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Autore: Fran Truth    09/10/2021    0 recensioni
Crowley non si aspetta più nulla dalla vita: una laurea in astronomia presto ridotta a un hobby solitario e notturno, il lavoro come insegnate di fisica, il sabato sera al bar con gente sconosciuta. Una routine fiacca e maniacale rotta solo da qualche pomeriggio in compagnia di Anathema, sua collega e vicina di casa, e nulla più. Finché una telefonata dall’Italia non rompe tutti gli schemi, perché la figlia di sua sorella Helen, morta quasi sedici anni prima, è rimasta orfana e senza parenti. Isotta si vede così costretta a lasciare Trieste, il mare e Ilenia, il suo primo e ancora fragile amore.
Aziraphale credeva di aver finalmente trovato il suo equilibrio, barattando il mondo esterno con quello dei suoi libri, ma a un certo punto si ritrova a soffocare nella sua stessa bolla. Preso da un impellente desiderio di sfuggire a quella solitudine, pubblica un annuncio di lavoro alla porta della sua libreria. Isotta coglie quella che sembra una piccola possibilità di ripartire, ammaliata da quell’angolo di mondo che odora di carta e tè, una luce in fondo a quel tunnel di delusione. Quel fioco bagliore si avvicina sempre di più e, infine, illumina tutti e tre.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«In che senso, non torni?!»
La voce di Ilenia le spaccò le orecchie chiuse nelle cuffie. Un fischio accompagnò gli ansimi nervosi della sua ragazza e Isotta premette con forza il tasto per abbassare il volume.
Mancavano solo sette giorni a Natale, uno dei quali stava per essere cancellato del tutto dalla notte, e la fine dell’anno si avvicinava inesorabile. Nonostante ciò, Isotta aveva trovato solo in quel momento il coraggio di dire a Ilenia che no, non sarebbe tornata in Italia a Capodanno. Sapeva già di Natale, glielo aveva scritto in un rapido messaggio a cui Ilenia aveva risposto con un asciutto “va bene”.
Quando Ilenia smise finalmente di sbraitare, Isotta le disse con tono calmo: «Ci ho pensato su, Ile. Anathema e Newton non possono venire con noi perché devono risparmiare per andare in America e sai benissimo che a Trieste non ho nessuno.»
«Ma perché non venite con noi in montagna? Cazzo, Isotta, mica andiamo in capo al mondo.»
Dovette prendere un grande respiro, prima di rispondere. «Ovvio che ci ho pensato, ma gli alberghi sono pieni anche nei dintorni. Quello che è rimasto costa troppo.»
«Lavorate in due!» Ilenia la indicò con la mano aperta. «In due, Cristo! E mi sembra che il libraio ti paghi bene.»
«Viviamo a Londra, Ile, anche se lavoriamo in due dove credi che vada la metà di quei soldi?»
«Avreste potuto almeno stare a Trieste. Hai detto che tuo zio inizia dopo il 6, no? Almeno ci saremmo viste due giorni.»
«E secondo te io e mio zio dovremmo andare a Trieste, da soli, per aspettare che torniate dalla vostra bella vacanza?»
«Fatevi un giro, andate a Muggia e a Duino.»
«Le ha già viste e comunque ti ho già detto che Anathema e Newton non possono venire. Mio zio ci tiene a loro, non possiamo lasciarli qui da soli.»
«Siete tutti soli e senza amici, lì?»
Una scarica elettrica le attraversò il corpo. Sbatté la mano sul tavolo desiderando fosse la faccia di Ilenia. «Senti, forse non ti è chiaro: non tutti hanno una grande famiglia amorevole come la tua. Sono tre anni che non passo delle cazzo di feste decenti e per una fottuta volta che posso farlo vorrei poter festeggiare senza dovermi sentire in colpa!»
Ilenia tacque. Abbassò lo sguardo verso le sue matite colorate ammassate a lato e si portò una lunga ciocca nera davanti al viso. «Avreste potuto venire a Natale. Le mie zie vi avrebbero aiutato» disse piano.
«Le tue zie che mi guardano dal’alto in basso perché pensano verrò su come una drogata da quando è morto mio padre?»
«Isotta, cazzo, io non… » si portò l’immensa chioma corvina dietro alle spalle. Guardò Isotta dritta negli occhi, oltre allo schermo. «Va bene, scusa, sono stata egoista.»
Lo disse con il tono di un bambino costretto dalla maestra a chiedere scusa al compagno antipatico, accompagnato da due sonore pacche sulla schiena, ma Isotta accettò comunque.
«Ma cosa facciamo, a questo punto?»
Isotta inclinò la testa. «Che intendi?»
«Tu, io» indicò sé stessa e Isotta più volte. «Vogliamo continuare a dirci ti amo attraverso uno schermo o cerchiamo di far funzionare questa cosa? Perché io ti voglio bene, ma non so quanto questa relazione a distanza possa proseguire.»
Il petto le sprofondò in una rapida fitta di dolore. Premette le unghie nel palmo dell’altra mano e rimase bloccata davanti allo schermo. Ilenia voleva rompere? No, non era possibile, non dopo un anno passato a… a fare cosa? A nascondersi da tutto e tutti per un bacio, a ignorarla davanti a suo padre, a farsi consolare per sei mesi filati, a guardarsi e basta dietro a un computer.
«Perché non dici niente?»
«Ascolta, ascoltami» si posizionò dritta sulla sedia. «Certo che possiamo continuare, posso tornare in Italia a Pasqua, o venire tu, o anche questa estate. Potremmo ospitarti qui per un mese dopo la maturità.»
«No, no, aspetta. In che senso, questa estate?»
Isotta boccheggiò confusa. «A giugno, o luglio, quando finirai gli esami.»
«Cioè fra altri sei mesi? Dici che possiamo continuare e non ci vedremo fino all’estate?» alzò il tono della voce e le mani presero a gesticolare in tutte le direzioni. Aveva gli occhi spalancati, furiosi. «E poi che significa tutto questo? Che rimarrai in Inghilterra anche questa estate? Fai il cervello in fuga?»
Isotta non seppe riordinare la pioggia di domande. Muoveva le mani in una difensiva imitazione di Ilenia. «Non so ancora cosa farò, Ile, te l’ho detto.»
Ilenia sbatté le mani sulla scrivania. Un foglio scivolò, il temperino cadde, un leggero miagolio precedette le sue urla. «Sono sei mesi che stai lì e ancora non sai cosa fare?! Stai scherzando?»
«Non è facile, Ilenia, cazzo!»
«Certo, per te non è mai facile, non prendi mai una decisione che sia una, mai una volta nella tua vita, sempre “non lo so”, porca troia.»
Isotta si prese i capelli fra le mani e gettò la testa all’indietro. Il pizzicore negli occhi si fece più intenso. Ritornò sulla scrivania con una mano sulla fronte. «Non sono in una situazione normale, capiscilo, santo Dio.»
