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Autore: The Custodian ofthe Doors    13/10/2021    3 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XV- Eye- parte prima.
 

La stanza era grande e lunga, il soffitto alto e decorato.
Era una ricorrenza particolare, una cena importante, persone altolocate, ai vertici dei loro ambienti, sedevano impettiti e rigidi come fusti sulle sedie dalle spalliere lucide e lavorate.
I vestiti delle dame colorati dai toni tenui, i completi degli uomini scuri e stirati alla perfezione, la linea dei pantaloni marcata, l’orlo della gamba che si alzava di quei pochi e necessari centimetri scoprendo la calza scura.
C’era un tintinnio di piatti gentile, brusio basso di convenevoli condivisi mormorando tra un boccone e l’altro, dopo aver gentilmente tamponato le labbra.
Le tende ricamate erano tirate in modo da permettere la vista della città di notte, dei tetti bassi della zona popolare, di quelli più alti alti e solenni dell’alta società, dei palazzi del governo.
Lo sfarzo così elegante, così severo, così come doveva essere.
Il grande lampadario di cristallo gettava riflessi ed ombre sulla tavolata.
Era strano come pensiero, strana come immagine: la luce si rifletteva sui cristalli ma questi, messi gli uni davanti agli altri, sostenuti dai bracci flessuosi e resistenti, formavano ombre quasi luminescenti.
Avrebbe voluto alzare la testa e fissare la fonte di quello spettacolo suggestivo. Alzare il capo e godere degli affreschi del soffitto. Voltarsi ed osservare le piccole luci delle case che circondavano il maniero.
Ma non poteva. Non poteva muoversi, non sarebbe stato a modo, non sarebbe stato come doveva essere.
Dentro quella sala enorme, tra quello sfarzo austero, a quel tavolo pieno di ogni ben di Dio, circondato dal meglio che la sua nazione poteva offrire, alto nella sua torre d’avorio, con quel caldo soffocante, i discorsi mormorati come preghiere, i pensieri legati come carcerati, non poteva far nulla se non cercare d’esiste nel modo più giusto possibile.
Non poteva andare alla finestra ed osservare il mondo “libero” che piano si assopiva col procedere della notte. Non avrebbe visto nulla comunque, lo sapeva, nulla di interessante se non le bandiere rosse come il sangue, il cerchio bianco cangiante come la purezza che tutti decantavano e ricercavano, la svastica nera come le giube dei soldati, come l’oblio, come la morte.
Solo il lampadario di cristallo donava un po’ di luce. Fallace, irrealistica, che generava riflessi ed ombre.
Ma come può un cristallo avere lati oscuri?
Come poteva qualcosa di così bello ed etereo essere simbolo di una società così corrotta?
Sul suo piatto di porcellana un fascio bianco sembrava sfidare il candore dello smalto tirato a lucido.
Essere circondato da tanta luce non l’avrebbe salvato dal buio che s’annidava in ogni dove.
Ed il cuore di quel buio sedeva proprio al capo di quella stessa tavolata.
 
 
Quel ricordo scivolò subdolo nella sua mente senza alcun motivo. O forse un motivo c’era ed era più che evidente.
La luce crepuscolare dell’Ade si rifletteva su tutti quei frammenti di sfere, su tutti quei piccoli e minuscoli pulviscoli brillanti, come avevano fatto le lampade sui cristalli del lampadario nella sala ricevimento di suo nonno.
Jonas fissò intensamente l’erba nera, ornata di brillantini come il raso dei vestiti da sera delle giovani donne più ricche di Berlino, come andava di moda nei lontani ma per lui vicinissimi anni ’30.
L’unica cosa che luccicava più delle Praterie era la veste candida di Cicno, la sua pelle pulita ma non priva di cicatrici. Forse gli altri non l’avevano notato, forse vedendolo così lindo e ben vestito non si erano soffermati sui dettagli, ma Jonas l’aveva visto, Jonas ricordava le condizioni pietose in cui versava il corpo del giovane greco, ne ricordava ogni ferita, ogni livido, ogni contusione, ogni abuso violento e crudele che le guardie dei Campi di Pena gli avevano inflitto in tutti quei secoli di tortura.
Si era domandato, dopo le parole di Nathan nell’Area Cani, se l’aspetto dei suoi ex compagni di tormento fossero le stesse in cui versavano tutti gli oppositori politici ed i ribelli che venivano mandati nei campi di lavoro, se anche lui avrebbe avuto quell’aspetto se fosse rimasto lì, se non avesse cercato la via più semplice per risolvere ogni problema della sua vita.
 
Risolti solo per me, lasciati in eredità a tutti gli altri, a chi è rimasto.
 
Nella sua sfortuna, nella sua condanna, Jonas era stato fortunato, incredibilmente graziato da divinità che conosceva solo grazie all’ora di letteratura latina e di storia. Non era mai stato fustigato o picchiato come molti altri, dalla sua terrazza non si alzavano le stesse grida di dolore che si potevano sentir salire dai piani inferiori. No, erano più lamenti tristi e lugubri, pietosi e lagrimosi. La gente si pentiva, si malediceva, si struggeva in lacrime amare ma non per un dolore fisico, questo no. Non erano stati così cattivi da meritarsi una punizione violenta. Non erano stati altro che vili codardi e come tali non erano neanche degni delle attenzioni degli aguzzini degli inferi.
 
Non si spreca fatica per un codardo, dopotutto, si è già umiliato abbastanza da sé.

Per chi invece si era macchiato di crimini peggiori, oltre la codardia, tanto da meritarsi torture indicibili, non vi era possibilità che i Giudici Infernali avessero concesso loro il lusso della miseria dell’ottava terrazza. Per loro il buio ed altri gradini ad attenderli sino al luogo, alla categoria, che più rispecchiava le loro infamie.
Cicno era stato onesto fin da subito, non aveva nascosto a nessuno il suo essere un dannato, l’aveva specificato quasi e se fosse perché davvero non ne provava vergogna o se l’avesse fatto solo perché c’era lui e poteva smascherarlo in ogni momento, Jonas non lo sapeva.
Di nuovo, no, forse poteva dirlo con certezza: Cicno non si vergognava della sua condanna, non si vergognava di ciò che aveva fatto in vita.
 
Un po’ come Cade. È un beato ma ammette di non aver proprio vissuto la vita più onesta del mondo, ammette senza problemi che se non fosse stato per un suo compagno non sarebbe probabilmente neanche mai entrato nei Campi Elisi.
 
Ma la situazione era diversa: Cade alla fine aveva fatto qualcosa di buono, qualcosa di così buono che gli era valso la grazia e, in ogni caso, dubitava fortemente che sarebbe finito in chissà quale terrazza bassa. Mentre Cicno… lui era tutto un altro mondo.
Non aveva detto loro da dove proveniva, non aveva detto un numero, non aveva detto un misfatto, una colpa, un vizio o un peccato. Aveva detto d’esser un dannato e nulla di più.
Probabilmente questo suo modo d’essere, di presentarsi, era stato in grado di farlo entrare in perfetta armonia con Cade. Quel loro condividere un destino, un passato, di cui andavano quasi fieri o che, comunque, non rinnegavano; l’odio verso il genitore divino che li aveva messi al mondo e poi nulla aveva fatto per loro, per la loro famiglia mortale.

Genitori divini di cui però possiedono grandi poteri e che utilizzano a loro piacimento, a quanto sembra.
 
Jonas non voleva credere che semplicemente il loro legame speciale permettesse all’altro di calmarlo e di comprenderlo al meglio. Poteva accettare la parte della comprensione ma non quella in cui lo portava quasi alla pace dei sensi con due semplici parole e la sua presenza.
Bellissima eh, per carità, ma non credeva possibile tranquillizzare un essere umano – lo era ancora? Poteva ancora definirsi tale? – solo grazie ad un bel faccino e ad una voce dolce.
Un volto più che bello, davvero affascinante, delicato e forte come le statue di marmo. E la voce non era solo dolce, pareva proprio di miele, quella stupida definizione da libro che finalmente, con Cicno, aveva preso contorni reali, suoni udibili. Era davvero il canto ammaliatore di una sirena.
Un sirenetto.
Un tritone.
Dannazione, perché doveva incastrarsi sempre in queste piccolezze?
Rimaneva il fatto che Cade e Cicno condividevano molti punti in comune e Jonas ci scommetteva l’anima, solo quella gli era rimasta alla fine, che questi punti fossero ancor di più, che il tempo passato assieme, le sicure infinite chiacchiere di Cade che portavano tutti allo sfinimento costringendoti a rispondere pur di farlo star zitto per cinque minuti, il fatto che Cicno l’avesse salvato e non abbandonato a sé stesso, all’oblio, dovevano aver creato un legame più forte di quanto non dessero a vedere.
Per lo meno per Cade, per il greco non poteva certo parlare.
 
Non potrei parlare neanche per lui in effetti, non è che lo conosco da una vita.
 
Eppure era così che si sentiva in quel momento, ad analizzare il comportamento dei suoi compagni di viaggio, le motivazioni, le parole, le azioni. Si sentiva così sicuro su ognuno di loro, chi più, chi meno, e assolutamente certo su Cade. Proprio come se l’avesse conosciuto una vita fa, proprio come se non avesse mai abbandonato il suo fianco.
Proprio come un amico.
Con una smorfia pensierosa Jonas riportò tutta la sua attenzione sui frammenti luccicanti delle sfere, che brillavano come i cristalli del lampadario della sala delle grandi occasioni a casa sua, che brillavano come i gradi lucidati sulle spalline delle divise dei militari, come i gioielli delle loro mogli e figlie.
Come i bracciali che ora scintillavano placidi ai polsi fini di Cicno, catturando la luce fantasma che li seguiva come un’ombra.
Il greco stava raccontando agli altri come avesse fatto a trovare Cade, come avesse avuto “il sentore delle malattia” e si fosse scioccamente ritrovato a seguirlo invece di andarsene per la sua strada. Era stato piuttosto onesto, aveva detto chiaramente come trovare l’altro semidio fosse stato un disegno del Fato, qualcosa di superiore a lui.
 
 
«Non vorrei ti offendessi, Cade, ma maledicevo me stesso mentre ti tenevo in grembo, ripetendomi quanto fosse sciocco da parte mia fermarmi a curare un completo sconosciuto invece che proseguire per la mia via.» disse abbozzando un sorriso quasi ironico.
Davanti a lui, che marciava come suo solito tenendo l’ingombrante gonna sollevata, Jane annuì.
«Sciocco a dir poco. Trovi uno sconosciuto, ridotto anche piuttosto male, e ti fermi a salvarlo. Poteva essere un dannato, ma in effetti dubito che sarebbe stato un problema per te, vero?» chiese poi retorica.
Cicno si strinse nelle spalle. «A mia discolpa, posso solo dire che dopo anni passati nelle profondità più recondite della terra, l’odore del cielo è piuttosto invitante e quasi impossibile da rifiutare.»
«Odore del cielo?» domandò Lea guardandolo confusa.
Ma Cicno annuì solo e prima che chiunque provasse a fargli altre domande, continuò il suo racconto.
«Ho atteso al principio che si svegliasse da sé, ma il tempo scorreva ed il sommo Chrono non è mai stato un Dio misericordioso. Così ho dovuto ricorrere a dei canti curativi. Poche strofe e già era desto, una semplice febbre, forse colpa dell’affaticamento che le Praterie provocano alle nostre menti.» specificò a beneficio degli altri, scambiando con la sorellastra un’occhiata d’intesa.
Lea annuì concorde, ma non riusciva a togliersi dalla testa quella frase, quell’ “odore di cielo”. Cielo significava aria, che significava vento, che significava correnti. E se era ovvio che per transizione si arrivava inevitabilmente a Cade, era anche vero che Lea in quel momento continuava a pensare a ciò che era successo nell’Area Cani.
Poteva chiedere a Cicno se ne sapeva qualcosa? Se l’avesse sentita anche lui?
A quel pensiero Lea si ritrovò a cercare la medaglietta di Artemide, quella che lei teneva nella tasca dei suoi pantaloni proprio come Jonas, Úranus, Eliza e Nathan nella loro casacca, Jane al sicuro nel corpetto, Cade probabilmente buttata nella sacca. Dov’era quella di Cicno? Non le sembrava avesse tasche in cui infilarla, così come non la vedeva appesa alla cintola che teneva il gonnellino candido aderente ai fianchi stretti.
Con una punta d’imbarazzo si domandò se non fosse sotto le sue vesti e a quel pensiero si sbrigò a concentrarsi su altro.
Cosa stava pensando prima di quello? Oh, ma certo, ciò che era successo nell’Area Cani! Cicno pareva saper così tanto del mondo divino, ancor più di Nathan ed Úranus, ancora più dei due e di lei messi assieme, forse avrebbe potuto dar loro una spiegazione, però-
Spostò lo sguardo verso destra, cercando quello di Eliza e poi, quando non riuscì ad intercettarlo, impegnata com’era nell’ascoltare come il figlio di Apollo sapesse orientarsi nelle Praterie, quello di Úranus.
Il suo amico dovette sentirsi osservato perché si volse subito verso di lei, lanciandole una muta domanda. Lea mosse il naso come un topolino, indecisa su come chiedere qualcosa senza farsi scoprire e provò a mimare le parole prima di rendersi conto che sì, forse potevano sentire ogni discorso tradotto nella propria lingua natia, forse potevano anche ascoltarlo in greco antico e poi ritrovarselo magicamente convertito in altro, ma le loro labbra, le parole che pronunciavano, continuavano ad essere sempre quelle della lingua che parlavano in vita.
Úranus la guardò confuso, alzando un folto sopracciglio rosso e scuotendo leggermente la testa. Lea allora sospirò scoraggiata e si voltò verso Nathan, sperando almeno di riuscire a far capire qualcosa a lui, anche a gesti.
Il soldato la degnò a mala pena di uno sguardo finché lei non gli rifilò uno schiaffo sulla spalla, guadagnandosi un altro sguardo confuso da Úranus ed un infastidito dal biondo.


«’Cazzo vuoi?» ringhiò Nathan.
Lea alzò gli occhi al cielo, cercando di fargli capire di star zitto e rallentando un poco il passo per lasciare che Cicno ed Eliza si avvicinassero di più a Jane, superandoli.
«Sssssh! Senti, sentite.» bisbigliò facendo cenno anche ad Úranus di avvicinarsi.
«Eh?»
«Stavo pensando-»
«Già cominciamo male.» borbottò Nathan. Lea gli diede un altro schiaffo.
«Stavo pensando! Magari lui sa cos’è successo durante la scorsa prova. Il vento che abbiamo sentito, dico.» spiegò a bassa voce.
Úranus aggrottò le sopracciglia. «Credo che quello fosse merito di Cade.»
«Intendo la strana sensazione, la pressione, quella roba là, prima che Cade facesse ciò che ha fatto.»
«Che per altro non sappiamo ancora cosa sia.» aggiunse il biondo voltando leggermente indietro, dove, come di consueto ormai, Cade e Jonas camminavano parlottando tra di loro. Probabilmente come Cicno stava facendo con Eliza e Jane, anche Cade stava raccontando all’altro cos’era successo mentre erano divisi.
«Lo stronzetto salta così in alto che praticamente vola, usa correnti d’aria per spostarsi o spostare cose, anche indefinite com’è successo alla prova di Artemide. Aggiungici quella cazzata del filo da seguire per ritrovare i suoi oggetti…» elencò Nathan pensieroso.
«Potrebbe essere l’odore?» disse Úranus. «Cicno ha detto d’aver percepito “odore di cielo”, forse così come lui ha trovato Cade in quel modo, Cade stesso potrebbe aver trovato i suoi oggetti seguendone la scia d’odore.»
Aveva senso, era un ragionamento più che sensato.
«Ma se odora di cielo, usa le correnti e praticamente vola… c’è solo una divinità capace di fare tutto ciò, giusto?» domandò Lea titubante.
Úranus scosse il capo. «Almeno due: il Divino Zeus-»
«Cazzo, mi mangio le mani se è così, ma penso sia anche la cosa più probabile.» annuì Nathan.
«E il divino Ermes.»
«Piedi alati, salti della madonna, capacità di trovare le cose seguendo vie che gli altri non vedono.» annuì di nuovo il soldato.
Lea anche si ritrovò ad imitarlo ma poi scosse con veemenza la testa. «Non era però questo quello che volevo dire. Per quanto sia curiosa di sapere di chi è figlio, questi sono affari suoi, se non vuole dircelo non ce lo dirà e nessuno di noi lo obbligherà a farlo.»
«Sembra una frecciata verso di me che ho costretto Golia a dirmi il suo.» notò Nathan guardandola di traverso.
Lea grugnì. «Il mondo non gira intorno a te, specie ora che sei morto.» rispose lapidaria. «Io però volevo sapere cosa ne pensate del chiedere a Cicno se sa qualcosa su fenomeni simili o meno.» disse poi seria, alternando lo sguardo dall’uno all’altro compagno.
Nathan ci pensò con attenzione per alcuni minuti: il giovane era un greco, vissuto nel massimo apice della civiltà greca, della venerazione degli Dei. Doveva conoscerli meglio di tutti loro messi assieme anche perché al tempo era più probabile che qualche dio si manifestasse o manifestasse i suoi poteri in modo palese. Per di più quella strana sensazione sembrava provenire dalle viscere della terra e i Campi di Pena si aprivano in terrazze concentriche che scendevano sempre di più verso il centro del pianeta, verso il Tartaro. Se c’era qualcuno che poteva riconoscere un qualunque fenomeno legato alla discarica del mondo divino, quello era un dannato. Anche se non sapevano a quale terrazza appartenesse Cicno e di conseguenza quanto vicino, o lontano, fosse dal fondo. Di sicuro Jonas non ne sapeva nulla, non aveva mai sentito qualcosa di simile e ciò sembrava abbastanza logico visto che era all’ottava terrazza. Questo gli ricordò che sì, il figlio di Apollo non aveva fatto alcun segreto della sua provenienza, ma malgrado la sua apparente onestà non si era spinto sino a dirgli a che girone apparteneva.
 
Ci ha detto com’è morto, che odiava suo padre, che aveva perso tutto, ma questa non sembra la storia di un dannato, sembra più la storia di uno sfigato. Come può qualcuno che ha sofferto così tanto, essere relegato ai Campi di Pena e neanche alle Praterie degli Asfodeli?
 
La cosa gli puzzava, ma era anche vero che magari pur non vergognandosi del suo destino non gli andava di discutere di cose così personali davanti a gente che non conosceva. E che, in ogni caso, il fatto che fosse un dannato doveva dirlo per forza subito se no l’avrebbe fatto Jonas.
 
Però l’aveva già detto a Cade, prima ancora di sapere che lui conosceva Jonas e che l’avrebbe portato proprio da lui. Credo. Dannato rosso malpelo.
 
Capiva comunque quel minimo di riservatezza che il greco voleva mantenere così come capiva i dubbi di Lea, ma prima che potesse rispondere, che potesse dirle che forse era meglio aspettare, Úranus lo batté sul tempo.
 
