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Autore: PiscesNoAphrodite    06/10/2021    0 recensioni
"La Dodicesima Casa non mi era mai sembrata così tetra – col suo perimetro regolare e incastonata come un diamante tra le pareti verticali del monte – benché non la ricordassi come un luogo ridente, se non per la presenza dei fiori i quali però aulivano, anch'essi, di un sentore di morte."
***
In un ipotetico post-Ade Misty è riuscito a conquistare le Sacre Vestigia di Libra, a dispetto di trascorsi poco brillanti; ma è possibile che nel raggiungimento di uno status ambito ed elevato non risieda la felicità? Dove cercarla, dunque? In bilico tra la vita e la morte? In gesta eroiche o in qualcosa di più ordinario?
(Narrazione a punti di vista alternati)
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Apollo, Lizard Misty, Perseus Algol, Pisces Aphrodite
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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I prati di asfodelo, capitolo XII

 

 

 

“Come pensi di oltrepassare la soglia di questo mondo?”

“Tramite un oggetto: lo specchio che permetteva ad Aphrodite di catapultarsi a Delfi, o nella dimora olimpica di Apollo. Un dono che il dio stesso gli aveva consegnato di persona, così mi è stato riferito.”

È assolutamente plausibile che ci sia lo zampino di Apollo ad aver ispirato una scelta intrepida e folle, ma a che pro? A conferma di un atto amorevole nei confronti della progenie? E perché no? Mi sovviene proprio ora la rappresaglia del dio, in combutta con Artemide, in risposta all'oltraggio perpetrato a Latona. Da questo e altri miti si evince l'interesse degli dèi o l'attaccamento – morboso – per la propria stirpe. Pertanto dovrei essere più propenso a considerare l'opzione di un'intercessione indiretta – subliminale – del dio, che abbia influenzato Misty in qualche modo. Dopotutto il suo proposito, di voler ricondurre l'anima del dodicesimo Custode nel regno dei viventi, potrebbe realizzarsi e costituire un atto di abnegazione peraltro disinteressato; ma al contempo utile a riabilitarlo agli occhi degli scettici. Io stesso evito di entrare in sintonia con individui non perfettamente allineati – quale lui è – negli schemi di una comunità controversa come quella del Santuario.

“Chi te l'ha detto?” chiesi, dopo essermi riscosso dai pensieri.

“Una delle persone più vicine a lui: il Custode della Quarta Casa.”

“Non comunicavate tra voi?”

“Aphrodite è molto riservato” concluse Misty con tono lapidario. Doveva essere un aspetto del carattere del fratellastro che non condivideva o non sopportava rivolto a se stesso.

Annuii e calò un breve silenzio.

“Dovrai muoverti con diplomazia una volta giunto nel regno delle ombre, dopotutto nemmeno tu hai acquisito l'ottavo senso perché quello con Apollo non è stato uno scontro vero e proprio” raccomandai, poco dopo.

“Pensate che io sia debole?” replicò, seguendo con lo sguardo la sagoma di un uccello che volteggiava nel cielo. “In molti lo pensano ma non lo dicono, sono convinti che io abbia avuto solo fortuna con l'armatura e preferirebbero vederla indosso a Shiryu...”

“No” contestai. “Ciò che altri assimilano a debolezza lo definirei più semplicemente: esitazione. Paura di esporti. Tutto qui. E poi non curarti delle opinioni altrui, tutti hanno il diritto di averne.”

“Non voglio provocare una guerra ma solo giungere a patti, pertanto è implicito l'intento di andarvi in pace.” Si schermì chiudendosi a riccio.

Sapevo che la mia onestà lo avrebbe ferito – come ogni volta in cui avevo dovuto esprimere un parere spassionato nei suoi riguardi – ma la menzogna, le false lusinghe, sono di gran lunga più degradanti della verità per quanto essa sia scomoda.

“Non credo la diplomazia costituisca un tratto distintivo del tuo carattere, tuttavia la motivazione che muove questa scelta sembra forte e determinante al fine di indurti a impegnarti a condurla con successo” soppesai l'espressione del ragazzo per un momento, i tratti erano rilassati, benché lo sapessi lungi dall'aver ritrovato una sorta di pace interiore, ma non esitai a puntualizzare alcune cose.

“Ripeto, avallare i tuoi propositi è una mia generosa concessione, ma c'è un nodo da sciogliere prima di ottenere il permesso di allontanarti in via definitiva.”