«Non sei mai normale, tu.»
Quello. Quello fece male, un dolore nel cuore e nella testa che riaprì altre ferite, sempre più vecchie. Isotta si guardò le nocche bianche, le mezzelune rosse nei palmi e poi guardò Ilenia. Non poteva vedere il suo stesso sguardo, ma sentì due lacrime scendere, una per guancia, e il fastidio dei muscoli intorno agli occhi. Ilenia rabbrividì.
«Oddio Iso, scusa, ascolta, non volevo dire-»
«Ci sentiamo.»
L’ultima cosa che vide fu la mano ambrata di Ilenia sporgersi verso lo schermo, coperta poi dalla scheda bianca di Skype. Chiuse il laptop con uno scatto senza curarsi di spegnerlo e si gettò sul letto con un tonfo. La odiava, odiava Ilenia in quel momento e odiava se stessa perché detestare lei significava buttare all’aria dodici anni di tutto, perché lei aveva Ilenia e nessun altro e le aveva dato tutto quello che era in suo potere dare. Inspirò a fondo per un minuto, poi si abbandonò al pianto.
 
*
Il ventun dicembre le strade erano gremite di persone e acqua. Un diluvio universale si abbatté su Londra e il Tamigi si ingrossò in tempesta. Isotta riuscì ad arrivare in libreria prima che la pioggia  raggiungesse il suo picco e trovò il signor Fell intento a correre da una parte all’altra per chiudere le serrande, prima che i vetri appena lavati si rovinassero a causa dell’acqua piena di smog. Piazzarono due grossi zerbini all’ingresso, ma ben pochi clienti vi badarono, viste le decine di impronte umide che Isotta si occupò di pulire approfittando di fette di tempo senza clienti.
La due mattine precedenti, il suo cellulare era stato bombardato da una valanga di messaggi da parte di Ilenia, ma lei non li aveva visualizzati. Il pensiero delle sue parole non l’aveva fatta dormire bene la notte e aveva cercato di rattoppare con grossi caffè senza latte né zucchero, anche se un letto sarebbe stato più che gradito. Sebbene il cuore le rodesse ancora, un altro argomento aveva assunto il compito di stirarle i nervi. Il suo contratto scadeva quello stesso giorno e il signor Fell non le aveva detto nulla a riguardo. Non che avessero parlato molto: Isotta lo aveva evitato, come aveva evitato suo zio, Anathema e Newton, chiudendosi nella sua stanza a leggere l’anteprima dei messaggi di Ilenia e a consumare il pranzo freddo. Il signor Fell aveva mal nascosto la sua delusione quando, negli ultimi due giorni, Isotta aveva deciso di mangiare a casa, ma parlare era diventato un consumatore di energia così pesante che il suo sguardo rattristato non l’aveva spinta a rimanere.
Mentre era intenta a spazzare, la campanella trillò lasciando entrare il brusio della folla e una figura snella avvolta in un ampio cappotto color cachi. Isotta si fermò con la coda dell’occhio vide una folta chioma bionda.
«Zira!» esclamò strizzando le punte bagnate. «Sei libero?»
Isotta strinse il manico del moccio quando grosse gocce d’acqua caddero a terra, accanto agli stivaletti firmati della signora Sands. Prese un bel respiro e ricominciò a pulire. «Buongiorno, signora Sands.»
«Isotta cara, ciao.» Le sorrise e si avvicinò. «Aziraphale è qui?»
Isotta indicò il retrobottega con il pollice e subito il signor Fell spuntò. Aveva la faccia rossa, il respiro corto e con le mani armeggiava sul farfallino. «Dio, Camilla. Ho dimenticati di segnare il tuo appuntamento?»
«No, no, tranquillo, ti rubo solo cinque minuti.»
Si ritirarono nel retrobottega e Isotta pulì le macchie lasciate dalla signora Sands, prendendosela comoda. Camilla Sands non era una “cliente abituale”, bensì un’”acquirente”, come il signor Fell definiva non chi comprava cinque romanzi freschi d’uscita al mese, ma gli studiosi, gli appassionati, i collezionisti, tutti coloro che comprendevano il suo piacere nel discutere di studi letterari alti e nello sborsare centinaia (se non migliaia) di sterline in un raro tomo intatto. Spesso si intratteneva con loro bevendo il tè e mangiando dolci per anche un’ora intera. Camilla era una semplice appassionata (era impegnata anche lei nel campo della moda, le disse il signor Fell quando la vide per la prima volta) ma anche quella che rubava più tempo in assoluto al signor Fell.
«Sei sicuro di non voler venire a Natale?» disse la signora Sands. «David sarebbe contento. Per te, un posto a tavola lo aggiungiamo più che volentieri.»
«No, Camilla, ti ringrazio ma ti ripeto di no.»
«Avanti, non riesco a sopportare l’idea di vederti rannicchiato su una poltrona, solo, il giorno di Natale.»
«Camilla… » La richiamò con un velo di stizza e ripresero a discutere in gallese. Lo facevano sempre, probabilmente per parlare di affari privati che non volevano giungessero alle orecchie di Isotta, ma lei amava la melodia di quella lingua tanto diversa e musicale che li ascoltava comunque, pur non capendo una parola.
Solo in quel momento ricordò la proposta di suo zio. Al pensiero, alzò le spalle. Se il signor Fell rifiutava l’invito di Camilla Sands, non avrebbe mai accettato il loro. Crowley, a volte, sembrava un perenne ubriaco che metteva in atto idee assurde che spuntavano come funghi.
I cinque minuti promessi divennero venti, finché le sedie non cigolarono sul pavimento e Isotta smise di spolverare. Era il momento giusto.
Il signor Fell e la signora Sands uscirono insieme dal retrobottega. Lei gli stampò un grosso bacio sulla guancia, tenendolo per le spalle. «Buon natale, allora. Chiama se hai bisogno, va bene?»
Isotta si voltò per nascondere la sua risatina. Il signor Fell, rosso fino alla punta delle orecchie, ricambiò accarezzandole i capelli. «Grazie, Camilla. Buon Natale.»
La signora Sands gli sorrise, augurò buon Natale a Isotta con uno squittio e uscì nella tempesta. Isotta appoggiò il moccio e, con il cuore in tumulto, mosse un passo verso il signor Fell, che si stava pulendo la guancia da un pallido residuo di rossetto, ma lui si diresse verso la sezione di narrativa a passo svelto.
Isotta si fermò dietro a uno scaffale. Non riusciva a capire perché fosse così difficile. Dopotutto, il signor Fell non aveva mai dato segno di non volerla più, no? Ma, in fondo, lui era buono e gentile con tutti – tutti coloro che si tenevano a debita distanza dai suoi libri, s’intende – e dunque come avrebbe potuto capirlo? rifiutarle il rinnovo avrebbe significato cercare un altro posto, magari un’altra libreria, ma dove avrebbe trovato quello stesso calore era una domanda che le faceva paura. Si era creata la sua bella bolla ritta e stabile e sentiva un ago avvicinarsi.