«Non credo sia saggio condividere subito tutte le nostre conoscente e le nostre supposizioni. So che è ciò che, in un qualche modo, abbiamo fatto tra di noi sin dall’inizio della nostra collaborazione, ma spero converrete con me che la situazione sia diversa, in questo caso.» disse con la sua voce bassa e profonda.
Nathan annuì e così fece Lea che, persasi per un momento ad ascoltare il parlottare dei compagni dietro di lei, sospirò quasi sollevata nel sapersi tutti d’accordo su qualcosa. Loro tre per lo meno, ma era convinta che anche Eliza e Jane avrebbero acconsentito.
«Mi è simpatico, per quel poco che abbiamo visto e sentito da lui. Poteva lasciare Cade al suo destino e invece l’ha aiutato, ammettendo però subito che non l’ha fatto solo per bontà di cuore quanto più per curiosità, quindi mi pare tutto sommato abbastanza onesto.»
«Diretto.» la corresse Nathan a denti stretti, «La principessina qui è un tipetto diretto, non te le manda a dire, te lo sputa in faccia quello che pensa e non si fa troppi problemi se non a dirtelo in modo educato. Non è onestà ma solo schiettezza. Credo che ora come ora sia la sua dote migliore.»
«Attenderei comunque di conoscerlo meglio prima di rivelare tutti i nostri dubbi, timori e scoperte. Se siete d’accordo.» continuò Úranus.
I due biondi assentirono. «Possiamo provare a chiedergli qualcosa di più.» disse Nathan deciso, come se stesse preparando un piano d’attacco.
«Oh, per quello, credo ci stia già pensando Cade.» mormorò piano Lea voltandosi per spiare gli ultimi due della fila da sopra la sua spalla.
 

 
*
 


«A cosa pensi passerotto?»
La voce di Cade era bassa, casuale nella sua gentilezza.
Jonas voltò di poco il capo abbozzando un sorriso, gli era mancato aver a fianco qualcuno che facesse conversazione casuale con lui in quel modo. Ciò che non gli era mancato erano i soprannomi stupidi.
«La smetti di chiamarmi così? È imbarazzante, dannazione.» replicò arricciando il naso in una smorfia quasi schifata e del tutto costruita.
Cade gli sorrise di rimando e si strinse nelle spalle. «Perché dovrei? Tu ti imbarazzi ed è divertente. Metti il muso per finta ed è divertente. Fai facce buffe e questo sì che è davvero divertente. E poi se ti stuzzico abbastanza dici le parolacce come i mocciosi di borgata e mamma Elza ti sgrida.» concluse ammiccando.
Jonas sbuffò. «Posso dirle anche senza che mi fai arrabbiare, “le parolacce da moccioso di borgata”» replicò facendogli il verso.
«Oh, ma come! Un passerotto altolocato come te che dice queste cose? No, no, no, uccellino, ma che mi combini? Poi la tata ci rimane male e anche il precettore.»
«Smettila di prendermi per il culo, non ho mai avuto un precettore. Ho sedici anni. Beh, oddio, ne avevo sedici.» mormorò pensieroso abbassando il capo. Un’idea lo colpì come uno schiaffo in pieno volto, qualcosa su cui aveva riflettuto spesso negli anni passati ma che poi, con la gara e tutto il resto, gli era passato di mente.
Una smorfia davvero schifata gli tirò il volto mentre, girandosi lentamente verso Cade, realizzava a voce alta. «Cazzo…rimarrò per sempre bloccato nella pubertà!» esclamò con teatrale orrore.
Cade, da parte sua, sghignazzò divertito, cercando di non attirare troppo l’attenzione degli altri. «Questo vuol dire problemi mattutini ricorrenti per tutto il resto della tua esistenza, fratellino.»
Jonas finse un verso disgustato, cercando di nascondere il vago rossore che già sentiva colorargli le guance, pentendosi immediatamente della sua battuta.
Si schiarì la voce e accennò con il capo alle anime davanti a loro, nel tentativo disperato, ma non troppo palese – sperava – di distogliere l’attenzione dall’argomento.
«Cicno sta raccontando a tutti com’è andata, gli lasci tutta la scena?» provò.
Cade si strinse nelle spalle. «Non che stia dicendo nulla di sbagliato, alla fine è esattamente quello che è successo.»
«Ti ha salvato per pura curiosità? Davvero?» insinuò in modo giocoso il ragazzino, ma quella frase portò un velo di serietà sulla loro conversazione.
L’irlandese fissò lo sguardo sulla schiena dritta dell’oggetto della discussione. «Non posso dirlo con certezza. So solo che stavo vagando per le Praterie quando ho sentito il rumore de-» si bloccò, pensandoci su per un poco, poi si volse verso Jonas abbozzando un sorriso sghembo dei suoi, «non prendermi per pazzo, ma ho sentito il rumore del silenzio. E quando è diventato troppo forte, quando ho sentito di star per impazzire, sono svenuto, credo. Mi sanguinavano le orecchi, ci crederesti? Guarda?» e così dicendo si sporse verso l’altro tirandosi leggermente il lobo.
Jonas si ritrovò ad osservare con curiosità ed apprensione i residui rossastri e le piccole croste marroni rimaste attaccate alla conchiglia dell’orecchio e nel canale del timpano, tirando indietro il capo quasi potesse sentire lui stesso la sensazione del sangue rappreso nel suo di orecchio.
«Il rumore era insopportabile e poi ho sognato. Era il ricordo di Úranus, non c’era dubbio, l’ho capito al volo. Subito dopo c’era questa voce angelica che cantava piano, era così rilassante che sembrava quasi una ninna nanna per bambini. Ho aperto gli occhi e mi sono ritrovato a dormire sulle gambe dell’angioletto. Mi ha rimesso in piedi, mi ha dato sacca e sfera, che ha detto di aver trovato vicino a me, e- beh, che potevo fare? Quello mi aveva appena salvato la vita, mica potevo lasciarlo lì da solo.» concluse stringendosi nelle spalle.
Jonas annuì. «Ti ha detto subito che era un dannato?» domandò a bassa voce.
Cade ammiccò con le sopracciglia, «Ci crederesti se ti dicessi che ne sembra quasi orgoglioso? Lo capisco, sotto un certo punto di vista. Insomma, non conosco tutta la sua storia, quindi non posso esserne sicuro, ma, per come ne parla lui… sì, ha fatto delle cose non proprio carine in vita, lo ammette senza rimpianti o rimorsi, è incazzato nero con il padre e se anche il mio mi avesse fatto quello che ha fatto a lui il suo… lo capisco, ecco. E non farti abbindolare dal suo bel faccino, ha un bel caratterino.»
«L’ho notato, per un attimo ho temuto che Nathan gli volesse staccare la testa…» rispose l’altro ironico.
«Oh, ma ci sarebbe dovuto arrivare, per staccargliela.» commentò serio Cade. «Non sto dicendo che Nathan non sia più forte di lui, sto dicendo che ne ho visti di ragazzetti che sembrano delicati, gentili ed innocenti, ma che in realtà sono capacissimi tanto di sputare veleno quanto di ucciderti nel sonno.»
«Su questo non faccio fatica a crederti. Quando ci siamo incontrati, io e Cicno, eravamo insieme ad un gruppo di altri dannati e a capo della “spedizione”, se possiamo chiamare così una marmaglia di criminali di ogni genere-»
«C’eri anche tu tra quella marmaglia però, come ti ha convinto ad andare con loro? È stato Cicno, no?»
Jonas fece una smorfia, cercando il modo migliore per spiegare qualcosa che neanche lui aveva ancora ben capito.
La verità è che, una volta incontrati Cade e gli altri, non aveva più avuto né modo né occasione né necessità di riflettere sulla faccenda.
Si strinse nelle spalle e affondò le mani nelle tasche dei pantaloni. Se sua madre l’avesse visto gli avrebbe rifilato un’occhiata delle sue ricordandogli come non fosse un garzone che non sapeva dove tener le mani e che infilarle così a forza nelle tasche non era minimamente elegante e rovinava la forma del pantalone. Non che il suo ne avesse più una precisa, era persino tutto rovinato sull’orlo.
«Sinceramente? Non mi è stato chiesto. Stavo aspettando che il grosso della folla uscisse dai Cancelli Neri, quando ho- avvertito, una strana sensazione. Brezza di mare, una pressione incredibile addosso, e poi sono svenuto. Quando ho riaperto gli occhi era sulla spalla di un gigante nero che mi stava trasportando fin al punto di partenza perché questo era il volere degli Dei.»
«Davvero?»
Jonas annuì. «Io… non so se te ne ho mai parlato.» iniziò vago, «Ma, ecco, non ero proprio certo di volermi iscrivere alla gara, di voler partecipare.»
Cade lo guardò con un’espressione abbastanza neutra, come se stesse cercando di non mostrare nessun sentimento che potesse infastidirlo o ricordargli qualcosa di brutto, come se non volesse farsi vedere lui stesso infastidito da quella sua confessione. Non disse nulla e lo lasciò proseguire.
«Poi, ad un certo punto, è apparso un uomo con una lunga cappa scura ed un cappello a falde larghe quasi ridicolo. Aveva questa piuma nera lunga, che sembrava così soffice ed era a piedi nudi e- e non toccava terra. Era un Dio, ovviamente.» espirò una risata tremula e deglutì. «Ipno, sai chi è?»
Cade annuì. «Dio del sonno, giusto? Ti ha convinto lui? Di persona dico?»
Jonas fece un mezzo sorriso, come se anche lui stentasse ancora a crederci. «Venne a “portarmi il mio biglietto”. Disse che forse non erano il Dio misericordioso dei cristiani, ma anche loro sentivano tutto. La sfida sarebbe stata più interessante se avessimo partecipato tutti. Mi diede il biglietto, mi diede un papavero e trasformò il gioco che portavo al collo nel monile che vedi ora.» spiegò toccando il filo spinato lucente che riposava sulle clavicole. «Credo che il tipo me lo abbia mandato Ipno, sai? Per aiutarmi.»
Ma Cade già non lo stava più ascoltando, la sua attenzione tutta canalizzata su di un unico dettaglio.
 
Il collare.
I bracciali di Cicno che brillavano.

 
«Anche Cicno.» mormorò appena accennando con il mento al collare.
Jonas lo guardò annuendo grave, la consapevolezza ben chiara sul suo volto.
«Prima che arrivaste, la mia collana stava brillando. Credevo sarebbe esplosa facendomi saltare la testa.» ammise con leggero imbarazzo, che cosa stupida che gli sembrava ora.
Cade però non la trovò minimamente sciocca come possibilità e annuì più volte, lo sguardo perso lontano, verso pensieri e ragionamenti intricati che andavano accavallandosi gli uni sugli altri.
«Ne sai qualcosa? Su quei gioielli, dico. Cicno sicuramente sì, mi ha detto che mi avrebbe spiegato tutto quando saremmo stati insieme, così non si sarebbe dovuto ripetere.»
A quelle parole Jonas sgranò gli occhi. Cicno sapeva? Non gli aveva mai detto nulla, non aveva mai neanche accennato al fatto che sapesse qualcosa sulla sua collana. Ma forse sapeva solo dei suoi bracciali, non di tutti gioielli esistenti, fatti dagli Dei… che anche i suoi fossero stati fatti da Ipno?
«Possiamo chiederglielo ora?» domandò Jonas riportando lo sguardo sul greco.
Cade ghignò in modo quasi sinistro, ma Jonas non poteva sapere che quello sguardo, quell’espressione, era ciò che si dipingeva sul volto del suo amico ogni volte che aveva organizzato un piano, ogni volta che aveva raccolto informazioni, ogni volta che era arrivato un po’ più vicino al suo obiettivo.
Cade non era stupido, non lo era mai stato. Non era neanche intelligente, come molte persone amavano definire quelle capacità mentali logiche, nozionistiche. No, Cade era furbo, nel senso più triviale del termine, e non gli c’era voluto molto per capire che due dannati, che si erano già incontrati, divisisi per poi rincontrarsi ancora, che erano legati da degli oggetti così simili, così palesemente di stampo divino, dovessero aver l’attenzione di qualche Dio.
C’era qualcuno che voleva che quei due si incontrassero, che fossero vicini, che combattessero assieme fino alla fine forse e se si erano dati tanta pena per riunirli una seconda volta, Cade se ne sarebbe data altrettanta per capire come questo potesse giocare a loro favore.
Quella era probabilmente la loro prima mano fortunata, una bella coppia che aspettava solo il momento opportuno per esser calata sul banco.
Lo sguardo di Cade si fece più affilato ed attento, i bracciali di Cicno brillavano fiocamente di riflesso alla luce soffusa che seguiva ogni anima. Doveva avere per forza un significato e lui l’avrebbe scoperto.
 
Grazie, fortuna irlandese.
 

 
*
 


La sua stanza era sempre stata estremamente accogliente.
Grande ariosa, candida. Le pareti bianche e gli specchi la facevano sembrare ancora più spaziosa, e lì dove non vi erano specchi, dove non vi erano i pannelli chiari, di legno levigato, affreschi di paesaggi campestri vivevano e respiravano come fossero veri. I fiori dipinti con maestria ondeggiavano piano al vento illustrato in fini e quasi invisibili fili biancastri, le acque cristalline dei laghetti, delle sorgenti, si increspavano placide, gli zampilli si infrangevano sulla superficie in piccole scintille. Gli insetti frinivano, le foglie frusciavano, l’affresco viveva, sì, viveva, non c’era altro modo per dirlo.
Su ogni superficie erano presenti vasi stracolmi di fiori recisi e altri di terra nera come l’Ade e fiori luminescenti come anime. Era l’incontro tra la natura di sopra e quella di sotto. Era l’unione del mondo dei vivi e dei morti. Era l’immagine perfetta di sua figlia.
Demetra sapeva che la stanza era stata decorata da Persefone, ma sapeva anche, per quanto le piacesse far finta di no, per quanto provasse piacere quasi nell’ignorare la cosa o negarla, che gli affreschi erano stati voluti da suo fratello, dipinti dalle mani magistrali di anime di grandi artisti.
La Dea si guardò attorno come faceva sempre, esaminando ogni fiore e ogni pianta, le superfici pulite ma non lucide del mobilio, le coperte di cotone e non di brillante seta. Ogni cosa era confortevole, era casa. Era il modo di sua figlia di dirle che l’amava, di farle sapere quali fossero i sentimenti che la madre le ispirava.  Persino le tende pesanti ma chiare, di tessuto grezzo, che nascondevano alte finestre in stile rinascimentale, erano state scelte in modo da impedirle la vista del luogo che tanto odiava ed illuderla che dietro di esse potessero esserci i suoi amati campi.
Ma questo Demetra lo sapeva, così come sapeva che da lì a poco non sarebbe più stata sola in quella stanza che ormai le era così famigliare.
La Dea si sedette comodamente sulla grande poltrona di vimini posta davanti al tavolo fatto di corteccia e muschio verde e fresco. Si sistemò qualche cuscino dietro la schiena ed intrecciò le mani in grembo. Attese.
 
«Sembra tu stia pensando a qualcosa di importante.»

La voce di Ade sembrò perdersi nell’ambiente come se fossero davvero in all’aperto. Demetra non si preoccupò neanche di alzare lo sguardo sul fratello, rimanendo ad osservare con attenzione il muschio che, in modo impercettibile, si espandeva con lentezza su tutta la corteccia, rigonfiandosi come una spugna su cui veniva versata acqua.
Aspettò che il Dio si sedesse sul divano vicino a lei, spostando la lunga veste nera per non averla tutta ammucchiata dietro la schiena. Quando fu soddisfatto, sospirò e si lasciò cadere di peso contro lo schienale imbottito.

«Che vuoi questa volta?» domandò senza giri di parole, perdendo anche quell’aura di distaccata educazione che manteneva sempre quando era in presenza di Persefone e sua sorella, quella con cui aveva litigato come un moccioso per anni per cose stupide, prima, e per sua figlia, poi, diventava sua suocera, la madre di sua moglie. Era un po’ complesso, ma quando le vite degli Dei era state semplici?
«Ho parlato con Atena. Quella ragazzina rompe le palle come il padre.» rispose lei senza vergogna.
Ade grugnì. «So che questa storia non le piace. Artemide ha parlato con lei e poi è venuta a parlare con me. Prima danno il loro benestare per fare qualcosa e una volta che è tutto in moto, una volta che siamo già nel bel mezzo dei giochi, si fanno venire le crisi esistenziali che non hanno mai avuto, i dubbi su giustizia e legalità di ogni cosa. Se ad Atena non piaceva la proposta di Gio avrebbe dovuto combattere più strenuamente all’inizio e non- come dire…»
«Rompere le palle come fa suo padre?» domandò ironica Demetra, sprofondando sulla poltrona come il fratello. «È il più piccolo e rompe il cazzo come faceva papà
Il Dio ghignò, la pelle pallida si tese su un reticolo di venere vagamente dorate. «Oh, deve davvero averti infastidita molto se sei così scurrile.»
«Vuoi dirmi che ho torto?» chiese lei alzando un sopracciglio, sfidandolo a replicare.
Ade si strinse nelle spalle. «Ho cercato di deporlo da quel suo dannato trono dorato a ventenni alterni da quando ci si è messo su.» disse come se quella fosse la risposta a tutte le sue insinuazioni, ed in fatti lo era.
Demetra fece una smorfia terribilmente simile a quella del fratello, se non fosse stata per la palese differenza delle loro pelli, dei loro tratti, della loro conformazione fisica, sarebbero potuti esser tranquillamente spacciati per gemelli. Ma così come i loro nonni erano diversi come il giorno e la notte, così lo erano Ade e Demetra, molto più di quanto non lo fossero con i loro altri fratellini.
La Dea non era poi così diversa da Poseidone, la cui pelle era cotta dal sole come quella di tutti i popoli che vivevano sulle rive del mare. Le sue forme abbondanti non erano troppe diverse da quelle giunoniche di Era, fertile pur nella sua forzata sterilità. Non erano così diversi dai suoi gli occhi luminosi di Estia, che racchiudevano in sé la vita. Non era così diversa l’aura di potere che condivideva con Zeus. Ma Ade… malgrado fossero i figli maggiori nulla li accomunava, nessuna forma fisica, nessun colore, nessun profilo. Nulla, se non il freddo cinismo, l’impietosità con cui vedevano il mondo e la rabbia, il rancore, il disprezzo che erano in grado di covare in seno per secoli, prima d’esplodere nella più terribile delle vendette.
La morte e la vita, dopotutto, non erano altro che due facce della stessa medaglia e Ade e Demetra lo sapevano fin troppo bene.

