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Autore: edoardo811    16/10/2021    6 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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16

Il viaggio continua

 

 

Naito si svegliò di soprassalto. L’ultima cosa che ricordava era che stava gridando a perdifiato, mentre il mondo si faceva sempre più lontano. Pensò di stare precipitando, invece si rese conto di essere seduto a terra, sopra un pavimento di marmo gelido. Si guardò attorno e si massaggiò il volto, trovandolo tutto intero, con tanto di cicatrice sull’occhio e corno spezzato.

Si rese conto di essere dentro una casa. Una casa bella. Le pareti rosse decorate con tende orlate d’oro, mobili antichi e pregiati, degni delle più nobili regge, contornati di azzurro. C’erano ampie finestre da cui filtrava la luce intensa del giorno, ceramiche verdi con ghirigori sempre color oro sopra delle mensole, vasi di fiori di ciliegio rigogliosi e giganteschi arazzi raffiguranti monti, draghi, qilin e divinità. Una raffigurazione di Amaterasu lo stava scrutando severo, stringendo Ama no Murakumo tra le mani.

Come c’era finito lì? Era ancora in Giappone? Che diamine era successo?

«Ciao, Naito.»

Quella voce improvvisa lo folgorò come un fulmine. Si alzò di scatto e indietreggiò fino a sbattere contro una parete. Di fronte a lui c’era un uomo avvolto in un kimono bianco e oro, che gli sorrise divertito. «Che piacere averti qui.»

Naito non rispose. Rimase senza fiato, non riuscendo a capacitarsi di cosa il suo occhio gli stesse mostrando. Non poteva essere vero, era impossibile.

In mezzo alla stanza, seduto scompostamente dietro ad un tavolino imbandito… c’era Orochi.

«Sorpreso di rivedermi?»

Di nuovo, Naito rimase in silenzio. La mente rifiutava di collaborare con lui. Non aveva senso. Credeva che Orochi fosse morto! Perché era lì? E dov’era ?

Che diamine stava succedendo?!

«Hai una pessima cera, Naito» gracchiò l’uomo con un sorrisetto divertito. Sollevò una tazzina. «Vuoi bere qualcosa?»

Naito lo osservò come in trance, incapace di formulare una risposta.

«No?» proseguì Orochi. «Come preferisci.»

Afferrò una fiasca di ceramica dal tavolino, accanto quel vassoio pieno di leccornie – c’erano piatti di ravioli, carne e pesce alla piastra, verdure bollite e ramen. Orochi riempì la tazzina di sakè e se la portò alle labbra, cominciando a bere facendo lunghi versi appagati. Se ne separò con un sospiro soddisfatto, poi cominciò a mangiare i bocconcini di carne con semini di sesamo, afferrandoli con le mani e gettandoseli in bocca senza nemmeno masticare.

Il ragazzo non seppe più cosa pensare. Avrebbe dato qualsiasi cosa per capire cosa significasse tutto quello, che cos’era quel posto, perché era così lussuoso, perché Orochi fosse vestito in quel modo, perché fosse vivo, ma non riusciva a parlare. L’unica cosa che poté fare fu concentrarsi sull’aspetto dell’uomo.

Se non era morto, poco doveva esserci mancato, perché Orochi aveva un aspetto perfino peggiore di come Naito ricordasse.

I capelli lunghi gli scendevano disordinati sopra quel kimono che mai gli aveva visto indossare. In mezzo a quella stanza, con quell’abito addosso, pareva quasi un regale. Peccato solo che il suo volto fosse quello di un mostro viscido, squamoso e ricoperto di sfregi orribili da far sembrare quelli di Kagu-Tsuchi dei graffietti.

Lo squarcio che gli attraversava il viso a metà, quello donatogli da Edward, si era rimarginato male in una lunga linea rossa che cozzava con il suo pallore cadaverico dalle tonalità bluastre. Aveva gli occhi scavati, vitrei e iniettati di sangue, la pelle era coperta di cicatrici, non c’era un solo lembo rimasto intatto, pareva che mille rapaci dagli artigli affilati come kunai avessero provato tutti insieme a strappargli la faccia di dosso.

«Era da molto che cercavo di comunicare con te» proseguì Orochi, ignorando il suo silenzio. «Ma è difficile riuscire a trovarti addormentato abbastanza profondamente da creare un contatto. Di solito riuscivo solo a mandarti brevi messaggi.»

Naito corrucciò la fronte. Ripensò alle volte in cui, mentre provava a dormire, la voce di Orochi balenava nella sua testa. Quindi… non erano solo incubi. Non era solo la sua mente che gli faceva brutti scherzi. Era… era stato davvero Orochi.

Il ragazzo si osservò le mani incredulo. Provò a toccarsi il petto e con sorpresa realizzò di essere incorporeo. A quel punto spalancò la bocca: era un sogno. Stava sognando Orochi. Gli era successa la stessa cosa che era accaduta ad Edward mesi prima, quando l’uomo l’aveva contattato dal museo per mostrargli Rosa.

«Ma… ma com’è possibile?» Naito drizzò la testa. «Tu sei morto! Come hai fatto a creare un contatto con me?!»

«È semplice, Naito. Non sono morto.» Orochi accennò alla stanza e al tavolino. «Hai visto in che posto meraviglioso sono capitato? Cibo e bevande a volontà, vestiti pregiati, e guarda questa stanza! Pare proprio quella di una reggia, vero?» La sua voce si ridusse ad un sussurro cavernoso. La sua espressione appagata cambiò all’improvviso. Nei suoi occhi cremisi balenò un odio che solo rare volte Naito aveva visto in lui. «Sarebbe davvero il paradiso… SE SOLO SENTISSI QUALCOSA!»