Trasalì quando i pesanti passi del signor Fell si fecero più pesanti. «Isotta.»
Pronunciò il suo nome con una lieve rigidezza. Isotta sbucò dallo scaffale e lo trovò ad esaminare due romanzi nuovi di pacca. «Sì?»
«Che ci fanno qui i romanzi di Steinback?»
Isotta guardò i tre libri dalla copertina rigida che teneva in mano e poi l’etichetta sullo scaffale: “Romanzi rosa A-L”.
«Scusi!» esclamò. «Ero distratta, metto tutto a posto subito.» Cazzo, non ora, non doveva succedere quel giorno.
«L’intera sezione è un disastro… » disse il signor Fell sollevando lo sguardo. «Sistema tutto prima che entri qualcuno. Anzi, lascia fare a me» le pose una mano sulla schiena. «Vai a bere qualcosa. Non hai una bella cera.»
Isotta si diresse nel retrobottega senza fiatare. Bevve un po’ di succo, poi sciacquò il bicchiere e lo riempì d’acqua. Tra il pensiero del contratto e quello di Ilenia, si sentiva come se stesse camminando su un ponte sottile e qualcuno fosse pronto a buttarla giù da un momento all’altro.
Quando uscì dalla cucina, il signor Fell aveva già finito di mettere a posto. «A pranzo ti devo parlare» le disse. «Penso io a cucinare.»
Isotta rimase ferma sul posto per una manciata di secondi che le parvero eterni. Perché doveva aspettare l’ora di pranzo, non poteva dirglielo subito?
«Cara, non è nulla di grave!» esclamò il signor Fell. Isotta si risvegliò dai suoi sonni a occhi aperti e boccheggiò senza dire niente.
«Ascolta» le disse. «Siediti cinque minuti e prendi un bel respiro. Non so cosa tu abbia, ma non mi piace.» la prese per le spalle e Isotta si lasciò trascinare nel retrobottega. «Preferisci venire domani?»
«No» rispose subito. «No, va bene oggi.» Non avrebbe sopportato un altro giorno. «Ho solo… un po’ di pressione bassa» sparò. Il signor Fell la guardò accigliato, poi si diresse verso il magazzino.
Isotta si sedette, bevve dell’altra acqua e fece tre respiri profondi. Era ridicolo. Ilenia forse aveva ragione: lei non era normale.
Tornò a lavorare con il cuore che faticava a calmarsi. Prima della chiusura impiegò quanto più tempo possibile a pulire i pavimenti. Quando anche l'ultimo angolo fu libero dall'umido piovano, però, fu costretta a seguire il signor Fell sul soppalco, dove aveva apparecchiato il pranzo.
Nonostante fossero passati tre mesi, Isotta non aveva mai visitato quella zona del negozio, semplicemente perché non ce n’era mai stato il bisogno. Si trattava di un cerchio incompleto che abbracciava la circonferenza della libreria, sorretto da quattro colonne ocra e delimitato da una ringhiera in acciaio dipinto di bianco avorio. Una piccola finestra, ora chiusa, illuminava di solito l’ambiente dall’alto. Il perimetro era disseminato di basse librerie ricolme di manuali dalle coste scure che emanavano odore di carta vecchia. Il legno del pavimento, libero dai tappeti, era tirato a lucido e molto più nuovo di quello di sotto: non emetteva nemmeno l’ombra di un cigolio ed era liscio e privo di schegge o graffi.
Il signor Fell, seduto al centro sotto la finestrella chiusa, la invitò ad avvicinarsi. Accanto a lui erano accatastati alcuni materiali da lavoro: pennelli, carte piene di schizzi a matita, vecchie copertine e penne sottili. In mezzo ai due posti a sedere il signor Fell aveva preparato due piatti di pollo e patate, con due fumanti tazze di tè e del vino bianco. Nonostante la premura, il quadretto assomigliava vagamente a sua nonna quando, anni prima, le preparava la merenda con i muffin e il succo alla pera, prima di darle due disgustose pastiglie di antibiotico per la gola.
Consumarono il pranzo in tranquillità. Fu soprattutto il signor Fell a parlare e discusse di come odiasse l’abitudine inglese di mangiare un magro tramezzino a pranzo e di come avesse cambiato le sue abitudini dopo essere stato in Francia a vent’anni. Isotta annuiva tra un boccone e l’altro e commentò di rado, lasciando che dominasse la conversazione e illustrandogli, brevemente e sotto richiesta, alcune tipiche abitudini alimentari in Italia.
Finito il pasto, il signor Fell portò miele e latte.
«So che non bevi il tè» le disse quando si sedette. «Ma ho preso un nuovo tè in foglie in centro. Sai, è molto diverso da quelle imbevibili bustine del supermercato e decisamente più buono. Te l’ho fatto alla vaniglia. Miele o latte, cara? Qui di solito lo prendiamo con il latte, io l’ho già messo ma non sapevo se ti piacesse. O forse preferisci lo zucchero?»
«No, va bene il miele, grazie.»
Si versò mezzo cucchiaio di miele millefiori nella tazza e l’avvicinò al volto. L’odore era dolce ma non pungente e il colore di un gradevole giallo scuro. Isotta non beveva mai tè, aveva sempre trovato insipide e inappetenti le infusioni al limone che suo padre comprava in negozio e suo zio era, come lei, un tipo da caffè.
«Non berlo se non ti piace, cara» disse il signor Fell dopo aver preso un piccolo sorso. «Costringerti è l’ultima cosa che voglio fare.»
«No, no, è… » Isotta bevve un piccolo sorso, poi uno più grande. «È buono, non pensavo, ma è buono.»
Il signor Fell sorrise come se avesse appena vinto una pregiata prima edizione. «Sapevo che eri solo abituata male. Ma un giorno dovresti provarlo con il latte.»
Isotta bevve in silenzio, cullata dal rumore della pioggia che si era fatta meno tempestosa, ma rimaneva comunque fitta. Sperò che Frieda e Kat non annullassero il loro appuntamento, soprattutto perché entrambe sarebbero presto tornate dalle loro famiglie.
Presto il sonno mancato si fece sentire, soprattutto con la pancia piena e il calore del tè. Isotta appoggiò la schiena sulla poltroncina e prese a bere meccanicamente, sforzandosi di tenere le palpebre bene aperte. Chissà com’era dormire lassù, in una notte di tempesta.
«Credo che qualcuno abbia fatto le ore piccole.»
Isotta si rimise composta all’istante, ma un mezzo sbadiglio soppresso la tradì. Il signor Fell ridacchiò.
«Hai dormito poco?»
«Male, più che altro.»
«Puoi dormire un po’ prima dell’apertura, se vuoi.»