«Cosa ti ha detto Atena?» chiese con disinteresse l’uomo.
«Quello che ti avrà detto Artemide ma con più supponenza, presumo. »
«Gio.» rispose allora lui.
Demetra annuì. «Gio.»
«Atena lo odia.»
«Ha fatto molto peggio per molto meno.» gli ricordò la sorella ed Ade ghignò, ancora neanche troppo segretamente divertito e compiaciuto al ricordo di ciò che successe. L’altra alzò gli occhi al cielo. «Non ridere sotto i baffi, me la ricordo la tua faccia impanicata quando sbatté Atena dall’altra parte della Sala del Trono.»
Ade si strinse nelle spalle. «Se lo meritava, direi. Tu come avresti reagito?»
«Se una perfetta sconosciuta che mi ha trattato con accondiscendenza, superiorità e pietà fin dal primo incontro mi spiegasse con quella sua fastidiosa vocetta da somma detentrice del sapere supremo che la mia vita, purtroppo, è un calcolo mal riuscito, un errore di percorso e che la scelta migliore, più semplice e più facile per loro sia quella di uccidermi e prevenire ogni possibile fastidio futuro?» elencò a memoria, ricordando perfettamente la scena citata.
Il fratello annuì e lei alzò le spalle, come se la risposta fosse ovvia. «L’avrei schiantata giù dall’Olimpo.»
«Giordano non sapeva farlo, al tempo.»
«No, era solo un moccioso che aveva da poco scoperto a quale assurdo mondo appartenesse.»
«Lo sapeva già… sapeva già quale stirpe maledetta gli diede i natali.» mormorò piano Ade, concentrando anche lui la sua attenzione sul muschio.
Nessuno dei due aveva osato guardare l’altro in faccia, nessuno dei due ne aveva davvero avuto il bisogno.
Ma non erano lì per rivangare il passato, non erano lì per ricordare una delle innumerevoli macchie nere della loro storia: ora dovevano discutere il presente ed il futuro più probabile e più prossimo.
«Atena è convinta che rivoglia i suoi nipoti.»
Lo disse d’improvviso, secca, senza la minima inflessione, senza la minima emozione. Era solo un puro e semplice dato di fatto, un’indicazione senza alcun sentimento, senza alcun valore. Ma Demetra lo sapeva, sapeva perfettamente che reazione avrebbe provocato nel fratello e non si sbagliava affatto.
Se fosse stato possibile, se per loro fosse stato un problema, Demetra si sarebbe quasi preoccupata del pallore giallognolo che prese il volto di Ade, del modo in cui il respiro gli si bloccò in gola, come strinse le mani secche ed ossute alla sua veste, come i tendini schizzarono alti contro la pelle tesa dei polsi. Il Dio dei morti sembrava ad un passo dall’entrare a far parte delle sue stesse schiere e Demetra ebbe quasi pietà di lui.
Se solo tutto questo non avesse risvegliato in lei ricordi ancora non troppo sopiti.
Per quanto Demetra amasse sua sorella Era non aveva mai compreso l’importanza del legame matrimoniale così come lo concepiva l’altra. Allo stesso modo non era mai riuscita a concepire il legame amoroso, sentimentale, come lo poteva concepire Afrodite. Per Demetra l’amore non era eterno, non era unico ed irripetibile, se non quello che si provava nei confronti dei propri figli, dei propri semi. La Natura funzionava così: per giorni, per mesi, per anni, dedicava tutta sé stessa al concepimento, alla crescita, allo sviluppo e alla maturazione dei propri semi, che diventavano piante, si riempivano di foglie, fiorivano in fiori colorati e maturavano in frutti di ogni genere. Era tutto lì, era tutta la loro esistenza. E più il frutto rimaneva legato all’albero, più questo gli dava nutrimenti, più questo lo rendeva grande e forte, succoso, tenendolo tra le proprie braccia anche quando il frutto iniziava a perire e marcire. Se non era pronto per lasciare il suo ramo l’albero l’avrebbe cullato dalla sua nascita fino alla sua morte.
Non era importante chi l’avesse aiutato a far sì che il fiore divenisse frutto, non era importante quanto lontano il frutto cadesse dall’albero: era il frutto l’essenziale per il proseguo della specie, era il frutto il culmine di tutte le fatiche dell’albero.
Ed era per questo che Demetra capiva, capiva profondamente e più di molti altri la paura di Ade ma al contempo la disprezzava e ne ricavava solo rabbia e rancore.
Perché per colpa dei frutti di Ade era stato il suo a rimanere sfregiato.
Il Dio dei morti rimase immobile, pietrificato nella sua paura.
 
«Non- non può volere i suoi nipoti. Lui no-»
Si bloccò, serrando le palpebre ed espirando pesantemente dal naso.
«Non può volere i suoi nipoti.» ripeté. «Non sono qui, nessuno dei due è qui.»
Demetra annuì. «Lo so. Io lo so, Persefone lo sa, forse Zeus e Poseidone, se gliene può interessare qualcosa. Thanatos? Sicuramente, quindi, forse, anche Ipno. Ma gli altri no. Nessuno sa che i suoi nipoti non sono qui nelle tue terre.»
«Non lo sapevano prima, ma ora lo sanno per forza.» le ricordò a denti stretti.
Demetra si strinse nelle spalle come se la cosa non la toccasse. «E pensi seriamente che qualcuno di loro se lo ricordi? Che a qualcuno di loro interessi così tanto da tenerlo a mente? Ricordano a mala pena quali dei loro figli ancora camminano tra i vivi e quali sono parte del tuo esercito da decenni.» rispose con ovvietà.
Ade deglutì. «Giordano deve saperlo. Non è possibile che lui non sappia dove siano i suoi nipoti, dove sia sua sorella. Giordano sa che sono rinate. Glielo dissi io stesso.»
«Oh, sì, ma credo tu glielo avessi detto già una volta, no? Magari questa volta non ti ha creduto.» insinuò senza però alcuna malizia.
Il fratello scosse il capo con decisione. «No. Giordano si fida di me, crede sempre in quello che gli dico anche- anche se ho tradito la sua fiducia innumerevoli volte. Dice che lo sa, che sa che prima o poi mentirò di nuovo perché è nella natura umana.» mormorò in fine.
Demetra fece un verso di scherno. «Ma noi non siamo umani.»
«Per lui incarniamo tutto ciò che c’è di buono e di cattivo negli uomini. Prova a fargli cambiare idea, se ti va.» replicò piccato.
Alla donna però non interessava minimamente e ciò trasparve perfettamente dalla sua espressione per nulla impressionata. «Come ho già detto a mia figlia, Giordano non ha avuto, non ha e non avrà mai bisogno del nostro consenso o dei nostri consigli. Abbiamo perso l’occasione di fargli da mentore quasi ottant’anni fa.» borbottò guardando di sbieco l’altro. Si fece seria. «Tu sai come rintracciare un’anima dopo che è rinata?»
La domanda restò sospesa nel silenzio.
Demetra non era troppo certa della risposta, non sapeva se suo fratello potesse identificare l’anima rinata con precisione o se magari potesse soltanto individuare la zona generale in cui si trovava, se aveva un qualche potere decisionale su dove farla rinascere. Era successo ovviamente, era successo che un’anima particolarmente meritevole era stata fatta rinascere in un preciso contesto, che fosse per ciò che aveva fatto o per la promessa di un dio, ma questo non significava che Ade potesse scegliere sempre dove mandare un’anima a rinascere e forse, in quel caso specifico, aveva impiegato più impegno del solito per disinteressarsene completamente.
Ade spostò lo sguardo dal muschio per fissarlo sul tavolo, le labbra fini e pallide strette come se fossero incollate l’una all’altra, come se non volesse parlare.
Ci si passò lentamente sopra la lingua, per umettarle un poco, per prendere coraggio forse e spiegare al meglio ciò che per lui era scontato ma per sua sorella no. Quanto della vita e degli incarichi della propria famiglia ognuno di loro ignorava? Erano passati secoli ed erano ancora null’altro che sconosciuti gli uni per gli altri.
«Sai che si può rindirizzare un’anima.» iniziò piano. «Ma sono casi particolari, grazie o giuramenti da rispettare, maledizioni anche. Di solito sono le Moire a scegliere come filare la nuova vita e a quale filo intrecciarla. Ogni filo è come una corda a più capi, le Moire ne prendono due, da due individui diversi, e poi prendono l’anima del filo della vecchia vita pronta a rinascere. A quel punto vi avvolgono attorno gli altri due capi e generano un nuovo essere. L’anima del filo è sempre la stessa, la sua veste è nuova e copre tutto ciò che c’è di passato. Funziona così.»
Demetra si voltò finalmente a guardarlo per bene, studiandone il volto cinereo e l’espressione cupa.
«Ma l’anima è la stessa hai detto, quindi può essere rintracciata.» insistette lei. «Vorrà forse questo? Ritrovare l’anima delle sue donne per poterle proteggere come non è riuscito a fare, per poter garantire loro la vita felice e priva di rischi che non hanno mai avuto?»
Ma Ade scosse ancora il capo. «No, non è così semplice. Stiamo entrando nel terreno delle Moire, del Fato, a meno che io non sia presente quando la vita viene rifilata non posso sapere che aspetto avrà la nuova anima.»
«Non puoi ritrovarle? Davvero?»
«No.» disse secco, facendo dardeggiare lo sguardo nero in quello verde dell’altra. «Non capisci? È una forma di protezione per le anime, è una forma di protezione per la vita. Se tutti noi Dei degli Inferi fossimo in grado di ritrovare le anime passate e rinate, se anche solo io fossi in grado di farlo, cosa ci impedirebbe di far rinascere ancora e ancora le anime dei nostri fedeli, dei nostri figli? Per quanto una nuova vita sia “nuova” mantiene sempre in sé un traccia del suo passato. Possono essere abitudini, sogni ricorrenti, conoscenze randomiche, capacità apparentemente innate. Ognuno dei tuoi figli, di coloro che hanno scelto la rinascita, hanno una qualche affinità con le piante, con i fiori, con la natura. Il famoso “pollice verde”, hai presente? È una dote innata che non sanno spiegarsi, qualcosa in cui sono sempre stati bravi. Così come i rinati figli di Apollo avranno affinità con le arti e la musica, quelli di Poseidone saranno dei nuotatori provetti anche se non avranno mai nulla a che fare con il mare se non qualche vacanza estiva se il loro schifoso lavoro sottopagato glielo permetterà!
Rimane una traccia della vecchia vita ma tutto il resto viene cancellato. È una rinascita. Ripartono da zero e per farlo devono essere bianchi ed immacolati, non deve esserci possibile rintracciarli. Saremo solo capaci di fare disastri, come con ogni cosa che ci capita tra le mani.»
Lo disse con rabbia ed amarezza, strinse di nuovo i pungi e si conficcò le unghie nei palmi secchi. Ade odiava già abbastanza il suo lavoro, odiava essere il Dio dei Morti, delle schiere più tristi e pietose dell’intera storia, doversi ritrovare anche a spiegare ai suoi fratelli cosa del genere, a spiegare i potenziali danni, come se si dovesse difendere, giustificare dal non sfruttare una possibilità così ghiotta, così irresistibile.
Era esattamente così che si sentiva e lo sguardo fermo e vuoto di Demetra non aiutava. Alle volte guardarla negli occhi era come guardare nelle profondità di un canyon, ti tornava indietro solo il silenzio e l’eco delle tue urla.
«Giordano lo sa?»
La voce della dea suonò incredibilmente più gentile del suo sguardo ed Ade ne fu più sollevato di quanto non avrebbe voluto ammettere: non avrebbe sopportato una discussione su quale perdita fosse non poter continuare a decidere della vita dei mortali anche dopo la loro rinascita.
Il dio sospirò. «Sono sicuro di sì.»
Demetra annuì. «Non hai assistito quando hanno rifilato le loro vite?»
«No.» disse orripilato. «L’Olimpo me ne scampi, no. Non ho voluto assistere anche se mi è stato proposto. Non ero neanche nelle mie terre in quel momento ero- ero ad occuparmi d’altro, prima dei bambini e poi-»
«Poi di tutto il caos che si stava scatenando su.» concluse per lui, riportando lo sguardo sul muschio.
Ade si sistemò meglio sulla sua seduta, allungando il collo verso lo schienale, perdendosi a fissare uno dei murales che lui stesso aveva fatto dipingere, da Berini probabilmente.
La dea pareva persa di nuovo nei suoi pensieri, profondi ed imprevedibili come la natura, come il dominio su cui aveva preso il controllo quando la sua antenata si era assopita nelle profondità della terra.
D’improvviso però aggrottò le sopracciglia e Ade non ebbe bisogno di guardarla per percepire il cambio d’atmosfera.
«Cosa?» domandò quindi stanco.
«Tu non puoi individuarle, ma le Moire sì…» lasciò la frase in sospeso, volgendosi per l’ennesima volta, ma con esasperante lentezza, verso il fratello.
Ade la fissò dall’altro, le pupille nere inghiottite dall’iride dilatata mentre giungeva con facilità alla stessa conclusione della sorella, vagliava la stessa identica ipotesi.
«Le Moire sanno tutto, passato, presente e futuro. Filano la vita nuova e rifilano quella vecchia, tagliano e annodano come il Fato suggerisce loro, intrecciato destini e lo fanno con ogni altra entità di questo mondo.» disse con lentezza Demetra e più parlava più tutto sembrava giungere a chiarezza, prendere significato. «Tu non puoi dirgli nulla, non puoi dargli nulla, ma loro sì. »
«Cloto ha sempre avuto un debole per Giordano…» mormorò lui. «Perché è stata lei a filare il suo filo, è stata lei a prende i capi dai fili dei suoi genitori e a passarli a Lachesi, affinché ne decidesse la sorte e la lunghezza.»
«E cosa credeva? Che prendendo altri capi la sua vita non sarebbe stata quella che è?» sbuffò lei sarcastica.
Ade però scosse il capo. «Furono interrotte, ricordi?»
Demetra allora strinse le labbra in una linea dura. «Quelle altre tre, sì, ricordo più che bene. Il giorno in cui si sono ritrovate tutte nello stesso luogo il mondo ha tremato fin nelle sue fondamenta, ha trattenuto il respiro finché le ancelle del Fato e quelle del Destino non si sono divise.»
Era una memoria lontana eppure incredibilmente vicina. Non erano passati che novant’anni da allora eppure Demetra ricordava ancora la stasi che aveva permeato ogni cosa, ogni essere, ogni dove. Ricordava l’oro dell’Olimpo scurirsi nella sua lucentezza, le musiche fermarsi, i fuochi spegnersi, i venti e le correnti cessare. Persino le stelle sembrarono perder luminosità, affievolendosi lentamente.
L’intero universo era rimasto in attesa che due fra le più potenti forze, due facce di una stessa medaglia, due gemelli identici e diversi al contempo, decidessero le nuove regole del gioco, si mettessero d’accordo per far scendere in campo una nuova pedina. Quello era stato il momento in cui tutti loro si erano resi conto che non sono non erano riusciti a fermare una partita troppo pericolosa, ma avevano fallito anche nell’arginarne i danni. Ora la nuova pedina non poteva più essere scelta per schierarla dalla parte di una squadra o dell’altra.
Avevano perso in partenza e non potevano far nulla per impedire l’inizio di un nuovo giro.
 
«Sta cercando loro.»
 
La voce di Ade fu poco più di un sussurro e Demetra si domandò se avesse davvero parlato o se quello che aveva udito non fosse solo l’eco lontano dei pensieri del dio.
«Sta cercando la casa delle Moire, la bottega del Fato, dove le tessitrici filano la vita, dove i fili predestinati si intrecciato ad altri in un arazzo più grande di quello che potremmo mai immaginare.»
Gli occhi scuri del Dio dei Morti brillarono cupamente, l’iride si allargò come un’ombra che lentamente inghiotte ogni superfice, rendendo la sclera nera come la notte. Lievi venature dorate si allargarono sulle palpebre fini e pallide, sulle occhiaie livide e la fronte distesa.
Demetra osservò in religioso silenzio suo fratello maggiore immergersi nel flusso del destino, nel futuro come forse mai l’aveva visto fare.
Quando chiuse gli occhi, una coperta stropicciata e quasi trasparente su due globi neri che inghiottivano ogni colore, gli Inferi tremarono e con loro tutta la terra.
Ade dischiude lentamente le palpebre, lo sguardo vacuo puntato di nuovo sul muschio che cresceva in modo impercettibile.
 
«Non vuole i suoi nipoti, non vuole sua sorella.»
Si voltò verso Demetra.

«Giordano Delle Vie vuole il Telaio e tutte le sue tessitrici.»
 

*
 
 


La terra aveva tremato violentemente, con una scossa lunga ed intensa.
Nathan aveva chiuso gli occhi e, per la prima volta in quella gara, aveva pregato invece che imprecato.
Gli Inferi avevano tremato come la terra mortale scossa dai bombardamenti aerei e lui non voleva proprio ripensare ad una cosa del genere, non in quel momento, aveva ben altro da fare.
Si voltò veloce verso i suoi compagni, cercando i loro volti spaventati, confusi, preoccupati. Eliza lo guardò dritto negli occhi, la stessa consapevolezza nello sguardo e Nathan seppe subito che anche lei aveva sentito il campo di battaglia scosso dalle bombe, magari dai colpi di cannone.

«Che diavolo era?» domandò Lea con voce acuta, un ginocchio poggiato a terra e le mani immerse nell’erba, come se cercasse appiglio, qualcosa che la tenesse ferma.
Di fianco a lei Jane si era accucciata per poi finire seduta all’estinguersi della scossa.
«Era un dannato terremoto? Perché ci sono i dannati terremoti all’Inferno? Non ne ho mai sentito uno!» gracchiò spaventata.
«Non può essere una coincidenza.» borbottò a denti stretti Nathan allungando una mano verso Lea per aiutarla a rialzarsi.
La figlia di Apollo l’accettò senza pensarci due volte, spolverandosi i pantaloni e guardando Úranus aiutare anche Jane a ritirarsi su.
Vicino a loro, tra Jane ed Eliza, Cicno sembrava il meno toccato da quello strano fenomeno: teneva gli occhi azzurri fissi davanti a sé, cercando di spingere lo sguardo più in là possibile. Quello non era un fenomeno naturale, non per come lo intendevano i mortali. Era un fenomeno naturale creato da un Dio.
 
E l’unico che può fare una cosa del genere negli Inferi è Ade.
 
Si domandò se il suo Signore potesse sapere cos’era successo, se in qualche modo si sarebbe messo in contatto con lui e con tutti i suoi servitori per poterli informare dei piani del divino Ade, sempre che ne sapesse qualcosa.
 
Ma è saggio e potente, deve per forza aver un’idea di cosa abbia spinto Ade a far tremare le sue terre fin nelle viscere.
 
«Dite che potrebbe essere qualcosa per la prossima prova?» domandò Cade con voce attutita.
A quel suono storsero tutti il naso cercando il compagno alle loro spalle. Dove non era. E non c’era neanche Jonas.
 
«Cristo santissimo! Pensi di potermi mettere giù ora?»

