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Autore: MaikoxMilo    15/10/2021    7 recensioni
Sulla scia del racconto de "Il Piccolo Principe", la storia dell'evolversi del difficoltoso rapporto tra Camus e Hyoga, maestro e allievo, padre e figlio, tra inciampi vari, incomprensioni, modi di essere così apparentemente distanti eppure così simili. Perché proprio come l'aviatore, anche Camus impara a ritrovare sè stesso solo grazie al bimbetto dai capelli color del grano che, un giorno di febbraio lontano, in Siberia, entra nella sua vita, per lasciarci il segno.
DAL CAPITOLO SECONDO:
“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”
Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.
“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.
Imparai a mie spese che 'dritto davanti a sé' era davvero sin troppo limitato!
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Lo sai bene anche tu, Hyoga, al quale, come a me, hanno strappato l’infanzia...

All’età di 14 anni, quando normalmente un ragazzo si affaccia alla vita, mi avevano affidato 4 allievi e avevo già conosciuto un numero stupefacente di personalità, alcune bizzarre, altre rudi, altre ancora piuttosto eccentriche.

A partire proprio dalle mie origini…

Nacqui in una famiglia franco-italiana, o, per meglio dire, visto chi effettivamente sia mio padre Efesto, franco-italiana e pure greca, sebbene rifiutassi, e rifiuti tutt’ora, quest’ultima origine, disprezzandola totalmente.

La parte di sangue francese derivava da mia nonna, quella italiana da mio nonno. Mia madre Antoinette nacque a sua volta in Francia, a Nizza; lo stesso luogo mi diede i natali, ragion per cui mi sono sempre reputato francese, malgrado conoscessi e parlassi già due lingue dalla più tenera età. Come sai, ho anche una sorellina, che hai conosciuto, ma all’epoca dell’addestramento tuo e di Isaac ho cercato di non parlarvene mai, mi faceva troppo male la sua lontananza...

Dunque… un franco-italiano, dicevo, già un bel miscuglio di attitudini in partenza, alle quali si aggiungevano gli anni passati in Grecia, e poi quelli in Russia.

Ho incontrato così tante persone in 23 anni di vita, un numero imprecisato di personalità, per l’appunto, delle più svariate.

Mia nonna Ines, Agnese, in italiano, era originaria della Provenza. Aveva una personalità gentile, duttile, dolce, rassicurante, ma anche malleabile, tendeva infatti ad assumere il colore dell’ambiente circostante o delle persone che aveva di fronte, adattandosi, come i camaleonti.

Di contro, mio nonno Dante era la sua antitesi. Burbero, severo, intransigente, ma anche passionale e generoso, all’occorrenza. Da lui, dall’unica figura maschile presente nella mia vita nei primi cinque anni di età, probabilmente deriva gran parte del mio carattere.

Il mio grand-père non riusciva a stare mai fermo, aveva sempre bisogno di avere qualcosa in mano, di lavorare, di adoperarsi. Non lesinava rimproveri e insegnamenti, ma era estremamente parco nei gesti, tanto da sfiorarmi a malapena. A quelle, alle carezze, prediligeva le parole, mi chiamava il suo ometto, questo me lo ricordo bene, e voleva responsabilizzarmi, perché, oltre a lui, sarei stato io l’unico uomo del nucleo famigliare: il suo orgogliosissimo nipote.

Come ti ho raccontato, era nato a Genova e, quando la mamma rimase incinta per la seconda volta, non esitò a farci trasferire tutti nella sua città natia, senza sapere cosa ne pensassimo. Lui decideva, lui solo sapeva cosa fosse meglio per noi, del resto… si reputava il Pater Familias, questo non lo aveva mai nascosto, non si sarebbe quindi mai abbassato a prendere ordini da quel derelitto di mio padre che neanche si preoccupava delle nostre sorti.

Mia madre, come puoi forse immaginare, era la corretta trasposizione di queste due macro identità. Dolce senza sfociare nella debolezza, risoluta senza essere indisponente, forte senza dimenticarsi della delicatezza. La amavo molto da piccolo, per me è sempre stata un punto di riferimento, lo è ancora, per certi versi, la prima, vera, figura sulla quale poter contare e appoggiarmi.

Quando finalmente nacque Marta il 15 marzo del 1994, feci di tutto per darle una mano, anche se non sapevo bene cosa fare, perché le emozioni, i sentimenti stessi, prima di quel giorno, li sentivo molto… diluiti… non so se rendo l’idea. Il mio mondo era inspiegabilmente triste e grigio, per un bambino di appena 5 anni, come se qualcosa dentro di me fosse sigillato.

