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Autore: Gwen Chan    03/10/2021    0 recensioni
Hanno trovato l'amore in un luogo senza speranze
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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E così tanto è successo in mezzo
 
Il soldato francese non ha smesso di parlare per un solo istante da quando è tornato dai suoi compiti di guarnigione, circa un’ora fa. Ad essere onesti, potrebbe anche essere una conversazione interessante, se Arthur riuscisse a capire una parola di quello che dice. Purtroppo il suo francese, per ora, si limita per lo più a ordini come “sparare” o “gas” o “ritirarsi” e non pensa che avrà bisogno di imparare molto di più. Inoltre, non è che i francesi sembrino molto interessati a imparare l’inglese.
“Va bene, vuoi stare zitto per favore!” esclama, in inglese, chiudendo il libro che sta cercando di leggere; con il costante rumore di fondo, è mezz’ora che è bloccato sulla stessa frase.
“Quoi?” Risponde il soldato francese, con gli occhi enormi. 
“Il t’as dit de la fermer”, dice un altro soldato, al che il primo annuisce e poi continua a parlare.
“C’est quoi?”, chiede. Arthur lo guarda accigliato. Il secondo soldato fa per intervenire ma il primo lo ferma. “Le livre”, spiega, indicando il libro di Arthur. 
“Una storia”, mormora Arthur, nascondendo la copertina per forza d’abitudine. Dopo mesi passati a cercare di costruirsi una reputazione, non ha intenzione di far scoprire a qualcuno che gli piace trovare conforto in storie d’amore a buon mercato. I pochi che lo sanno pensano che li legga per fantasticare su donne ingenue e prosperose, in mancanza di un’alternativa migliore. La verità non potrebbe essere più diversa, il che è un motivo in più per non ostentarlo.
Sua madre gliene manda uno nuovo ogni volta che può. Questo l’ha ricevuto circa un mese fa, e l’ha già letto abbastanza volte da impararlo a memoria. 
“Oh, une histoire”, si rallegra il soldato francese. Allunga il collo per dare una sbirciatina, ma Arthur gli dà le spalle. 
“C’est très impoli, ça. Et vous pourriez au moinsvous présenter”.
Arthur si acciglia. Tirando le somme, “impoli” suona quasi come “impolite”. Di certo non lascerà che un soldato francese a caso lo accusi di mancanza di buone maniere; soprattutto non quando stava solo pensando ai fatti suoi, e tutto quello che ha chiesto è un po’ di silenzio.
“Va bene allora”, si volta con un movimento brusco, “mi chiamo Arthur, Arthur Kirkland, e non mi piace essere interrotto quando leggo”.
Il soldato francese inclina leggermente la testa, poi fa un piccolo sorriso e gli offre la mano. “Francis Bonnefoy, enchanté”.
Tra i due, pensa Arthur, è l’unico. 
 