Isotta fece cenno di no con la testa. Non avrebbe dormito sul posto di lavoro, non con il contratto in bilico.
Il signor Fell si versò dell’altro tè. Domandò a Isotta se ne volesse ancora e, al suo assenso, il suo volto s’illuminò. Quando gioiva le ricordava i bambini che, i primi giorni di bora, giocavano controvento con le raffiche. Isotta bevve ancora e si liberò un po’ il collo dalla morsa di calore del cotone che indossava.
«Quel completino è davvero grazioso, cara» disse il signor Fell. «Camilla non faceva che commentare quanto fosse bello.»
Isotta strinse il bordo del tessuto sulla spalla. Indossava un pesante completo bianco, composto da una semplice canotta a costine e un cardigan legato sul petto con un laccetto che le cadeva con morbidezza sui fianchi.«Grazie. Me lo ha fatto mia nonna anni fa.»
«A mano? È un prodotto ottimo.»
Isotta annuì. «Da giovane lavorava come sarta a Lubiana. Aveva fatto un po' di strada e prendeva bene, ma se ne andò a Trieste quando due dei suoi fratelli morirono in guerra.»
«Quindi hai altri parenti.»
Isotta alzò le spalle. «Sì. Dopo il suo matrimonio l'ultimo fratello che aveva si trasferì. In Belgio, o nei Paesi Bassi, non ricordo. Si è sposato ma è morto giovane. Non so se abbia avuto figli.» Bevve altro tè. Dio, se era buono.
«Cuciva spesso per te?»
«Non molto, un po' perché con l'età aveva le mani sempre più deboli, un po' perché si guardava bene dal viziarmi come faceva mio nonno. Il maglioncino verde lo ha fatto lei, e anche la sciarpa bordeaux che ho di là. Non lo faceva mai se qualcuno glielo chiedeva: una mattina si alzava, aveva voglia di cucire e cuciva quel che più le andava.» Si accoccolò sulla sedia, immaginando un gustoso caffellatte al posto del tè, l’odore dei gelsomini al posto di quello della carta, il suono delle onde e delle barche invece della pioggia.
Il signor Fell sorrise. Finì il suo tè, appoggiò la tazza sul tavolino e si sporse battendo le dita fra loro. «Ti ho vista un po’ ansiosa, oggi. Anche ieri, in realtà.»
Isotta annuì e basta. Si chinò verso la tazza per non guardare il signor Fell.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?»
Una serie di domande girò nella testa di Isotta come il nastro di una bobina cinematografica, immagini nitide e repentine che soppresse sedendosi ritta. «Nulla di importante.»
Il signor Fell intrecciò le dita e sospirò. «Sicura?»
Isotta tacque. Strinse la tazza finché le dita non divennero bianche e la sua gamba prese a fare su e giù sul posto.
«Isotta» il signor Fell riappoggiò la schiena sulla sedia. «So che non sono nessuno per farti la predica, non sono né tuo padre, né tuo zio, ma sono sinceramente preoccupato per te. Sono due giorni che ti comporti in modo strano.»
«Sono soltanto dei giorni un po’ no» rispose Isotta.
Il signor Fell appoggiò allo schienale, si passò i polpastrelli sulle palpebre e prese poi il ponte del naso fra le dita. Era una versione maschile e più giovane della dottoressa Grieco, durante le ultime settimane di gennaio. Era passato quasi un anno, Dio.
Una volta, in una giornata nevosa colma di un gelo pungente, le aveva detto «Questo è il tuo percorso: hai il diritto di non dirmi tutto, o di non parlare affatto, e di andare al passo che preferisci.» Aveva infilato la penna d’acciaio lucente nella taschina della giacca di velluto e si era tolta gli spessi occhiali a goccia. «Ricorda però che più collaboreremo, più riuscirai a risolvere questo problema. Voglio solo che tu sappia questo.»
Il signor Fell, però, non era la dottoressa, ma nemmeno suo zio lo era. Ripensandoci, però, era più neutrale di Crowley, più compassato e razionale. Forse, solo un pochino, l’avrebbe aiutata, avrebbe saputo che dirle.
«Ho litigato… » si fermò e un intenso calore al viso la spinse ad abbandonare la tazza di tè. No, non poteva dirglielo, come poteva parlare a un uomo di trenta e passa anni di come aveva litigato con la fidanzatina.
Lui si era sporto di nuovo verso di lei come spinto da una molla. «Con tuo zio?»
«No.» Piantò lo sguardo in basso, sulla punta degli anfibi. «Con la mia ragazza.»
Si aspettò una risatina, anche molto leggera, o uno sbuffo infastidito. Invece, quando trovò le forze per sollevare lo sguardo, lo scoprì serio e tranquillo come un professore che si riposa in cattedra.
«Cosa è successo?»
Isotta prese un bel respiro, prima di parlare. «Non tornerò in Italia a Natale, e nemmeno a Capodanno. Ho aspettato a dirlo a Ilenia, perché sapevo che ci sarebbe rimasta malissimo, ma alla fine, ovviamente, ho dovuto farlo.» Appoggiò la tazza sul tavolino. Stava sudando. «Si è infuriata perché le avevo promesso che sarei tornata presto e invece non credo riusciremo a metter piede a Trieste fino a Pasqua, come minimo.» Singhiozzò sulla sedia e iniziò a parlare più in fretta, dopo un grosso respiro. «Si è arrabbiata perché non sappiamo come mandare avanti questa cosa e… io non so cosa dirle, perché dipende praticamente tutto da me e- e ancora non so cosa farò questa estate.»
Due fiumi di lacrime le rigarono le guance. Seguì un altro singhiozzo che soffocò stringendo i denti. Si asciugò il viso con la manica con lo sguardo piantato sul tavolino, sui libri, ovunque che sul volto del signor Fell. «Io non so cosa fare, non so come andare avanti l’anno prossimo, non so nemmeno in quale cazzo di Paese vivere, non so niente! E ogni volta che ci penso non riesco a decidere, non riesco a trovare una soluzione, non c’è nulla che mi spinga da una parte o dall’altra e allora rimando e fingo che il problema non esista finché non arriva qualcuno a ricordarmelo! Ogni cosa che faccio è solo un modo per evitare questa decisione perché non sono in grado di farlo, io non so decidere per me! Non so cosa fare!»
Le maniche bianche erano ormai pregne d’acqua e sentiva le guance irritate dal continuo contatto col tessuto. Il pavimento si muoveva sotto il suo sguardo annebbiato dalle lacrime e un intenso calore le avvolse il volto. Non c’era traccia del gradevole senso di leggerezza che si prova quando ci libera da un peso: c’era il signor Fell davanti a lei. Si era appena sfogata in quel modo con il suo capo, con un contratto che non sapeva se sarebbe mai arrivato. Non osò alzare lo sguardo, non voleva vedere come la stava guardando, voleva solo scappare, stare da sola, voleva tornare a casa e buttarsi le coperte addosso.