Ma sai, Hyoga, le ho voluto bene fin dal primo vagito, no anzi, da ben prima, quando, appoggiandomi sul ventre di mia madre, potevo avvertirla dare i calcetti irrequieta. E’ sempre stata un po’ così, la mia piccola, le costrizioni non le sono mai piaciute e… aveva fretta di vivere, infatti è nata prematura di un mese ed è dovuta stare in ospedale per un periodo, prima di poter venire a casa.

Badare a quel piccolo batuffolo di soffici petali di rosa e dalla pelle di pesco, dagli occhi ancora neri e non dipinti del colore che le avrebbe poi impresso lo sguardo, mi faceva stare bene, mi sentivo finalmente… completo, in pace, rassicurato.

Pensavo quindi che sarei cresciuto lì con la mia famiglia, insieme alla mia sorellina; il gelo che avevo percepito come parte di me fin dalla mia nascita andava sfumandosi; i colori del mondo, prima indistinguibili al mio sguardo perché costantemente avvolto da un’ombra buia e raccapricciante, si ravvivarono, acquisendo tinte sempre più diversificate. Ero vivo e potevo amare, me ne accorsi quando la strinsi per la prima volta al mio petto durante una notte burrascosa. Ero vivo… e non ero che un bimbo, un semplice bimbo con il desiderio di proteggere la propria sorellina. Perché io ero piccolo, sì, ma lei era più piccina persino di me, sembravo un gigante, a suo confronto.

Tuttavia, purtroppo, proprio come il Piccolo Principe, anche io prima di imparare ad amare totalmente senza riserva, mi trovai ad essere sballottato di pianeta in pianeta, di mondo in mondo: venne Shion, mi prese con sé, perché ero destinato a grandi cose; venne Shion, mi separò dalla mia famiglia di origine perché ero un prescelto. E la mia vita cambiò drasticamente.

Nizza, Genova, Atene e Pevek… questi sono i luoghi cardine della mia esistenza, ma esserne strappato, regolarmente, da ognuno di loro, dava una scossa alla mia anima, procurandomi sofferenza. Ogni volta era come finire in pezzi, ogni volta dovevo raccogliere i cocci. E non sempre, quasi mai, è stato facile.

Dalla mia famiglia ai miei camerati; dai miei camerati alla Siberia, per l’addestramento per diventare Sciamano, dalla Siberia ancora in Grecia e poi di nuovo in Siberia.

Ho conosciuto così tante persone… ho definito non so quante tipologie umane!

Quella di Milo, il mio migliore amico, caleidoscopica, per forme e colori.

Quella di Mu, mite come il lento gorgogliare di un ruscello di montagna.

E, ancora, quella di Aldebaran, gentile come un albero di quercia su cui far riposare le membra.

Ci sono state personalità in cui non mi sono trovato fin dal primo momento, come quella narcisistica di Aphrodite o quella detestabile di Death Mask. Altre ancora mi ci è voluto più tempo per afferrarle, ma poi le ho apprezzate, per esempio la frattura insanabile tra luce e oscurità di Saga, o la flemma quasi totalizzante di Shura.

E comunque, in tutto questo universo di andare e venire, di eterno movimento, una sola persona, dopo lo strappo con la mia famiglia di origine, è stata in grado di stabilizzare completamente la mia esistenza. Colui che ho sempre considerato il mio vero padre, il punto fermo su cui costruire l’intera mia vita: Fyodor della Siberia Orientale.

Il mio Maestro Fyodor, Hyoga, che né tu né Isaac avete potuto conoscere... colui che mi ha insegnato ad essere ciò che sono, colui che mi ha cresciuto, e che, in un certo senso, racchiudeva, lui solo, tutte le personalità che più mi avevano coinvolto nella mia giovane e inesperta vita.

Lo conobbi nell’estate dei miei 6 anni. Devi sapere che mi avevano portato al Santuario il novembre prima, spezzando tutti i legami che avevo formato fino a quel momento, così come il calore medesimo; lui, quello stesso calore, me lo riconsegnò, sebbene di diversa origine rispetto a quello che avevo provato all’interno del mio nucleo famigliare.

Ma il calore è sempre calore… io lo rifuggivo, lo sai bene, mio allievo, ma, in fondo, è sempre stato tutto ciò di cui ho avuto bisogno. E’ che… non ero in grado di esprimerlo!

Fyodor, lo Sciamano… che era madre, padre, maestro, quercia, ruscello, vento, tempesta, uragano, slavina, brina, rugiada, roccia, pace, silenzio…

Fyodor che mi insegnò ad udire la Melodia della Neve e tutte le voci che erano intorno a me, accarezzandomi con la delicatezza di una piuma, spronandomi come solo un genitore avrebbe potuto fare.

Fyodor che poteva essere tutto e il contrario di tutto, il sole nascente, la notte più nera, grazia e compostezza, tumulto e fremito.