“Quale?” spalancò gli occhi chiari come colto alla sprovvista.

“Ti sei reso responsabile di un gesto grave che avrebbe potuto costarti l'espulsione o qualche altra sanzione poco piacevole a discrezione di Athena. Ho promesso che manterrò il riserbo su tutta la questione accollandomi una bella responsabilità, ma...” indugiai, conscio che la mia richiesta sarebbe risultata sgradevole. “Dovrai fare ammenda innanzi alla Sacerdotessa dell'Aquila.”

“È senz'altro generoso da parte vostra” riconobbe abbozzando un mezzo sorriso, e poi s'incupì. “Ma scusarmi con Marin... è difficile per me.”

“È difficile ma giusto” incalzai determinato.

Misty iniziò a passeggiare sul ballatoio adiacente alla facciata del Tempio, consapevole di non avere alternative in quanto l'esortazione costituiva di fatto un ordine.

“È un ricatto?” Si arrestò poggiando le mani sulla balaustra.

“Pensavi che ci sarei passato sopra?”

“In verità, no” desistette, catturando con due dita una ciocca di capelli che gli era sfuggita da sotto l'elmo.

“Quindi va da sé che non è del tutto un compromesso perché le scuse alla parte lesa, vituperata, oltraggiata, sono un atto imprescindibile.”

Stette in silenzio volgendo uno sguardo assente all'orizzonte, poi chiuse gli occhi mormorando qualcosa tra sé e sé. Aveva ceduto nonostante la riluttanza iniziale. Arguii che doveva essere davvero fermo nei suoi propositi. Si sentiva responsabile del fatto che lo spirito del proprio congiunto fosse intrappolato nell'Ade, ed era un fardello troppo pesante anche per un tale orgoglio smisurato.

“Ti aspetto al Tredicesimo Tempio, domani, nel pomeriggio” conclusi.

 

***

 

XXV

 

 

La statua di Athena si ergeva imponente, la ammiravo dalla vetrata della portafinestra che si apriva sulla terrazza; socchiusi le palpebre, abbagliato dal riverbero del sole che inglobava il pulviscolo, e indietreggiai volgendo un'occhiata ai ripiani stipati di libri. Ero sempre molto paziente ma l'attesa si era protratta oltre le aspettative, snervante. Sfilai l'elmo ravviando la chioma aggrovigliata, soffiando sui riccioli che ricaddero davanti agli occhi. Dovevo restare tranquillo, calmo, malgrado mi sentissi turbato, come pervaso da una strana inquietudine. Deposi il copricapo sulla scrivania iniziando a vagare nella stanza, soffermandomi davanti agli specchi incorniciati d'oro che pendevano dalle pareti alternandosi a vecchie croste. Ammiccai me stesso, compiaciuto.

Uno stridore di cardini mi fece trasalire e, d'istinto, mi voltai notando un inserviente sulla soglia.

Finalmente!

Dohko si era deciso a convocarmi nella Sala delle Udienze, dopo avermi fatto languire nella solita biblioteca per un lasso di tempo imprecisato. Ignoravo cosa avesse in mente ma ebbi subito conferma dei miei sospetti poiché, malgrado non si fosse pronunciato in precedenza, il Sommo aveva il pregio di essere diretto, esplicito, nelle sue intenzioni. Esitai prima di uscire e ricollocare l'elmo sul capo, dovetti trattenere un'imprecazione affondando gli incisivi nel labbro.

C'erano anche Marin e Aiolia, come supponevo, e stanziavano dinanzi al trono del Sacerdote, li scorgevo dalla posizione appartata in cui mi trovavo, attraverso l'apertura a due colonne, sormontata dall'architrave, che immetteva nella sala. Indossavano l'armatura pertanto si trattava di un incontro formale.

Insignificante – una. Il petto in fuori; le spalle possenti; immedesimato appieno nella parte dell'eroe e caricaturale come una parodia di se stesso – l'altro...

Seppure investito da una parvenza di nobiltà, il Leone non possedeva l'eleganza e la levatura morale del fratello Aiolos: era una caratteristica acquisita in linea diretta e non in virtù di qualche pregio, avevo iniziato a supportare quella tesi dal momento in cui avevo avuto l'occasione di metterli a confronto per la prima volta. Marin, d'altronde, non poteva che simpatizzare per uno così... una macchina da guerra, certo, ma anche – e soprattutto – sbruffone con poco cervello.

