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Autore: MarFu    01/10/2021    0 recensioni
Dylan torna nella casa di famiglia dove trascorreva le estati della sua infanzia. Molte cose sono come le ricordava, ma molte altre sembrano impercettibilmente cambiate. Altre cose ancora sono strane e inquietanti. Che il villaggio di Tullow non sia più lo stesso?
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Storia in 31 capitoli scritti nel mese di ottobre 2021, uno al giorno, come parte della challenge writober organizzata da fanwriter.it.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mnestic
mnes·​tic | ˈnestik
Pertinente alla memoria.

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La casa era esattamente come la ricordava eppure completamente diversa. Era una casa di pietra alta due piani, larga appena quanto bastava perché due finestre trovassero posto ai lati della porta d’ingresso. Le pietre che componevano le pareti esterne erano ancora tutte al loro posto, anche se in qualche modo sembravano completamente diverse: come Dylan, avevano abbandonato il grigio chiaro dell’infanzia per assumere i colori più scuri (ora marrone, ora nero, a tratti color cenere) della maturità. Il piccolo prato sul quale si affacciava la casa, delimitato da un basso muretto di pietre irregolari, era verde e ben tenuto, ma non particolarmente curato o bello da vedere. Dylan ricordava quando sua madre ci aveva piantato dei cespugli di rose e suo padre si era ritagliato un pezzetto di terra da coltivare.
Appoggiò una mano sul cancelletto di legno, scrostato e imbarcato in più punti, lo aprì e varcò la soglia.
«Cerca qualcosa?» chiese una voce burbera dietro di lui. Dylan si voltò lentamente.
Si trovò davanti a un uomo con dei folti baffi a spazzola e un’espressione arcigna incorniciata da un paio di sopracciglia cespugliose. Gli occhietti piccoli lo fissavano, socchiusi e sospettosi.
Quell’uomo aveva un’aria famigliare. I suoi vestiti, una camicia di flanella blu, un vistoso giubbetto senza maniche rosso e una coppola marrone, erano banali, quasi brutti, ma a Dylan non erano estranei.
“È la caricatura di un pecoraio” pensò, scacciando quella sensazione.
«Cerca qualcosa, le ho chiesto» ripeté l’uomo. Stava visibilmente perdendo la pazienza.
«Mi scusi» rispose Dylan, lasciando andare il cancello e tornando sulla strada di acciottolato sulla quale si affacciava la casa.
Appena fece un passo verso di lui, l’uomo si irrigidì, fissando Dylan dall’alto in basso. Stava per fare un passo indietro, ma poi rimase fermo sul posto, assumendo un’espressione strana, un misto tra il disgusto e la rabbia.
«Mi scusi tanto, non volevo spaventarla» si scusò Dylan, alzando le mani. «Mi chiamo Dylan O’Brien, questa è la casa della mia famiglia. Ci venivamo sempre quand’ero piccolo, fino alla morte di mia madre…»
Per fortuna il vecchio lo interruppe, perché le parole di Dylan si bloccarono in gola quando parlò di sua madre.
«Mi ricordo di te. Sei il giovane Dylan» disse l’uomo.
«Mi conosce?»
«Certo. Conoscevo tutta la tua famiglia. Il vecchio Sean e sua moglie Mary, certo.» Sul volto dell’uomo si fece largo un sorriso che portò in alto con sé anche i baffoni grigi. Eppure c’era ancora qualcosa di… sbagliato nei suoi occhi. «Sono Doyle. Colin Doyle. Il custode.»
Dylan fu travolto da un fiume di ricordi. Il signor Doyle, sempre con i suoi baffoni a spazzola e la coppola in testa, organizzava giochi per tutti i ragazzi di Salthill Road quando Dylan era piccolo e i suoi genitori lo portavano lì in vacanza. Appena arrivavano a Tullow, tutti i bambini chiedevano del signor Doyle, ansiosi di partecipare a una caccia al tesoro, a una gara di corsa o a un torneo di nascondino.
«Lasciate in pace il signor Doyle» dicevano i genitori, non appena incontravano il custode per la consegna delle chiavi.
«Oh, non preoccupatevi, mi fa piacere» diceva il signor Doyle, scompigliando i capelli dei bambini in un cenno di saluto.
«Ma certo» disse Dylan, tendendo la mano verso il custode. «Il signor Doyle, mi scusi. È passato tanto tempo.»
Gli occhi di Doyle saettarono alla mano di Dylan. Poi il custode sorrise e salutò toccandosi il cappello.
Dylan abbassò la mano. «E mi dica, come sta? E come sta sua moglie? Improvvisamente me lo ricordo come se fosse ieri, i suoi timballi, le patate arrosto e le torte…»
«Rosy sta bene, grazie» disse Doyle, abbassando lo sguardo. «È anziana ormai. Non esce quasi più dal cottage, su» aggiunse, indicando la collina che si ergeva alla fine della strada.
E poi Dylan si ricordò di Belle. La figlia di Doyle e sua moglie, la copia sputata della madre. Quante giornate avevano passato insieme, lì a Tullow. Giocavano nei boschi, andavano a raccogliere i sassi in spiaggia che poi lanciavano dalla scogliera, facendo a gara a chi li lanciava più lontano. Rincorrevano le pecore nei campi, facendo finta di essere cani pastore, e si ingozzavano con i manicaretti che la signora Doyle preparava soltanto per loro.
«E Belle? Come sta Belle?» chiese.
Un’ombra velò il volto del custode, mentre si abbassava il berretto sugli occhi e con un filo di voce diceva: «Belle è morta.»
   
 
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