Fyodor che amava la vita e che, con le sue dita taumaturgiche, poteva far rinascere una piantina da un germoglio seccato...

Non ho mai stimato nessuno come lui, al solo pensarlo, una fitta al petto mi investe. Per questo cerco di non ricondurre la mente a lui, fa… troppo male e, come sai, mio caro Hyoga, la mia prima reazione ad un coinvolgimento così forte è, vigliaccamente, la fuga, in questo non sono cambiato, no… sebbene tu e Marta mi abbiate insegnato che si può essere forti anche manifestando le proprie debolezze.

Mi manca ancora Fyodor, dopo tutti questi anni… e il solo sapere che non lo potrò rivedere mai più, che l’ho perso, è insopportabile. In questo senso, ti ho sempre capito quando tentavi di ricongiungerti a tua madre.

Sai, siamo molto… simili… mio amato discepolo!

Ma io sono un debole, tu no, lo hai dimostrato più volte. Per questa ragione, non perderti Hyoga, mio… coraggiosissimo ragazzo! Non devi perderti, sei forte; sei forte, piccolo, non scordarlo mai!

Non arrenderti, Hyoga, sono qui… vicino a te, puoi percepirmi, sto stringendo la tua mano tra le mie dita.

Mi manchi… perdonami per non essere stato degno di te, per averti lasciato solo contro quel mostro.

Mi mancate tanto, Maestro Fyodor… avrei così tanto bisogno di voi adesso, qui, in questa notte così fredda, mentre il mio allievo lotta per la vita. Come ho potuto permettere si riducesse così?! Come ho potuto?!? Io… avrei dovuto proteggerlo, avrei dovuto proteggere mio figlio, che razza di…

“Camus!”

La voce di Marta mi raggiunge di nuovo, odo la porta aprirsi e richiudersi delicatamente dietro le sue spalle, mi asciugo velocemente gli occhi, non voglio che mi veda così, anche se, come ama ripetermi spesso Milo, mi ha visto in condizioni peggiori di queste…

Prende nuovamente posto al mio fianco, posando sul comodino le bende nuove necessarie per la medicazione di Hyoga. Faccio quindi per staccare la mano da lui per adoperarmi, ma lei me la trattiene lì, sorridendomi con dolcezza.

“No, continua a tenerlo così, Cam, ne ha… bisogno! Taglio io le bende nuove, tu te la senti di continuare nel racconto?”

“S-sì...” la voce mi esce a fatica, in un tono che non mi riconosco. La guardo brevemente, ha gli occhi lucidi come me, ma fa di tutto per sorridermi e rassicurarmi.

Non avrei la stessa forza, se lei non fosse con me… non riuscirei a sopportare il peso di un’altra eventuale perdita, ma lei continua a sussurrarmi che andrà tutto bene, perché ho un allievo forte e testardo che non si arrenderà per nulla al mondo, l’ho cresciuto io, del resto!

Ed è questa sua fiducia incrollabile che non mi getta nello sconforto più completo, sebbene le condizioni del mio ragazzo siano così gravi, appese ad un sottilissimo filo...

Stringo più forte la mano immota di Hyoga, gliela alzo un poco, portandomela alla fronte, dove la trattengo nella paura che mi possa scivolare via, come nelle notti seguenti alla sua fuga, quando ha lottato -e vinto!- strenuamente contro il gelo dell’ipotermia che quasi me lo stava strappando anzitempo.

Sono con te, forza!

“Dunque avevi un maestro, mi dicevi, Fyodor della Siberia Orientale… - riprende lei, modulando la voce perché deve capire quanto mi faccia ancora male parlarne. Allo stesso tempo si adopera per tagliare la benda delle dimensioni giuste, è straordinariamente brava in questo, deve averle insegnato nostra madre – Colui che ti ha fatto crescere...”

“Sì… anche quelle notti, mentre vegliavo su Hyoga, pensavo a lui, a quanto mi mancasse, a quanto mi sentissi fratturato, perso, senza la sua guida. A-avevo paura, piccola mia, come ne ho adesso e...”

“Coraggio, sono qui...” mi sussurra lei, accarezzandomi brevemente il braccio per farmi percepire la sua vicinanza.

Annuisco, raschiandomi la gola e cercando al contempo di darmi un tono nel riprendere il racconto...

 

“Maestro!” una vocetta mi raggiunse insistentemente mentre stavo sognando, riconnettendo gli organi sensoriali al mio cervello. Le palpebre, tuttavia, facevano ancora fatica a riaprirsi.

Mi venne posata delicatamente una coperta addosso, sentii caldo, ciò mi spinse a darmi una scrollata.

“Fyo… - ovviamente non era lui, non poteva esserlo. Riconobbi con un poco di ritardo il mio soldo di cacio che trepidava al mio fianco – Isa-ac, cosa…?”