Si alzò in piedi di scatto e rovesciò il tavolino, mandandolo in frantumi sul pavimento e cospargendolo di cibo e del sakè che esplose fuori dalla fiasca distrutta. Lanciò la tazzina contro un vaso di fiori, disintegrandoli entrambi. E per finire si voltò verso l’arazzo alle sue spalle, quello raffigurante Amaterasu, e lo sradicò dalla parete con un urlo furibondo. Rimase immobile dopo quell’impeto d’ira, le spalle che si alzavano e abbassavano, il respiro ridotto al rantolio di una belva feroce e ferita.

La terra tremolò all’improvviso. I pezzi del tavolino cominciarono a muoversi da soli, rimettendosi assieme sotto lo sguardo sconvolto di Naito. Il cibo ritornò da solo sul proprio vassoio, la fiaschetta di sakè si ricompose e il liquore venne risucchiato di nuovo al suo interno da una forza invisibile. L’arazzo, ancora a brandelli tra le mani di Orochi, si liberò con violenza dalla sua presa per ritornarsene sulla parete, di nuovo intatto, e anche la tazzina e il vaso si ripararono da soli con un rumore simile a ciottoli che venivano calpestati, ritornandosene sopra la mensola.

Nel giro di un istante, tutto il caos dovuto alla rabbia dell’uomo era scomparso e la stanza era più linda e pulita che mai.

Una risatina scappò dalle labbra di Orochi. Non era divertita, però. Sembrava quasi isterica. Si sedette di nuovo dietro il tavolino e si spolverò come se non fosse successo nulla. Drizzò di nuovo la testa verso di lui, sogghignando. Nei suoi occhi balenò una scintilla di pura e semplice follia. «Oh, giusto. Ogni cosa qui si aggiusta da sola quando… si rompe. Comodo, non trovi?»

«Che… che razza di posto è questo?» riuscì a dire Naito, non riuscendo a porre una domanda diversa da quella tra le migliaia che gli vorticavano in testa.

Il sorriso di Orochi parve di più una smorfia rabbiosa. «Te l’ho appena detto, Naito. Questo…» Spalancò le braccia. «… è il paradiso

Naito conosceva i modi di dire. Conosceva anche il sarcasmo. Non era così ingenuo. Eppure, la frase di Orochi non sembrò né l’uno né l’altro. C’era qualcosa nel modo in cui lo disse, nella sicurezza nel suo tono, in quello sguardo intriso di pazzia, che gli suggeriva che stesse dicendo il vero. E proprio per questo motivo, faticò ancora di più a crederci.

«Non mi credi, vero? Controlla tu stesso allora.» La porta che conduceva fuori si spalancò da sola all’improvviso, dopo un solo cenno della mano di Orochi. «Esci pure a dare un’occhiata, Naito. Io rimarrò qui ad aspettarti. Non devo andare da nessuna parte, tanto» aggiunse, facendo un’altra risata che di risata aveva ben poco e lanciando un altro piatto contro la parete.

Credendo di essere in preda alle allucinazioni, Naito gli diede le spalle e si diresse verso l’uscita. Fuori rimase ancora più a bocca aperta. L’autunno lì non era mai arrivato, perché il giardino era coperto di splendidi fiori all’ombra di ciliegi alti e floridi. Si concludeva con una staccionata rossa che si affacciava sopra uno strapiombo. Quando Naito vide il paesaggio, si dimenticò come respirare.

Era una valle meravigliosa, rinchiusa in una conca tra le montagne, così incredibile che non sembrava nemmeno essere stata creata per essere vista dall’occhio mortale. Decine, centinaia di case come quella alle sue spalle, con i tetti squadrati, le mura rosse e i giardini in fiore la ricoprivano, intervallate da fiumi che brillavano al sole, distese di verde immense, cascate e laghetti affollati di persone.

C’erano pesci nei fiumi, carpe koi dai colori sgargianti grosse quanto dei wagyū, e tartarughe con lunghissime code fatte di alghe che sostavano lungo le rive. Vide anche un gruppo di cani dal manto blu che giocavano tra di loro, emanando scintille dal pelo.

Scavate nella roccia sulla cima delle montagne c’erano statue gigantesche, di trenta metri d’altezza come minimo, raffiguranti quelli che Naito riconobbe immediatamente come dei, perché erano le stesse figure che aveva visto negli arazzi. Scrutavano quel luogo dall’alto con aria severa e protettiva, al punto che si sentì a disagio soltanto trovandosi al loro cospetto. Alcune erano state scolpite in modo da avere altre cascate di acqua cristallina che sgorgavano dagli occhi o dalla bocca.

Dall’altra parte della valle, alla cima di un lungo complesso di scale di marmo bianco e terrazzi immensi intervallati da ponti e altre cascate, spiccava un palazzo che avrebbe fatto sembrare qualsiasi altro edificio di quella valle microscopico. Era di almeno dieci piani, circondato da mura impenetrabili, ed emanava una luce così intensa da essere accecante.

Ai lati del portone d’ingresso si trovavano due creature mastodontiche, con criniere scarlatte e zanne così affilate che pure da quella distanza Naito poteva vederle. Annusavano l’aria e si guardavano attorno circospetti. Li riconobbe con un solo sguardo: erano dei komainu1, i guardiani che venivano messi a guardia dei templi e delle zone sacre più importanti in assoluto. E Naito non ci mise ancora molto per capire che quel palazzo doveva essere proprio la Zona Sacra per eccellenza. Il potere che irradiava arrivava fino a lui, facendogli accapponare la pelle.

Quella… era la reggia di Amaterasu.

Due statue della dea, identiche alla figura dell’arazzo, sorgevano nella roccia accanto al palazzo, con le mani strette nel grembo e la testa china in preghiera. Perfino da scolpita nella roccia immobile, la dea del sole appariva come la donna più stupefacente che fosse mai esistita. Una bellezza senza eguali, da togliere il respiro.

Per finire un torii immenso sorgeva al di là delle montagne, oltre il palazzo della regina, a fare da gigantesco varco d’ingresso per la valle.

Naito indietreggiò. Orochi non aveva affatto mentito. Non l’aveva mai visto, ma era bastata una semplice occhiata per capirlo.