***
 
L’inverno nelle terre del Belgio con uniformi fatte per i climi estivi può essere descritto solo come assolutamente gelido. Con le mani infilate sotto le ascelle, Arthur rabbrividisce, i denti che battono così tanto che probabilmente sta trasmettendo messaggi in codice morse. 
Intorno alle ginocchia e ai piedi, c’è una coperta militare così umida, sottile e piena di buchi che potrebbe anche non averla affatto. 
Cerca nelle tasche un fiammifero, poi si chiede se valga la pena sprecarlo pe qualche secondo di conforto.
“Il fait froid, non?”.
Una voce richiama la sua attenzione. A meno di un metro da lui, Francis si sta strofinando le mani e sbuffando. Dal modo in cui sta tremando, non sembra aiutare.
Ha anche lui una coperta, e anche quella sembra più simile a un merdoso fazzoletto usato, infilata sulle spalle e intorno al busto a formare una specie di bozzolo.
“Mais il pourrait faire moins froid si on était ensemble,” continua Francis, accarezzando il terreno freddo accanto a lui, gesticolando ad Arthur di avvicinarsi. 
Arthur si stringe di più le ginocchia al petto e si rifiuta di muoversi. Non è così disperato da aver bisogno di coccole con uno sconosciuto. Soprattutto non uno sconosciuto francese. Soprattutto non uno straniero francese che, da quello che ha visto, ha un enorme problema a tenere le mani a posto.
Ha la sua coperta, grazie mille.
“Tu vas geler”, mormora Francis in quella sua lingua gracchiante, si alza in piedi e con pochi passi preme nello spazio di Arthur. Da come solleva le braccia, Arthur è certo che stia per abbracciarlo. Salta via per puro istinto.
“Che diavolo stai facendo?” grida, sbattendo le mani per scacciare l’altro. Ma è lento e il freddo lo ha reso letargico, quindi può fare poco per impedire a Francis di avvolgere la sua coperta intorno alle spalle di entrambi. È piccola, appena sufficiente a coprire uno dei due, costringendoli a stare pressati insieme e, nonostante la protesta di Arthur, è davvero più calda. 
“Oh, va bene. Ma non muoverti”. Fa una pausa. “Non significa niente”, avverte, resistendo all’infido impulso di accoccolarsi un po’ più vicino.
Perché non ha bisogno di accoccolarsi con nessuno. È solo necessario per non morire di freddo fino a quando i loro doveri fuori non saranno finiti. 
“D’accordo, d’accordo”, ridacchia Francis, ma gli avvolge comunque un braccio intorno alla vita per tirarlo ancora più vicino. Arthur gli dà una gomitata in risposta.
Se l’inferno esiste, deve essere una trincea sotto settimane di pioggia, che si mescola con la neve sporca di cenere, fango e sangue. Si infiltra sotto i vestiti di Arthur e nei suoi capelli. Deve essere stato biondo sotto, una volta. 
Anche quelli di Francis sono biondi e spesso ci passa le dita. Arthur dice che dovrebbe preoccuparsi di più della guerra e meno dei suoi capelli. Francis sorride, dice che è solo invidioso. 
La cosa peggiore è che ha ragione.
Francis sta sgranocchiando una specie di biscotto che logicamente non deve essere molto diverso da quelli presenti nelle razioni britanniche, ma guardandolo sembra molto più appetitoso dato che Francis sembra assaporare ogni singolo morso. Il biscotto brilla leggermente di una sostanza che assomiglia troppo alla marmellata perché Arthur non cominci a sbavare.
Lo stomaco di Arthur brontola alla vista, con l’acquolina in bocca per uno stupido biscotto, come un bambino davanti a una vetrina di pasticcini e dolci. 
Gira la testa prima che Francis possa sorprenderlo a fissare con la voglia negli occhi. Non vuole la pietà di nessuno. Sta perfettamente bene con il cartone che sono le razioni britanniche. 
Di nuovo, non è abbastanza veloce. Francis smette di sgranocchiare il biscotto e lo guarda, con una specie di espressione compiaciuta sul volto. Poi, si fruga nelle tasche, trovando pezzi di un altro biscotto, sbriciolato. Prende anche un piccolo pacchetto, strizzandolo con i denti.
“Tu en veux??” Offre le briciole e la marmellata sul suo palmo aperto, mettendo le mani a coppa per cercare di proteggerle dalla pioggia.
Arthur incrocia le braccia sul petto. “Non le voglio.” Cerca di essere convincente nonostante il suo stomaco e il fatto che, pur essendo a pezzi, il biscotto sembra ancora molto buono. La marmellata, poi, deve essere deliziosa. Sono mesi che non mangia marmellata.
“Allez”, insiste Francis, sventolando i pezzi nel naso di Arthur quasi schiaffeggiandolo nel processo. Probabilmente è solo la fame che esagera, ma Arthur giurerebbe che hanno anche un buon profumo. E le trincee non danno molta scelta tra fame e orgoglio.
“Grazie” mormora, strappando le briciole dalla mano di Francis.
Il biscotto è veramente buono. In pochi secondi è finito. Francesco sorride e ne spezza un altro.
“C’est le dernier”, dice scusandosi, aprendo le mani per indicare il vuoto. Arthur alza le spalle. 
“Meglio di niente”.
 
 
***
 
 
 
Oggi Francis non si vede da nessuna parte. Non passa molto tempo prima che, superata la solita barriera linguistica, Arthur scopra che è stato mandato qualche settore più in là per aiutare a riparare e rinforzare la trincea insieme ad altri uomini del suo gruppo. La settimana scorsa ha nevicato senza sosta e l’ultima cosa di cui hanno bisogno è che le trincee crollino. Da parte sua, anche Arthur è stato messo al lavoro, maledicendo le sue mani piene di vesciche. Anche con i suoi guanti di lana.
Almeno oggi c’è silenzio, salvo le esplosioni occasionali che sono ormai la norma. È quasi troppo tranquillo.
Oggi qualche chiacchiera avrebbe reso il lavoro meno pesante e faticoso. Anche solo un po’ di gracidare andrebbe bene. 
Naturalmente, Francis ha dovuto scegliere proprio oggi per essere messo in servizio altrove, oggi che Arthur non ha né il tempo né la forza di leggere una sola pagina. 
I compagni di Arthur sono per lo più taciturni come lui. Sono tutti troppo concentrati a finire il loro lavoro il più velocemente possibile e tornare alla relativa sicurezza delle trincee. Non è mai un buon segno quando le trincee cominciano a sembrare un bel posto dove stare. 
Deve essere il fatto che il tempo libero relativamente abbondante ha dato alla maggior parte di loro la possibilità di riprendere le loro attività preferite, e di provare almeno a credere che ci sia ancora qualcosa di più nella vita di questa routine. C’è chi scrive, chi disegna - come Francis e anche Arthur, ogni tanto - chi canta, chi gioca a carte. 
Ci vuole tutto questo per sopravvivere all’inverno. 
 