“Prenderete feddo, Maestro!” mi rispose lui, con voce nasale, tossendo un poco nello sforzo di parlare.

Rammentai dei fatti precedenti, mi raddrizzai, ancora un poco sbalestrato e intontito, osservando i contorni della camera, prima di posare lo sguardo su Hyoga, fragile tra le coperte del letto, il respiro ancora un poco accelerato e irregolare.

Gli sistemai meglio le lenzuola e la pezza sulla fronte, dandogli una veloce carezza tra i capelli. Anche il mio respiro era a tratti dispnoico, sapevo di non essere uscito del tutto illeso dalla fuga di Hyoga, dal riscaldarlo con il mio corpo, dal trovarlo esanime a terra, e… non lo era neppure Isaac, che era stato male fino al pomeriggio prima, ma che in quel momento mi aveva posato la coperta sopra per riscaldarmi, sebbene gli avessi raccomandato almeno dieci volte di non alzarsi.

Polmonite. I miei lupetti avevano sviluppato una brutta polmonite e… anche io, ma non riuscivo ad ammetterlo e, del resto, non potevo neanche permettermi di mostrarlo. Quei due bambini dipendevano in tutto e per tutto da me, non potevo farmi vedere debole da loro.

Tossii nascondendomi la bocca con le mani, ingoiai a forza qualcosa che, dal sapore nauseabondo e dal bruciore, doveva essere catarro, ma, ancora, non ci diedi peso, resistendo orgogliosamente.

Hyoga era comunque quello messo peggio dei tre. Avevo giurato a me stesso che, finché non si fosse rimesso in piedi, non avrei abbandonato il suo fianco. Pertanto resistevo, anche se il mio fisico cominciava a dare segni di cedimento.

Ad un certo punto, percepii la manina di Isaac toccare e stringere la mia, che avevo lasciato involontariamente andare lungo il mio fianco. Mi riscossi, rendendomi conto che tutto, intorno a me, cominciava a farsi nebuloso, la vista mi si offuscava, le vertigini mi davano noia, ma non potevo permettermi di crollare.

“Siete… caldo! Cough! Cough!” constatò lui, in apprensione, prima di piegarsi in avanti nel tenersi lo sterno, sconquassato da una tosse persistente che gli stavo trattando insieme a quella di Hyoga.

“E tu dovresti, anf, riposare, Isaac!” riuscii a rantolare, mio malgrado, sentendomi un peso sul petto.

“Ho riposato, Maestro! Voi no, perché eravate al mio fianco, vi percepivo, non avete chiuso occhio!”

“Isaac...”

Il piccolo mi scrutava a fondo con gli occhi vigili e attenti nonostante la malattia. La luce che emanavano le sue iridi era sacra per me. Sorrisi, sfiorandogli, con la punta dell’indice, una guancia ancora calda ed estremamente arrossata.

“La febbre… non ti è ancora scesa, soldo di cacio, dovresti stare a letto, mi ero raccomandato!”

“Sì, 10 volte, 11 con questa!” rispose lui, vivace.

“E quante ne hai seguite, anf?”

“Zero – ammise, grattandosi imbarazzato la testa, prima di tornare a guardarmi – P-però la temperatura un po’ è scesa, rispetto a prima, e a voi che sta salendo vertiginosamente!” insistette, cocciuto.

Non ebbi il tempo per obiettare, che me lo ritrovai praticamente ad arrampicarsi sulle mie gambe per raggiungere con la manina la mia fronte. Ovviamente le energie non erano sufficienti, rischiò di cadere, obbligando me ad acciuffarlo per evitargli un contatto ravvicinato con il pavimento. Isaac sfruttò così quella situazione per posare il suo palmo sulla mia fronte, prima di essere ricondotto a forza con i piedi per terra perché non volevo che percepisse il sudore sulla mia pelle, né il rialzo della mia temperatura corporea. Ma era tardi, lo sapevo...

“Vedete?!”

“Non è niente, scimmietta, nulla di cui preoccuparsi!”

“Ma...”

“S-se vuoi essere di aiuto a qualcuno, anf, vai a prendere un poco più di acqua per Hyoga, suda molto e rischia di disidratarsi!” gli dissi, un poco burbero, tornando a concentrarmi sull’altro allievo.

Ancora gli occhi di Isaac si illuminarono ulteriormente nell’avere avuto delle indicazioni, adorava sentirsi utile ed essere responsabilizzato. Mi sorrise, assicurandomi sarebbe tornato subito e trotterellò poi in direzione della cucina.