Quel luogo era davvero il paradiso. Il Takama-ga-hara, l’altopiano del paradiso, la residenza degli dei, situato al di sopra del monte Takamagahara, collegato al mondo mortale tramite un ponte celeste fluttuante. Ormai aveva quella spiegazione ben impressa nella mente, grazie al vecchio Musashi. 

Non avrebbe mai e poi mai, in cento vite diverse, pensato di vedere quel luogo di persona. E Orochi si trovava lì. Lui si trovava lì. Per un attimo, pensò che Tsukuyomi lo avesse spedito troppo in alto, ma poi ricordò che non era davvero lì. Era solo un sogno. Un sogno maledettamente reale. Deglutì, incapace di fare altro.

Ora che poteva osservare il paradiso con il proprio occhio, si rese conto che il palazzo di Tsukuyomi era molto simile agli edifici che si trovavano lì, solo molto più decrepito e trascurato. Naito sentì un moto di tristezza per lui. Quel luogo era incantevole, poteva comprendere perché il dio della luna ne avesse patito così tanto l’esilio.

«Sì, Naito.» La voce di Orochi lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto, trovandoselo di fronte, le mani unite dietro la schiena. Il suo sguardo era fisso sul palazzo di Amaterasu. Questa volta non ci provò nemmeno a nascondere l’odio viscerale e la rabbia dal proprio volto. «Siamo nella casa degli dei.»

«Ma… come?» domandò Naito. 

Orochi fece un passo avanti. Una luce azzurra balenò sotto al suo mento e venne trascinato all’indietro, con un mugugno adirato. Un collare di ferro era apparso attorno al suo collo, unito a una catena fatta di energia azzurra, la cui estremità giungeva proprio dalla reggia da cui erano usciti. Orochi barcollò, poi afferrò la catena e la strattonò con un urlo così forte da riecheggiare in tutta la valle. Naito si paralizzò, temendo che quelle urla avrebbero potuto attirare gli dei, ma l’uomo non sembrava affatto spaventato da quella prospettiva. 

«Lascia che te lo spieghi, com’è possibile» rantolò Orochi, smettendo di litigare con la catena. «La puttana di Amaterasu ha avuto la brillante idea di tenermi imprigionato qui, proprio sotto al suo naso, in modo da potermi tenere d’occhio da vicino. Mi hanno sigillato in questa reggia dove posso avere quantità inesauribili di cibo, bevande, e dove tutto quello che viene rotto si ripara da solo.»

Un altro ghigno deturpò il suo volto già deturpato. «Loro lo sanno, sanno, che non importa quanto di quel cibo io mangi, avrò sempre fame. Sanno che l’unica cosa in grado di dissetarmi è il sangue di vergine. Lo sanno che non desidero altro che radere al suolo questo luogo mattone dopo mattone. Sanno ogni cosa. E proprio per questo mi hanno dato tutto il cibo che non può saziarmi che desidero, tutte le bevande insapori che voglio e, soprattutto, non posso distruggere nulla che non venga riparato in un istante.»

Una ciocca di capelli gli cadde di fronte al volto, ma non se ne curò. «L’hanno fatto apposta, Naito. Per prendersi gioco di me. E vuoi sapere la parte più interessante? Non hanno nemmeno tempo per occuparsi me come vorrebbero. Non hanno tempo per sbarazzarsi di me una volta per tutte. Sai perché?»

Orochi non gli diede nemmeno tempo di pensare ad una risposta. Fu lui stesso a dargliela: «Perché, a quanto pare, gli dei hanno “minacce più immediate” a cui pensare. Io sono solo un pensiero secondario, per loro. Capisci, Naito? Io, Yamata no Orochi, il flagello di Izumo, uno dei mostri più antichi e temuti dai mortali, colui che regnava nel Giappone come un dio… un pensiero secondario

Emise di nuovo quella risata gorgheggiante, intrisa di rabbia e follia, come se nemmeno lui riuscisse a credere alle parole che aveva appena pronunciato. E in effetti, anche Naito faticava a crederci. Allo stesso tempo, sapeva anche che quella storia non era una bugia: Amaterasu rischiava di spegnersi. Gli dei lo sapevano, perciò era chiaro perché avessero dato la priorità alla ricerca di Yata no Kagami.

Se Orochi era al corrente di tutto quello, non lo diede a vedere. Continuò imperterrito col suo sproloquio: «Ma se gli dei credono che io rimarrò qui senza muovere un dito, allora si sbagliano di grosso. Me la pagheranno. Si pentiranno di non avermi ucciso quando ne hanno avuto l’occasione. Evaderò da questa prigione e li distruggerò uno ad uno. Susanoo, Amaterasu, Izanagi, Inari… li farò a pezzi e banchetterò con i loro cadaveri.»

Un’orribile sensazione si fece largo dentro di Naito. «Ma… ma perché mi hai fatto venire qui?»

La luce del giorno faceva sembrare Orochi ancora più cadaverico, e orripilante. «Perché tu dovrai aiutarmi a evadere.»

 «Che… che cosa?» Naito pensò di aver sentito male. «Stai scherzando?»

«Affatto.» Orochi gli diede le spalle e si incamminò di nuovo verso la sua “cella”. «Mi hai deluso, in occidente. Ti avevo detto di occuparti di quei piccoli dei, e hai fallito. Di nuovo. Se sono rinchiuso qui, è anche per causa tua. Perciò, ti ho contattato proprio per questo motivo: tu dovrai aiutarmi a evadere.»

Naito lo seguì come in trance, sempre più convinto di non star davvero vivendo quel momento. Tutto quello gli sembrava così assurdo che la domanda gli uscì più per riflesso incondizionato che per altro: «E come dovrei fare?»

Orochi tornò a sedersi al tavolino e sorrise proprio come se non aspettasse altro che quelle parole. «È molto semplice, Naito. Molto più di quanto tu possa immaginare.» Afferrò un piatto e lo strinse così forte da distruggerlo, non curandosi delle schegge che gli si conficcarono nel palmo. «Ti basterà uccidere la vergine.»