 
***
 
“Tieni.”
Arthur non spreca altre parole prima di sbattere nelle mani di Francis un pacchetto, piccolo e avvolto in fogli di giornale oleosi.
“C’est quoi, ça?”
Arthur gli fa cenno di aprirlo. Dovrebbe andarsene anche lui; non ha interesse a restare per vedere se il suo regalo è stato apprezzato. Beh, non è che sia un regalo. È solo un pagamento per i biscotti, tutto qui. Non gli piace essere in debito. 
Francis annuisce e strappa con cura la carta per rivelare un paio di spessi guanti di lana. 
“Oh, pour moi?”
“Certo.”
 Naturalmente, deve fare domande stupide. “Mi è capitato di trovarne un paio in più”.
Ha cercato quel paio per tutta la lunghezza delle trincee e ha pagato una fortuna in favori per questo. Ma tutto questo, Francis non ha bisogno di saperlo. Come non ha bisogno di sapere che erano troppo grandi e Arthur ha dovuto aggiustarle. Deve essere l’orgoglio di veder riconosciuto il suo lavoro che lo trattiene qui. Incrociando le braccia, gira la testa per nascondere le sue aspettative mentre Francis si toglie attentamente le bende che usa per proteggersi le mani e prova i guanti. 
“Ils sont bien chauds, merci!” commenta, un sorriso di pura beatitudine gli illumina il viso. E Arthur pensa di voler fare una foto, adesso, e salvare quell’immagine per sempre
 
***


Alcuni giorni sono più belli di altri perché arrivano lettere e, se qualcuno è fortunato, pacchetti da casa. Arthur ha quasi strappato la sua parte dalle mani del soldato che distribuisce la posta. C’è una lettera - a casa tutto bene, tutti e quattro i fratelli Kirkland sono ancora vivi - e un piccolo, ma spesso pacchetto rettangolare. Finalmente qualcosa di nuovo da leggere. Dopo la sua ultima richiesta, la mamma ha persino cambiato la copertina con qualcosa di più modesto, meno smielato. Il contenuto, tuttavia, è lo stesso: eroine ingenue che cadono dritte nelle braccia toniche di uomini affascinanti. Arthur ignora le signore e va dritto al punto in cui l’autrice spende paragrafi per descrivere il suo eroe. Non passa molto tempo prima che si perda in fantasie che hanno ben poco a che fare con quello che c’è scritto sulla carta.
Geme, seppellendo la faccia nel palmo. D’altronde, sotto i vestiti sporchi, lo strato di fango e i pidocchi, Francis è molto bello. È inutile negarlo. 
E lui è fottuto - è completamente, innegabilmente fottuto.
“Oh, un autre livre?” Francis chiede solo qualche giorno dopo, stando a pochi passi da lui e saltando da un piede all’altro. Prima che Arthur possa scappare, gli arriva alle spalle, sbirciando. Arthur si china sul libro in risposta
“Sì. Non sono affari tuoi”.
Sbuffando, Francis si limita ad alzare le spalle, esaminando la trincea alla ricerca di un punto un po’ meno fangoso e ghiacciato del resto dove potersi sedere. Arthur ridacchia. Buona fortuna. Le trincee sono un pantano per miglia e miglia. Non importa quante facce di disgusto Francis possa fare, le cose non cambieranno. Alla fine, finisce per accovacciarsi con eleganza accanto ad Arthur. Tenendo i gomiti sulle cosce, prende una busta aperta da sotto la giacca dell’uniforme. Questa volta è Arthur che non può fare a meno di sbirciare. Senza muoversi da dove si trova, lancia sguardi sottili a Francis, cercando di indovinare quale fotografia stia guardando e quali parole leggendo.
Probabilmente qualche fidanzata lasciata a casa, a giudicare dall’espressione sciocca e innamorata del suo viso. Dentro Arthur, qualcosa brucia, all’altezza del petto.
Allunga il collo un po’ di più, cercando di indovinare che faccia debba avere la ragazza di Francis. Senza dubbio è una bella e prosperosa bellezza francese con capelli perfettamente pettinati, labbra rosse e un neo .
“Deve essere carina”.
“Quoi?”
“Quella.”
Arthur solleva un dito per indicare la foto. La comprensione illumina il volto di Francis, che prende la foto e la passa ad Arthur. 
Non ritrae una donna. Non ritrae nessuna persona, in realtà, solo un paesaggio di dolci pendii. Davanti, a sinistra, una bella tenuta di pietra bianca, e dietro, file e file di vigneti.
Tutto sembra molto meridionale, mediterraneo. Molto francese.
“Casa tua?” chiede, rigirando la foto a Francis. Lui non capisce. Il suo inglese è pessimo come il francese di Arthur.
“La tua casa?” Arthur ripete, con il dito sulla casa nella foto. La indica, poi Francis, e mima persino la forma di una casa con le mani. Hanno decisamente bisogno di un dizionario.
Francis annuisce con entusiasmo. “C’est chez moi”, dice.
“Beh, è bello”.
Arthur studia di nuovo la foto, dall’albero carico di melograni sul davanti, ai campi di quella che suppone essere lavanda sullo sfondo.
È davvero, davvero bello. È il tipo di posto che fa venire voglia di visitarlo. 
Francis si sporge in avanti per indicare il vigneto. Ce sont mes vignes”, dice. “Ça, c’est maison. Là, ce sont mes arbres, mes champs”, elenca, indicando ora la foto, ora se stesso. 
La curiosità di Arthur si accende.
“Tuoi?”
Dentro di sé sa che Francis non può essere un nobile, altrimenti non sarebbe lì con lui a congelarsi il culo. Allo stesso tempo, non può credere che Francis sia una specie di contadino. Non corrisponde a quello che Arthur ha visto di lui; ma, d’altronde, non è che abbia visto molto.
“Les miens”, conferma Francis, la sua voce dolce per affetto e nostalgia. “Bon, et de mes parents, évidemment. On a une petite ferme. Mais il faut voir ça en été, avec le soleil. Et c’est en noir et blanc. C’est mieux en couleur”.
Continua così per un po’. Arthur annuisce per mostrare che sta ascoltando, per una volta realmente interessato a capire. Non ha avuto molta fortuna. 
“Et toi?” 
Arthur alza le spalle. Non ha mai pensato che fosse necessario condividere la sua vita privata. La maggior parte delle persone qui pensano che sia una specie di accademico e, onestamente, non ha voglia di far credere il contrario. 
Con Francis, tuttavia, le cose sono diverse.
“A tailor. Un sarto”, risponde, con le dita che già mimano il taglio e la cucitura di un pezzo di stoffa. La parola, però, deve avere un equivalente abbastanza vicino in francese perché Francis dice solo, 
“Oh, un tailleur!”, con un tono come se non potesse crederci. 
Beh, questa è una cosa che hanno in comune.
 