Sbuffai divertito davanti alle sue energie, ma venni subito punito da uno sciame di colpi di tosse che riuscirono ad infastidirmi solo di più. Può il signore dei ghiacci soccombere davanti ad una quisquilia simile?! Rifiutavo quella debolezza, non mi ero più ammalato dal primo anno di addestramento con il Maestro Fyodor, credevo di essere forte e in piena salute. Evidentemente sbagliavo.

Perché, in fondo, anche il fiore che predilige di più l’ombra ha comunque bisogno di un minimo di calore per fiorire. Il calore era basilare se si voleva sopravvivere in un mondo fatto di ghiaccio come la Siberia; io, da quel calore, cercavo di rifuggire, vergognandomi, eppure era tutto ciò di cui necessitavo.

Hyoga rimase in stato comatoso per tre giorni, non lasciai quasi mai il suo fianco, aiutandolo a idratarsi e a nutrirsi con zuppe che scendevano in gola con naturalezza. Lo cambiavo, lo pulivo, tenevo sotto controllo la sua temperatura corporea. Ogni tanto, quasi inconsciamente, l’occhio mi cadeva sulla sacca gialla che si portava dietro dal primo giorno che lo avevo conosciuto.

Era uno zainetto di quelli scolastici, sembrava che il piccolo ci tenesse molto perché l’aveva sempre con sé. Gli avevo permesso di tenerlo, lui non lo apriva mai, ma ogni tanto la toccava, ci dormiva insieme, come un peluche. Capivo che quello, solo quello, era l’unico legame rimastogli di un passato che era andato in fumo, che privarlo di ciò lo avrebbe anche potuto uccidere, perché Hyoga non era ancora pronto a staccarsi. Non ancora.

Come maestro, mi era comunque venuto il dubbio, all’inizio, se toglierglielo, perché il suo attaccamento a quella cosa stava diventando troppo malsano. Non riuscivo a capire cosa potesse contenere, né perché ci fosse così tanto legato. Il suo comportamento mi sembrava, sì, esagerato, ma in quel momento mi limitavo ad osservarlo con diffidenza, chiedendomi cosa potesse contenere.

Io riuscivo a trattenermi… qualcun altro però no!

“Is-a-ac… - ormai, dopo giorni di veglia, incurante del mio malessere che si acuiva invece di placarsi, parlavo con un filo di voce, ma sufficiente per farlo scattare subito sull’attenti – Non frugare, anf, in cose che non ti riguardano!”

Il piccolo infatti era sgattaiolato a curiosarci dentro, come era naturale fare per un bambino.

“Maestro, ma questa è di Hyoga, se la tiene sempre appresso ma non ci dice perché...”

“Lo so...”

“E… e non dovrebbe dircelo? Siamo la sua… famiglia, no?”

Per Isaac era tutto così semplice… si legava a qualcuno? Questi diventava parte della famiglia che si era ricreato, cedendo così tutto sé stesso. Quel vezzo, che lo rendeva a sua volta vulnerabile, non ero ancora riuscito a levarglielo.

“Alcune cose, anf, alcune piaghe, r-rimangono per sempre dentro di noi. Non importa quanto siamo legati agli altri… alcune cicatrici, immagini vissute, ricordi, rimangono segregati in questa nostra zona intima che dobbiamo custodire gelosamente!”

“Ma...”

Non sembrava convinto.

“Isaac, ognuno di noi deve avere una parte di sé, anf, chiusa a tutti gli altri… deve rimanere inaccessibile per chiunque, fuorché a noi stessi, ce la portiamo dietro, segregata, e non la manifestiamo...”

“Ma perché, Maestro?”

“Per diversi motivi, anf… perché ci sono cose che è impossibile dire a parole, perché è pernicioso mettere totalmente a nudo la nostra anima, ci rende deboli...”

“Ma se io mi fidassi, Maestro, io, queste cose, questa parte così intima, la cederei a qualcuno, a voi, per esempio, senza rimpianti! So che posso rimanerne ferito, ma… questa parte appartiene a me, fa parte del mio bagaglio di esperienze, desidererei condividerla!”

“E’… è troppo rischioso, soldo di cacio! Sguarnire così il fianco fa sì che l’altro possa disporre di noi come vuole, non importa quanto ci voglia bene, o quanto noi siamo legati a lui, fa parte della natura umana… infierire… laddove si trova un varco accessibile. Io non faccio differenza!”

“Ho capito, Maestro, ma non mi piace così… - sbuffò lui, leggermente corrucciato e deluso – Io voglio donarmi, a voi e a Hyoga, siete la mia… famiglia!”

“Ognuno è fatto a modo suo... - gli feci notare, sebbene non riuscissi quasi più a parlare – Devi accettarlo, piccolo… è questo che significa volere bene: accettare l’altro per quello che è e per quello che può dare, anf, anche laddove, nella tua percezione, ti sembri meno rispetto a quello che dai tu...”