Sono dei trogloditi entrambi.

Ruotai gli occhi al cielo e con estrema riluttanza mi premurai di muovere alcuni passi. Lo sferragliare metallico echeggiò nel silenzio solenne in cui era immersa l'aula, annunciando la mia presenza agli astanti. I due figuri, che sostavano ritti sulla passatoia cremisi, si riscossero e li affiancai, senza tuttavia avvicinarmi troppo, chinandomi ai piedi della gradinata dalla cui sommità si innalzava il soglio del Gran Sacerdote.

Ma perché non ha convocato soltanto lei?

Non osavo alzare la testa. Dohko continuava a osteggiarmi, altrimenti non si spiegava un simile accanimento. Ma ben presto trovai il coraggio di studiare i lineamenti dell'uomo: sembrava neutrale, impassibile, come dovrebbe esserlo un giudice coerente col proprio ruolo. No, non mi odiava, gli ero semplicemente indifferente, alla stregua di una recluta o di un soldato semplice. Deglutii a secco, raspando la lingua asciutta contro il palato, con la solita disillusione che mi accompagnava dal giorno della rinascita.

“Alzati. Non dovresti rivolgerti a me, ma ai due Santi che hai guardato di traverso, con la coda dell'occhio, senza degnarli della tua preziosa attenzione” commentò. “Sai a cosa mi riferisco, non è vero?”

Annuii con un cenno, alzandomi in piedi, e finsi di soprassedere al sarcasmo alquanto inopportuno. Non mi sentivo in difetto nei loro confronti, distante dal comprendere che, forse, era il risentimento verso quella donna a rendermi così ostinato dal prendere ogni sciocchezza come un affronto personale.

“Sono qui per scusarmi con te, Marin. Ho esagerato a causa dell'antipatia che provo nei tuoi confronti, agendo d'impulso, ma non volevo mancarti di rispetto...” Mi posizionai di fronte a lei evitando di guardarla in faccia. La maschera era integra, Mu di Aries era stato sollecito a ripararla... quindi – tutti – al Santuario dovevano essere venuti a conoscenza dell'episodio, giudicandomi al di là delle mie effettive intenzioni a riguardo.

Mi proposi infine di penetrare la vacuità rigida del metallo interposto tra i nostri occhi. “Non l'ho fatto di proposito” sintetizzai, al culmine del disagio, sperando che per Dohko fosse sufficiente.

Non tolleravo la presenza di Aiolia e mi trattenni dal chiedere perché si trovasse lì.

“Se qualcuno non avesse tradito, come ti ostini a pensare tu, Misty, il Santuario – se non il mondo intero – sarebbe in balìa delle forze oscure.” Marin mi tese una mano e Aiolia annui alle sue parole con un'espressione soddisfatta e trionfante.

Con la stoccata finale, lei, mi aveva fatto passare per un egoista, immaturo, pretenzioso e arrogante, se non come un perfetto idiota. Abbassai gli occhi, con la sensazione di avere un cappio stretto intorno al collo, fissando la voluta di fumo esalata da un braciere per poi distogliere lo sguardo e incrociarlo con quello del Sommo. D'un tratto percepii un calore improvviso. Il volto bruciava.

Il silenzio dell'uomo era eloquente, assordante più della nota stentorea impressa nella sua stessa voce quando impartiva gli ordini o affibbiava insulti, e fui così sollecitato a stringere la mano alla donna, controvoglia. Sfilai la manopola emulando il gesto di Marin e poi ritrassi la mano che sgusciò via senza indugiare nella stretta. Sfregai il palmo sudato in un lembo del mantello.

“Aiolia è qui soltanto perché era presente nel momento in cui è avvenuto il disguido” precisò Dohko, come se mi avesse letto nel pensiero.

Schiusi la bocca senza mormorare alcunché. Quelle parole mi furono di conforto e confermavano che, in realtà, il Sacerdote non aveva convocato il Santo di Leo per umiliarmi.

“Mi auguro che non succeda più una cosa del genere” ammonì, in conclusione. Si levò dal seggio percorrendo la gradinata e si soffermò una volta giunto al livello del pavimento. “Marin, Aiolia, ora potete tornare alle vostre mansioni. Tu, invece, resterai qui” disse.