Sempre fissando il pavimento, si sollevò con lentezza dalla sedia. «Scusi» disse piano. «Devo andare… » Dove? In bagno? Tanto avrebbe dovuto tornare. Che poteva fare, scappare fuori? Si avviò comunque verso le scale, ma il signor Fell le afferrò con delicatezza il braccio. «Cara, aspetta.»
«No» mormorò. «Mi molli.» Strattonò, ma il signor Fell non lasciò la presa.
«Siediti» le disse con voce morbida, come se stesse parlando con un animale impaurito. «Voglio solo aiutarti.»
 «No» ripeté Isotta, ma si lasciò trascinare verso la sedia. Riprese il suo posto, evitando il volto del signor Fell come la peste e concentrandosi sul bracciolo di legno.
Del soffice e fresco tessuto le sfiorò la guancia, donandole sollievo dal bruciore. Il signor Fell le asciugò con dolcezza lo zigomo umido. «Su, pulisciti il viso. Ti porto dell’acqua.»
Le portò la mano abbandonata sul fazzoletto e si diresse verso le scale. Con gesti meccanici, Isotta si terse il viso assaporando la freschezza del tessuto. Quando finì di tamponarsi gli occhi, osservò i graziosi ricami bianchi geometrici del bordo e le sinuose “A” e “F” cucite in blu vicino all’angolo destro.
Il signor Fell tornò con un bicchiere d’acqua, che Isotta accettò con un piccolo “grazie”. Bevve piano mentre il signor Fell riprese il suo posto.
«Meglio?» le chiese. Isotta si limitò ad annuire.
«Ascoltami» riprese. «Capisco che la tua situazione sia complessa e comprendo che reggere sia difficile. Non posso dirti cosa fare, né quale soluzione sia la migliore per te, perché non so abbastanza e non è quello di cui hai bisogno, ma credo di poterti aiutare a uscire da questo problema.» Isotta sollevò un poco lo sguardo e il signor Fell si sporse verso di lei con le dita intrecciate. «Vuoi parlare?»
Il cuore le batteva a mille e il viso scottava ancora, ma una presenza nella sua testa le diceva che annuire sarebbe stata la mossa giusta. Lo fece e iniziò a massaggiarsi il ginocchio.
«Sono abituato a guardare le persone quando parlo, Isotta» disse perentorio. «Non hai nulla di cui vergognarti. Io non ti giudico.»
Isotta alzò appena la testa, poi la riportò giù, ma infine incontrò il sorriso del signor Fell e i suoi placidi occhi azzurri. Abbandonò la sua posizione semiaccucciata e si sedette composta. Poteva quasi sentire il profumo alla vaniglia della dottoressa Grieco.
«Partiamo dal principio» disse lui. «Ilenia.»
Isotta scosse la testa. «Il problema non è propriamente Ilenia. Voglio dire, in parte capisco il suo fastidio.»
«Ossia?»
Isotta si liberò il collo dalla stretta della canotta. Poteva immaginare il suo volto rosso vivo. «Io continuo a dirle che questa cosa può funzionare, ma non penso che lei ci creda. Non ci credo più nemmeno io, a momenti.» Appoggiò la testa sul braccio puntellato sul bracciolo. «Il fatto è che… io le dico che ci vedremo, che un giorno torno a Trieste, ma ogni volta che ne abbiamo la possibilità non succede e lei si infuria. Non rende le cose facili, ma capisco la sua frustrazione. Credo si senta appesa a un filo e io non so mai darle le risposte che vuole.»
«Cioè?»
«Tornare in Italia. Restare qui.» Tolse la testa dalla mano e sospriò. «E io non so cosa fare» tagliò corto.
Il signor Fell si portò i polpastrelli davanti alle labbra. «Fammi capire una cosa: tu vivi con tuo zio, no? Hai la residenza qui.»
«Sì.»
«Ma in principio non era una soluzione permanente?»
Isotta scosse la testa. «In realtà non era né permanente né temporanea.» Il signor Fell inarcò un sopracciglio e Isotta si sporse in avanti. «In breve, quando tra me e mio zio sono migliorati i rapporti, lui mi disse che non sarebbe potuto rimanere a Trieste a lungo. Aveva già fatto molti sacrifici per me e io non potevo costringerlo a restare ulteriormente. Mi propose quindi di seguirlo in Inghilterra, almeno per un po’.» Ascoltò la pioggia battere fuori. «Per staccare. Da Trieste, da tutto. E io gli ho detto di sì.»
«E perché lo hai fatto?»
«Stabilità» rispose subito. «Volevo staccare, ma volevo anche stabilità. I mesi in seguito all’incidente sono stati… turbolenti. Almeno con mio zio avevo una routine normale, vivevo nella mio appartamento e non nella casa famiglia, avevo ripreso ad andare a scuola normalmente e ho anche preso il diploma. Anche se avevo paura di andare a vivere in un paese straniero che non avevo mai visto, sentivo che rimanendo a Trieste ci avrei solo rimesso.»
«Ma ora la situazione è cambiata e non sai cosa scegliere.»
«Esatto.» Isotta giocherellò con il laccetto del cardigan.
«Cerchiamo di ragionare in questo modo, intanto.» Il signor aprì le mani davanti a sé. «Immagina: hai una bilancia, da una parte mettiamo Trieste, dall’altra Londra. Devi aggiungere le variabili che condizionano la tua scelta e quella che pesa di più, naturalmente, “vince”. Devi averci pensato su almeno un po’: cosa mettiamo nei piatti?»
Isotta giocherellò con il laccetto del cardigan. Raffigurò nella sua mente una bilancia lucente come quella retta dalle statue della Giustizia e da una parte comparve il mare azzurro di Trieste, Miramare in fondo, il gelo della bora che correva su Molo Audace e che accarezzava la chioma setosa di Ilenia. Sul molo, però, non c’era nessun altro. «Ilenia.»
Il signor Fell sorrise bonario. «Ragioniamoci ancora. Perché mettiamo Ilenia?»
«Perché è la mia ragazza.» Non avrebbe detto altro, non a lui, ma la scelta di Ilenia era così banale che faticava a descriverla. «Perché è la mia migliore amica. Se non tornassi, non so cosa ne sarà di noi. Lei sarebbe furiosa.»
Il signor Fell fece una smorfia stranita, ma si ricompose immediatamente. «Altro? Qualcun altro?»
Isotta schiuse le labbra, ma non disse nulla. Nessun volto comparve nella sua mente, non Elisa, di cui non aveva notizie dalla maturità, non i suoi ex amichetti del tennis con cui aveva solo bevuto qualche Coca al bar, non le compagne di classe con cui aveva condiviso le serate in hotel all’estero. «Nessuno.»
Il signor Fell rimase impassibile. «Nessuno?»