I due se ne stavano sospesi a mezz’aria, quasi tre metri sopra di loro, e Cade teneva fermamente il più piccolo stretto a sé, un braccio dietro la schiena e l’altro dietro le gambe, come una principessa delle fiabe.
Jonas sentì le guance andargli a fuoco quando Nathan lo fissò scettico alzando un sopracciglio, ma mantenne comunque la presa senza cercare di scostarsi dal compagno: non gli andava di farsi un volo di tre metri verso un suolo pieno di potenziali vetri, che fossero innocui o meno. Ma soprattutto non gli andava di farsi il volo, ecco, con la fortuna che aveva si sarebbe ritrovato sicuramente con la faccia spiaccicata tra il terriccio e l’erba nera, se non con qualche osso rotto. Avevano anche le ossa oltre al sangue?
Jane li fissò scuotendo il capo. «Ma certo, c’è un possibile pericolo mortale e tu te ne voli via con il ragazzino.» frecciò quasi risentita.
«Oh, andiamo! Io di braccia ne ho solo due e anche se lui è piccolino e magrolino-»
«Ehi!»
«Questo non vuol dire che sia più facile da manovrare! È un gattino furastico, si ribella.» concluse mettendo teatralmente il muso.
Jonas lo guardò quasi peggio di quanto non stesse facendo Jane, poi districò un braccio e gli diede un pugno in pieno petto.
«AHIO!» strepitò il rosso, preso di sorpresa.
«Il prossimo te lo do sul naso se mi chiami ancora così. » lo minacciò con quello che sperava essere uno sguardo serio ed intimidatorio.
Per tutta risposta Cade tolse il braccio da sotto le sue gambe, facendolo urlare poco virilmente per l’improvvisa mancanza di sostegno, e si portò la mano alla fronte.
«Ah! Quale colpo al cuore! Il mio binneas mi minaccia e mi maltratta! Ah! Non c’è proprio più rispetto per gli anziani!»
Jonas ristrinse subito le braccia alle spalle del compagno e se stava per replicare con un’altra mezza minaccia su come fosse meglio per lui smettere d’essere così teatrale, quell’ultimo commento gli gelò il sangue nelle vene.
Giusto, Cade era più grande di lui, lo era d’età e anche d’epoca e lui lo trattava come se fosse un suo compagno di scuola, come non avrebbe trattato neanche un suo compagno di scuola. L’aveva anche picchiato!
Scosse la testa con veemenza: dannazione, stava facendo passi indietro invece di farne altri avanti, non doveva lasciarsi toccare da queste cose.
I due rimisero lentamente piede a terra e Nathan grugnì infastidito. «Cerca di non salvare una persona sola, la prossima volta.»
«O di salvarne una utile, tipo il greco. Se è vero che può curare ogni malanno…» precisò Jane.
Cicno sospirò. «Posso farlo, ma credo sia naturale che Cade abbia afferrato Jonas e nessuno di voi altri, erano dietro di noi dopotutto.» sorrise cordiale e tranquillo.
Il peggio era passato, non credeva ci sarebbe stata un’altra scossa ma ora doveva anche preoccuparsi di metter pace tra quegli stolti. Doveva entrare meglio nell’ottica del gruppo, capire cosa fosse mero scherzo e cosa invece fosse da prender con serietà. Bastava un gesto istintivo come afferrare il proprio compagno più vicino, nonché il più giovane, quindi per associazione il più bisognoso di protezione, per poter minare quella scusa di equilibrio che regnava tra i sette?
Maledizione, sarebbe stato un lavoro più duro del previsto
«Credo sia stata opera del sommo Ade. Forse questo terremoto è servito per la prossima prova o forse qualcuno ha solo provocato la sua ira.» disse veloce, cercando di portare il discorso lontano da ciò che sembrava l’inizio del prossimo, inutile battibecco infantile e sterile.
Úranus annuì cupo. «Nessun altro potrebbe fare ciò nelle terre degli Inferi, neanche gli altri Dei. Non hanno una tale influenza sui domini dei fratelli.»
«Neanche Zeus potrebbe fare una cosa del genere?» chiese curiosa Lea.
Fu Nathan però a farsi scappare un verso di scherno. «Soprattutto lui! L’ultima volta che ha lanciato un fulmine negli Inferi ha ammazzato i bastardi di Ade e papino si è arrabbiato abbastanza da pompare a bestia i nazisti.»
«Zeus ha ucciso i figli di Ade?» Eliza guardò il compagno sconvolta, senza capire come un’azione del genere fosse stata reputata saggia ed intelligente. A meno che… «Erano a capo di quelle persone? Come le hai chiamate?»
«Nazisti.» mormorò Jonas abbassando lo sguardo. Una mano gli si posò rassicurante sulla spalla ed il ragazzino abbozzò un sorriso al compagno.
Nathan scosse il capo. «No, non erano nazisti. O magari lo erano anche ma non di quelli che combattevano. Se non sbagli erano mocciosi, forse arrivavano a dieci anni?» provò scettico. «La verità è che non se ne parla molto, alla gente non piace ricordare che il loro “padre degli Dei” ha ucciso a colpi di fulmine due bambini la cui unica colpa è stata quella di nascere dal capriccio di un Dio.»
«Voglio ben credere, non so se seguirei un comandante che mi ordina di uccidere bambini innocenti.» ammise Eliza con serietà.
«Purtroppo non è una nuova usanza.» disse Cicno sorridendo ai suoi nuovi compagni e facendo cenno loro di rimettersi in marcia. «Per gli Dei è pratica comune eliminare fin dalla più tenera età, se non dalla nascita o addirittura dal concepimento, i figli bastardi dei propri fratelli, dei propri coniugi. Era cercò di impedire la nascita dei gemelli del Sole e della Luna bandendo la loro madre da ogni terra ancorata a questo mondo, non tollerando l’ennesimo tradimento del consorte. Questo è solo uno dei tanti esempi di crudeltà divina verso gli infanti.»
«Lo trovo disumano.» mormorò Lea muovendo qualche passo instabile verso la direzione indicata dal fratellastro.
«Invero, loro sono Dei.» le rispose accennando un debole sorriso.
Si era già stancato di tutto quel sorridere, di tutti quei modi gentili, delicati, quasi servizievoli.
Cosa ne sapevano quei poveri sciocchi? Cosa ne sapevano loro della crudeltà degli Dei, quando questi ancora regnavano sovrani su ogni dove? Prima che i mortali li dimenticassero per divinità più caritatevoli.
Non sapevano com’era vivere in tempu in cui ogni evento era scandito dal capriccio di un Dio e non sarebbe certo stato lui a spiegargli come il mondo era vissuto secoli orsono.
Si schiarì la voce. «In ogni caso, qualunque cosa sia, non credo dovremmo preoccuparcene nell’immediato.»
«E se fosse parte della prova?» sfidò Jane assottigliando lo sguardo.
Cicno si costrinse all’ennesimo sorriso di miele. Gli stava venendo quasi il voltastomaco.
«In tal caso ce ne occuperemo non appena saremo giunti nei pressi delle bianche mura.»
 
Eliza rizzò le orecchi a quella parola.
Bianche mura.
Era così che molti beati chiamavano i Campi Elisi e a giudicare dallo sguardo di Lea e dalla mezza imprecazione di Nathan, dovevano aver pensato tutti la stessa cosa.
«Bianche mura, eh? Quindi ci stiamo avvicinando ai cari, vecchi Campi Elisi! Diamine, mi sembra una vita fa… e sono morto io!»
Cade scoppiò a ridere alla sua stessa battuta, rifilando una poderosa pacca dietro alla schiena a Jonas che, del tutto scioccato nel sentir ritirare in ballo quel nome, quella teoria che avevano già ipotizzato, inciampò sui suoi stessi passi, ripreso al volo da Úranus che, neanche fosse un moccioso delle scuole primarie, lo trascinò verso l’alto continuando a camminare, per poi ripoggiarlo lentamente a terra.
Che cazzo avevano tutti adesso? Volevano trattarlo come una persona adulta o preferivano continuare a muoverlo come una dannata bambola di pezza?
Il suo sguardò dovette incupirsi parecchio perché il gigante rosso ritrasse la mani di scatto, borbottando scuse incomprensibili sotto la barba folta.
Jonas sospirò innervosito: non poteva trattare male la gente che lo aiutava solo perché lo trattavano da bambino, o si sarebbe dimostrato il moccioso che cercava così disperatamente di non essere.
«Grazie.» masticò a mezza bocca. Poi si volse verso Cicno. «E io e te come c’entriamo nei Campi Elisi?» domandò con una nota fin troppo evidente di sarcasmo nel tono acuto.
«E io come diavolo c’entro nei Campi Elisi?» gli fece eco Jane.
«E come cazzo fai a sapere che stiamo andando proprio ai Campi Elisi?»
«Come fai a dire che dovremmo entrarci, nei-»
«Va bene! Va bene! Abbiamo capito! CAMPI ELISI. Vogliamo dirlo tutti insieme un’altra volta, così ci togliamo lo sfizio o va bene anche così?» sbottò Lea interrompendo Eliza prima che ripetesse ancora quel nome.
Cicno non sembrò minimamente colpito da quello stupido siparietto. Malgrado dentro di sé si stesse strappando i capelli dal nervoso.
Prese un respiro profondo ma non si sforzò di sorridere questa volta.
«Esattamente come siamo giunti fino a voi, verso la direzione giusta.» rispose solo con un cenno del capo verso Cade.
Il rosso si espresse in una faccetta comprensiva. «Rivedi le pallette di luce?»
«Quelle di Lea?» domandò Úranus curioso.
Cicno si morse la lingua.
 
Non alzare gli occhi al cielo. Non alzare gli occhi al cielo. Sii superiore, è il tuo compito.
 
«No, figlio di Fobetone, sto parlando dei Fuochi Fatui. Tracciano un percorso invisibile verso la prossima meta. Sono loro che tengono tutte le anime in fila, direzionandole verso il giusto luogo.»
«Ma- se sono invisibili…» Jonas lasciò la frase in sospeso, improvvisamente confuso più che nauseato dalla prospettiva di dover entrare in un luogo a lui, per antonomasia, proibito.
«I figli degli Dei della Luce sanno riconoscerli e vederli anche quando questi non vogliono farsi vedere.» ripeté per la seconda volta, meccanicamente. «Ma come vi ho già detto non tutti i semidei ereditano lo stesso tipo di poteri. Presumo che mia sorella non sia in grado di individuarli malgrado siano in molti attorno a noi.»
Lea scosse il capo debolmente, facendo saettare lo sguardo per ogni dove alla ricerca di qualche segno di fuochi volanti. Non riusciva a vedere assolutamente nulla.
«E per il fatto che stiamo andando nei Campi Elisi? Quello come lo sai?» chiese Eliza, molto più curiosa rispetto alla sicurezza del nuovo compagno che alla divisione dei poteri divini casuali nei semidei.
Cicno si strinse nelle spalle. «Temo sia sempre un retaggio del mio dannato padre. Lui è un Dio legato alla luce, ciò implica che io, come suo discendente, ne percepisco le fonti e ne inseguo il calore. Voi beati, cosa ricordate di più delle lande benedette dagli Dei?» domandò retorico.
Retorico perché ovviamente, la prima cosa che venne in mente a tutti e cinque furono le mura alte e candide, i viali mattonati chiari, i fiori dai colori brillanti, i riflessi di una stella inesistente sui laghetti e nei fiumiciattoli. Nei Campi Elisi era sempre primavera, era sempre giorno, splendeva sempre il sole.
Il figlio di Apollo fece loro un cenno della testa, come a voler sottolineare l’esattezza delle sue insinuazioni.
Eliza però tornò presoto a fissarlo sospettosa. «Come fai a sapere tutte queste cose?»
«Della religione che vigeva nei tuoi anni di vita, ti sono mai stati tramandati racconti sul luogo di eterno riposo delle anime? A me furono raccontate le meraviglie dei Campi Elisi, la desolante solitudine delle Praterie degli Asfodeli e le torture ed i dolori dei Campi di Pena.» le sorrise. «In più alla gente piace chiacchierare.» concluse facendole l’occhiolino.
Ade benedetto, erano almeno due secoli che non faceva l’occhiolino a qualcuno.
«Sembra logico per me.» annuì Cade battendo poi forte le mani. «Ora che siamo arrivati ad un punto fermo, direi che possiamo passare alle domande importanti!»
«Tipo come diamine faremo ad entrare nei Campi Elisi?» domandò Jane.
Cade la guardò malissimo, il naso arricciato e le sopraccigli crucciate.
«Senti un po’, ragazza delle Praterie. Sarà almeno un’ora che cerco di farmi spiegare una dannatissima cosa, che mi era stata promessa per altro. Non la cosa. La spiegazione alla cosa. Mi hanno promesso una spiegazione logica e sensata della cosa-»
«Non ho mai detto che sarebbe stata logica e sensata. È opera degli Dei, non è quasi mai “logica e sensata”.» precisò Cicno per buona misura.
Cade fece un gesto con la mano e si sporse in avanti per afferrare il polso di Cicno.
«Non importa ora! Ci preoccuperemo dell’invasione della Russia quando saremo lì e avremo le nostre belle nuove regolucce, perché diciamocelo, magari ora ci facciamo le pippe mentali e poi non dobbiamo neanche entrare davvero.»
«Cade! Modera il tuo linguaggio!»
«Perché tu puoi dire cose volgari e io non posso usare termini anatomici?»
«Non sai cos’è una puttana e vuoi farmi credere che sai cos’è una pippa?» chiese Nathan genuinamente curioso.
«Potete evitare di usare linguaggi scurrili davanti alle ragazze e a Jonas?» riprovò Eliza esasperata.
«Perché “le ragazze e Jonas”? Sono un maschio anche io! Le so queste cose!» protestò con veemenza il ragazzino spingendosi in avanti, tra i suoi compagni.
«Sei ancora molto giovane, non devi imparare queste parole.»
«Non sei sua madre, cazzo, dagli tregua.»
«E tu non sei suo padre, quindi non dirmi come devo comportarmi.»
«Cade, potresti lasciarmi il polso, gentilmente?»
«Perché ci finiamo sempre i mezzo anche noi in queste cose?»
«Perché credono che io non abbia mai visto un uomo nudo in vita mia e che tu sia una puritana.»
«Non ho mai visto un uomo nudo, ma non vedo come questo possa essermi utile ora.»
«Cade, il polso.»
«Siamo quelli con più sale in testa qui, quindi direi che in un qualche modo, essendo il più grande, posso fargli da figura di riferimento.»
«Non sei il più grande, Úranus e Cade sono più grandi di te.»
«Hai la mia stessa età, biondino.»
«Sta zitta tu, pazza sclerata!»
«Veramente il più grande è Cicno.»
«Sono comunque morto e nato prima di te, smettetela di parlare di me come se non fossi qui! Non ho bisogno di nessuna figura di riferimento io!»

«Volete stare zitti!?»
 
Una forte folata di vento esplose in mezzo a sette, facendoli barcollare ed indietreggiare dalle loro posizioni come aveva fatto poco prima il terremoto divino.
Cade strinse ancor di più la presa sul polso di Cicno, le ossa sembravano quasi scrocchiare come un lastra di ghiaccio, coperta dalla più sottile e delicata patina di condensa.
L’irlandese guardò i suoi compagni con sguardo cupo ed occhi sbiaditi, schiariti dal vento esattamente com’era successo qualche giorno prima nell’Area Cani.
Non potevano andare avanti così per tutta la gara, a bisticciare e cambiare parte per ogni stupida diatriba, per ogni parola detta in modo non proprio corretto. In quei momenti, Cade avvertiva tutto il divario epocale che li divideva, tutti i luoghi comuni, le credenze popolari, i progressi filosofici e industriali. Lo vedeva nel rispetto e nel modo di parlare di Úranus, nelle paure e i preconcetti di Jane, del senso dell’onore e del dovere di Eliza così simile eppure abissalmente diverso da quello di Nathan, dalla saccenza del biondo contro le conoscenze randomiche e superficiali e quelle precise ed approfondite che Lea sfoggiava a momenti alterni. Nel suo modo di concepire lo spazio e il contatto umano e quello di rinnegarlo ed evitarlo di Jonas. Nella compostezza regale ed eterea di Cicno, nella sua fede cieca in un Olimpo di cui propriamente odiava anche le fondamenta, così feroce eppure così ovvia, così scontata.
Forse erano migliorati un po’, ma di certo non erano ancora un vero gruppo, uno in grado di ascoltarsi e supportarsi a vicenda a primo colpo, un ingranaggio allineato ma non ancora oliato a dovere. Avevano solo preso più confidenza per trattarsi male.
Sarebbe servito loro un capo, qualcuno che potesse dire basta e mettere un freno a tutti quanti, ma non era possibile, non nella loro situazione.
Dovevano imparare a non parlarsi gli uni sugli altri, a formulare piani, redigere scalette.
Perso a guardar male i suoi compagni, che a poco a poco si riprendevano da quell’improvvisa corrente fredda, perso nei suoi ragionamenti febbrili, nella realizzazione che no, non erano ancora una squadra e forse lui, portando Cicno tra di loro, aveva solo peggiorato la situazione, aggiungendo un altro cavallo a tirare la carrozza, non si rese conto di aver ancora la mano stretta attorno al polso del greco. Non si rese conto di aver tirato troppo la briglia di un cavallo selvaggio, il cui unico padrone l’aveva lasciato libero di correre come avrebbe più preferito.
Non poté dire che fosse da molto che non provava una sensazione del genere, la sfida con i Mastini Infernali era finita da poco, o forse da anni, e Cade ancora ricordava bene il calore sprigionato dalle fiamme del loro corpo. Quello che lo colpì, tuttavia, fu un tipo di calore completamente diverso dalle fiamme vive, da quelle terribili lingue di fuoco. Era molto, molto più simile alla sensazione che si provava a metter la mano sulla stufa di ghisa bollente. Come rimanere per ore sotto il sole cocente e poi premere senza pietà sulla pelle ustionata.
Cade saltò indietro lasciando immediatamente la presa al polso di Cicno, portandosi la mano lesa al petto e guardando il compagno con stupore, gli occhi tornati del solito verde spendente.
Il figlio di Apollo, da parte sua, lo fissava con espressione immobile, ferma come quella di una statua. Il suo polso illuminato a giorno, come una lampada cinese, come se la luce venisse direttamente dalle sue ossa e s’irradiasse per tutto l’arto.
Ma non furono fibre di carta quelle che apparvero contro luce sul braccio dell’altro, quanto segni di corda, di manette di ferro, segni d’artiglio e di mani che avevano stretto sino a lasciare il loro segno. La luce interna di Cicno, quella che avrebbe potuto renderli tutti ciechi, mostrava ciò che la luce crepuscolare dell’Ade nascondeva loro: tutte le cicatrici che quel corpo apparentemente perfetto nascondeva.
Il bagliore si affievolì lentamente, riflettendosi in quello che era stato il vero interesse di Cade per tutto quel tempo: il bracciale d’argento.
 
