le costole, il seno, lo sterno, la gola. Scende su di me e torna a
baciarmi, invadendo la mia bocca con la sua lingua. Gemo, incapace di
trattenermi, intrecciando le gambe sulla sua schiena e le dita tra i suoi
capelli, capelli che sono troppo corti in verità per poterlo fare come si deve.
Non sento freddo, nonostante sia seminuda e la cantina continui ad essere
fredda e umida; il fuoco che sento crescere dentro e quello che sembra aver
preso vita anche nel corpo di Peeta non mi fanno sentire freddo. Ho caldo,
invece, tanto caldo. Sento caldo quando tolgo il maglione di Peeta e percorro
con le dita le cicatrici che ha sull’addome.
Ti
amo.
Intrufolo
le mani nei suoi pantaloni, accarezzo il suo sedere e spingo il tessuto pesante
verso il basso. Cerco di liberarlo dall’impiccio che questo inutile strato di
stoffa rappresenta. Uso entrambe le mani, e con uno strattone i pantaloni
cedono, scivolando oltre le sue cosce. Continuo a tirarli giù usando i piedi.
Il
sorriso malizioso di Peeta che sento contro la pelle alimenta la mia
eccitazione, ed è grazie ad essa se non mi allontano per l’imbarazzo ma, anzi,
procedo a togliere anche i miei, di pantaloni.
Non
lasciarmi.
Inarco
ancora di più la schiena, pronta ad accoglierlo di nuovo in me quando i nostri
bacini si incontrano. Petto contro petto, labbra contro labbra, respiro contro
respiro: è così che torniamo ad amarci nel modo in cui sappiamo fare meglio.
Fremo di piacere, di attesa, e non sono pronta al dolore che invece ricevo
quando Peeta si fa strada nel mio corpo. Non ho mai sentito un dolore del
genere, neanche durante la nostra prima volta. È un dolore bruciante,
fastidioso.
-
Aspetta! – ansimo, premendo i pugni contro il suo petto, ma non lo
allontano. Non voglio che si allontani.
È
un dolore che mi ricorda tutto ciò che è accaduto negli ultimi mesi: mi dice
che è passato molto, molto tempo dall’ultima volta che abbiamo fatto l’amore.
Mi dice che necessito di qualche momento per potermi di nuovo abituare alla
nostra unione… e mi ricorda che il mio corpo è rimasto ferito dall’ultima volta
che ci siamo uniti.
Ed
è questo il ricordo che fa più male, anche più del semplice dolore fisico. È il
suo ricordo che fa male.
Resta
con me.
-
Perdonami – mi sussurra Peeta, sfiorando il mio viso con le labbra.
Respiro
profondamente, poggiando la fronte contro la sua spalla. Torno ad inarcare la
schiena quando il momento passa. Va meglio, adesso, va meglio. Sollevo il viso
verso il suo, baciandolo. – Amami, ti prego. Amami…
-
Ti amo – risponde, riprendendo a muoversi.
La
sua mano scivola al di sotto della mia schiena, scivola su una natica e mi
costringe ad inarcarmi ancora di più verso di lui, verso il suo bacino, per
poter dare maggiore enfasi alle sue spinte. Non so come faccio a non urlare, a
causa di ciò che sento. Non so come faccio a trattenere i singulti di piacere per
ciò che Peeta mi sta donando, per ciò che Peeta mi fa provare. Getto la testa
all’indietro, persa, ad occhi chiusi, e la bocca di Peeta è subito su di me. Mi
morde il collo, lo bacia, si tende per far congiungere di nuovo le nostre
labbra. Mi aggrappo a questo bacio come se fosse la mia ancora di salvezza, ed
in parte lo è: la mia ancora. Il mio tutto…
-
Amami – ripeto, ansimando contro la sua bocca. Amami, amami, amami…
-
Ti amo, tesoro mio. Ti amo – mi bacia, Peeta, mi bacia e mi attira
contro di sé, girando su sé stesso.
Tenendomi
a cavalcioni su di lui, mi mostra il modo in cui mi vuole amare. Ed io,
cingendogli la vita con le gambe, gli mostro il modo in cui lo voglio amare. Lo
bacio, ci baciamo, e catturiamo l’uno i gemiti ed i sospiri dell’altro mentre
ci amiamo.
Ti amo.
You
say you fear I’ll change my mind
And
I won’t require you
Never
my love
Never
my love
How
can you think love will end
When
I’ve asked you to spend your whole life
With
me (with me, with me)
Never
my love
Never
my love
Le
cinque del mattino arrivano davvero troppo in fretta. Tutto arriva troppo in
fretta, quando si tratta di qualcosa che non hai la forza di affrontare. Ho gli
occhi fissi sul viso di Peeta quando sento, sopra le nostre teste, i movimenti
di Tigris che cerca di aprire la botola. Peeta bacia la punta del mio naso, ed
io chiudo gli occhi.