Isotta scosse la testa. «Più che altro, c’è un posto che conosco, di cui so la lingua e la cultura.» Si slacciò il laccetto e lo riannodò. «Io amo Trieste. Amo il suo mare e vedere il Carso ogni mattina.»
«Più di Londra?»
«Non lo so. Questo davvero non lo so. Però mi piace anche Londra. C’è così tanto da vedere e da fare. Com’era quel detto dell’uomo stanco di Londra?»
«”Chi è stanco di Londra, è stanco della vita, perché a Londra si trova tutto ciò che la vita può offrire”.» recitò il signor Fell. «Samule Johnson, critico letterario del diciottesimo secolo e uno dei più illustri della nostra letteratura. Onestamente, concordo. Non lascerei Londra per tutti i libri del mondo, per quanti difetti possa avere.»
«Lei ha sempre vissuto qui, giusto?»
Annuì. «Tutta la vita. Ho anche viaggiato, in Europa e negli Stati Uniti, ma niente mi dà quello che dà Londra.» Si schiarì la gola. «Tornando al nostro discorso, pensiamo appunto a Londra. Cos’hai qui?»
«Mio zio» disse Isotta. «È la mia famiglia. È l’unico ad essere rimasto quando volevo allontanare tutti.»
Il signor Fell giunse la mani in grembo. «È molto affezionato. Sei davvero la sua principessa.»
Isotta strinse le mani che teneva intrecciate. «Sì. So che vuole solo il mio bene.» Incurvò un poco le labbra. «Io sto davvero bene con lui. Certo, è un po’ strano, il sabato sera torna sempre un po’ brillo e mi tocca metterlo a letto di peso» il signor Fell ridacchiò. «Però ha fatto tanti sforzi per me, a Trieste soprattutto. Se me en andassi… mi sembrerebbe come se gli stessi mancassi di rispetto. Come se tutto quello che abbiamo costruito non fosse servito a niente.»
Il signor Fell annuì. «C’è qualcun altro? Sono sicuro che  ti sei fatta qualche amico.»
Isotta si tormentò la manica del cardigan. «In realtà sì, più o meno.» Guardò verso l’ingresso. «Stasera mi vengono a prendere in moto due ragazze che ho conosciuto ai campi da tennis. Andiamo al cinema.»
Il signor Fell sorrise. «Tuo zio era un po’ preoccupato, sai? Non capiva se stessi effettivamente cercando di ambientarti.»
«All’inizio non mi sono minimamente sforzata, questo è vero» ammise. «Sto cercando di recuperare.»
«E alla luce di tutto questo» riportò le mani aperte, come se reggesse due piatti. «Cos’è che ti impedisce di scegliere?»
Isotta guardò la sua mano destra, poi quella sinistra. Da una parte un castello bianco, Ilenia che l’aspettava, dall’altra il Big Ben e suo zio che la chiamava. «So che qualunque cosa io scelga qualcuno rimarrà deluso» rispose. «Qualcuno sarà arrabbiato con me perché non ho soddisfatto le sue aspettative. E io non voglio farlo.»
Il sorriso del signor Fell scomparve. Si risedette composto e la guardò serio, come un insegnante severo con un alunno incapace. «Isotta» disse. «C’è un problema nella tua risposta.»
Lei inclinò la testa. «Cioè?»
«Il fatto che tu stia pensando solo ed unicamente agli altri e non a te stessa.»
Isotta lo guardò a bocca aperta. Borbottò qualche parola confusa, ma non ribatté. Non aveva nulla da replicare. Come aveva potuto non accorgersene mai?
«Non voglio dire che tu stia del tutto sbagliando» puntualizzò. «È naturale scegliere in base ai nostri affetti, ai nostri cari. Ma qui tu stai soltanto pensando a come reagirebbero gli altri in base a cosa sceglierai e poni su questo il tuo ragionamento.»
«N-non credo sia un aspetto di poco conto, sinceramente» si difese Isotta.
«Non sto dicendo questo» rispose. «Ma è ben diverso da quello su cui dovresti basarti.»
«E su cosa cazzo mi dovrei basare, allora?!»
«Isotta!»
Lei trasalì, il signor Fell incrociò le braccia. «Sono disposto ad aiutarti» disse, calmo. «E capisco che per te sia difficile parlarne, ma cerca di aggiustare il tono. Sono pur sempre il tuo capo.»
Il petto le bruciò e si morse il labbro. «S-sì. Scusi.»
Lui annuì. «Dicevo, tu mi hai parlato soltanto di altre persone, di come temi reagirebbero. Non mi hai detto niente di quello che vorresti fare, di dove sarebbe più probabile realizzare i tuoi sogni, dove preferiresti studiare e intraprendere una carriera. Io non so niente di tutto questo. Tu lo sai?»
Isotta restò di sasso. Ripensò alla discussione con Anathema, al suo piccolo sogno di una cattedra che ormai aveva, come in automatico, accantonato. Pensando al suo futuro, vedeva solo uno schermo nero. «No» mormorò. «Non lo so.»
«Non vorrai mica mettere a posto libri tutta la vita?»
Isotta accennò a una risatina. «Non sarebbe così male, in realtà.»
Lui sorrise malinconico. «No, Isotta. Tu hai capacità che vanno ben oltre a un semplice scaffale. Tra un anno ti sarai stancata di doverle buttare tutte per un pacco di libri da catalogare. Io non posso farti fare molto di più.»
Isotta non rispose. Forse, il signor Fell non aveva tutti i torti. Come poteva sapere se quel posto, nel giro di un anno, le sarebbe diventato stretto? Tutti che andavano avanti, e lei che rimaneva nella sua bolla.
«Lascia che ti racconti una cosa» riprese il signor Fell. «Forse ti aiuterà a schiarire le idee. Ti ricordi quando ti ho detto che dopo il fatto di Oscar» la voce gli tremò impercettibilmente. «Ho dato le dimissioni dalla Fell?»
«Sì.»
«In realtà, le cose andarono in maniera più complessa. Ai miei fratelli e a mia madre – mio padre era già spirato – non andava l’idea di licenziarmi. Ero pur sempre parte della loro famiglia, anche se ero quello meno capace, quello più particolare, quello che spiccava meno. Mi dissero che avrei potuto rimanere, ma non senza far finta di nulla. Ovviamente, avrei dovuto rompere con Oscar – che avevano cambiato di ufficio - , loro avrebbero, in qualche modo, risolto la cosa spargendo una voce falsa. Uno scherzo dovuto al troppo vino, qualcosa del genere, qualunque cosa per proteggere l’immagine della famiglia, magari trovandomi una ragazza.» Si fermò un attimo. «Ero a un bivio: avrei dovuto praticamente scegliere tra la mia famiglia e me stesso. Se avessi accettato il loro compromesso, la nostra vita sarebbe continuata come prima, ma già all’inizio sentivo che le cose non andavano. Non ero più il benvenuto, non ero invitato alle cene, a lavoro avevo ruoli sempre più marginali e ovviamente non avevo il diritto di lamentarmi. Così un giorno sono tornato qui.» Allargò le braccia, indicando la libreria nel suo insieme.