Cicno lo guardò dritto negli occhi, inespressivo.
«Ti sarei veramente grato se non provassi mai più a costringermi.»
Lo scandì lentamente, con voce chiara ma bassa, quasi un rombo lontano, così dissimile alla voce di miele che avevano sentito fino ad ora.
Cade annuì, improvvisamente conscio di cosa potessero significare quei segni, di quante volte li aveva visti sui suoi compagni, sulle sue compagne. Deglutì e pregò di aver torto, ma non osò dire nulla a riguardo.
«Ti chiedo scusa.» sussurrò invece, la mano ancora stretta al petto. Non aveva il coraggio di controllare se fosse ferita o meno.
Vide il greco prendere un respiro tremolante, forse ancora troppo scosso da un gesto che aveva risvegliato in lui ricordi terribili e passati. Chiuse per un istante gli occhi, nulla più di un secondo e quando li riaprì si costrinse a rilassarsi, a rilassare il volto in una piega più morbida, più amichevole.
Protese il braccio verso Cade e, gentile, gli chiese di mostrarglielo, di lasciargli controllare di non avergli fatto del male.
Cade allungò la mano come avrebbe fatto per toccare un cane randagio, piano, accorto, girando il palmo verso l’altro per dimostrare quanto inoffensivo fosse.
Era arrossato, molto arrossato e dalla leggera contrazione del labbro dell’altro capì che forse il danno era ancora peggiore di quanto non sembrasse, ma poi Cicno prese la mano tra le sue e se la portò alle labbra, mormorando parole sconosciute ad un soffio dal palmo bruciato.
Un’altra folata di vento si insinuò tra gli otto semidei, ma questa volta profumava di erbe medicinali, boschi montuosi e umidi.
Cade rabbrividì quando la brezza sfiorò la pelle dolorante e sgranò gli occhi quando questa, come per magia, tornò ad essere piatta, liscia, rosea e fresca, forse solo leggermente bagnata.
Cicno alzò il capo e si costrinse ad un sorriso di circostanza.
«Questa è una delle capacità di un figlio della mia discendenza.» gli spiegò gentile.
«Siete potenti forti.» rispose lui piano, sorridendo in modo più ampio ma ugualmente incerto. Ora che aveva visto quei segni non sapeva più come rapportarsi all’angioletto e le facce serie, spaventate, allertate dei suoi compagni, non aiutavano.
Che solo lui avesse vito le sue cicatrici?
 
«Beh, a quanto pare, la storia dei poteri di tuo padre è vera.» disse secca Jane, lo sguardo puntato sul bracciale luccicante.
Non le erano sfuggiti quei segni, visti in controluce come gli aloni lasciati da un panno bagnato sul vetro di una finestra mal pulita. Cicno era un dannato però, proveniente da una terrazza sicuramente molto più bassa di quella di Jonas – un codardo contro chi? Quel è il tuo crimine? – non era quindi difficile immaginare che per torturarli e fargli scontare la loro colpa li legassero. Jane aveva visto segni simili sulle donne accusate e condannate per stregoneria, le catene non avrebbero mai perso il loro fascino, ne era più che sicura.
«Ovviamente.» rispose Lea tentennante, «Io non sarei mai capace di fare una cosa simile.»
Cicno si strinse nelle spalle. «Sono certo tu sia in grado di fare altre cose che a me sono precluse.»


Nathan si ritrovò per l’ennesima volta, da quando il caso li aveva uniti, a cercare lo sguardo di Eliza per aver conferma dei suoi dubbi, delle sue ipotesi.
Il discobolo greco lì aveva appena tostato la mano del roscio malpelo solo perché quello non lo mollava. E va bene, forse Nathan avrebbe risposto allo stesso modo se fosse stato in grado di far diventare parti random del suo corpo piastre da fastfood, ma questo non era importante. La cosa importante era che la luce, oltre a confermare un paio di poteri millantati dall’altro, aveva anche acceso un importante punto di discussione: se fossero stati in pericolo, se si fossero trovati in un combattimento, in una situazione simile in cui qualcuno avrebbe afferrato e costretto il greco, questo sarebbe stato in grado di regolare il suo potere per distruggere solo l’avversario, o avrebbe bruciato anche loro, preso dal panico? Era così scontato che quel semplice gesto doveva avergli riportato alla mente brutti ricordi e Nathan sapeva cosa poteva succedere se ci si faceva prendere dai sentimenti.
 
Succede che rischi la vita, la tua o quella degli altri.

Eliza, che gli si era avvicinata con lentezza e cautela, gli diede un colpetto alla mano.
«Poi gli chiederemo cos’altro lo ferisce, hai visto il suo braccio?» domandò in un soffio.
Nathan annuì, aveva visto qualcosa ma lo scatto di Cade aveva attirato tutta la sua attenzione.
«Segni di tortura?» mormorò piano.
Anche la mora fece un cenno affermativo con il capo. «Ha un potere molto potente ma pare che usarlo metta in mostra ogni sua cicatrice, ogni suo punto debole.»
«Non sempre una cicatrice è un punto debole, alle volte la pelle più spessa è la più difficile da rompere.» sibilò bassa Jane. «Ha dei bracciali.» continuò occhieggiando i suoi compagni e poi di nuovo il greco. «Hai dei bracciali. È una cosa di voi dannati o solo un vezzo per pochi?» domandò a voce alta, attirando l’attenzione degli altri.
Cicno stirò le labbra in un sorriso di circostanza ed inclinò il capo verso Cade, che saltò quasi sul posto assieme a Jonas, improvvisamente rapito da un nuovo pensiero.
«Era questo quello che doveva spiegarmi.» disse facendo scattare lo sguardo dal greco al tedesco. «Doveva spiegarmi perché avete entrambi dei gioielli, perché brillano anche.»
Jonas guardò l’altro dannato come se si aspettasse che confermasse i suoi dubbi, dopotutto gli serviva solo una parola e nulla di più, già sapeva che era stato un dio a dargli quei bracciali, così com’era stato un dio a dargli la collana.
«Ipno?» domandò in un sussurro quasi avesse paura.
Paura di cosa poi?
Ma Cicno scosse il capo. «No, mio giovane compagno, non è stato il Dio del Sonno a donarmi questi bracciali, così come non posso dire che mi siano stati donati. Posso presuppore sia lo stesso per te?»
Jonas annuì.
«Che vuol dire “non vi sono stati donati”?» domandò Lea crucciata.
Il ragazzino sospirò. «Quando mi hanno mandato nella mia terrazza, all’entrata dei Cancelli Neri mi misero un collare, piatto e lucido. Mi dissero che sarebbe stata la mia condanna e al tempo stesso la condanna dei miei compagni di crimine. Il potere di mio padre si sarebbe riflesso in quel collare e gli altri dannati avrebbero visto tutto ciò che amavano e che, per colpa della loro codardia, avevano perduto.» si strinse nelle spalle, come se non fosse un gran ché, come se essere per decenni il colpevole del dolore di altre persone, di altri sconosciuti, non lo logorasse dall’interno facendolo pensare incessantemente al dolore che aveva provocato alle persone a lui care che aveva abbandonato perché era un vile codardo che aveva deciso di scappare a tutto e tutti pur di non affrontare le conseguenze delle sue scelte, del suo essere, della sua vita.
Deglutì e spostò lo sguardo in quello freddo del figlio di Apollo. «Anche i tuoi bracciali avevano lo stesso scopo?» chiese ingenuamente.
Cicno però gli sorrise con quella che poteva essere solo indulgenza, un qualcosa che irritava e innervosiva sempre Jonas, che lo faceva sentire ancora più piccolo, ancora meno considerato, ma che in quel momento lo fece solo sentire uno stupido, un ingenuo.
«No, mio giovane mezzosangue, i miei monili non erano altro che le manette con cui solevano legarmi per impedirmi di fuggire alle loro torture. Erano mere costrizioni e la volontà del dio che me li ha “donati”, di mutare i simboli della mia prigione in lucidi gioielli l’ho trovata di pessimo gusto, crudele per il dio in questione.»
«Ipno non è cattivo. È un po’ un cretino, certo, con la testa tra le nuvole, non gli si può affidare nulla, ma non è proprio un sadico.» disse Nathan accigliato.
Úranus lo guardò con disapprovazione, «Il divino Ipno non è un “cretino”. È un dio molto potente, è custode di una magia immensa, il viandante dei sogni e della Dimensione Onirica. Chi ti ha detto tali infamie sul suo conto?» domandò quasi scandalizzato dalle parole di Nathan, come se non lo avesse mai sentito imprecare gli Dei e l’Olimpo nei modi più pesanti.
Il soldato scosse il capo con fare annoiato. «Al Campo, li conosciamo gli Dei che danno solo rogna e quelli che invece aiutano. Ipno non sa neanche dove ha i piedi, figurarsi se può fare qualcosa di così complicato e cattivo come trasformare catene in gioielli.»
«Mi duole informarti, figlio di Ares, che il divino Ipno è invece un essere furbo che si nasconde sotto un manto scuro di segreti e misteri. Non so chi sia a raccontare a voi nuovi semidei queste storie irrispettose sugli Dei, ma sono errate e vi mettono solo in pericolo. Gli Dei non amano essere insultati, specie per nessun motivo.»
«Conosci un certo Chirone? È lui che ci insegna tutto.» rispose piccato il biondo.
Cicno fece una smorfia poco convinta. «Se ti riferisci allo stesso Chirone di cui ho sentito parlare io, temo che debba essergli successo qualcosa per far sì che scadesse in queste ridicole affermazioni.»
Jane alzò gli occhi al cielo esasperata, palesemente innervosita anche da quell’inciso assolutamente inutile. «Sì, molto interessante, ma è stato lui a darti i bracciali? A trasformarli o quel che è?» domandò impaziente.
Cicno le si rivolse scuotendo il capo. «No, non fu lui a trovarmi nella mia terrazza, ma fu ugualmente un gemello della Notte. Thanatos, Dio della Morte. Fu lui a venire da me e domandarmi perché non mi fossi già messo in fila per iscrivermi a questa gara. Lui tramutò le mie catene in monili.»
«Perché non eri in fila?»
La domanda fu del tutto estemporanea e Cade imprecò mentalmente, provando l’incredibile voglia di schiaffare una mano sulla bocca di Jonas e farlo stare zitto. Cicno doveva spiegargli perché erano gli unici dannati con dei gioielli – erano davvero gli unici poi? – e se questo non fosse il motivo per cui si erano incontrati e rincontrati nel corso della Death Race. Ma il ragazzino sembrava essere di tutt’altra idea, improvvisamente interessato ad un altro punto, per lui fondamentale, di quella storia.
Che anche Cicno, così bello, forte, potente, saggio e sicuro di sé, così pronto a tutto, a combattere per arrivare alla fine, che anche una persona dall’apparenza quasi divina, avesse sofferto i suoi stessi dubbi, le sue stesse paure?
Cicno gli sorrise mesto, socchiudendo gli occhi come un gatto che si rigira al sole.
«Per lo stesso motivo per cui tu non ti precipitasti fuori dai Neri Cancelli appena questi furono aperti: attendevo. La mia terrazza è in basso, molto più della tua, e molti sono i dannati che vi dimorano, o per meglio dire, vi dimoravano. Erano genti di ogni levatura e non aveva alcun senso mettersi in fila tra quelle anime prave quando potevo tranquillamente attendere che il folto del gruppo scemasse, lasciandomi la strada libera.»
Jonas però, di nuovo, non aveva che sentito la prima frase di quella spiegazione.

Come fa a sapere che non sono uscito subito per evitare la calca?
 
«Come-»
«Lo so?» lo interruppe sbuffando una lieve risata. «Perché l’essere che ti salvò me lo disse. Mi spiegò che il tuo monile era simile al mio, entrambi doni dei figli della Notte. I gemelli oscuri ci hanno legato, forse senza saperlo, forse nel pieno delle loro coscienze. Dopotutto, di rado gli Dei non sono in grado di percepire la volontà dei proprio pari, specie se si parla di legami di sangue. Non so perché Ipno ti abbia donato il tuo collare, ma Thanatos mi ha costretto nelle mie catene quasi fosse una prova: mi disse di dimostrargli quanto fosse pericoloso darmi la possibilità di tornare in vita e vendicarmi di mio padre, ma ciò non toglie che queste,» ed alzò le mani facendo girare i bracciali attorno ai polsi fini, «non sono realmente un dono quanto più uno sprono: mi ricordano costantemente che se mai dovessi fallire ciò che mi aspetta saranno solo altre catene, per l’eternità.»
Riabbassò lentamente le mani e spostò lo sguardo su Cade, ancora vicino al ragazzo, gli occhi vividi puntati su di lui con attenzione, con interesse.
Insoddisfatti.
Quella spiegazione non gli piaceva, diceva molto ma non diceva nulla.
«Perché hanno brillato?» domandò allora.
Cicno lo guardò aggrottando le sopracciglia, come se quella domanda fosse sciocca, come se l’avesse già spiegato anche se, di fatto, non aveva minimamente accennato alla cosa.
«Sono doni dei gemelli della Notte.» ripeté ancora. «Quando due divinità sorelle offrono regali simili a persone diverse queste vengono inevitabilmente legate tra di loro dal destino del donatore. Trovo assolutamente impossibile che il divino Ipno abbia trasfigurato il giogo di Jonas senza sapere che suo fratello avesse fatto lo stesso con le mie catene. Ma come ti ho detto, le mie spiegazioni, per quanto veritiere, non possono essere del tutto logiche, solo gli Dei conoscono il disegno dietro le loro mosse.»
Lea scosse piano la testa. «Non ha molto senso in effetti, perché proprio voi due? Cosa vi accomuna? Cosa c’è di così simile in voi da spingere due Dei ad unirvi con degli… oggetti magici?» disse incerta cercando conferma in Úranus.
Il rosso annuì. «C’è la magia degli Dei in quei gioielli, sì. Ma Cicno ha ragione nel dire che non sempre vi è logica dietro le azioni divine. Intento sì, logica non sempre.»
«Che in pratica vuol dire che non vi hanno scelto a cazzo ma perché gli servivate.»
«Gli serviva che foste assieme.» mormorò Eliza pensierosa, poi alzò lo sguardo sul greco. «Hai detto di esserti tolto la vita, non- non fuggivi da nulla?» domandò con tutto il tatto di cui era capace.
A Cicno però, quell’accortezza non serviva di certo. Annuì. «Ovviamente, scappavo dal dolore e da una vita ormai distrutta. Devo ammettere che più che “scappare”, volevo solo mettere fine ad un’esistenza priva di senso.»
«È sempre un modo di fuggire. Si scappa sempre da qualcosa, anche fosse la morte stessa.» asserì lugubre Jane, lo sguardo fisso sul terreno nero e luccicante. «Hai abbandonato la tua famiglia?» chiese poi fredda e secca, senza il minimo riguardo.
Cicno inclinò la testa, non del tutto propenso a vedere la situazione sotto quell’ottica. «La prima volta che tentai il suicidio sì, avrei lasciato sulle terre mortali mia madre. Questo è il motivo per cui tentai di nuovo con successo. Quel vile di mio padre mi trasse in salvo ma non fece nulla per far giungere la nuova a mia madre e lei si tolse la vita per questo.» senza muoversi spostò lo sguardo su Jonas che pietrificato e pallido sembrava star combattendo una lotta interna senza possibilità di vittoria.
Una domanda sorgeva spontanea sulla bocca di tutti ma nessuno osò parlare.
 
Che ci abbiano legati perché, alla mia morte, proprio com’è stato per Cicno, mia madre si è uccisa?
 
Per un lungo momento questo fu il solo pensiero martellante che invase la mente di Jonas.
Sua madre era morta perché lui era morto? Era la causa della morte dell’unica persona che, con tutta probabilità, l’avrebbe amato nonostante tutto? Aveva rovinato l’esistenza della sua famiglia a tal punto?
Gli occhi grigi sembravano vitrei come lo erano stati nella morte, come lo erano stati nei momenti di più profonda debolezza e tutto ciò che Jonas riuscì a fare fu fissarli dritti in quelli freddi e privi di sentimento di Cicno.
Attorno a loro poteva sentire Cade passargli una mano sulle spalle, poi tra i capelli, cercando di dargli conforto. C’era il vociare concitato di Lea, di Eliza, quello annoiato di Jane, le imprecazioni di Nathan. Tutti cercavano di rassicurarlo, tutti gli ripetevano che era stata una casualità, che forse li avevano legati perché sapevano che Cicno avrebbe potuto aiutarlo o magari viceversa.
Il figlio di Apollo invece non parlava, immobile come le statue del suo tempo, bello e quasi intoccabile, inscalfibile, eterno.
Poi le sue labbra si mossero, impercettibili, lente.
Nessun suono ne uscì, ma Jonas giurò di poterlo sentire chiaro nella sua mente.
 

O forse, abbiamo semplicemente scelto entrambi la via più semplice.
 
 
Un brivido freddo gli ghiacciò il sudore addosso. La consapevolezza arrivò come un colpo di pistola dritto alla testa.
 
 
Cicno sapeva e Jonas non aveva la più pallida idea di come ciò fosse possibile.
Ma sapeva.
Lo sapeva.
 
Cicno sa.
E non ha detto nulla.
 
Questa era un’altra canna puntata alla sua tempia.
Jonas si rese improvvisamente conto di esser stato coinvolto in una roulette russa.
Il cilindro girava e girava, per poi fermarsi.
Quando sarebbe arrivato il prossimo proiettile?
 
 
*

 
 
La vecchia coperta di lana gli donava un calore leggero di cui non avrebbe creduto aver bisogno, in mezzo ai campi giallastri pieni di gradi balle di fieno. Dal tetto della corriera l’erba secca sembrava una marea nera ed ondeggiante, le balle boe enormi che tracciavano una linea immaginaria oltre cui le acque si sarebbero fatte troppo profonde e nulla sarebbe più stato sicuro.
Giordano rabbrividì al venticello lieve che tirava quella notte, una brezza gentile e tiepida ma pregna d’umidità e satura dei profumi dei campi. Erano arrivati nella Pianura, c’erano riusciti con un po’ di contrattempi e qualche fermata obbligatoria, ma non vi erano mai stati veri problemi. Ogni qual volta un adulto iniziasse a fare troppe domande, infatti, c’era Amore, Eros, che bella come un sogno sorrideva mesta all’uomo di turno facendo pendere questo dalle sue labbra. A Giordano gli sguardi che le rivolgevano facevano venire la nausea, un fastidioso nodo alla gola, una fitta allo stomaco. Sapeva che la giovane era perfettamente in grado di difendersi da sola, ma non poteva far a meno di pensare che se non fosse stato così, se fossero stati davvero solo due ragazzini allo sbando, lui non sarebbe riuscito a proteggerla davvero.
 
Non sono forte come Clara e Al, è per questo che li devo trovare, che devo stargli vicino, per diventare come loro e proteggerli.
 
Tutti i ragazzi del vecchio hotel gli avevano sempre ripetuto che ogni loro battaglia, ogni combattimento, era fatto nella speranza che i bambini come lui non avrebbero mai più dovuto imbracciare un’arma. Era utopia, ora Gio lo sapeva, se lo sentiva nella gola secca ogni volto che un uomo allungava una mano per toccare una ciocca dei bei capelli di Amore, ogni volta che guardava lui con sufficienza, come se non fosse importante, se non fosse nessuno.
C’era ancora gente che credeva di poter fare tutto ciò che voleva solo perché più grande, più anziano, più forte. Ci sarebbe sempre stata gente del genere. Ci sarebbe sempre stato il bisogno di imbracciare le armi. Anche solo per difendere i più deboli.
Ma guardando la marea d’erba nera Giordano si domandò chi, tra loro due, fosse effettivamente il debole. Perché il suo essere maschio non aveva nessun valore in quel momento e Gio si sentiva quasi smarrito.
Certo, aveva vissuto al fianco di donne forti e coraggiose, pronte a dare la vita per la giusta causa – alcune di loro l’avevano fatto davvero, come i loro compagni - ma c’era sempre stata quella sottile e sottintesa idea che prima di costringere loro all’estremo passo sarebbe stato compito degli uomini difenderle e morire.
Un uomo, un vero uomo, difende sempre una donna.
Dopotutto, era quello che anche lui era stato incaricato di fare, giungere alla Serenissima e proteggere una persona importante, una donna importante.
Ne sarebbe stato capace? Questo era tutto da vedere.
Il vento soffiò di nuovo e Giordano avrebbe quasi giurato che ce l’avesse con lui, che cercasse di far coprire le sue braccia nude di pelle d’oca, di renderlo ancora più indifeso di quanto non si sentisse normalmente, di quanto non si sentisse in quel momento.
Una mano delicata scivolò con lentezza sul suo petto, carezzando lo sterno sporgente e risalendo poi verso le clavicole. L’indice tracciò il contorno del pomo d’Adamo ancora poco accennato, che saltò quando Giordano deglutì sonoramente.