I due Santi si chinarono rispettosi e dopo si voltarono per raggiungere l'ingresso principale. La silhouette della donna; il suo movimento ondeggiante, ipnotico – come il meccanismo a oscillazione del moto perpetuo – catturò il mio interesse, tanto che non mi resi conto di accompagnarla con lo sguardo fino a quando non si dileguò.

Dohko si schiarì la voce. “È arrivato il momento di esonerarti dagli oneri che vincolano i Santi al servizio di Athena e del Santuario. Tu e Algol di Perseus vi allontanerete col pretesto di un banale incarico.”

Mi ricomposi con un battito delle ciglia, umettando le labbra secche. Il Sommo mi esortò a seguirlo, precedendomi nel cammino. Dopo essersi sfilato il copricapo aureo si liberò anche dai paramenti – che sistemò in un apposito armadio a muro ricavato da una nicchia – e rimase in abiti civili.

“Ti concedo alcuni giorni di riposo da trascorrere entro le mura del Tempio che custodisci, saranno utili a riflettere sulle mie raccomandazioni; dopodiché potrai lasciarlo senza preavviso” precisò, imboccando il corridoio che conduceva fino al giardino annesso alle vestigia dell'edificio.

La luce diurna mi riscosse dalla rigidità acquisita all'interno di quell'ambiente austero, e replicai alle direttive del Sommo con una sorta di silenzio di assenso. Avevo trascorso parecchie giornate all'ombra di quelle piante, non molto tempo fa, in attesa di recuperare la memoria, ed emersero diversi ricordi inerenti quel periodo di amnesia.

Dohko si rivolse a un'ancella ordinandole uno spuntino, doveva essere una consuetudine a quell'ora del pomeriggio, forse di ausilio per spezzare la monotonia del tempo trascorso a sistemare gli archivi o a pianificare eventi. Dopodiché si accostò a una colonna, a braccia conserte. Probabilmente anche lui stava rimuginando qualcosa. Mi sovvenne un argomento che mi era caro e da tempo desideravo sottoporgli, ma temevo risultasse inopportuno.

Mi distrassi guardando il sentiero di lastre sconnesse che divideva il quadrilatero del giardino botanico in due aree simmetriche. Presi un respiro trattenendo l'aria per un momento. La primavera era ancora lontana e l'inverno era mite in Grecia, sopportabile; giusto in quell'attimo riuscii a trovare il coraggio necessario per esporre la mia richiesta.

“Trovo inadeguata la sistemazione riservata ai membri della Casta intermedia.”

“Alludi ai Santi d'Argento?” Dohko sedette, riscuotendosi dai pensieri. “Ti hanno promesso qualcosa in cambio?” domandò sfoggiando una sorta di umorismo becero.

Forse non credeva alla bontà delle mie intenzioni, ma questa volta – davvero – non tramavo secondi fini. Sarei riuscito a convincerlo? La mia reputazione era così irrimediabilmente compromessa? Se sì, perché la decisione di resuscitare dei reietti?!

Per infoltire le schiere di Athena con pedine sacrificabili... le parole che avevo affermato in passato in presenza di tutti – dal Sommo alla recluta – riecheggiavano impresse nella memoria come un marchio a fuoco, ma avevo giurato a me stesso di non ripetere lo stesso errore. Non dirlo, però, non mi esentava dall'esserne convinto, dal pensarlo... Di riflesso serrai la mano a pugno per poi abbandonarla in grembo.

“Pensatela come volete, ma abbiate la compiacenza di valutare e prendere in considerazione la proposta. La parità di trattamento assicura un esercito coeso e incorruttibile.”

“Ne parlerò con Athena quando ritornerà al Santuario, sappiamo che a lei spetta l'ultima parola” rispose quasi con leggerezza.

Sfilai elmo e mantello riponendoli sulla panca di pietra. Sedetti di nuovo guardando il baklava contenuto nel vassoio che l'ancella aveva riposto di fronte a noi, ma avevo lo stomaco chiuso e non sarei stato nemmeno in grado di inghiottire la saliva.

“È mio unico interesse intraprendere la missione, e sapete che lo scopo non riguarda Athena né il Santuario. Ragion per cui cedo l'armatura. Il vostro discepolo saprà sicuramente farne buon uso.”