«E lei ha deciso di lasciare» concluse Isotta.
Il signor Fell annuì. «Non è stata una decisione a cuor leggero, naturalmente. Ogni sera mi attanagliava il pensiero che il giorno dopo avrei dovuto passare altre dieci ore in un ufficio sterile e anonimo, con altre cinque persone che mi guardavano come se fossi un alieno, quello storto, e naturalmente nessuno mi parlava, ricevevo a malapena dei buongiorno, nessuno si avvicinava alla macchinetta delle bevande quando c’ero anche io.»
La luce del lampadario si rifletté sui suoi occhi colmi d’acqua. Sbatté più volte le palpebre, respirò a fondo e si aggiustò il papillon. «Mi sentivo come un elemento passivo e invisibile, come se qualcuno dubitasse della mia stessa esistenza. Io non esistevo, esisteva solo il mio lavoro mediocre e quel poco di buono che se ne poteva ricavare. Ero… ero un paria.»
«Ma non c’era davvero nessuno che… potesse capire la sua situazione? Possibile che a nessuno importasse?»
Il signor Fell sorrise amaro. «Certo. C’era un giovane, Daniel, che era stato da poco promosso e non conosceva la situazione. All’inizio lo evitai, perché volevo tagliare qualunque rapporto con la Fell, ma lui stesso veniva da me a chiedermi di bere un caffè, o di pranzare insieme. Lo avevano avvisato, ma a lui non importava cosa fosse successo. Sapeva che c’era del marcio, ma la Fell era la sua unica possibilità di fare carriera. Tuttora è uno dei miei più cari amici. Per il resto… gli uffici in cui lavoravo – quelli più “alti” – non erano il massimo della meritocrazia. E la mela non cade mai troppo lontana dall’albero.»
Tacque, si rilassò sulla sedia e si versò altro tè. Ne offrì dell’altro a Isotta e lei accettò. «Sopportai tutto questo per alcuni mesi, ma una mattina, non ricordo bene come successe, ma la mai mente esplose, non mi sentivo più padrone di me stesso. Invece di andare alla Fell, venni qui. Sbattei sulla porta come un matto e mio zio venne ad aprirmi con tutta la calma e la compostezza di cui fosse capace, e senza dire nulla mi fece sedere, mi offrì il tè e accolse il mio pianto sulla sua spalla.»
Una lacrima solitaria gli solcò il volto. La lasciò scorrere fluida per la sua strada e con le dita sfiorò l’orologio da taschino che teneva nel cappotto. «Sai, era un uomo di poche parole, un po’ scorbutico e misantropo come Scrooge, ma era l’unica persona a cui potevo confidare tutto quello che volevo e non mi sarei mai sentito giudicato o abbandonato, e in sua compagnia non sarei mai stato trattato come un fantasma. Naturalmente sapeva tutto, aveva tolto le parole di bocca a mia madre, ma non mi disse nulla a riguardo. Quando mi calmai, mi propose di lasciare la Fell e di lavorare qui, con lui, a tempo pieno. Tentennai, ovviamente. Si parlava pur sempre della mia famiglia. Ma alla fine accettai. Perché quella volta – e non ne ricordo molte altre, prima – decisi di scegliere solo per me stesso, decisi di intraprendere una strada che mi avrebbe fatto sentire meglio senza dover rendere conto a nessuno. Perché nessuno aveva il diritto di rendere la mia vita un inferno, nessuno, la mia famiglia in primis. Il giorno dopo diedi le dimissioni, lavorai quel poco che dovevo e nonostante fossero tutti in disaccordo due settimane dopo me ne andai. Non credo di essermi mai sentito così bene come quel giorno: avevo la mia vita in mano, avevo abbastanza risorse per vivere bene senza dover dipendere da nessuno. Sinceramente, ti auguro un giorno di provare quello che ho provato io quella volta.»
Appoggiò la sua tazza di tè e si passò una mano fra i capelli. «Avevo detto che non ti avrei fatto la predica, ma alla fine ti avrò annoiata.»
Isotta spalancò gli occhi. «No! È stato… utile, in realtà.» Volse lo sguardo al centro, dove poteva ammirare la quasi totalità della libreria. Quello era il suo paradiso, dunque. «Mi dispiace. Per quello che le è successo.»
Il signor Fell fece un cenno con la mano. «Torniamo a te, piuttosto» disse. «Hai capito ciò che ho cercato di dirti?»
Isotta fece dondolare le gambe. «Sì.»
«Dunque?»
Isotta ridacchiò. «Mi sta interrogando?»
«Non dirmi che ti ho praticamente raccontato la mia biografia per niente.»
Isotta scosse la testa. «Devo decidere prima di tutto per me stessa. È questo quello che voleva dirmi?»
«Esatto.»
Isotta si massaggiò il ginocchio. Il Big Ben suonò l’ora e accolse il suo dolce rintocco come una ninna nanna. Il cuore le tremò.
«Alla luce di tutto questo, hai le idee più chiare?»
«Forse sì» si limitò a rispondere.
«Non mi sembra che ti faccia molto piacere, però.»
«Non c’è un modo per sceglierle tutte e due?» chiese Isotta. «Non c’è un equilibrio?»
Il signor Fell la guardò con fare paterno. «Se c’è un modo, riuscirai a trovarlo.»
«E se non ci fosse?»
Il signor Fell sospirò, paziente. «A volte, alcune scelte portano a delle rinunce, Isotta. Questa è una verità innegabile. Chiediti solo questo: cos’è che desideri di più, ora come ora?»
Isotta guardò un punto fisso in basso e si accoccolò sulla poltrona. «Voglio solo tornare a casa la sera a sapere che c’è qualcuno che mi aspetta.»
Il signor Fell inclinò la testa, sorpreso. Si alzò, si avvicinò a lei e le diede un buffetto sul braccio. «Allora credo tu sappia già la tua risposta.» Le fece cenno di seguirlo e Isotta obbedì. Lui le appoggiò una mano sulla spalla. «Ora basta angustiarti. Sistemiamo le ultime cose, prepariamo il tuo contratto e poi puoi andare a divertirti con le tue amiche.» Le accarezzò la nuca mentre scendevano le scale. «Rilassati un po’.»
Non c’era molto da fare, quel pomeriggio, a parte battere sulla cassa gli acquisti di Natale all’ultimo momento e incartare romanzi pigliatutto con fiocchetti colorati. Isotta continuò a parlare poco, ma il signor Fell le rivolgeva sovente piccoli sorrisi o dolci occhiate senza proferire parola.