Lo vidi annuire, sebbene avesse gli occhi lucidi. Gli sorrisi, dandogli una leggera pacca sulle spalle.

Le condizioni di Isaac in quei giorni erano in miglioramento progressivo, le mie… cercavo di non pensarci, ma sapevo fin troppo bene che quella stupida polmonite si stava evolvendo in qualcosa di molto più serio, che rifuggivo con tutto me stesso.

Debolezza, fragilità… erano cose umane che io non potevo permettermi, ma più il tempo passava più il mio corpo capitolava. Stavo sempre peggio, avevo le vertigini, poi caldo e poi ancora freddo, sudavo, tentando al contempo di non far vedere ad Isaac, sempre vigile e attento, quanto stessi male.

Finalmente una mattina, mentre lo stavo cambiando con una tutina nuova, gli occhioni di Hyoga si aprirono, con lentezza, trasmettendo un brivido nuovo sia a me che ad Isaac. Si osservò intorno, intontito, prima di soffermarsi su di noi, ma non ebbe il tempo per parlare che si sentì avvolgere, in uno slancio, dal compagno di addestramento che, al settimo cielo, era corso ad abbracciarlo.

Lo vidi stupirsi ancora di più, arrossì e boccheggiò più volte nel guardarmi, io cercai di sorridergli come meglio potevo, non ero estroverso ed estroflesso come Isaac, ma mi sentivo comunque sollevato della sua parziale ripresa e volevo che lo percepisse.

“Sei sveglio, Hyoga, ci… hai fatto tribolare ben bene, sai, anf?”

Le sue labbra non trovarono le parole per un po’, anche se continuava a guardarmi con quei due occhioni color ruscello di montagna. Teneva stretto a sua volta Isaac in un abbraccio tiepido e vergognoso, vidi tremare distintamente le sue labbra, alla ricerca di parole che non trovava. Poi...

“Pa-pà...”

Mi irrigidii a quell’appellativo, era la seconda volta che mi chiamava così, complice il non essere propriamente in sé, tuttavia non potevo più far finta di nulla. Non era un nome adatto, tra noi, ma non sapevo come dirglielo. Con soli 6 anni più di lui non potevo essere certo suo padre, tutt’al più un fratello maggiore, ma avevo già quel ruolo per qualcuno, come ben sai, e, più ancora, io li avrei dovuti addestrare a combattere per degli ideali più grandi di loro, non poteva davvero esserci tutto quello, anche se una particina del mio cuore aveva avuto un impulso davanti a quella parola un po’ bislacca. Non volevo che, a continuare a chiamarmi così, si avvezzasse male, le distanze tra noi andavano mantenute, ne andava della loro sopravvivenza, tuttavia non trovai subito un’argomentazione per oppormi a quell’appellativo. Tentennai, come un Cavaliere non avrebbe mai dovuto fare.

Fortunatamente Hyoga intuì qualcosa passare tra i miei occhi, una scintilla di biasimo, forse, se ne vergognò, arrossendo più di quanto non fosse già a causa della febbre e delle effusioni del compagno di addestramento. Si nascose semplicemente sotto le coperte in modo da non farsi più vedere ai miei occhi.

Isaac mi salvò dal resto, scoppiando un poco a ridere, a metà strada tra il sollievo e l’ilarità. Prese quindi a stuzzicarlo.

“Papà?! Ma se ha solo 6 anni più di noi, come potrebbe essere tale?!”

“I-io...”

“Papà… ahahahaha!!!”

“I-io non… v-volevo!”

Hyoga si nascose ancora di più tra le lenzuola, sempre più imbarazzato. Sembrava davvero in difficoltà, ragion per cui decisi di intervenire, soprassedendo sull’altra questione per passare a rimproverare l’altro mio allievo.

“Isaac… è ancora molto stanco, anf, non è il caso di turbarlo ulteriormente!” gli dissi, calcando un poco nel tono per fargli capire che disapprovavo il suo modo di porsi.

“Uh, io… avete ragione, Maestro! S-solo che ero così felice di vederlo sveglio che...”

“Anche se sei felice e lo vuoi amichevolmente punzecchiare, non è il caso di farlo, ci sarà tempo dopo, cough! Cough!” sottolineai, inarcando un sopracciglio prima di alzarmi faticosamente in piedi. La testa mi girò istantaneamente di 180° gradi ma non lo diedi a vedere.

“Scu-scusami, Hyoga! - chinò il capo Isaac, sinceramente dispiaciuto – E’ bello che tu ti sia svegliato!” aggiunse, accarezzandogli i capelli del colore del grano.