“Arrogante. Non hai facoltà di prendere una decisione del genere. Che tu faccia ritorno o no dal tuo viaggio, le Sacre Vestigia di Libra ti hanno scelto come legittimo possessore; e nella peggiore delle ipotesi esse si ricomporranno al Settimo Tempio in attesa di un nuovo destinatario” affermò Dohko, per poi accingersi a consumare il dolce.

 

***

 

 

XXVI

 

 

Spalancai gli occhi nel buio, immobilizzato come per effetto della paralisi indotta da un morso velenoso.

Preferisci rimediare una cicatrice indelebile?” Una voce femminile vibrò attraverso la maschera inespressiva; la quale rifulse plasmata da un sinistro bagliore d'argento. Quello che doveva essere un corpo contundente premette di taglio sulla guancia. “Lasciarci la vita?”

Schiusi le labbra senza parlare e di riflesso provai a ritrarmi, a divincolarmi – seppur inibito da pastoie invisibili – realizzando che, col filo tagliente dell'arma, la donna stava tracciando una linea per giungere alla base del mento, scivolò sul collo e indugiò puntando alla gola.

Qualsivoglia rigurgito di ribellione si spense. Rabbrividii. Avevo percepito il tessuto della tunica tendersi per poi udire uno strappo, e il percorso della lama si consumò lungo il plesso solare, sulla linea alba.

Oppure potresti scegliere di lasciarti andare...” sibilò, come un rettile, la voce distorta e demoniaca. Percepii un peso, un calore umido, come se la presenza si fosse accovacciata su di me. Si mosse con lentezza calcolata, strusciò, mi stava cavalcando?! Ero troppo inebetito per riuscire a comprendere cosa stesse succedendo e scivolai dentro di lei assecondando una pulsione istintiva. Una sensazione di disgusto mi fece accapponare la pelle. È aberrante concedersi a chi si odia, no, di più, è orribile! Sperimentai ammettendo che, spesse volte, avevo fantasticato immaginando il contrario. Tutto ciò suonava beffardo e inesorabile come la legge del contrappasso nel momento in cui si compie...

Tentai di dimenarmi, urlare – invano – intrappolato come una crisalide nel bozzolo, sondando nella notte con gli occhi sbarrati. Il sudore ruscellava lungo le tempie e mi ero destato respirando a fatica, ma riscoprendomi finalmente libero come se anima e corpo si fossero ricongiunti in un tutt'uno.

Mi guardai intorno con circospezione: il riverbero della luna filtrava attraverso la finestra inondando la stanza vuota, tastai gli indumenti appiccicati addosso ed erano intatti; non percepivo alcuna ferita sul volto. Era stato un incubo, sì, doveva essere stata una sorta di allucinazione. Mi raggomitolai nel letto nonostante avessi le membra intorpidite, avevo voglia di vomitare, di strapparmi la pelle di dosso, e cedetti a un pianto liberatorio.

Mi aveva sconvolto a tal punto l'essere stato costretto a scusarmi con Marin, in modo tale che la bastarda riusciva a perseguitarmi anche in sogno?

Mi alzai procedendo a tentoni verso il corridoio che conduceva nell'ala pubblica del Tempio e, una volta giunto all'esterno, caracollai su per le scale illuminate dai bracieri, come un automa.

 

“Misty?!”

Riconobbi il Santo di Scorpio alla luce delle torce. “Sei sicuro di stare bene?” domandò dopo avermi scrutato a fondo.

Avevo la mente annebbiata, ottenebrata, mi ero svegliato di soprassalto giungendo, senza rendermene conto, fino al vestibolo dell'Ottava Casa. Ero reduce da una giornata che non avrei dimenticato facilmente. Passai le mani prima sul volto e dopo tra i capelli umidi. D'un tratto percepii qualcosa gravare sulle spalle per poi realizzare che Milo mi aveva ceduto il mantello. Me lo strinsi addosso.

“Sì” risposi. “Vorrei solo raccontare un sogno che ho fatto... a mio fratello.”

“Certo, lo capisco” replicò Milo, perplesso. “Ma Aphrodite non può ascoltarti” soggiunse con aria compassionevole, come se si stesse rivolgendo a un disgraziato che aveva perso il senno.

Battei le palpebre, dovevo avere ancora le lacrime agli occhi poiché le sentii scorrere, calde, lungo le guance. “Hai ragione, lo avevo rimosso, non ricordavo.”

 

 

 

 

 

 
   
 
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