«C’è qualcosa che ti turba?» domandò gentile e dolce Amore. La sua voce gli dava la stessa sensazione di una coperta calda, quando gli inverni erano stati troppo duri e sotto al materasso si infilava lo scalda letto. Una sensazione di pace e di rilassatezza, di coccola. Un brivido di piacere ed uno di disagio: faceva caldo in quella notte umida, era calda la vecchia lana infeltrita che gli faceva da giaciglio e lo era anche la mano, il dito, di Amore.
Faceva un po’ troppo caldo e non nel modo piacevole della brezza estiva.
«Non devi crucciarti troppo, sei ancora giovane, hai anni dinnanzi a te per divenire forte ed eroico come la tua famiglia.» continuò lei con tono lento ed ipnotico.
Giordano annuì ma non una sola parola uscì dalla sua bocca, specie quando Amore gli si strinse contro, premendo il seno contro il suo braccio. «Devi lasciati andare, piccolo Gio, se vivi sempre d’allerta non ti godrai il viaggio.»
Il ragazzino si leccò le labbra asciutte nel tentativo di darsi un contegno. «Non posso abbassà la guardia, non te l’hanno detto che è il momento bono pe fa danni?» borbottò imbarazzato.
Amore gli sorrise, si sistemò meglio sulla vecchia coperta, malgrado Giordano gli avesse lasciato per l’ennesima volta l’interno della corriera tutta per lei, per rispetto, per educazione, e poggiò la testa sulla sua spalla ossuta.
«Ti stai perdendo tante gioie giovanili, in questo modo.» mormorò alzando lo sguardo al cielo sgombero, non c’era neanche la luna quella notte, solo le vecchie e lontane stelle.
«Voglio solo la mia famiglia indietro, pensi che non vale la pena?» le chiese quasi con tono di sfida, ma lei non ci cascò.
«Penso che se ora loro sono lontani dev’esserci un motivo, non credi? Se fosse stato sicuro ti avrebbero preso con loro.»
Giordano distolse lo sguardo dai campi scuri per guardare di sbieco il volto rilassato dell’altra.
«Che ne sai te?»
Amore ridacchiò. «Oh, so molte più cose di quante tu non possa immaginare. So che non ti hanno davvero abbandonato, ti hanno lasciato indietro, questo sì, ma è perché ti amano e non tollerano l’idea di metterti in pericolo. Saperti lontano da loro, ma salvo, vale tutta la pena e la miseria di non poterti aver con loro.»
Quella lieve confessione suonò come una profezia, come una verità assoluta, e Giordano non seppe come replicare.
Lo sapeva, sapeva che tutti gli volevano bene, che lo volevano solo il più lontano possibile dai problemi. Ma questo significava anche il più lontano possibile da loro.
Sapeva che era stata una scelta sofferta, che era stato fatto solo ed unicamente per il suo bene, che sarebbe dovuto essere grato, come diceva Suor Patrizia, di ciò che il Signore gli aveva concesso, pochi giorni, rari anni, ma incondizionato amore. Eppure Giordano non poteva far a meno di sentirsi solo, di sentirsi rifiutato, di sentirsi abbandonato.
 
Perché non sono abbastanza forte per stare al loro fianco senza essere una zavorra.
 
Era l’amore quello che aveva mosso i suoi cari ed era sempre lui quello che urlava ferito ogni volta che pensava ad ogni singola persona di quel fatiscente hotel al confine con il nulla.
Gli altri lo guardavano con dispiacere e condiscendenza, un giorno avrebbe capito il perché di ogni loro azione, quando sarebbe cresciuto e sarebbe stato in grado di vedere le cose dalla loro prospettiva.
Quel giorno non era ancora arrivato però, perché Giordano si ripeteva di capire, di essere consapevole di ogni motivazione, ma non riusciva a non soffrirne, a non sentirsi solo, a non sentirsi abbandonato, a non trovarlo la crudeltà più grande che potesse essergli rivolta: essere strappato ancora, per l’ennesima volta, alla sua famiglia.
Un improvviso magone gli si formò in gola. Dio, quanto gli mancavano tutti, quando gli mancavano quei corridoi stretti, i pavimenti graffiati ed i muri sporchi. Gli mancava l’infermeria e anche la stanza degli intrugli di Seb che faceva paura a tanti nuovi arrivati; gli mancavano le cucine e le urla delle donne che gli intimavano di allontanarsi dai fuochi. Gli mancavano i bagni con Al e le preghiere infinite di Tali. I sorrisi stanchi di Clara mentre lucidava la spada d’oro, oliandone bene i meccanismi. Gli mancavano persino quelle dannate donne che venivano a prendere i suoi compagni.
Tirò su col naso, battendo velocemente le palpebre quando le lacrime iniziarono a salire e spingere oltre la rima inferiore dell’occhio.
Non voleva piangere, non davanti ad Amore, non per un motivo così stupido come l’essere soli. Non era più un bambino aveva quattordici anni lui! Era grande e grosso, non troppo alto, va bene, ma era abbastanza adulto per potersi contenere, non poteva piangere come un moccioso, non poteva e basta.
 
«Oh, tesoro, non fare così.» la mano delicata di Amore gli prese gentile la guancia e lo costrinse a voltarsi verso di lei. Si era alzata su di un gomito e ora torreggiava su di lui, i capelli morbidi e profumati a fargli da tenda e nasconderlo dal mondo.
Amore poggiò la fronte contro la sua e Gio chiuse gli occhi, stringendosi le labbra tra i denti per trattenersi, perché non poteva, non poteva, piangere per qualcosa del genere.
 Non poteva piangere per qualcosa a cui era abituato da una vita.

Solitudine.
 
Amore gli carezzò piano la guancia con il pollice, un gesto così intimo che fece quasi singhiozzare Gio: da quanto tempo qualcuno non lo consolava così, non lo stringeva a sé, non lo coccolava?
Sì, Ade ci provava a consolarlo, gli si sedeva vicino, stava in silenzio e fingeva di non vederlo piangere, ma non era la stessa cosa. Non c’era contatto tra di loro, non c’erano abbracci, non cerca quella sensazione di vicinanza che le azioni della ragazza gli trasmettevano.
Non che non apprezzasse il silenzioso supporto del suo amico. Dio santissimo, no, no, Gio adorava il modo in cui Ade si rapportava a lui, così impacciato e rigido alle volte, come se non sapesse come fare malgrado, presumibilmente, fosse al mondo da abbastanza da sapere come comportarsi in ogni situazione. Ma il caro vecchio Pluto si comportava proprio come un uomo, come un amico, non come- non come un padre, o come si comportavano tutti i ragazzi del vecchio hotel con lui. Non che Ade dovesse comportarsi in modo paterno ma-
 
«Ssh. Ssh. Respira. Non c’è bisogno di trovare giustificazioni ai propri bisogni, a ciò di cui più necessitiamo. Sei umano anche tu, piccolo Gio e Ade sa, sa perfettamente quanto gli vuoi bene e quanto gli sei affezionato. Lo è anche lui a te, solo che non è abituato a dimostrarlo.»
La giovane lo strinse a sé, facendogli poggiare la testa sul suo petto, cullandolo dolcemente come aveva fatto tante volte Clara.
«Non pensare a nulla, solo alle cose belle. Pensa al vento, guarda le stelle.» mormorò piano. «Guarda i campi, ci sono le lucciole. Non sembrano anche loro centinaia di stelle nel cielo scuro?»
Tirando ancora su con il naso Giordano si strinse di più ad Amore, serrandole le braccia attorno alla vita e scuotendo piano la testa. Non voleva togliersi da lì, non voleva che la ragazza lo vedesse piangere anche se lo stava stringendo mentre lo faceva. Non voleva che un’altra persona vedesse quanto fosse debole, quando fosse ancora piccolo malgrado avesse urlato ai quattro venti d’essere abbastanza grande per affrontare un viaggio da solo per mezza Italia.
«Non sei debole, sei solo giovane. Avrai modo di crescere, avrai modo di dimostrare d’essere degno dei tuoi compagni, della tua discendenza. Quando giungerai alla Serenissima ti sarà data questa opportunità. Lì dimostrerai a tutti che ora sei forse un fiore ancora chiuso nella sua gemma, ma che preso fiorirai e darai al mondo i tuoi frutti.»
Gio l’ascoltò come rapito, il naso premuto sulla pelle morbida del torace gli permetteva di riempirsi la gola di un leggero profumo di fiori ogni volta che prendeva un respiro. Quell’odore era ammaliante come ogni cosa in Amore. Gli faceva venire in mente una serie di paragoni assurdi, al limite del possibile, così sdolcinati da sembrare irreali. Gli faceva venire in mente quel fastidioso prurito, quel desiderio di qualcosa che neanche lui sapeva, come se per lui fosse diventato impossibile distogliere l’attenzione da lei, dalle sue parole, dal suo profumo. Cera, cera e fiori.
Amore era ammaliante come ogni poeta aveva sempre descritto il suo nome, Giordano non avrebbe mai potuto credere che fosse tanto vero.
Chiuse un attimo gli occhi continuando a respirare a fondo, e più lo faceva più rimaneva invischiato in quella malia sottile e potente.
L’aria era dolce e mielosa, l’umidità si appiccicava sulla pelle, facendo da collante a tutti quei profumi, rendendo ogni soffio di vento più intenso, la sensazione che dava sfiorando le membra più vivida e al contempo delicata. Il ronzio degli insetti era quieto ma costante, le cicale frinivano in coro ai gracidii bassi delle rane che si nascondevano tra i cespugli vicino ai torrenti, tra la terra melmosa ed il fango crepato dal caldo.
Le mani di Amore erano bollenti sulle sue braccia e quando Gio aprì gli occhi si ritrovò a fissare il prato scuro su cui volavano basse decine e decine di lucciole affaccendate.
Ne seguì ipnotizzato i voli ondeggianti, i cerchi che compivano, come la luce si intensificasse ogni qual volta si facessero più vicine le une alle altre e poi, alzando un poco il capo, cercò di scrutare il cielo.
Se solo le stelle si fossero potute muovere l’avrebbero fatto come le lucciole.
Amore sorrise appena nell’osservare lo sguardo rapito ma vacuo del ragazzino: era concentrato sugli astri ma così perso nei suoi pensieri, nelle sue paure… quanto poteva esser fragile una vita umana?
 
Ma la sua non lo è. Non è solo umana e non è fragile. Il filo della sua vita è intriso d’oro e d’argento, brilla come le stelle, brilla come quelle piccole lucciole.

Sì, Giordano era delicato come quegli insetti ma luminoso come le loro code. Doveva solo imparare a brillare e lei l’avrebbe aiutato a farlo.
Le notti stellate erano le sue favorite dopotutto, quando Selene non brillava in cielo ed Artemide chiudeva i suoi occhi sul mondo, quando la loro luce non avrebbe aiutato a scorgere il suo vero volto a chi l’aveva proibito.
Carezzando i capelli del ragazzino Amore si disse che prima o poi, proprio come la sua Psiche, anche Giordano avrebbe dovuto accendere una candela per poter scorgere il suo vero essere. Ma per quella notte e per quelle a venire, poteva concedergli ancora il lusso di crederla solo un angelo custode mandato da Ade per vegliarlo.
Poteva regalargli un assaggio della vita che avrebbe avuto se non fosse nato con il sangue macchiato d’icore.
Amore si distaccò dall’altro, facendo scivolare la mano dai capelli alla mascella appena accennata. Gli sorrise ancora, gli sorrideva sempre a dire il vero, e lo guardò dritto negli occhi.
«Un giorno sarai un eroe anche tu, ma fino ad allora, permettimi almeno di mostrarti com’essere un uomo.»
Senza aspettare alcuna risposta, la dea s’avvicinò di nuovo e premette lentamente le labbra su quelle del ragazzino.
Gio si irrigidì per un attimo, congelato sul posto, senza sapere cosa fare come muoversi, dove mettere le mani, prima che una sensazione di pace e di calore gli colasse lungo la gola sin nello stomaco. Era come se stesse bevendo del latte caldo, era esattamente la stessa, identica sensazione, ma per quanto provasse a deglutire non c’era niente da mandare giù, nulla, se non il sottile filo di fumo che Amore stava facendo filtrare dalle sue labbra socchiuse.
Gli girò la testa, le stelle iniziarono a spegnersi una ad una, dalle più lontane alle più vicine, finché la volta celeste non si fece nera e l’unica fonte di luce rimanente fu quella delle piccole lucciole nel loro cielo terreno.
Giordano s’addormentò lentamente tra le braccia di Amore, che lo sostenne con facilità, cullandolo mentre le fitte trame di Ipno l’avvolgevano stretto.
Si leccò le labbra sorridendo sinistra: persino da un semplice bacio come quello poteva percepire ciò che covava nell’anima di quel bambino innocente. Se solo non fossero stati così sciocchi, decenni prima, ora quel potere latente e sopito sarebbe stato già al loro servizio.
Un gracchiare sordo si spanse d’improvviso per la pianura dormiente, le cicale e le rane si quietarono, le lucciole si spensero come candele.
La dea chiuse gli occhi sorridendo ancora allo stesso modo: predatoria, soddisfatta, avida.
Lì riaprì voltando con lentezza il capo verso alcuni alberi poco distanti, osservando il nuovo arrivato, se così poteva chiamarlo.
Il corvo sembrava un vecchio signore curvo e giudicante, stretto nel suo completo nero, con le mani intrecciate dietro la schiena e la testa protesa in avanti. Gli occhi piccoli e lucidi la scrutavano con attenzione, lo scatto che fece inclinando il capo di lato lo rese più inquietante di quanto già non fosse.
Facevano bene i mortali a chiamarli uccelli del malaugurio, della morte, uccelli dei becchini. Sì, sembravano proprio becchini in attesa del prossimo fruttuoso affare.
Ma Amore non lo temeva, non aveva paura alcuna di quel corvo, sapeva perché era lì, sapeva cosa voleva, sapeva cosa avrebbe fatto. Per molti versi i loro compiti erano esattamente gli stessi, ciò che cambiava era solo il mittente: lei non rispondeva a nessuno, non era certo stato suo nonno a mandarla lì, ma era sicura invece che il corvo stesse eseguendo gli ordini del suo padrone come il servo fedele che era sempre stato.
Il ghigno sul bel volto di Amore si allargò, ferino e pericoloso come quello di suo padre, come quello di sua madre. Oh, la gente spesso ignorava quanto amore e guerra fossero simili, quanto entrambi fossero ciò che di più pericoloso c’era al mondo. Dimenticavano quanto entrambi potessero essere fonte di salvezza e crudeltà assoluta. Dimenticavano che lei incarnava ogni lato più cruento di entrambi.
 
«Non devi preoccuparti, non sto facendo alcunché di pericoloso. Di’ pure al tuo padrone che nulla è cambiato, i nostri accordi rimangono tali, vi terrò fede come stabilito. Ma non mi negherò il piacere d’assistere allo spettacolo dalla prima fila.» sentenziò con voce risoluta, tagliente, provocatoria.
Lo stava sfidando a dirgli qualcosa, ad accusarla di star infrangendo i Sacri Patti, ma sapeva perfettamente che il corvo non avrebbe proferito parola.
Il rapace la fissò ancora intensamente prima di gracchiare con più forza ed alzarsi in volo.
Disegnò alcuni cerchi sopra le loro teste e poi si disperse nel buio della notte.
Il sorriso sul volto di Amore si fece più infastidito, quello stupido uccello le aveva volteggiato sul capo come la sua specie faceva con le prede, con le carcasse di cui si sarebbero poi cibati. Se il messaggio era che, al primo passo falso, avrebbero entrambi fatto la stessa fine, Amore avrebbe personalmente dato fuoco a quel corvo e al suo degno compagno, anche a costo di scatenare una guerra.
Cercò di togliersi dalla mente quella scena e riabbassò lo sguardo sul piccolo Giordano che dormiva beato tra le sue braccia, sulla fronte un petalo stropicciato di papavero.
Amore sorrise per l’ennesima volta, ma con fare dolce, intenerita.

«Grazie, cugino, spero tu possa regalargli sonni tranquilli. Presto avrà bisogno di tutta la forza possibile.»
 
Le lucciole si alzarono di nuovo in volo, le rane e le cicale ripresero a cantare, nel cielo nero le stelle si riaccesero come lampadine.
Una scia azzurrognola e sfocata iniziò ad affiorare dalla terra scura.
I Fuochi Fatui stavano tracciando la via verso la loro prossima meta.
Amore strinse le labbra quasi dispiaciuta.
 
«La tua missione è ufficialmente iniziata, piccolo Gio.»
 