Il volto di Hyoga fece capolino fuori, i suoi occhi però fissavano altrove un punto fermo non ben definito. Sembrava mortificato, ragion per cui, addolcendo un poco la mia espressione, lo accarezzai brevemente sulla testa prima di rimboccargli meglio le coperte.

“Sei ancora molto debole, Hyoga, riposa e non fare sforzi, siamo intesi?” mi raccomandai, serio.

“S-sì, p… Maestro Camus!”

Si corresse prima, ma percepii che gli stava nuovamente uscendo quella parola e, insieme a quella, anche il bisogno di prolungare il contatto tra noi, che invece era stato furtivo come tutti gli altri gesti che, parco, regalavo ai miei ragazzi, senza eccedere nelle effusioni.

Dovevo essere così, razionale e rigoroso, solo in questo modo ci sarebbero state chance di sopravvivenza per entrambi. Mi limitati quindi ad annuire, prima di tornare a concentrarmi su Isaac, il quale mi osservava con attenzione crescente.

“Stai un po’ con lui, va bene? I-io vado a prendere un’altra borsa dell’acqua calda”

In verità avevo bisogno di stendermi ma non lo dissi. Non potevo riposare, non potevo cedere con due bimbi così piccoli. Non attesi risposta verbale, mi bastò il suo cenno, sapevo che avrebbe eseguito i miei ordini come sempre, parola per parola. Uscii dalla camera per scendere le scale e dirigermi in cucina.

Nel processo, mi sfregai più volte la fronte per scacciare via il sudore, le gambe non mi reggevano che a stento, il fiato sembrava quasi mancarmi. Mio malgrado, mi resi conto di stare sempre più male, e che non avevo medicine dietro, né erbe, avendole date tutti ai miei ragazzi. Che fare?

Da anni non provavo un malessere simile; da anni non mi mancava così il respiro, come se avessi avuto una carriola di mattoni sul petto a pesare sempre di più.

Da… da quando avevo 8 anni -realizzai nel rammentarmi delle mie memorie- rendendomi conto che avevo la stessa età dei miei lupetti e che, con me, c’era Fyodor.

Ero stato male, quella volta, ma con me c’era lui, il mio maestro, l’uomo che mi aveva insegnato tutto. C’era Fyodor con me, quando avevo la febbre e respiravo male nel letto, i polmoni pieni di catarro. Come in quel momento. E anche io avevo fatto quell’errore, lo avevo chiamato ‘babbo’, o qualcosa di simile, e lui mi aveva sorriso, con quell’universo di calore che riusciva ad infondere semplicemente con quel gesto. Non mi aveva rimproverato, mi aveva rassicurato, baciandomi la fronte, dicendomi che andava bene così, che potevo chiamarlo tale, se era ciò che sentivo.

Avevo avuto bisogno di un conforto, e lui me lo aveva dato. Anche Hyoga… anche Hyoga aveva bisogno di una simile premura, lo avevo percepito, ma io mi ero invece allontanato, come avrebbe fatto Elisey.

Elisey… così diverso dal fratello minore Fyodor!

Mentre scendevo quelle dannate scale, che mi parevano chilometri e chilometri di una strada infinita di notte, con le luci che sfrecciavano ai lati, stordendomi ancora di più, mi ricordai che il solo Elisey sarebbe stato in grado di aiutarmi, ma…

Non avevo un bel rapporto con lui, si poteva dire che lo odiassi. L’ultima volta che ci eravamo visti e avevamo interagito tra noi, stavo già addestrando da mesi Isaac e non era finita molto bene, affatto.

Non avevo che lui, capace di intervenire… ma non sapevo dove si trovasse e meglio così.

Non volevo il suo aiuto.

Non volevo la sua presenza.

Nella maniera più assoluta!

Non volevo nulla da quell’uomo che, pur condividendo il sangue con il mio maestro, non aveva nulla con cui spartire.

Non volevo nulla!

Non voglio nulla, da te, Elisey! Preferire morire che avere un debito nei tuoi confronti, preferirei...

La mia mente sempre più febbricitante, aveva preso il largo, non riuscivo a pensare ad altro che non volevo lì, che non potevo cedere non solo per i miei lupetti, ma soprattutto per lui.

Assolutamente!

Lo pensai con insistenza più volte, mentre i miei sensi si facevano sempre più appannati e le vertigini sempre più insostenibili: stavo perdendo contatto con la realtà!

Accadde infine con naturalezza. Semplicemente un piede, nel sollevarsi, si inceppò con l’altro, non me ne resi neanche limpidamente conto. A stento avvertii cadere il mio corpo nel vuoto, sapevo di non avere energie per impedirlo. Semplicemente successe.