Di
sopra, facciamo a turno per indossare gli abiti stravaganti tipici dei
capitolini e per sottoporci alla sessione di trucco. Grazie alle sapienti ed
esperte mani di Tigris, reduce da decine di anni di Hunger Games, ci
trasformiamo completamente. Dal di fuori, nessuno riuscirebbe a distinguere in
noi le persone i cui manifesti da ricercati campeggiano in lungo e in largo su
ogni cartello, su ogni muro e su ogni vetrina di Capitol. Abbiamo tutti delle
parrucche dai colori sgargianti, del trucco sul viso che altera i nostri
lineamenti, diversi strati di vestiti al di sopra delle nostre uniformi e degli
strani copri scarpe a camuffare gli scarponi. Pellicce, sciarpe e cappotti
nascondono le nostre armi, e le borse di cui Tigris ci dota ci rendono ancora
più simili agli sfollati presenti in strada.
Ognuno
di noi ha un cappotto di colore diverso per aiutarci a distinguerci quando
saremo in strada: il mio, quasi a burlarsi di chi non riuscirà a riconoscermi,
è rosso. Il rosso della Ragazza di Fuoco.
Tigris
osserva le persone che invadono la via fuori dal negozio e, quando considera
che la situazione sia sicura, toglie il catenaccio dalla porta per consentirci
di uscire. I primi ad andare saranno Cressida e Pollux, in verde e giallo, che
ci faranno da guida mettendosi a distanza di sicurezza rispetto a noi altri,
che li seguiremo da lontano.
-
State attenti – ci dice Cressida prima di sparire dalla porta.
Pollux
ci fa un segno di saluto con la mano e la segue nel giro di due secondi.
Il
tempo che abbiamo a disposizione io e Gale, in rosso e blu elettrico, prima di
imitarli è meno di un minuto. Lo uso dedicando un momento di ringraziamento per
Tigris, che ha davvero rischiato grosso aiutandoci, lo uso controllando un’ultima
volta il mio equipaggiamento, e lo uso dedicando gli ultimi istanti che mi
rimangono a Peeta, vestito di arancione. Lui sarà l’ultimo ad uscire in strada,
stando a debita distanza da noi altri e mettendo in atto il suo diversivo se ce
ne sarà l’effettivo bisogno.
Poso
i palmi delle mani sul suo sterno, stringendo il cappotto tra le dita. Sollevo
il viso e lascio di nuovo incontrare i nostri sguardi.
-
Stammi a sentire – dico. – Non fare niente di stupido.
Peeta
abbassa il viso e fa scontrare le nostre fronti. – No. Quella roba è
l’ultima risorsa. Assolutamente – replica.
Annuisco.
Nessuno dei due aggiunge altro. Il tempo per le parole, il tempo per i saluti,
il tempo per le dichiarazioni d’amore… non c’è più tempo per nulla di queste
cose. Mi sollevo sulle punte e lo bacio sulle labbra, nonostante non ci sia più
tempo nemmeno per i baci. Sono scossa da un brivido, al pensiero che questo potrebbe
essere il nostro ultimo bacio.
Ti
amo.
-
Katniss… è ora. Dobbiamo andare – il richiamo di Gale mi riporta alla realtà,
nel mondo reale.
Costringo
me stessa ad allontanarmi da Peeta così come fui costretta a farlo quella
dannata notte nell’arena. Lo osservo, impaurita, e forse Peeta lo capisce,
perché mi sorride come se volesse tranquillizzarmi e mima qualcosa con le
labbra.
Un
altro “Ti amo”.
Una
lacrima mi riga la guancia. Mi volto perché non voglio che mi veda piangere.
Non voglio che l’ultima immagine che possa ricordare di me sia quella in cui
piango.
Chiudo
il mio mantello rosso col cappuccio, mi tiro la sciarpa sul naso e seguo Gale
all’esterno, nell’aria glaciale.
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Lo so, lo so. Che disgraziata. Imperdonabile
come sempre.
Ma non facciamoci troppo caso.
…
*tossicchia*
Dunque!
Questo capitolo è stato una vera
e propria sfida, ve lo devo confessare… ho fatto più aggiunte che tagli, e
forse lo si può notare dalla lunghezza! X’D E poi ho cercato in tutti i modi di
renderlo una sorta di parallelismo/specchio con il capitolo 19, quello che
precedeva l’entrata nell’arena: non è anche questa un’entrata nell’arena,
dopotutto?
Ho voluto accompagnare il
capitolo da una canzone proprio per accentuare questa somiglianza – chissà se
ci sarò mai riuscita ^^’ -: la canzone è Never My Love degli Association
e sono sicura che se avete già visto l’ultima stagione di Sex Education
non vi sarà sfuggita! Io però me ne sono innamorata dopo aver visto il finale
della stagione cinque di Outlander (ma che bella che è Outlander?
*-*). Ho un debole per le vecchie canzoni, che posso farci? Rimpiango ogni
volta di essere nata con almeno 30 anni di ritardo.
Ma vabbè.
Alla prossima! Senza ritardi
mostruosi, si spera *incrocia le dita*
D.