***
 
Si baciano in una notte di nebbia mentre sono di sentinella, con le dita bruciate da una sigaretta ormai ridotta a un mozzicone. È veloce. Un momento stanno parlando - Francis parla, Arthur fa finta di ascoltare - e un momento dopo Francis si gira e sfiora le sue labbra contro quelle di Arthur con dolcezza esitante 
Per una volta, quando Arthur si blocca, non è per il freddo. Fa scattare la testa all’indietro, per puro istinto e abitudine, guardando freneticamente a destra e a sinistra nel caso qualcuno abbia visto.
Ma la nebbia è fitta intorno a loro e un leggero bacio a stampo non è la più aperta dimostrazione di affetto in trincea. Le abitudini, comunque, sono difficili da uccidere 
“Désolé, j’ai cru... enfin bon, peu importe.” 
Dal tono della voce di Francis, è chiaro che è deluso e un po’ ferito. Arthur non vuole niente di tutto questo. Ma fa sempre confusione quando si tratta di sentimenti, tanto è abituato a nascondere che è l’unica risposta che conosce.
“No, non intendevo...” blatera, rendendosi conto mentre lo dice di quanto le parole siano inutili. Le azioni, invece, sono più facili. Deve strizzare gli occhi nella nebbia per avere una vaga idea di dove sia Francis, anche se riesce a percepire la forma del suo corpo accanto a lui. Gli riempie la pancia di calore, una sensazione molto simile al conforto.
“Mi piaci”, sussurra alla forma nella nebbia e si china per chiudere lo spazio tra loro. La prima volta bacia la guancia di Francis. Poi, Francis gli stringe la nuca e gli guida la testa un po’ di lato, finché le loro labbra si incontrano. Nel suo petto, il cuore di Arthur fa un piccolo salto, quasi un singhiozzo di gioia. 
Si baciano per un po’, a lungo, tenero e dolce, abbracciandosi anche, finché un rumore improvviso riporta Arthur sulla Terra. Sono ancora in servizio di sentinella, ci sono ancora nemici dall’altra parte della terra di nessuno, e c’è ancora la possibilità, anche se ridotta visto il tempo, che un cecchino stia mirando a loro proprio adesso. 
Nella notte, sente Francis sbuffare il suo dispiacere e lui premere le loro labbra un’ultima volta. Poi prende la mano di Arthur. Artù si schernisce, forte e chiaro, ma non gliela strappa.
 
 
***
 
Comunicano soprattutto attraverso i gesti. Anche se Arthur è riuscito a trovare un dizionario, dover controllare ogni due parole non è il massimo della conversazione.
Alla fine, è più facile e veloce incontrarsi a metà strada. Anche parlando solo poche parole delle loro rispettive lingue, riescono a capirsi abbastanza. 
Quando non ci riescono, spesso vale la pena farsi una risata e Dio solo sa quanto ne abbiano bisogno adesso. A volte è Arthur la vittima di queste incomprensioni, che spesso lo lasciano con il broncio nel suo piccolo angolo della trincea. A volte, ha la sua piccola vendetta, ridendo così forte degli errori di Francis che gli ufficiali devono rimproverarlo per essere troppo rumoroso. 
Di solito, Francis parla delle sue terre, dipingendole con le parole sopra il grigiore delle trincee e la terra gelata e fangosa che continua a scorrere davanti ai loro occhi. Parla dei suoi vigneti e del piccolo frutteto e della fattoria e di come gli manchi tutto lì. 
Arthur ascolta, pieno di meraviglia. Andrà a visitare la piccola tenuta di Francis una volta che la guerra sarà finita e si lamenterà di tutto solo per una questione di principio. Dirà che il sole è troppo luminoso, che l’erba è troppo verde e che il cibo è troppo strano, mentre passerà tutto il suo tempo all’aperto a rimpinzarsi della cucina locale.
“Va bene, ma non mangerò lumache”, dice, pur sapendo che probabilmente mangerà anche quelle. Le mangerà e ha la sensazione che potrebbero anche piacergli. Mangerà qualsiasi strano abominio francese che Francis vorrà presentargli.
Quando Arthur dovrà tornare a casa, avrà bisogno di vestiti nuovi. Questo, per fortuna, non è mai stato un problema. Quello che non può comprare, lo può riparare e aggiustare. Dimenticate le pistole, aghi e filo sono le sue armi preferite. 
 