 
*
 


Eliza si gettò uno sguardo alle spalle, dove Cade e Lea fiancheggiavano Jonas, cercando di tenerlo impegnato con l’aiuto di Nathan che, incredibilmente più gentile del solito, gli raccontava di come gli Alleati avessero preso a calci in culo quei naziqualcosa.
Aveva capito che i “cattivi” erano tedeschi, come Jonas, e non le era servito molto per realizzare che probabilmente ciò da cui era scappato il ragazzino, andando però incontro alla morte, dovevano essere proprio quelle persone.
La figlia di Nike smise di ascoltare quello che i tre stavano dicendo, le domande di Cade che incitava il soldato a raccontare di come fosse tornato ad essere il mondo dopo, quali grandi e importanti cambiamenti c’erano stati, e tornò a guardare davanti a sé.
Jane camminava al fianco di Cicno, ponendo anche lei domande su domande ma di carattere ben diverso, divino.
La conversazione di prima non aveva minimamente aiutato la situazione particolare in cui si trovavano, ma non poteva darne la colpa a nessuno, neanche alle domande inopportune della figlia di Ecate.
Distrattamente sentì proprio questa fare una domanda a proposito del culto di sua madre nell’antichità, prontamente accontentata dal nuovo arrivato.
Cicno era stato fin troppo gentile con tutti loro, se solo ricordava come si era approcciata lei all’inizio a Cade e Nathan non poteva far altro che congratularsi con la diplomazia dimostrata dal giovane, seppur non si fidasse ancora completamente di lui.
Forse era sciocco, visto il modo in cui si era invece fidata degli altri, di chi era venuto dopo i suoi due primi compagni, ma c’era qualcosa che non le quadrava con il greco, qualcosa di ben diverso. Poteva chiamarlo sesto senso, o qualunque altra cosa avessero i semidei presupponeva, ma sapeva, lo sapeva per certo che qualcosa non era come sembrava.
A partire dalle vesti di Cicno, che il ragazzo aveva specificato essergli state “gentilmente rammendate” da un altro partecipante. Chi era costui? Perché si era preso la briga di render più presentabile un dannato, per giunta uno proveniente da una terrazza abbastanza bassa. Che Cicno l’avesse ingannato? Che avesse mentito a questa persona sulla sua vera vita? Non era una cosa così assurda da pensare, forse l’avrebbe fatto anche lei, se le fosse stato necessario.
Secondo: come era sopravvissuto da solo con tutte quelle continue battaglie tra anime? E dove aveva trovato delle armi? Eliza aveva subito notato la cinta piena di coltelli da lancio che portava con sé ed era più che certa che ogni arma fosse stata prelevata all’ingresso del Labirinto di Persefone. Così com’era certa che i dannati fossero stati avvantaggiati in quella prova perché sprovvisti di armi da consegnare. Avevano avuto il lusso di correre nel labirinto prima che questo iniziasse a muoversi, prima che cercasse di ingurgitarli tutti.
Al tempo, Cade si era separato da lei e Nathan per ritrovare il suo coltellino e poi anche i suoi guantoni ramati, quindi era del tutto probabile che il greco avesse trovato quei coltelli nel labirinto e se li fosse tenuti stretti.
Questo significava che doveva necessariamente avere delle basi di combattimento, per quanto non l’avrebbe mai detto guardando il suo fisico, molto più simile a quello di un signorotto che di un combattente. Ma era pur sempre un figlio degli Dei ed Eliza non avrebbe fatto l’errore di sottovalutarlo.
Molti dei suoi dubbi avevano quindi una possibile soluzione, eppure Eliza continuava a non esserne convinta, non fino in fondo.
Nascondeva qualcosa Cicno, questa era la sua unica certezza. Ora doveva solo capire se nascondesse cattive intenzioni, brutti ricordi o azione pregresse per cui provava profondo imbarazzo.
Dalla storia di sua madre poteva credere che fosse quello il suo rimpianto, aver deciso di mettere fine alla propria vita senza pensare alle conseguenze del suo gesto su chi lo circondava, ma l’istinto le diceva che il figlio di Apollo aveva taciuto loro qualcosa anche su altro del suo passato.
Doveva solo assicurarsi che la sua fosse vergogna, paura di non essere accettato, e non un piano studiato nei minimi dettagli.
Continuando a marciare come aveva imparato a fare negli anni della sua vita da soldato, Eliza sospirò quasi di sollievo quando le Praterie nere iniziarono di nuovo ad affollarsi.
Spinse lo sguardo più in là possibile ed il sollievo appena provato si trasformò in inquietudine.
Lei quel posto lo conosceva, ne era sicura. Certo le Praterie degli Asfodeli si somigliavano tutte ben o male, pochi arbusti, pochi alberi, colline basse e poi profondi strapiombi, eppure Eliza poteva giurare di esserci già passata per quei luoghi.
 
«Ma tu guarda, allora siamo arrivati al traguardo della quarta prova?» domandò Cade alzando le sopracciglia una volta resosi conto di quante anime si stavano riunendo nello stesso posto.
Jane fece un verso di scherno. «Potevano metterlo un po' più lontano.»
«Credo che non ci fosse un traguardo vero e proprio. Il traguardo era la propria sfera, tutto qui.» rispose Lea allungando il collo per poter osservare meglio i dintorni. «Solo a me pare famigliare?» chiese poi.
Nathan grugnì. «Famigliare come tutte le cazzo di Praterie, intendi?»
«Famigliare come se fossimo già passati di qui.» precisò lei con una smorfia.
«Questa è una possibilità.» disse Cicno prima che i due potessero iniziare a battibeccare sul nulla come gli aveva già visto fare. «Le Praterie degli Asfodeli sono mutevoli, come un grande animale che cambia pelle, come la riva di un fiume che trascina via terra e sassi. Ciò che hai scorto in un luogo ora potrebbe trovarsi in questo.» spiegò con semplicità.
Cade però non parve troppo convinto. «In che senso? Che vuol dire, che si sposta?» chiese attonito.
Cicno si voltò indietro per sorridergli appena ed annuire. «Esattamente questo. Le Praterie degli Asfodeli sono vive, non c’è modo migliore per spiegare la loro essenza. Esse vivono, crescono, si nutrono. Sono le anime dei perduti ad alimentarle, assieme alla Foschia. Come i mari sono sempre in movimento, così l’Ade si fa neve e poi ghiaccio, prima di tornare acqua. I Campi di Pena, quelli degli Elisi, la dimora del divino Ade, i fiumi ed il Tartaro, questi sono i luoghi che mai mutano la loro collocazione. Ma molti altri, come le Porte della Morte ed i templi dedicati agli altri Dei, si muovono assieme alla terra su cui furono edificati. Per quanto ne sappiamo, questo potrebbe essere lo stesso terreno su cui marciammo per giungere ad una delle precedenti prove.»
La sua voce chiara e sicura, quel classico tono di chi è certo delle proprie parole, parve donare un conforto inaspettato a tutti i suoi compagni.
la consapevolezza che nulla rimanesse mai al suo posto, il senso di smarrimento, di perdizione, erano stati soppiantati dalla certezza che vi fossero punti fissi a cui far riferimento.
Úranus annuì alle parole del greco e spinse il suo sguardo più in là possibile.
 
«Le anime si fermano, possiamo provare ad avvicinarci ma non credo riusciremo a giungere troppo in là.»
Anche lui aveva la sensazione di aver già visto quel posto, ma la spiegazione di Cicno, che condivideva in pieno, l’aveva portato a credere che, probabilmente, nel loro lungo pellegrinare, avessero già incontrato quel pezzo di terra.
Quando giunsero all’ultima fila di anime si resero ben presto conto che, come per le altre prove, gigantesche lastre nere, pronte ad illuminarsi come le vetrate di una chiesa, erano state poste a distanze regolari per permettere a tutti di osservare il prossimo Dio che avrebbe dato loro le regole per la quinta prova.
I semidei si fermarono vicino ad una di quelle lastre.
 
«Televisori. Sono dei dannati televisori.» borbottò per l’ennesima volta Nathan. «Questa volta c’abbiamo messo più del dovuto e ora ci dovremmo sorbire l’edizione straordinaria del telegiornale da qui. Solo perché rosso malpelo ha deciso di prendersi un febbrone da cavallo.»
Cade lo guardò storto. «Come se nel tempo in cui sono stato lontano voi vi foste messi sotto per trovare l’ultimo ricordo mancante. Sbaglio o avete fatto solo un sacco di danni, mentre io recuperavo la sfera di Golia al limite del campo di battaglia?» rispose provocatorio.
«Abbiamo fatto danni per cercare te, stronzetto.» gli ringhiò contro il biondo.
«Oh, sì, diamo la colpa al vecchio compagno Cade. Stavate cercando me e infatti mi avete trovato alla fine. Ops, no, non è vero. Io ho trovato voi, non il contrario. Ottimo utilizzo del tempo, capo
«Senti-»
«Non mettetevi a litigare come giovinetti, vi prego. L’unico che ne avrebbe il diritto, tra di noi, dimostra molta più maturità di quanta non ne esibiate voi assieme.» li stroncò di nuovo Cicno.
Possibile che il suo lavoro sarebbe stato tutto un continuo impedire che si saltassero alla gola a vicenda? Cos’era, una balia? Senza contare che c’era sempre il figlio di Ares in mezzo. Ma, dopotutto, cosa poteva aspettarsi dal discendente di quel Dio?
Lea sogghignò. «In parole povere, se quelle di Cicno fossero troppo elaborate, vi ha detto che dovete smetterla di comportarvi da bambini e non rompere le scatole.»
«Gli ha detto che sono una palla al piede e che l’unico che potrebbe esserlo per diritto il fa sembrare ancora più ridicoli solo standosene zitto » precisò Jane con il naso verso l’alto, ad osservare con occhi sgranati la lastra nera su cui ora vorticava uno strano simbolo.
Sembrava un forcone tondeggiante e senza il dente centrare, al cui posto spiccava una sfera, con una doppia impugnatura nel mezzo dell’asta verticale. O poteva sembrare un uomo stilizzato con una cintura in vita.
«Cos’è quel coso?» domandò ignorando Cade e Nathan, come ormai faceva sempre.
Cicno rivolse a mala pena lo sguardo allo schermo. «Il simbolo del divino Ade.» disse come se fosse ovvio. «Come funzione questo strano oggetto? Potresti ripetermene il nome, figlio di Ares?»
«Televisore. Un’invenzione dei primi anni del 1900. Ai miei tempi erano per i ricchi e di certo non trasmettevano a colori.»
La risposta venne però da Jonas, che con voce flebile fissava il simbolo roteare su sé stesso.
Non si era ancora completamente ripreso da prima, sebbene le chiacchiere dei “più giovani” del gruppo l’avessero un po’ sollevato, era bastato un momento di disattenzione e la sua mente era tornata al martellante pensiero, alla certezza, che ormai gli ottenebrava il cervello.
 
Cicno sa.
 
Ma come? Come poteva sapere?
Non aveva alcun senso, non l’aveva mai detto a nessuno, non l’aveva detto neanche a Cade!
Poi un’improvvisa realizzazione: Apollo non era forse anche il Dio degli oracoli? Come si chiamava quello famoso, famosissimo… lo si poteva anche visitare se si andava in Grecia, forza! Quel dannato nome, con la d- da- de-
 
Delphi! L’oracolo di Delphi!
 
Sì, era un oracolo di Apollo, ne era quasi completamente certo. Che i figli del Dio del Sole potessero vedere il futuro come facevano gli adepti del loro padre?
Un brivido lo fece chiudere nelle spalle ossute. Dio, sperava di no. Se fosse stato davvero un indovino avrebbe rischiato di scoprire i segreti di tutti, di scoprire i suoi, e questo nessuno di loro poteva permetterselo.
Si mordicchiò il labbro soprappensiero per poi portarsi la mano alla bocca e mangiucchiarsi le pellicine.
C’era la seria possibilità che Cicno non fosse solo più colto di loro, ma anche molto più potente. Doveva assolutamente dirlo a Cade e poi anche ad Eliza. Loro due erano quelli che, di sicuro, doveva essere avvertiti per primi.
Lanciò uno sguardo a Jane, preoccupato in parte del modo quasi amichevole con cui si relazionava a Cicno, come se lo reputasse non solo più interessante, ma anche più capace di vedere le cose dalla sua prospettiva e forse era proprio così.
Nessuno di loro era un tipo rancoroso. Tranne Nathan. Nathan era un tipo molto rancoroso. Sembrava quel tipo di persona pronta a rinfacciarti, tra dieci anni, della volta in cui hai scelto tu la strada da prendere e avete impiegato due minuti in più per arrivare rispetto a ciò che avrebbe scelto lui.
Il punto era che nessuno di loro, neanche lui, bramava vendetta dei confronti di qualcuno, se non Jane e Cicno. Una verso chi aveva ucciso i suoi genitori e l’altro verso suo padre.
Erano un due lugubre e inquietante, pericoloso e probabilmente anche piuttosto potente, se avessero unito le forze. E se Jane fosse stata in grado di fare un incantesimo un po’ più difficile di quello della bussola.
In ogni caso, Cicno la capiva, condivideva lo stesso desiderio e questo aveva affascinato Jane più di quanto non avesse fatto Eliza salvandogli la vita malgrado avessero due caratteri completamente diversi.
Jonas continuò a fissare i suoi compagni, immerso nei suoi pensieri, finché un suono acuto e prolungato, come un fischio ed un cigolio messi assieme, lo costrinse a portarsi le mani alle orecchie, cogliendolo di sorpresa come tutti gli altri partecipanti. Una cacofonia di grida ed imprecazioni si aggiunse al suono.

«Ma chi cazzo!» gridò Cade piegandosi in vanti e nascondendo la testa tra le braccia. «ANDIAMO! Mi sono sanguinate le orecchi neanche un’ora fa! Volete farmi diventare sordo? Questo è accanimento!» continuò accovacciandosi sulle caviglie per poter trovare un mino di riparo tra le anime che lo circondavano.
Nathan imprecò concorde, premendosi le mani sulle orecchie come stavano facendo ben o male tutti. «Sono delle cazzo di interferenze radio! EHI! NON VI SI CONNETTE L’ANTENNA, STRONZI!»
«Ma sì! Certo! Continuiamo ad insultare a gran voce gente che potrebbe potenzialmente ucciderci tutti!» gli gridò contro Lea.
«Siamo già morti! Peggio di così non ci può andare. A meno che non facciano continuare questo suono infernale, allora sì che potrebbe andare peggio.» convenne Jane con il suo solito ottimismo.
«Non hai qualche trucco che possa aiutare?» domandò Jonas socchiudendo gli occhi sempre più infastidito.
Jane lo fissò arricciando il naso. «No.»
«FANTSTICO!»
«E CHE CAZZO!»
«QUESTA VOLTA CONCORDO!»
«MANTENETE LA CALMA!»
«Perché, Dei dell’Olimpo, state urlando in questo modo?»

Cicno guardò i suoi compagni come se fossero un branco di stupidi senza speranza e la verità era che il greco li vedeva proprio in quel modo.
Quanto potevano essere deboli e sciocchi se non riuscivano neanche a fare una cosa banale come sopportare suoni del genere e credevano che un semidio potente come lui non potesse far nulla per migliorare la situazione?
Con un sospirò quasi scoraggiato Cicno allungò le mani verso Cade, quello che sembrava più disposto e tranquillo nel farsi toccare, e le posò direttamente sulle sue orecchie.
Non gli servì che un mormorio ed i suoni iniziarono ad affievolirsi, finché l’irlandese non fu in grado di tirarsi di nuovo in piedi e guardare a bocca aperta il greco.
A quella scena non fu tanto difficile convincere anche gli altri a farsi praticare lo stesso incanto e quando anche alle sue orecchie il fischio divenne più lieve, Lea fissò il fratellastro con un senso di disagio ed inferiorità che le mangiava lo stomaco.
Non era mai stata una persona invidiosa, non per quel genere di cose. Era invidiosa della libertà di Giuseppe, dell’attenzione e della considerazione che il regno e tutto il popolo gli dava in quanto medico, in quanto uomo. Era invidiosa dei suoi abiti comodi e dei capelli portati corti senza che nessuno dovesse crederlo malato, vittima di un tragico incidente o costretto a privarsi di cotanto vanto per denaro. Ma non era mai stata invidiosa dei poteri curativi di suo fratello e del suo sapere. L’invidia, se così la si poteva chiamare, era tutta per la maestria e la sicurezza con cui il medico si muoveva, e non si traduceva in odio verso di lui, ma in voglia, in fame, in avarizia pura di poter fare, un giorno, le medesime cose con la medesima risolutezza.
In quel momento però, guardando Cicno, si domandò quanto anche Giovanni dovesse aver ignorato del mondo divino.
Perché ormai era certa che suo fratello fosse morto, l’anno di nascita di Jonas, ma ancor più quello di Nathan, le aveva tolto ogni speranza. Ora le restava solo quella di aver mancato il suo arrivo ai Campi Elisi, o la rassegnazione di saperlo perduto tra le Praterie.
Cicno però dovette sentire il suo sguardo addosso perché fissò gli occhi nei suoi ed inclinò lievemente il capo in una muta domanda.
Lea si costrinse a sorridere.
 
«Come hai fatto? Non credevo potesse esistere un canto curativo del genere.» mormorò appena, quasi sperando che l’altro non la capisse.
Ma Cicno invece la capì eccome, ed inclinò ancora di più la testa, mentre un sorriso divertito ed un po’ malizioso gli tirava le labbra.
«Non ne conoscevi l’esistenza perché, da quel che mi hai detto, ti sono stati insegnati solo canti curativi.»
La sua voce le arrivò bassa, quasi lontana, ma Lea capì velocemente che il canto doveva agire su ogni tipo di suono e non su uno specifico. Chissà se ne esistevano di più precisi, chissà se Cicno avrebbe mai potuto insegnarglieli.
«Se non è un canto, cos’è?» domandò con tono più alto Eliza, timorosa di non riuscirsi a far udire.
Cicno si volse verso di lei ed il sorriso divenne più ampio. E più divertito.
«Una maledizione. Vi ho privato della maggior parte della vostra capacità uditiva per poco. Questa maledizione impedisce di percepire i suoni acuti, come le grida, gli strepitii degli uccelli e di altri animali, i dardi ed il sibilo delle lance, o dei piattelli in volo.»
Lo spiegò con un candore e con una tranquillità invidiabili, lasciando tutti a bocca asciutta.
Per poi far scatenare l’inferno.
«Fammi capire! Ci hai resi sordi alle frequenze più alte? Quelle che indicano pericolo? DAVVERO, CAZZO?» gridò Nathan afferrandolo per la veste chiara.
«Ti conviene lasciare la presa, figlio di Ares, ricorda cos’ho fatto per errore a Cade, non vorrei replicare lo stesso spiacevole evento.» sibilò di rimando lui.
«CHE SIFNICA DARDI, LANCE E DISCHI! CHI CAZZO CI STA TIRANDO COSA?»
«Nessuno ci sta tirando nulla, sciocco!»
«Ha detto che durerà per poco, calmatevi!» gridò più forte Eliza rifilando uno schiaffo sulla testa a Nathan e uno in piena fronte a Cade. «Comportatevi come si conviene alla vostra età, per Diana!»
 
Mentre i semidei erano impegnati a discutere su quanto e per quanto tempo Cicno li avesse resi sordi, su quanto fosse altamente irrispettoso e irriconoscente da parte loro trattarlo così, e del fatto che, se proprio ci tenevano, poteva revocare la maledizione e farli soffrire assieme al resto dei partecipanti; il disegno sullo schermo cambiò improvvisamente, mostrando uno scheletro con la tuta da lavoro ed un’ingombrante pettinatura afro, che si strofinava il teschio leggermente annerito.
Lo scheletro fissò le orbite vuote dritte verso la telecamera e poi alzò il pollice in segno d’approvazione.
Il suono acuto scomparve di colpo e con altrettanta facilità Cicno ruppe il suo incanto senza il minimo sforzo.
 