Ciò che le aveva raccontato era, forse, il tipo di storia che si sarebbe aspettata da una persona come lui, con un rapporto freddo con la sua famiglia e una vita che già sapeva essere stata ribaltata, ma le sue parole avevano avuto l’effetto di uno scalpello sulla pietra.
Ecco chi è, allora.
Pensò a lungo a cosa altro avrebbe potuto dirgli, a parte un altro banale “mi dispiace”, ma, alla fine, non aggiunse altro. Non era compassione ciò che lui aveva cercato, bensì un modo per aiutarla. Aveva ripescato quelle memorie dure solo per lei, ma Isotta ancora non voleva che il suo dubbio giungesse a una fine. Doveva scegliere per se stessa, certo. A parole sembrava così facile. Eppure, lui lo aveva fatto, dopo una vita passata per altri e mesi di soprusi psicologici. Forse era per quello che usciva così poco dalla libreria: quella era stata la sua salvezza, il suo angolo di pace. Gli scaffali, i muri e i libri proibiti in fondo assunsero all’improvviso un’altra aura, come se da oggetti inanimati avessero ricevuto il dono dell’anima.
Durante un minuto di pausa, diede una rapida sbirciata al cellulare. Ilenia non le aveva più scritto, ma le vecchie anteprime comparvero di nuovo. Quella sera le avrebbe risposto, ma non le avrebbe detto cosa aveva deciso. Si promise di farlo presto, quanto prima possibile. Lo doveva anche a suo zio, e al signor Fell, ma non voleva ancora timbrare il biglietto con la sua destinazione definitiva. Almeno un Natale, uno solo, lo avrebbe passato in pace, senza deludere nessuno.
 
*
Fuori la pioggia scemò del tutto, lasciando un’aria gelida e umida immersa nel buio. L’ultima giornata prevista dal suo contratto si era conclusa.
Girato il cartello, il signor Fell la chiamò nel retrobottega, parlandole per la prima volta dopo il pranzo.
«Parliamo di affari, che dici?» disse inforcando gli occhiali.
«Immagino sia giunto il momento.»
«Stavo pensando» incominciò mentre tirava fuori le carte. «Vorrai iniziare l’università, giusto?»
«Sì.»
«Per cui avrai bisogno di tempo per prepararti. Volevo proporti due opzioni» la guardò oltre le piccole lenti tonde. «Sei mesi, fino a giugno, o altri tre mesi, fino a marzo. Cambia solo la durata.»
Isotta picchiettò le unghie sul tavolo. Sei mesi erano troppi, ma tre soli sarebbero stati ancora l’ennesima soluzione temporanea.
«Preferisci una via di mezzo?» chiese il signor Fell.
«Se è possibile, magari sì.»
«Metà aprile?»
«Andata.»
Aggiustarono le ultime questioni burocratiche e infine il signor Fell le passò la penna per firmare.
«Non ho mai visto un dipendente che preferisce i contratti brevi.»
«Sì, mi hanno sempre detto di essere particolare».
«Mi saprai dire cosa hai deciso, entro Pasqua?»
«Sì, glielo prometto. Forse».
Il signor Fell le diede un leggero scappellotto sulla nuca, ma poi le fece un buffetto sulla guancia. Isotta rispose sorridendogli.
Frieda le scrisse dicendole che sarebbero passate in pochi minuti. Isotta si infilò sciarpa e cappotto e raggiunse la cassa. «Signor Fell, non mi ha ancora detto se c’è a Natale».
Il signor Fell, che stava pareggiando sul ripiano alcuni documenti, abbassò lo sguardo. «Isotta, tu e tuo zio siete molto cari, però ci sono i miei fratelli che… » lasciò la frase in sospeso. «Stasera ti manderò un messaggio e ti darò la risposta definitiva.»
Non se lo aspettava, ma la sua risposta le lasciò l’amaro in bocca. Isotta annuì e tornò nel retrobottega per scaldarsi vicino alla stufa, ma il signor Fell la chiamò di nuovo.
Zampettò fino alla cassa. Quando il signor Fell la vide arrivare sfilò dalla tasca posteriori dei pantaloni il portafoglio, estrasse due banconote e gliele porse. «Consideralo un bonus natalizio».
Isotta tentennò. Schiuse la bocca, ma il signor Fell le afferrò con dolcezza la mano e le chiuse le dita intorno ai due pezzi da cinquanta sterline. «Niente storie, ti serviranno, fidati. Che tu scelga di restare qui o tornare in Italia».
«No, ma, signor Fell» fece per ridargliele, ma lui la respinse. «Lei mi paga già bene, tutto questo non serve». Non era solo una questione di soldi: lui l’aveva accolta nel piccolo mondo che ormai sentiva anche suo, le aveva preparato il pranzo per settimane, l’aveva aiutata a uscire un poco dalla gabbia che per mesi l’aveva tenuta lontana da Ilenia. Le aveva dato troppo.
«Se non li prendi ora te li ritroverai nella busta paga di gennaio. Non hai scampo» le colpì la manina chiusa con le nocche. «Te l’ho detto, prendilo come un bonus. O la mancetta del nonno.»
Isotta aprì la bocca per ribattere, ma il signor Fell le prese le banconote e gliele infilò in tasca. Ridacchiò e strinse la cintura del cappotto. «Grazie, signor Fell.»
Lui le sorrise e chiuse la cassa. «Devi andare?»
Isotta annuì. «Mi aspettano nella strada qua vicino.»
«Allora buon Natale, cara» si alzò e si strinsero la mano. «Com’è che fate in Italia?»
Isotta sgranò gli occhi, ma rise. «Se si abbassa glielo faccio vedere».
Si sporse verso di lei, inondandola con un delicato aroma di colonia. Isotta si avvicinò alla sua guancia destra, sfiorandogli appena la pelle sbarbata con la sua e schioccando le labbra, poi ripeté a sinistra. «Buon Natale.»
Lo salutò per un’ultima volta, sventolando la mano mentre si dirigeva verso l’uscita. Fuori, Isotta volse lo sguardo al titolo cremisi illuminato dalla tenue luce di un lampione. Non era finita, per fortuna. Sarebbe tornata.
Trovò Frieda e Kat nella strada accanto. «Ehi, cucciolina!» esclamò Frieda. «Tieni qua.»
Le passò un casco rosso con le fiamme dipinte sopra. Isotta se lo infilò arrancando, facendosi aiutare da Kat.
«Sei mai stata in moto?»
«No, in realtà.»
«Allora vieni con me» disse Kat. «Altrimenti muori di infarto.»
Frieda sbuffò, ma le diede un colpetto sulla schiena e accese il motore.
Arrivate alla cineteca, comprarono tre pacchi di popcorn e presero i posti in fondo. Il cellulare vibrò un secondo appena si sedette e Isotta lo sfilò dalla borsa per togliere la suoneria. Un solo, breve messaggio comparve sulla schermata Home. Era il signor Fell.
“A Natale ci sarò”.
   
 
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