Perfino nel sogno, Naito sentì il proprio respiro mozzarsi. «C-Cosa?»

«Sei ripetitivo, Naito. Hai sentito bene: devi uccidere la vergine. Quando morirà, io potrò trasformarmi. Nessuna prigione potrà contenermi. Distruggerò la casa degli dei dall’interno e dopo li ucciderò uno ad uno.»

Naito osservò come in trance il piatto distrutto mentre si rimetteva insieme da solo. «Ma… ma credevo che per trasformarti dovessi…» Si irrigidì. «… mangiare Rosa.»

«Il rituale è stato completato. Ho già bevuto il suo sangue. È ancora dentro di me, e lo rimarrà per molto tempo. L’unica cosa che manca, è il suo sacrificio.» Orochi sorrise. «Quando la sua anima lascerà il suo corpo e verrà reclamata da Izanami, io mi trasformerò. Niente potrà più fermarmi. Gli dei hanno commesso un errore a lasciarmi in vita, Naito. Li colpirò alle spalle mentre saranno distratti. Quando si accorgeranno cosa sta succedendo, sarà già troppo tardi.» Sembrava davvero convinto che quella follia potesse funzionare.

«Ma non puoi affrontare tutti gli dei da solo» mormorò Naito.

«Certo che posso, Naito. Gli dei si sono rammolliti. Secoli, millenni, trascorsi nell’ozio, senza muovere un dito, a lasciare che altri combattessero le loro guerre. Sono deboli. Me ne sono accorto non appena ho rivisto Susanoo. Non è lo stesso uomo che mi ha sconfitto. Nessuno di loro è più lo stesso. Sono divisi. Sono fragili. Non avrebbero chiesto aiuto ai greci, altrimenti. Questa è l’occasione migliore che abbiamo per colpirli. È l’occasione migliore che hai per salvare la tua specie.»

Orochi sbatté il pugno sopra una tazzina, distruggendola proprio come il piatto. «Ti basterà solo uccidere quella ragazzina, Naito. Uccidi la vergine… e saremo liberi. Il mondo sarà nostro. Nessuno ci fermerà.»

«Tu sei pazzo» rispose Naito, scuotendo la testa. «Non farò del male a Rosa. Te lo puoi scordare.»

Il sorriso svanì dal volto di Orochi, così velocemente che non sembrava esserci mai stato. «Come, scusa?»

«Hai sentito. Non ho alcuna intenzione di ascoltarti, Orochi. Non ucciderò Rosa, né obbedirò più ai tuoi ordini. Non ho alcuna intenzione di assecondarti ancora in questa tua folle guerra contro gli dei.» Rosa, Edward, Konnor, Hachidori, il vecchio Musashi, Ami, perfino Tsukuyomi e Hikaru balenarono nella mente di Naito, facendogli annodare lo stomaco. «Sono… sono meglio di così.»

L’incredulità svanì dal volto di Orochi, rimpiazzata da una maschera di arroganza. «“Meglio” di che cosa, Naito? Dei mostri?» Una roca risata gli uscì dalla gola. «Puoi credere di essere quello che vuoi, ma la verità è che tu sei un mostro, esattamente come me. Niente di più, niente di meno.»

«Io non sono come te, Orochi.» Naito affondò le dita nei palmi, sentendo la rabbia montargli nel corpo. Era incredulo, e non solo per via della situazione, ma anche per la faccia tosta di quell’essere che ancora si ostinava a ripetergli che erano uguali quando in realtà non c’era niente di più lontano dalla verità. Orochi l’aveva indottrinato sin da bambino, per trasformarlo in un’arma, ma lui non era un’arma. Non era il suo maledetto burattino.

«E non ti aiuterò» aggiunse, deciso.

Gli diede le spalle e cominciò a ragionare su come interrompere quel contatto, quando la voce di Orochi fendette l’aria tagliente come una lama: «Kagu-Tsuchi la pensa in maniera diversa, Naito.»

Se l’avesse pugnalato alle spalle, probabilmente avrebbe avuto una reazione più pacata di quella. Incrociò di nuovo lo sguardo di Orochi, che sogghignò di nuovo. «Sì, so cos’è successo al santuario Meiji.»

Naito si irrigidì. «Come fai a saperlo?»

«So molte cose, Naito. So che hai annientato un esercito da solo. So che hai sconfitto Kagu-Tsuchi. Devo ammetterlo, il modo in cui l’hai sbaragliato… sono impressionato, davvero. Ma dopotutto…» Il ghigno dell’uomo si distese oltre i limiti a lui conosciuti. «… te l’ho sempre detto che la rabbia ti avrebbe reso inarrestabile. Finalmente ti sei deciso ad ascoltarmi.»

Naito si irrigidì al pensiero di quello che era successo a Tokyo. Più ci pensava e più rabbrividiva. Si era inebriato del sangue dei mortali come uno tsuchinoko col sakè. «Mi… mi stavo solo difendendo.»

Orochi rovesciò la testa all’indietro, scoppiando in una risata ben più grossa. «Puoi ingannare te stesso quanto vuoi, Naito, ma non puoi ingannare me. Hai finalmente tirato fuori il tuo lato demoniaco. Ti sei comportato da vero mostro.»

“Lato demoniaco.” Non era la prima volta che sentiva quella frase. Ōtakemaru aveva detto la stessa cosa, quando si erano incontrati.

«Tu… tu sapevi che mio padre è Ōtakemaru, vero?» domandò Naito, con un filo di voce.

«Non ne ero certo. All’epoca la mia mente era troppo annebbiata per poterlo capire. Tuttavia, sapevo che c’era qualcosa di speciale in te, Naito. Eri solo un poppante, ma emanavi molto più potere di tanti altri mostri.»

«Per questo mi hai salvato» mormorò il ragazzo. «Pensavi che sarei potuto diventare come mio padre.»