 
Sono male assortiti, non c’è dubbio. Spesso sono più concentrati sulle loro differenze che sulle loro somiglianze, ma è proprio perché sono così male assortiti che stanno così bene insieme.
Anche la situazione aiuta. Arthur ha la sensazione che litigherebbero molto di più se non fossero bloccati in trincea a cercare di sopravvivere alla guerra e al freddo. In qualsiasi altro posto, sarebbero stati solo degli estranei.
Eppure, a volte, sembra che il destino li abbia messi insieme, anche solo per guardare e meravigliarsi di come si completano a vicenda.
Francis è un contadino e l’hobby di Arthur è il giardinaggio. Le rose sono le sue preferite e va molto fiero dei cespugli che coltiva in casa. Pensa che a Francis piacerebbero, non prima di aver criticato le sue scelte di giardinaggio. Darà dei consigli che Arthur farà solo finta di ignorare. Si chiede se quando tornerà a casa troverà qualche cespuglio vivo. Quando si è arruolato hanno detto che la guerra non sarebbe durata più di qualche mese, nel peggiore dei casi. Sono già passati due anni.
La passione di Francis sono i vestiti. Non perde mai l’occasione di commentare come la moda francese sia la migliore del mondo - e sicuramente migliore di quella britannica - e quando può, si fa mandare le riviste di moda da casa. Gli piace sfogliarle e scegliere quello che gli piacerebbe comprare, se ne avesse i mezzi. Poi, si lamenta di vivere così lontano dalla capitale, in un villaggio dimenticato dove le ultime tendenze arrivano solo quando non sono più di moda.
Arthur studia i modelli e finge di deriderli. Non sono nemmeno così complicati; potrebbe cucirli ad occhi chiusi, e potrebbe fare molto meglio.
Cucirà un vestito a Francis quando torneranno a casa. Un abito elegante, a due pezzi, perfettamente su misura. Uno fatto per lui e solo per lui, per sfilare la domenica - e lui sa che a Francis piace sfilare.
 
***

Fare l'amore non è qualcosa che pianificano, ma una notte, mentre la maggior parte degli altri soldati sta dormendo e quelli che non dormono sono troppo preoccupati per occuparsi di loro, si rendono conto che un bacio non sarà sufficiente. Presto si stringono l'uno nello spazio dell'altro, le mani corrono su tutto i loro corpi.
È dolce come può esserlo fare l'amore nella sporcizia e nella neve, senza il lusso dell'intimità. 
Sussurrando ciò che Arthur crede debbano essere dolci scemenze in francese, Francis lo trascina in grembo e gli riempie il viso di baci come distrazione quando lo prende. Arthur stringe i denti e morde la stoffa sporca dell'uniforme di Francis per soffocare le sue grida. 
Le lacrime si congelano agli angoli dei suoi occhi. Francis bacia anche quelle. Gli accarezza la schiena per calmare il nodo di tensione dei suoi muscoli e si muove solo quando Arthur comincia a rilassarsi, per quanto può con la sciagura sempre presente che aleggia sulle loro teste. 
Farsi sparare ora sarebbe un modo molto stupido di morire. Così Arthur dà loro solo il tempo di raggiungere l'orgasmo e non un secondo di più. 
Le trincee non sono il posto per l'amore; e fare l'amore in trincea, se si può chiamare così, è un affare sporco e disperato. 
 