Tutto si fece buio, le percezioni esterne svanirono completamente per diversi secondi. Non sentii né dolore né altro. Rimasi lì, il respiro sempre più dispnoico; mi sembrò di galleggiare nel vuoto per tempo immemore. Tutto si era fatto confuso, le percezioni, i sensi… mi sembrò che qualcuno urlasse il mio nome, ma non lo distinsi. Probabilmente il tempo scorreva fuori da me, ma non potevo parteciparvi, non ne avevo la facoltà.

Mi parve di essere toccato, scrollato, tastato, ma ancora non distinsi.

Poi di nuovo il nulla, ma pieno, come pieni erano i miei polmoni. L’atto del respirare, per quanto semplice fosse, ormai mi raschiava la gola. Stentavo a continuare quel processo da solo...

Poi un’altra mano, più fredda, mi voltò supino. Le sue dita mi toccarono il collo, controllando qualcosa che non riuscivo a comprendere, poi scesero sul petto, dove rimasero ferme, facendomi istintivamente rabbrividire.

Nella perdita di sensi che probabilmente mi aveva avvolto, non vedevo altri che il volto arcigno di Elisey che mi sogghignava con malignità. Lo odiavo, non riuscivo a pensare ad altro.

No… non voglio davvero nulla da te… Elisey! NULLA!

Pensai strenuamente, sperando che quel messaggio potesse essere comunque percepito. Poi cedetti del tutto e le ombre si fecero ancora più lunghe.

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccomi qua, come promesso, anche per l’aggiornamento di questa storiella.

Capitoletto un poco più lungo e diverso dai precedenti che si divide in due parti: una raffigurante il presente corrente di Camus, dove il Cavaliere sta raccontando della sua vita all’allievo in gravi condizioni; l’altra che riprende direttamente il racconto dal punto in cui eravamo rimasti nello scorso. Ovviamente (ma si capiva) Camus sta parlando a Marta che, nella mia serie di storie, è la sorella minore dell’Acquario.

Chi segue la serie completa, sa che, dai 5 Pilastri, le condizioni di Hyoga sono tutt’altro che buone, e tuttavia… dove si situano, nello specifico, i fatti narrati? Lo capirete…

Amo molto rendere il punto di vista di Camus. Portarlo a parlare della sua famiglia di origine è stato molto emozionante per me: con difficoltà (dopo tutto quello che ha subito nelle precedenti serie), sta aprendo il suo cuore, non solo a Marta, ma anche allo stesso Hyoga con il quale ha un rapporto così difficile, sebbene lo ami come se fosse suo figlio -questi due mi faranno struggere, aaaaaaah!-

Per Hyoga, nato da un padre che potrebbe essergli nonno, non c’è alcuna difficoltà a considerare Camus, ancora giovanissimo, come un genitore (ricordo che anche la madre era piuttosto giovane quando rimase incinta di lui!), ma condivido il pensieri di chi, tra voi, mi fa notare che: “Kurumada avrebbe fatto meglio ad aumentare un po’ le età”… d’accordissimo, però la mia serie (che è una AU) coprirà un bel po’ di anni, quindi, il fatto che durante l’addestramento degli allievi Camus avesse dai 13 ai 20 anni, mi viene bene proprio perché, nel corso delle 4 storie principali, arriverà ad averne anche 30, se non di più. Dunque… per quanto possa farvi arricciare il naso (e lo capisco!), prendetela per buona che, nonostante gli appena 6 anni di differenza, il legame tra Camus e Hyoga (e Isaac!) sia quello tra padre e figlio, anche perché è così che è costruito nel manga originale.

Camus, così come io l’ho pensato, non si limita a parlare della sua famiglia di origine, ma anche del suo addestramento (da Sciamano, però, Cavaliere d’Oro lo era già quando è stato portato in Siberia!).

Fyodor è figura importante ed essenziale nella sua crescita, colui che gli ha fatto da padre. Ironicamente non è ancora mai apparso fisicamente in nessuna delle mie storie (per ora, ihi!) di lui si sa poco, se non quello che è stato per Camus e… altre cose… che qui non dico, per evitare spoiler, ma che si vengono a sapere nella Sonia’s side story.

Caso diverso invece per Elisey, suo fratello maggiore, oh sì, lui sì che è già ampiamente apparso, e avrà anche un ruolo decisamente centrale nella Melodia della Neve. In questi due capitoli (questo e il prossimo) approfondirò il loro legame che, da come avete potuto constatare, non è esattamente il massimo dell’idillio, soprattutto da parte dello stesso Camus.

Mi pare di avervi detto tutto anche per questa volta. Spero che questo capitolo, un poco diverso dai precedenti, risulti comunque apprezzabile anche se mi rendo conto che, chi tra voi non ha seguito tutta la serie, lo possa trovare un poco difficile in alcuni punti. Al solito, per domande, curiosità e pareri sono sempre qui.

Grazie ancora una volta a tutti! <3

 

  
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