«E ho avuto torto?» Orochi sorrise glaciale. «Pensa soltanto a quello che hai fatto a quell’insulso dio. Credi davvero che quello sia il limite del tuo potere, Naito? Stai a malapena grattando la superficie. Se imparassi a controllare il demone dentro di te… potresti diventare inarrestabile. E presto ne avrai bisogno, perché adesso gli dei sono convinti che tu abbia attaccato il Santuario Meiji e ucciso degli uomini per vendicarti di quello che è successo a me.»

Naito fece una smorfia. Di cose stupide ne aveva sentite ma quella le batteva tutte. Non avrebbe mai fatto un simile gesto per vendicare Orochi. Tuttavia, dopo aver sentito le parole di Sakuya-hime, si aspettava una reazione simile da parte degli dei. Loro erano convinti che l’attacco era opera sua, anche se invece era stata solo colpa di Kagu-Tsuchi. Sfortunatamente nessuno avrebbe mai creduto a lui, soprattutto perché le sue mani erano anche sporche del sangue di tutti quei soldati che aveva ucciso. Il responsabile di un simile massacro non appariva affatto come un mezzosangue desideroso di riscattarsi. Quel pensiero lo costrinse ad abbassare la testa, afflitto.

La voce di Orochi continuò a incalzarlo, fastidiosa e graffiante come non mai: «Sei finito sulla lista nera degli dei, Naito, proprio come me. Per tua fortuna, se Amaterasu non ha tempo di occuparsi di me, sicuramente non ne troverà per te. Saresti già morto altrimenti. Tuttavia, Kagu-Tsuchi e i suoi figli non sono fedeli a lei. Ti daranno la caccia, e tu sei senza amici. Non sopravvivrai una settimana senza il mio aiuto. Vedi, Naito…» 

L’uomo afferrò la fiasca di sakè e cominciò a rovesciarla sul tavolino, imbrattando il vassoio e i piatti di cibo. «… io, te, perfino tuo padre, siamo come un fiume.» Finì di svuotare la fiasca, poi la scaraventò contro il muro, distruggendo pure quella. «Con un fiume ci si possono fare molte cose. Si possono usare per irrigare i campi. Si può sfruttare la loro forza con dei mulini. Si possono perfino arrestare, costruendo delle dighe. Ma se esiste una cosa che non si può cambiare in un fiume, Naito, quella è la sua direzione. Fintanto che esisterà, un fiume andrà sempre, sempre, in un’unica direzione. Un mostro, Naito, sarà sempre un mostro. Puoi fingere che non sia così, ma sai che non è vero. È dentro di te, è nel tuo sangue. Sei un mostro. Proprio come tuo padre. Proprio come me. Il fatto che tu stia cercando di negarlo è davvero patetico, soprattutto dopo quello che il tuo essere mostro ti ha permesso di fare. Non saresti qui se non fosse stato per il tuo lato demoniaco. E di sicuro non saresti qui se non fosse stato per me. Tu mi devi tutto, Naito. Perciò, adesso tu…»

«Maledizione, ma quanto parli?» sbottò Naito all’improvviso. «Adesso capisco come si sentiva Edward quando te la prendevi con lui.»

Per una volta Orochi parve davvero stordito. Il sorriso svanì dal suo volto orrido e smise anche di trafficare con le mani sopra il tavolino, rimanendosene immobile a osservare Naito. 

«Forse non sono stato abbastanza chiaro prima, Orochi, quindi te lo ripeterò ancora una volta: non ho alcuna intenzione di aiutarti. Ho chiuso con te. Lasciami in pace.»

Le vene sul collo di Orochi si gonfiarono, mentre il suo stupore dava spazio alla rabbia. «Ma che stai dicendo, stupido moccioso? Vuoi davvero rifiutare i miei ordini? Non l’hai capito che senza di me sei spacciato?!»

Naito arricciò le labbra. «Continui a ripeterlo. Dici che sono io ad essere quello spacciato, eppure sei tu quello che mi ha contattato. Sei tu quello che sta implorando il mio aiuto, non io. Sei tu quello in gabbia, tu quello che ha bisogno di me, non il contrario.» Scrutò l’uomo dall’alto, inflessibile. «Sei tu quello senza amici.»

Il tavolo gli volò addosso, attraversandolo senza colpo ferire. Si schiantò contro la parete in un’esplosione di vetro, ceramica e cibo.

«Schifoso figlio di una cagna bastonata» tuonò Orochi. «Sei vivo grazie a me! ME! Sei diventato ciò che sei diventato per merito mio! E tu osi voltarmi le spalle?! Osi davvero…»

«Falla finita!» urlò Naito, interrompendolo. «Tu mi hai usato! Volevi trasformarmi nella tua macchina da guerra personale! Volevi rendermi come mio padre! Non mi hai salvato la vita, Orochi, me l’hai rovinata. Sei responsabile tanto quanto Kagu-Tsuchi per tutto quello che mi è successo.» Si avvicinò all’uomo, scrutandolo negli occhi senza il minimo timore. Non era più un bambino. Non aveva più paura di lui. «Non sarò più il tuo burattino, Orochi. Non farò del male a Rosa. Ha sofferto troppo per causa tua.»

«Non posso credere a quello che sto sentendo» sibilò Orochi, scuotendo la testa con disappunto. Il tavolo riapparve di nuovo in mezzo a loro con un tremolio di piatti e posate, ma l’uomo non ci fece nemmeno caso. «Stai perfino chiamando quella bastardella per nome.»

Naito strinse i pugni fino a sentire dolore alle dita. «Non è una bastardella.»

Orochi rise. Non sembrava divertito, però. Sembrava in procinto di esplodere per la rabbia. «Ma certo. Ora capisco. È successo di nuovo.»

«Che cosa?»

«Avrei dovuto ucciderti quando ne avevo l’occasione» biascicò Orochi, ignorando la sua domanda.