***


La maggior parte del tempo stanno bene semplicemente stando vicini l’uno all’altro, ognuno a fare le proprie cose. Soddisfa il bisogno di contatto umano di Francis e bilancia Arthur sulla fragile linea che separa lo stare da soli dal sentirsi soli.
“On joue?” Francis interrompe la sua lettura, agitando una piccola scatola di carte che sicuramente ha visto giorni migliori. Prima che Arthur possa chiedersi cosa abbia appena detto e cosa ci sia dentro la scatola, si siede e la apre per rivelare un mazzo di carte. Le carte sono rovinate, spesso piegate agli angoli, alcune a un passo dallo spezzarsi a metà.
“Un ami me les a prêtées”, spiega mentre mischia. “Tu sais jouer, n’est-ce pas?”.
“Dipende.” Arthur alza i palmi delle mani in risposta. Poco importa che sappia giocare a carte quando non sa nemmeno che gioco ha in mente Francis; e dubita che troveranno una via di mezzo. 
“Va bene, cosa proponi?”
Come previsto, Francis menziona un gioco che Arthur non riconosce; né mostra segni di comprensione quando Arthur rilancia con una controproposta. Ne prova un’altra senza maggior successo. Anche Francis lo fa, e di nuovo Arthur deve scuotere la testa.
“Bene.” Si rassegna, gesticolando verso il mazzo. “Proviamo. On joue. Questo, il primo che hai detto. Le premier”.
Spera che Francis gli illustrerà le regole mentre giocano. “Ma giochiamo a carte scoperte”, aggiunge, mostrando le sue carte per sottolineare il concetto. Gli ci vogliono tre partite per iniziare a capire le regole. Alla quinta inizia a divertirsi. Alla decima, sta già strizzando gli occhi e accusando Francis di barare e di sfruttare la barriera linguistica. Questo non gli impedisce di chiedere un’altra partita.
La volta successiva che l’amico di Francis gli presta le carte, tocca ad Arthur insegnare a Francis uno dei giochi che conosce, e godersi qualche vittoria facile. Se pensava di mostrare pietà, si sbaglia. Inoltre, più giocano, più è chiaro che Francis non ne ha bisogno. 
Arthur ha ancora il maggior numero di vittorie.
 
 
***
 
Sono i primi giorni di marzo quando viene lanciato un nuovo attacco.
Un altro tentativo suicida per conquistare un altro metro di terra. Oggi hanno il lusso e la maledizione di un cielo limpido e Arthur può già prevedere il risultato. Il brivido della battaglia è passato da tempo e la speranza si sta lentamente spegnendo. È stanco. A volte vorrebbe solo scavare una fossa e stare lì ad aspettare l’inevitabile.  Non ha mai chiesto di essere qui. Suppone che nessuno di loro l’abbia fatto.
E questi, questi potrebbero essere i suoi ultimi momenti. Questo, controllare la sua pistola con il culo nel fango, potrebbe essere le ultima cosa che fa prima di morire. In pochi secondi potrebbe esalare il suo ultimo respiro in questa terra dimenticata da Dio. Potrebbe essere fatto a pezzi entro un’ora. Potrebbe essere una di quelle anime dannate che ha visto all’ospedale da campo con arti mancanti e facce sfigurate. Questo suona ancora peggio. Non vuole questo. 
Non è giusto che muoia o che rimanga storpio per sempre. Ha solo ventitré anni, con aspirazioni e progetti e un’intera vita davanti a sé. 
Ha baciato Francis ieri sera, velocemente e a malincuore, amareggiato da tutto lo stress. Non ne è felice, soprattutto se pensa che potrebbe benissimo essere l’ultima volta. 
Ma se la pensa così, è già condannato. Così si costringe a concentrarsi su ciò che può controllare, che la sua pistola sia ben oliata, la sua maschera a gas fissata alla cintura, i suoi stivali allacciati.
Tutto il resto si trasforma presto in qualcosa di fangoso e distante. 
Ci vuole l’improvviso ma inconfondibile bruciore agli occhi per farlo finalmente tornare in sé. Lo riporta nel mezzo di una ritirata disordinata, con tutte le munizioni finite e i suoi compagni che cadono a destra e a sinistra. 