«Non tutto si ottiene con i “canti curativi”, molte cose, altrettanto utili, si possono ricavare dalle maledizione, se si è in grado di usarle.» rinfacciò senza alcuna vergogna a Nathan e poi anche a Cade, guardandolo con fastidio, come se da lui si fosse aspettato più comprensione.
In effetti era proprio così e Cade dovette pensarla allo stesso modo perché si portò una mano dietro la nuca, si scompigliò i capelli imbarazzato, e mormorò qualche scusa bassa ed impacciata.
«Scusa, è che quasi diventavo sordo prima, sono entrato nel panico.»
Cicno lo fissò ancora per un po’ con quell’espressione contrariata ma poi espirò con forza e annuì.
«Comprensibile.» disse solo, ponendo fine alla conversazione.
Jane alzò gli occhi al cielo. «Io l’ho apprezzato. Usare anche il male a proprio vantaggio è il raggiungimento massimo di un potere, credo.» affermò occhieggiando Nathan, spronandolo a contraddirla.
Il soldato si lasciò sfuggire un grugnito infastidito. «Non farlo mai più su di me, chiaro principessa?»
«Continuo a non capire perché ti riferisci a me con questo nome. Mi pare più che evidente che io sia un uomo, il termine corretto sarebbe “principe”.»
Jonas abbozzò un sorriso forzato. «Lo usa in modo denigratorio. La principessa è una giovane servita e riverita, che va protetta e viene viziata, non è in grado di difendersi da sola e ha uno stuolo di servitù che fa ogni cosa per lei. In più è una donna e-» guardò Lea ed Eliza deglutendo, entrambe lo stavano fissando in attesa che finisse la sua spiegazione. «- e, secondo l’immaginario comune, sai, i “luoghi comuni”? Quelle cose che si danno per vere solo perché quell’immagine è radicata nella storia e ne- Va bene, sto peggiorando la situazione. Ho capito, sto zitto.» concluse abbassando la testa.
Sullo schermo era tornato visibile il simbolo di Ade, quando sarebbe apparso il prossimo dio a trarlo d’impaccio?
«No, per favore, continua a spiegare.» lo spronò però Jane, sarcastica.
«In pratica si fa l’associazione stupida di “principessa uguale ragazzina debole ed indifesa, uguale presa per il culo perché anche tu sei debole e indifeso e neanche degno di essere chiamato uomo”. Tutto qui, le solide idee assurde di chi non ha la più pallida idea che una donna possa tranquillamente ammazzarti come farebbe un uomo e per giunta senza farsi scoprire.» s’intromise Cade grattandosi ancora l’orecchio, controllando poi che non vi fosse rimasto sangue rappreso.
Cicno alzò un sopracciglio per nulla convinto. «Penso sia indubbio che la forza fisica di un uomo sia superiore a quella di una donna, per altro, ai miei tempi, le donne non venivano addestrate ed allenate. Posso assicurarti, figlio di Ares, che ho conosciuto moltissime donne e anche principesse, in grado di decapitarti con un colpo di spada. Nella mia terra non era inconsueto sentire storie di donne che avevano rovesciato tiranni, distrutto imperi. Le donne di Sparta tutte sarebbero piuttosto infastidite dalla tua assunzione. Le Amazoni anche. Le maghe, le ninfe, le semidee comprese tue sorelle. Come puoi fare un pensiero del genere?» domandò confuso da quella spiegazione.
Certamente, in passato, Cicno aveva sentito di violenze, di soprusi, di vendette e di ingiustizie perpetrate contro le donne. Era indubbio che alcune non sapessero come difendersi, era indubbio che il loro ruolo era sempre stato quello di protettrici del focolare e di levatrici, ma anche la più anziana donna del mercato sarebbe stata in grado di prenderti a bastonate, per difendersi.
Cicno la vedeva la differenza tra i due generi, l’aveva sempre vista, specie davanti alla legge. Ma da lì ad etichettare il nobile ruolo della principessa come quella di essere indifeso e debole… il mondo era cambiato in modi che forse lui non sarebbe mai stato in grado di comprendere.
Batté le palpebre e si voltò di nuovo verso Nathan, mentre Jonas, di soppiatto, allungava la mano per dare un colpetto a Cade e ringraziarlo d’averlo salvato.
«Per di più, soldato, se questa è la tua idea di donna, vedi davvero in me un essere debole e bisognoso di protezione? Credevo di aver dato prova di me più volte. Vuoi che ti renda del tutto impotente, in modo da mostrarti come sia realmente esser deboli?»
Nathan lo guardò come se avesse voluto incenerirlo, pronto a rispondere per le rime a quell’efebo da due soldi, quando con un altro crepitio, questa volta breve, il volto pallido di Ade apparve sullo schermo.
 
 
«Sì, credo sia connesso.» annuì il dio gettando uno sguardo oltre la telecamera. «Cosa? Mi devo- Oh, certo, troppo vicino. Inquadratura a mezzo busto, grazie.» continuò rivolto al cameraman scheletrico.
 
 

«Ti ha salvato Ade.» sibilò il biondo rivolto al compagno.
Cicno ghignò. «Abbiamo ancora altre otto prove, non essere pessimista.»
 
 
 
«Benvenuti ancora a tutti coloro che sono riusciti a portare a termine la sfida di Ermes.
Per tutti voi che avete trovato la vostra Sfera dei Ricordi, congratulazioni, siete ufficialmente ammessi alla quinta prova.
Coloro che invece non hanno rinvenuto la propria, ora sono dispersi per le Praterie degli Asfodeli e perduti per sempre.»
Il suo tono era basso e monocorde, palesemente già annoiato da quell’ennesima apparizione.
Ade osservò lo stuolo di anime che si srotolava ai suoi pedi, metri, metri, se non chilometri di anime più o meno sbiadite, più o meno malridotte, ma tutte ancora pienamente consapevoli di sé.
 
Forse neanche consce di quanto siano presenti a sé stessi.
 
Malgrado però vi fossero ancora moltissimi mortali, alcuni provenienti anche da altre realtà, il Dio non poté far a meno di notare quanto, ancora una volta, fossero semidei e benedetti dagli Dei a trovarsi in prima fila. I mortali stavano faticando sempre di più a reggere il ritmo di chi aveva sangue divino nelle proprie vene, arrivando dietro i loro avversari con ore di distacco, qualcuno anche con giorni forse.
I partecipanti non si erano probabilmente resi conto che mentre loro assistevano alla nuova presentazione della prova, altri erano ancora impegnati dell’Area Cani, alcuni alla ricerca della loro Sfera.
Forse queste anime, rimaste alla terza prova, non sarebbero mai riuscite a superare la quarta, Ade dubitava vi fossero ancora abbastanza sfere integre per soddisfare tutte le anime rimaste indietro, o forse erano invece tra le poche fortunate il cui ricordo era stato posto lontano dai normali sentieri battuti. Forse, e qui Ade non sapeva se augurarsi che fosse così o meno, qualcuno aveva salvato determinate sfere, pronto a rimetterle in gioco al momento opportuno.
L’unica prova ufficialmente e completamente chiusa, se non si contava la prima che consisteva nel raggiungere la sua dimora, era la prova del Labirinto. L’edera di Persefone aveva divorato tutte le sfortunate anime rimaste intrappolate da settimane, ormai.
Il dio osservò coloro che invece erano stati così forti, scaltri e fortunati d’aver superato ogni prova e contrasse leggermente le labbra, infastidito: erano ancora troppi e ciò significava che quella stupida gara sarebbe durata ancora molto.
 
Per l’Olimpo, Gio, qualcosa di più semplice non potevi inventartelo?
 
Ade si schiarì la voce con un colpo secco ed indietreggiò di qualche passo come i suoi scheletri gli indicavano di fare.
Avrebbe anche dovuto dare una promozione a quelle povere anime, tutto lo S.P.I.R.A stava facendo gli straordinari per quella farsa.
 
«Le anime perdute non sono un nostro problema, però.
È quindi senza ulteriori indugi che vi presento la mente dietro la prossima prova.»
Fece un cenno alla telecamera e le casse fissate dietro agli schermi esplosero con una musichetta accattivante, mentre la voce già conosciuta di Eolo iniziava l’ennesima sviolinata su quanto fossero magnifiche e spettacolari quelle prove, su quali fossero alti gli ascolti generali e come fosse possibile votare per il proprio preferito.
Eliza alzò gli occhi al cielo a quelle parole: sembrava di stare alle corse dei cavalli, con gli Dei che puntavano sull’uno o l’altro concorrente. Evidentemente nessuno di loro era il preferito di qualcuno, perché non avevano avuto aiuti o facilitazioni durante le prove, se non gli incontri fortuiti con altre anime che poi si erano unite a loro.
A quel pensiero Eliza aggrottò le sopracciglia: e se fosse stato proprio quello il “premio” per esser stati i favoriti di qualcuno? In effetti c’erano degli eventi che nessuno di loro si sapeva spiegare, come ad esempio l’incontro casuale con Jane, che avevano salvato da morte certa, o quello con Úranus e Lea. Cade salvato da Cicno quando era ormai perso e svenuto, le anime che attaccavano lei e Nathan per poi crollare tutte a terra e le sfere! Jonas che sente la sua, lei che sente quella di Cade, Cade che trova quella di Úranus, Lea quella di Jonas. A conti fatti solo la sfera di Jane era stata recuperata in modo “normale”, ricercandola con un potere specifico.
Eliza non si era interrogata troppo sul modo in cui ognuno di loro avrebbe dovuto trovare la propria sfera in mezzo a miliardi di altre, sparse per ettari ed ettari di Praterie mutevoli, ma ora invece, iniziava a pensare che vi fosse uno schema, una volontà ben precisa.
 
Anche Ermes ha scremato in qualche modo chi preferiva da chi non voleva più in gara, facendoli giungere prima o dopo ai propri ricordi. O forse non gli interessava davvero ed ha inventato quell’assurda prova solo mettere fine a tutto?
 
Il fatto più preoccupante era che ogni opzione poteva risultare corretta. Gli Dei lasciavano tutto al caso per divertirsi di più? Possibile. Gli Dei muovevano ogni anima come se fossero marionette? Possibile anche questo.
Ma quanti esseri potevano osservare contemporaneamente? Potevano gli Dei fare in modo e maniera di esaminare tutti, tutti i morti del mondo e scegliere i loro preferiti?
Probabilmente non ci sarebbero riusciti neanche se fossero stati in grado di sdoppiarsi.
Eliza guardò con attenzione lo schermo, dove Ade era voltato di tre quarti, ad osservare l’ospite d’onore che, ad agio, saliva le scale del palco.
In ogni caso, che la gara fosse completamente truccata o meno, la prossima prova non le avrebbe lasciato il tempo di riflettere e consultarsi con i suoi compagni. Stava per iniziare.
 
 
*
 

Sollevando l’orlo del vestito giallo, un pugno in un occhio in mezzo a tutti i toni cupi che coloravano il sottomondo di suo fratello, Demetra salì gli ultimi gradini che la dividevano dal palco, pronta ad entrare finalmente in scena.
Si era in parte già pentita della sua scelta di partecipare alla progettazione delle prove, ma d’altro canto non aveva molto da fare se non seguire la gara in televisione o assieme a sua figlia, quindi tanto valeva dare una bella potatura a quell’ancora troppo folto gruppo di anime.
Persefone aveva fatto un lavoro buono, ma era palese che non le interessasse chi altro potesse vincere a parte i suoi fratellastri ed i suoi figli. Artemide era stata più cruenta, ma alla fine neanche così crudele. Ermes, per chiudere, era stato più fine, ma non si era giocato al meglio le carte che s’era trovato in mano.
Demetra fece una smorfia arricciando il naso, senza preoccuparsi che venisse ripreso dalle telecamere.
Si affiancò a suo fratello scambiandosi un cenno del capo, dopodiché si fermò esattamente sull’adesivo a forma di teschio che gli addetti avevano attaccato sul pavimento.
Guardò con malcelata indifferenza tutte quelle anime, individuando subito con lo sguardo tutti i suoi figli, i suoni nipoti, qualche discendente. Scorse anche gli altri semidei ed i protetti di ogni membro della sua famiglia e non si sorprese affatto di trovarli tutti riuniti in gruppi più o meno grandi. Sorrise. Se era vero quello che si vociferava in giro e che qualcuno aveva intenzionalmente fatto sì che ogni semidio si ritrovasse in una squadra, allora aveva fatto davvero un ottimo lavoro, perché non solo li aveva uniti, ma l’aveva fatto anche con un certo criterio, in modo ben o male bilanciato.
Se quella era opera di Gio gli avrebbe mandato un mazzo di fiori. O forse avrebbe preferito altro? Qual era il frutto preferito di quel ragazzino, il lampone o la pesca? Poco male, gli avrebbe fatto recapitare un cesto di frutta ed uno di cereali, si ricordava bene quanti ne mangiasse da piccolo.
Spostando poi la sua attenzione dinnanzi a sé, Demetra mosse leggermente le mani, per chiedere un silenzio che ottenne immediatamente.
 
«Benvenuti alla quinta prova della Gara della Morte.
Io sono Demetra, dea delle terre, della natura, del raccolto e della fertilità. Ho partorito le stagioni, è mia figlia la Dea che governa ogni stato del vostro mondo mortale, nonché l’artefice della vostra prima prova.» iniziò a parlare tranquilla.
«Tutti voi siete morti per vari ragione. Alcuni hanno aspettato per anni l’arrivo di Thanatos, altri di voi l’hanno incontrato per caso prima del dovuto, prematuramente, nel bene e nel male. Qualcuno lo ha ricercato e qualcun altro ha tentato di sfuggirgli con tutte le sue forze. Ma ora siete qui ed il vostro passato non ha alcun valore, le vostre gesta sono nulle, il vostro credo inutile.»
 
 
«Solo io ho la sensazione che la signora sti per buttarci nella tana dei leoni?» mormorò Cade a mezza bocca.
Cicno annuì. «La divina Demetra non è una dea caritatevole, ma neanche spietata. Lei è la natura e come esse non è altro che giusta.»
«Sì, ma giusta secondo chi?» chiese piano Jane, gli occhi fissi sullo schermo dove quella donna, quella dea, stava parlando come se avesse tutto il tempo del mondo.
Ai suoi tempo una donna nera non avrebbe mai avuto la possibilità di tenere banco davanti a tutte quelle persone, a tutti quegli uomini, per giunta bianchi. Sarebbe stata una schiava, avrebbe vestito di stracci a meno che il suo padrone non fosse stato abbastanza caritatevole da regalargliene di veri. La sua vita sarebbe stata decisa dal capriccio di ogni giorno, l’avrebbero picchiata, affamata, abusata, costretta a dire qualunque cosa per compiacere il proprio padrone. Proprio come era successo a Tituba.
E invece, pensò Jane con un lugubre sorriso sul volto pallido, sugli scarni d’oro dell’Olimpo sedeva e governava una donna nera come la terra bagnata, che comandava su tutto, anche su ciò che per l’uomo era impensabile comandare: la natura.
Non era un Dio, un uomo a regnare sulla vita, ma una donna, fertile, forte ed inscalfibile e, Jane lo sapeva per certo pur non avendo avuto mai nulla a che fare con lei, tanto madre quanto matrigna.
 
 
 
«Non esistono azioni che possono accumunare genti di ogni era, di ogni dove. Nessuna. O quasi.»


 
 
«In che senso? Non c’è nulla che possa accumunarci ma c’è una cosa che invece lo fa?» domandò Lea torcendosi le mani.
Perché quella dea le stava mettendo tutta quell’ansia addosso?
Eliza, al suo fianco, le lanciò un’occhiata comprensiva. «Sì, non suona bene neanche per me e credo che sarà il fulcro della sua prova.»
 
 

«Pensate dunque, a cosa possa accumunarvi a tutti i morti della Terra. Domandatevi cosa c’è in voi, o dovrebbe esserci, che vi rende simili agli altri, qualcosa su cui non potete dissentire, che ognuno di voi, almeno una volta nella vita, ha vissuto, ha provato, ha fatto.
O almeno, ve lo auguro.» aggiunse con tono quasi sadico.
«Alle mie spalle, coperto da un muro di Foschia, si cela lo scenario della vostra prossima prova. Durante tutte le altre vi siete ritrovati a combattere senza che nessuno ve lo avesse chiesto: ora io lo faccio.»
 
 

 
«Cazzo!» imprecò Nathan stringendo i denti.
Eliza annuì cupa. «Siamo praticamente disarmati, se dovessimo scontrarci con anime armate non avremmo la meglio.»
«Mi spiace distruggere i vostri sogni, ma non credo andrebbe meglio neanche se lo scontro fosse a mani nude.» sbuffò Jonas già prossimo ad una crisi di nervi.
«Possiamo sempre trovare altre vie.» mormorò Cicno. «C’è sempre un modo per aggirare lo scontro.»
 
 
 
«Giunti al luogo designato vi troverete davanti a coloro che, in vita, hanno giurato di proteggere la loro patria, il loro regno, il loro signore e la loro famiglia anche a costo della vita. Valorosi combattenti che hanno dato la propria vita per il loro credo.
Costoro sono stati per secoli a protezione dei luoghi più importanti dell’Ade e oggi continueranno nel loro lavoro.
Il vostro compito sarà riuscire a superare le guardie dell’Aldilà ed arrivare al vostro obiettivo: entrare nei Campi Elisi.»
 
 
 
I ragazzi rimasero fermi, nessuno di loro osò muoversi mentre tutto attorno iniziavano ad alzarsi lamenti di protesta e di sorpresa, imprecazioni e maledizioni contro la sfortuna, la crudeltà divina e anche contro la stessa Demetra.
Insulti che non furono molto graditi dalla dea.
Demetra volse lo sguardo verso l’anima bestemmiatrice e questo bastò perché la terra si aprisse sotto i suoi piedi e la inghiottisse.
Jonas si strinse inconsciamente a Cade ed il rosso fletté le gambe, pronto a spiccare di nuovo il volo in caso di pericolo.
Che fosse stato quello il terremoto che avevano sentito prima? Demetra che faceva sparire gente nelle profondità dell’Ade?
Il ragazzino tremò al sol pensiero. «Come-?» balbettò terrorizzato.
Cicno rimase a fissare lo schermo impassibile. «Mai sottovalutare un essere divino. È sciocco insultare una dea proprio al suo cospetto, specie una impietosa come Demetra.»
«Quindi,» soffiò piano Lea, timorosa che la dea potesse sentirla anche in mezzo a tutti quei versi scioccati e spaventati. «quindi do-dovremmo davvero tornare nei Campi Elisi?»
«Sì.» disse secco Nathan. «E dovremmo inventarci un modo per farlo tutti.»
 
 
 
Demetra tornò a guardare la telecamera senza fare una piega.
«Dovrete quindi introdurvi oltre le mura bianche, ma dovrete farlo rispettando alcune regole.
Primo, e anche più banale punto, non dovrete farvi fermare dalle guardie.
Penso che ora tutti vi siate ben o male resi conto di potervi ferire, di poter provare dolore, sappiate perciò che, a differenza vostra, loro non soffrono di queste debolezze. Sono forti ed inscalfibili come Ade stesso ha concesso loro dandogli il ruolo di guardie, ma ciò non significa che siano imbattibili. Se li batterete e loro vi crederanno degni di passare allora ve lo concederanno. In caso contrario vi uccideranno senza pietà e avranno la mia gratitudine per aver tolto un’anima inetta da questa gara.
Secondo: non dovrete in alcun modo cercare di distruggere le porte, né quella centrale né quelle laterali. Al loro Guardiano non piacerebbe.» ghignò.
 
 
 
«Di che guardiano parla?» domandò Jane rivolta a Cicno.
Ma il greco aggrottò le sopracciglia. «Io- non credo che possa-» s’interruppe crucciato. «Una sola possibilità mi sovviene, ma spero con tutto il cuore d’errare.»
 
 
 
«Ed ora alla terza regola: Dovrete riuscire a scappare al Guardiano o a superare la sua prova.
Sarà lui a giudicare altrimenti la vostra vita, la vostra anima, seguendo lo stesso ed unico criterio che accomuna ogni vita umana.» continuò placida la dea.
Il ghigno che le era comparso in volto si fece ancora più profondo, crudele come tante volte la Natura stessa si era dimostrata verso qui figli ingrati che erano stati colpevoli d’aver rovinato ogni cosa buona da lei creata.
 
 
«Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono?»















   
 
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