«Ma non l’hai fatto.» Ora fu Naito a sorridere. «E adesso ci troviamo qui, con te in prigione, e io libero. Dimmi, come ci si sente?»

Un ringhio risuonò dalla gola di Orochi. «Ho commesso un errore madornale a tenerti in vita. Mi premurerò di rimediare strappandoti il cuore con le mie stesse mani.»

«Devi solo provarci» replicò Naito. La rabbia lo accecò, mentre ripensava a tutto quello che aveva patito per causa di quell’essere. Lo aveva salvato, era vero. E da quel momento in poi la sua vita non aveva fatto altro che tramutarsi in un autentico inferno.

Le bastonate, i morsi della fame, il terrore viscerale che aveva provato da bambino, ciò che era successo ad Hachidori, ciò che l’aveva costretto a fare, ogni cosa riemerse nella sua mente, riaprendo cicatrici che mai si erano davvero chiuse. E poi, in mezzo a quell’oceano di dolore, balenò una luce.

Una promessa. Un giuramento che aveva fatto molto tempo prima e che l’aveva spronato ad andare avanti, a inghiottire tutto quel fango che Orochi gli aveva fatto ingoiare.

«Sai, quando ero bambino, ho fatto una promessa a me stesso» cominciò a dire, sussurrando con calma le parole, in modo da far recepire bene il messaggio. «Ho promesso che se tu non fossi morto mentre ero in vita, allora ti avrei ucciso io. Vuoi venire a cercarmi, Orochi? Fai pure. Ti aspetterò.»

Le mani di Orochi si conficcarono nel tavolino. «Ne hai di fegato a parlarmi in questo modo, per essere uno che è scoppiato a piangere come un’infante quando la sua amichetta ha detto di non amarlo.» 

Il ragazzo spalancò l'occhio, mentre Orochi si alzava in piedi e si avvicinava a lui. 

«Che succede, moccioso, ho toccato un tasto dolente?» L’uomo emise una risatina roca. «Dimmi, cos’è che ti fa più male? Il fatto che Hachidori non ti amasse? Il fatto che ti abbia tradito non una, ma due volte? Oppure il fatto che è morta per causa tua?»

Il desiderio di cancellargli quel maledetto sorriso cominciò a crescere impellente dentro di Naito. Tuttavia, si riscosse in fretta. Era stanco di fare il suo gioco. Era stanco di avere le proprie emozioni manipolate da lui. Era stanco di avere paura di lui. Fece l’esatto opposto di quello che Orochi si sarebbe aspettato e sorrise. «Fammi un favore, Lord Orochi.»

Sporse il viso verso il suo, in modo da sussurrare il resto della frase ad un millimetro dalle sue labbra, l’occhio conficcato nei suoi: «Ricorda i tuoi insegnamenti, e non piangere quando ti taglierò la gola. Cerca di andartene con dignità.»

Un lento sorriso prese forma anche sul volto di Orochi. Un sorriso sadico e crudele. «Prega, bastardo, prega di morire prima che io riesca ad evadere, perché se dovessi metterti le mani addosso ti farò rimpiangere di non essere morto assieme a quella cagna di tua madre.»

Sferzò l’aria con la mano prima che Naito potesse rispondergli per le rime, colpendolo in pieno. La stanza scomparve e tutto si fece nero.

  

***

 

Di sicuro, non era morto. I morti non avrebbero sentito tutto quel dolore lungo la spina dorsale. Naito si mise a sedere, massaggiandosi tra le corna. Un lungo mugugno infastidito gli scappò dalle labbra, mentre sentiva la schiena come fosse un pezzo di legno.

Si trovava su una distesa d’erba, con degli alberi lì vicino e un laghetto che rifletteva la luce della luna. Sollevò proprio lo sguardo verso di essa. Quel pazzo di Tsukuyomi gli aveva sferrato un ceffone e l’aveva sparato in cielo come una saetta. Non aveva idea di dove fosse, come facesse ad essere ancora vivo, sapeva solo che non aveva alcuna intenzione di ripetere mai più una simile esperienza. «Potevi almeno avvisarmi!» urlò adirato. Naturalmente, dalla luna non giunse alcuna risposta.

Naito grugnì infastidito e controllò nella bisaccia per vedere se la fialetta di elisir era ancora intatta. In qualche modo, non era scoppiata in mille pezzi. Si accorse ben presto che non era da sola: ce n’era anche un’altra, identica a quella, con un bigliettino attaccato. Corrugò la fronte e lo lesse. Era scritto a mano, con una bella grafia:

 

Un piccolo omaggio per ringraziarti della compagnia. Fanne buon uso!

-Tsukuyomi-no-mikoto

 

Malgrado il volo, e l’atterraggio, a Naito venne da sorridere. Forse si era sbagliato su Tsukuyomi. Aveva qualche rotella fuori posto, ma non era un dio malvagio. Anzi, tutt’altro: era stato il primo dio a essere gentile con lui. A suo modo, certo.

Rimise le fialette nella bisaccia e si alzò in piedi a fatica. Barcollò per qualche metro, tenendosi una mano sulla schiena ed emettendo gemiti di fatica ad ogni passo. Conciato in quel modo, perfino il vecchio Musashi sarebbe sembrato un giovincello in confronto a lui.

Ripensare a lui gli causò un moto di angoscia. Non aveva nemmeno potuto dirgli di esserci riuscito, di aver davvero trovato Tsukuyomi. Tuttavia non si lasciò prendere dallo sconforto: se aveva deciso di assistere il dio della luna in quella missione, era anche per proteggere sia il vecchio, che Ami, che tutti gli altri. Li avrebbe rivisti, ne era certo, una volta che Amaterasu sarebbe stata salva.

Si guardò attorno. Era in un parco, con la strada poco distante, attraversata da alcune automobili. Poco distante da lui, vide un mendicante sdraiato sopra una panchina che lo osservava con gli occhi spalancati. Naito incrociò il suo sguardo e rimase immobile, imbarazzato. Si augurò che non l’avesse visto precipitare dal cielo e inveire contro la luna. Proseguì, decidendo di ignorarlo, e uscì dal parco.  