Intorno a lui, le trincee sono una massa di morti e di feriti che presto si uniranno a loro. L’aria si riempie di una miscela cacofonica di inglese, francese e dei molti dialetti delle colonie. Arthur li ignora tutti, troppo impegnato a chiamare un solo nome. Alla fine, un soldato a caso gli afferra il braccio e lo tira avanti. 
“T’es Arthur, hein? Francis te cherchait”.
Francis è sdraiato con la schiena contro il muro della trincea, entrambe le mani premute sullo stomaco. Ad Arthur basta un’occhiata per capire che non va bene, che non c’è speranza, e che tutti i loro progetti non dureranno oltre domani.
“Francis!” rida, spingendo da parte i soldati per inginocchiarsi al suo fianco. Il suo volto è corrucciato dal dolore, un flusso di parole che Arthur non riesce a capire sgorga dalla sua bocca.
“Enfin te voilà” gracchia Francis. “J’ai fait une bêtise.” Cerca persino di ridere, ma non può nascondere il fatto che ha paura. È spaventato e ferito e sofferente e improvvisamente Arthur non sa cosa fare. Passa goffamente un braccio dietro la schiena di Francis per sostenerlo, mentre gli cinge la testa. 
“Idiota, sei un idiota” lo insulta Arthur, perché non poteva essere un po’ più attento. Doveva farsi sparare.
“Désolé. J’ai pas réfléchi” Francis mormora le sue morbide scuse. Tutta la rabbia di Arthur si scioglie in un istante. Non è il momento di litigare.
“Zitto” ordina allora. “Andrà tutto bene” cerca di dire, ma sembra che non riesca a trovare la voce. Non riesce a parlare, la gola gli fa male per il gas e il groppo bloccato lì. Lo dice sapendo di mentire. Forse è per questo che non riesce a parlare.
Francis si lamenta. È improvvisamente così piccolo, minuscolo, fragile e mortale tra le braccia di Arthur. Arthur lo culla, dolce e disperato.
Francis lo guarda con gli occhi annebbiati e vuoti. 
“Tout -” Arthur cerca nella sua memoria, “va bien. Ça va bien se passer. Un medico, per favore”, grida allora. Ma ci sono troppi feriti intorno a loro e non c’è abbastanza tempo. Quelli ritenuti spacciati devono essere lasciati al loro destino.
Questo non impedisce ad Arthur di chiamare, così come non smette di dire a Francis che tutto andrà bene.
Francis trema contro di lui, il terrore ora gli dipinge il viso. Cerca di alzare il braccio e non ci riesce, troppo debole. Allora Arthur lo tiene stretto. Lo abbraccia e gli accarezza i capelli, spazzolandoli via meglio che può dalla sua fronte sudata. Cerca di mettere la tenerezza e l’amore dove non c’è posto per loro.
Non è bello. Non è romantico e nemmeno meravigliosamente tragico come nelle storie d’amore.
È orribile e lento, terribilmente lento. Il sangue filtra dalla ferita di Francis sul suo ventre per macchiare le dita di Arthur. Lui tira un respiro basso e sibilante.
“J’ai mal” piange, con la voce più bassa di un sussurro, “j’ai très mal.”
Arthur può solo abbracciarlo più stretto. 
“Lo so” mormora, con la voce roca. “Lo so. Mi dispiace. Passerà presto. Andrà tutto bene”.
Sono per lo più parole vuote, ma lui le ripete comunque, più e più volte finché non riesce più a parlare e le braccia gli fanno male per il peso. 
“Se n’è andato”, dice qualcuno, mettendo una mano sulla spalla di Arthur. “Lascialo andare”.
Arthur non lo lascia andare. Non può. Il suo corpo si rifiuta di muoversi, bloccato al suo posto come Francis, irrigidito dalla morte. 
Ci vogliono altri due soldati per tirare via Arthur. Qualcuno gli sbatte una pala contro il petto, e si gridano ordini. C’è del lavoro da fare.
E Arthur si mette al lavoro. Si immerge nel lavoro e lascia che la sua mente vaghi altrove.
Diventa presto un’abitudine. Quando la guerra finisce, è il filo sottile che mantiene intatta la sua sanità mentale, insieme alla foto di un bel paesaggio francese che tiene in tasca. Conta i giorni, pensando che presto sarà lì.
Che peccato che il gas gli abbia preso un occhio e quasi accecato l’altro. 
 