Non ci mise molto a capire di essere finito in una città. L’idea di attraversarne un’altra così presto dopo i fatti di Tokyo lo mise a disagio, ma sembrava notte fonda, e faceva freddo, perciò non vide molti mortali in giro. Anzi, non c’era proprio nessuno, a parte quel mendicante e le scarse automobili che passarono senza fare caso a lui.

E quando lesse alcune insegne scritte in inglese sopra cartelli e insegne di negozi, capì che Tsukuyomi non aveva mentito: l’aveva davvero rispedito in occidente. Come ci fosse riuscito senza ucciderlo, quello non l’avrebbe mai saputo. E un lato di lui avrebbe preferito rimanerne all’oscuro.

Non aveva idea di che città fosse quella, ma non sembrava affatto New York. I palazzi erano molto più piccoli, e molti meno. Forse Tsukuyomi avrebbe dovuto dargli qualche indicazione in più, prima colpirlo a tradimento in quel modo.

Mentre proseguiva si ritrovò inevitabilmente a ripensare al sogno che aveva fatto. Orochi era ancora vivo, ma non era quella la cosa che l’aveva scioccato maggiormente, così come non l’aveva fatto la vista del paradiso degli dei, per quanto stupefacente fosse stata.

Gli aveva detto di uccidere Rosa, per completare il rituale. E non era tutto: quel kudan aveva menzionato una vergine che sanguinava. Quel verso, in mezzo all’araldo che falliva, la notte che scendeva e la guerra che scoppiava, pareva quasi superfluo, inutile perfino. Ma doveva esserci un motivo se l’aveva pronunciato. Forse Naito si sbagliava ma sentiva che quella frase, qualunque cosa significasse, aveva un peso decisamente più importante di quello che dava a vedere. Queste informazioni, unite alle strane richieste di Ibaraki, gli fecero capire che tutto quanto, in qualche modo, era ancora collegato a lei, a Rosa.

Rosa… era in pericolo.

Si dimenticò dell’araldo, di Amaterasu, della sua missione, di ogni cosa. Il pensiero che lei rischiasse di nuovo la vita lo colpì al petto come una scheggia di vetro congelata. Assottigliò le labbra e abbassò lo sguardo, mentre proseguiva su quel marciapiede con lo stomaco in subbuglio al pensiero di quella ragazza.

Tutto quello era successo per causa sua. Se lui non l’avesse rapita lei non sarebbe mai diventata la vergine che tutti cercavano. L’aveva cacciata in quella situazione. Era stato un vero bastardo. Non aveva alcuna idea di come avrebbe potuto convincerla di non essere più suo nemico con tutto quello che le aveva fatto.

Un verso sorpreso lo riportò alla realtà. Drizzò la testa, accorgendosi di due ragazzini apparsi di fronte a lui. Uno aveva una matassa di capelli ricci sopra la testa ed era alto e secco, l’altro invece era più basso, con i capelli biondi e arruffati e una strana tavola con le ruote stretta sottobraccio. Lo osservavano con gli occhi spalancati e la bocca aperta.

«Ma… che cos’è?» sussurrò quello più alto, in inglese.

«Non ne ho idea, ma è troppo figo!» replicò l’altro, prima di sorridergli. «Ehi bello, stai facendo un cosplay o cose del genere?»

«Un… “kosplai”?» riuscì a biascicare Naito, in inglese.

«Aspetta un attimo… ma sì, lo so chi è!» esclamò quello con la tavola, ignorando la domanda. «È il tizio di quel video virale! Quello che ha salvato quel bambino!»

Il ragazzo coi capelli ricci lo scrutò con più attenzione. «Oh merda, è vero!»

Naito non ci stava capendo più niente. «Video… cosa?»

Quello biondo lo ignorò di nuovo. Tirò fuori un cellulare dalla tasca e glielo puntò addosso. «Non mi sembra vero! Ma che ci fai qui? Non eri tipo in Giappone due giorni fa?»

«E tu come fai a…»

«Tieni Andrew, riprendi tutto!» Il ragazzo mollò a terra la tavola con le ruote e lasciò il cellulare nelle mani del suo compagno, che a differenza sua sembrava angosciato.

«Sam, credo che forse dovresti lasciarlo in pace…»

Quel moccioso, Sam, sembrava davvero divertirsi un mondo ad ignorare gli altri. Si avvicinò a Naito con un sorrisetto idiota. «Ehi, quelle sono vere?» domandò, avvicinando una mano alla sua faccia.

Naito si ritrasse di scatto. «Non toccarmi.»

Sam continuava a sorridergli incurante. «Te ne vai sempre in giro conciato in quel modo?»

Non passò molto prima che Naito si accorgesse che gli stava osservando le corna. Si portò una mano sopra di esse, sentendosi in imbarazzo. «Riesci a vederle?!»

«Ehm, sì? Perché non dovrei? E quelle, invece, sono vere?»

Provò a toccargli le spade, ma Naito gli afferrò il braccio prima che potesse sfiorarlo. Lo sbatté contro la parete accanto a loro. In un istante, il ragazzino si trovò paralizzato e con la wakizashi puntata alla gola.

«Ho detto: NON. TOCCARMI.» 

«W-Wow, amico! Rilassati!» Sam provò a dimenarsi, ma aveva la forza di un moscerino. «A-Andrew, che stai facendo, aiutami!»

Andrew non si mosse. Rimase ad osservare la scena attonito, il cellulare puntato su di loro.

«Non ho alcuna intenzione di sprecare il mio tempo con due mocciosi» sibilò Naito. «Ditemi, che città è questa?»

Sam batté le palpebre. «E-Eh?»

«Che città è questa» ripeté Naito, spazientito.

«B-Bismarck!»

«Bismarck? Ed è vicina a New York?»