 
***


È una bella giornata di sole quando Arthur arriva alla stazione di Nizza, con due giorni di viaggio già sulle spalle e qualche ora in più. Che gioia!
Francis, naturalmente, non poteva vivere in una città propriamente collegata. Doveva invece essere di qualche villaggio dove arriva solo un autobus sgangherato. Quando passa, cioè.
Ciliegina sulla torta, non un’anima qui parla una parola d’inglese. Beh, c’era da aspettarselo. 
Eppure, il paesaggio mentre l’autobus zoppica su per la strada vale tutto. Il viola e il giallo tingono i dolci pendii, le colline punteggiate di vigneti e ulivi. Il cuore di Arthur si stringe. 
La Francia meridionale è esattamente come se l’aspettava. C’è troppo sole, la gente è troppo rumorosa e tattile, il cibo è disgustoso e lui non vorrebbe mai andarsene. Può lamentarsi di tutto mentre pianta ancora solide radici.
Peccato che l’unica persona a cui vorrebbe veramente lamentarsi non sia lì ad ascoltarlo.
Dovrebbe essere lì con lui, a mostrargli il posto, vantandosi di come tutto sia più bello e migliore lì. Dovrebbe trascinarlo per i campi, ficcandogli in bocca bacche e uva matura e rubando baci sotto il groviglio di rami
Dovrebbe essere lì a consegnare ciò che ha promesso. 
È pomeriggio inoltrato quando l’autobus lo lascia finalmente davanti a un mucchio di case. Ringrazia l’autista nel suo francese rigido e usa la foto come riferimento. 
Cammina quasi fino al cancello, fino al cortile dove un vecchio uomo che Arthur presume essere il padre di Francis sta raccogliendo albicocche su una scala. 
“Té, vous cherchez quelque chose?” L’uomo grida, il suo accento denso. 
“No... stavo...” balbetta, sfogliando il suo dizionario, “Je regardais seulement”.
Una parte di Arthur vorrebbe poter andare da lui e da sua moglie e dire: “Mi chiamo Arthur. Ho combattuto con vostro figlio durante la guerra. L’ho tenuto mentre moriva. Sono stato l’ultima persona che ha visto. Lo amavo e mi manca ogni giorno”. 
Ma Francis non ha mai parlato molto dei suoi genitori, non abbastanza almeno per sapere cosa pensassero della sua vita sentimentale; questo, o Arthur non ha mai capito. Il punto è che non ha intenzione di rischiare. 
Quello che è successo in trincea è un’esclusiva di quell’inferno.
Così chiede indicazioni per il cimitero, preoccupandosi poco di quello che l’uomo potrebbe pensare di lui, un inglese, che visita il cimitero di un piccolo villaggio francese.
Il cimitero si trova a circa un chilometro lungo la strada, sulla destra, e una volta lì Arthur cammina tra le file ordinate di tombe, cercando.
Quando la trova, quella di Francis è semplice e senza pretese, ma pulita e ben curata. Nessuno strato di polvere copre la sua foto e nel vaso sono stati messi dei fiori freschi. Questa è la tomba di qualcuno molto amato.
Sta facendo un piccolo sorriso nella foto, posando orgogliosamente con la sua uniforme, ancora giovane e ignaro. 
Sembra un insulto. La sua ultima foto non dovrebbe ritrarlo negli abiti che hanno causato la sua morte. Dovrebbe sorridere nei campi.
Arthur strizza gli occhi dietro le lenti. Non ha portato fiori e ora non sa più cosa fare. Visitare la tomba di Francis era qualcosa di dovuto, qualcosa che doveva fare per chiudere quel capitolo della sua vita. Per riprendersi il pezzetto del suo cuore sepolto lì.
“Ma non hai intenzione di restituirlo, vero?” commenta, inginocchiandosi accanto alla tomba. “Dovevi proprio prenderlo senza il mio permesso? Non potevi aspettare ancora un po’? Sai che ti odio. E non potevi stare più attento. Non potevi lasciarmi in pace. Dovevi - dovevi - proprio non potevi ...”  La sua voce si interrompe in forti singhiozzi. Le lacrime gli bagnano metà del viso. Lo nasconde tra le ginocchia, tremando, con il sole estivo che gli brucia la nuca. 
Ha pianto tra le braccia di sua madre quasi ogni notte il primo mese dopo essere stato dimesso, svegliandosi urlando per gli stessi incubi. 
Non è l’unico. Ha sentito piangere anche i suoi fratelli. Ha visto il maggiore, l’orgoglioso e impavido Alistair, implorare la mamma e bagnare il letto. Alistair ha minacciato di ucciderlo nel sonno se lo racconterà mai a qualcuno. 
Arthur piange meno ora. Le pillole aiutano. Deve prenderne una ogni giorno solo per trovare la forza di affrontare la mattina; spesso non sono sufficienti. Non gli piace prenderle. Gli annebbiano la mente e poi è difficile lavorare. Non gli piace nemmeno piangere, lo fa sentire debole e vulnerabile, e soprattutto odia piangere in pubblico. Oggi, però, il cimitero è vuoto e può permettersi la debolezza. Così, si prende il lusso.
“Questo non è mai successo”, avverte, quando si è finalmente calmato. “E non abituarti. Non ho intenzione di venire fin qui a trovarti di nuovo”.
Sta mentendo.
Nella sua foto, Francis sorride. Lo sa.
 
Note: No, non mi sento in colpa.
 
Angolo dizionario
 
Il t'as dit de la fermer = Ti ha detto di stare zitto
Qu’est-ce que ça? = Che cos’è?
C'est très impoli, ça. Et on peut au moins se présenter = È davvero maleducato. E uno potrebbe almeno presentarsi
Il fait froid, non? =Fa freddo, no?
Mais il pourrait faire moins froid si on est ensemble = Ma potrebbe fare meno freddo se stiamo insieme
Tu vas geler = Gelerai
Tu en veux? = Ne vuoi un po’
Allez = Andiamo
C'est le dernier = È l’ultimo
Oh, pour moi = Oh, per me?
Ils sont bien chauds, merci! = Sono molto caldi, grazie
Oh, un autre livre = Oh, un altro libro
C'est chez moi, = È casa mia
Ceci est ma maison. Ce sont mes arbres, mes champs, = È casa mia. Questi sono i miei alberi, i miei campi 
Bon, et de mes parents, évidemment. On a une petite ferme. Mais il faut les voir en été, avec le soleil. Et ça est en blanc et noire. Il faut voir les couleurs = Be’, e dei miei genitori, ovvio. Abbiamo una fattoria. Ma la devi vedere d’estate, col sole. E poi questa è in bianco e nero. Dovresti vederla con i colori. 
Désolé, j'ai cru... enfin bon, peu importe. = Scusami, credevo … be’, non importa
On joue = Giochiamo
Tu sais jouer, n'est-ce pas = Sai giocare, vero
T'es Arthur, hein? Francis te cherchait = Sei Arthur, vero? Francis ti stava cercando
Enfin te voilà= Eccoti finalmente
J'ai fait une bêtise = Ho fatto una stupidaggine
Désolé. J'ai pas réfléchi = Scusami, non ho riflettuto
J'ai mal, j'ai très mal = Fa male, fa tanto male
Té, vous cherchez quelque chose? = Hey, cercate qualcosa
Je regardais seulement = Stavo solo guardando
 
   
 
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