«Ma… ma che razza di domanda…»

«Rispondi! È vicina a New York?!»

«N-No! È quasi dall’altra parte del paese!»

Naito schiuse le labbra. «Che… che cosa?»

«M-Mi lasceresti andare?»

Mollò la presa senza nemmeno rendersene conto. Il ragazzino barcollò verso il suo compare, massaggiandosi la gola. «Certo che hai una stretta di ferro!»

Ora fu Naito ad ignorarlo. Rinfoderò la spada. «Da che parte è New York?»

Sam e Andrew si scambiarono uno sguardo veloce.

«Di là» dissero insieme, indicando due direzioni diverse.

Naito sospirò pesantemente. I Gloriosi Stati dell’America Unita e i suoi brillanti abitanti. Quanto non gli erano mancati. Spiccò un balzo, strappando due grida di sorpresa a quei mortali, e raggiunse il tetto del palazzo accanto a loro. Sentì ancora gli schiamazzi di quei due rompiscatole, ma li ignorò e cominciò a correre, saltando di tetto in tetto come aveva fatto a Yokohama.

Il profilo di quella cittadina dal nome assurdo cominciò a delinearsi di fronte a lui. Non era molto grande, di sicuro non come New York. In lontananza vide alcune catene montuose spiccare imponenti nella solitudine della notte, le cime coperte di neve.

Si fermò per ragionare sulla sua prossima mossa. Si domandò se Tsukuyomi avesse “sbagliato mira” o se l’avesse fatto apposta a mandarlo proprio lì. Oppure, non avendo idea di dove spedirlo, aveva optato per un punto a casaccio.

Poteva raggiungere New York in fretta, passando per lo Yomi. Tuttavia il pensiero di farlo fece nascere un brivido dentro di lui. Gli ritornò in mente quello che era successo al Santuario Meiji, le urla terrorizzate, il sangue sulle sue mani, Kagu-Tsuchi ai suoi piedi. E soprattutto gli tornò in mente Orochi, con quel suo maledetto ghigno compiaciuto. Non aveva alcuna intenzione di usare ancora il suo lato demoniaco per scendere in quel luogo infernale. Piuttosto avrebbe attraversato l’intera America a piedi, ma non sarebbe più abbassato al livello di Orochi. Non era come lui.

Puntò lo sguardo verso l’orizzonte. Ancora non gli sembrava vero di essere tornato in occidente. Non sapeva se sentirsi emozionato o spaventato all’idea di rivedere i greci. Una greca in particolare.

Naito deglutì. Che cosa avrebbe fatto Rosa quando lo avrebbe rivisto? Con tutta probabilità, avrebbe cercato di ucciderlo. Aveva detto a Edward di scusarsi con lei da parte sua, ma dubitava che sarebbe servito a qualcosa.

Ancora una volta, pensò al fatto che lei potesse essere in pericolo, e serrò la mascella. Aveva un’occasione, l’occasione che per tutta la vita aveva cercato, quella di dimostrare che i mezzosangue come lui meritavano di vivere, e l’avrebbe sfruttata, a qualsiasi costo.

Orochi, il Re, Kagu-Tsuchi e i suoi maledetti fratelli, il Clan Tsubaki, tutti loro avrebbero dovuto aspettare ancora un po’, prima di ucciderloAveva cose più importanti a cui pensare. 

Sarebbe tornato a New York. Avrebbe rivisto Edward, Konnor e tutti i loro amici. Avrebbe chiesto scusa per davvero, questa volta di persona. Avrebbe aiutato Edward, qualsiasi cosa significasse.

E soprattutto, avrebbe protetto Rosa a qualsiasi costo. Era per colpa sua se lei si trovava in quella situazione. Era stato lui a trascinarla in quella maledetta faccenda. E lui avrebbe rimediato.

Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse quella “Bismarck” e tantomeno da che parte fosse New York, ma non ci avrebbe messo molto a capirlo. Affondò la mano nella bisaccia, tranquillizzandosi quando sentì la superficie dura delle due fialette di elisir, e sorrise verso il panorama notturno, illuminato dalle stelle e dalle luci della città addormentata.

Il viaggio non era ancora finito.

 

 

 

Guardiani di templi e santuari shintoisti. Sono raffigurati come due statue, una a bocca aperta che accoglie i visitatori e gli spiriti benevoli, l’altra invece con sguardo minaccioso per scacciare i malintenzionati. Ho deciso di renderli vere e proprie creature viventi in questo caso. Hanno anche ispirato diversi Pokémon, come Arcanine e Growlithe (ma è una cosa in comune con moltissimi yōkai e creature leggendarie giapponesi).

 

 

 

 

Salve gente. È con molta tristezza che vi comunico che questo, signori, è il finale dell’Elisir di Lunga Vita. Una storia di cui personalmente vado molto fiero, che mi ha divertito scrivere e che penso abbia tirato fuori il meglio da me. 

Naito era nato come personaggio secondario, al massimo, una sorta di cattivo minore da sconfiggere, poi però nel corso del tempo, con il discorso “mezzosangue” ho capito che poteva essere qualcuno da cui potevo tirare fuori molto di più. Anche se mai avrei pensato di dedicargli una storia intera, e invece eccoci qui e, sapete cosa, sono davvero felice di averla scritta. Non solo per Naito, ma anche per Hachidori, per Hikaru e last but not least, Orochi, il nostro cattivone. Ho mostrato più lati di ciascuno di questi personaggi, mostrato alcune delle loro ragioni, perché hanno fatto quello che hanno fatto, ho mostrato altri dei giapponesi e raccontato altre leggende, e soprattutto ho mostrato un po’ di Giappone, visto che nella Spada del Paradiso ho un po’ imbrogliato tutti quanti riducendo il viaggio solamente alla volta di San Francisco.

Rimangono molti quesiti, molte domande irrisolte, e con Orochi che trama nell’ombra tutto si infittisce ancora di più, lo capisco, ma non temete: presto tutto diventerà ancora più incasinato, perché ci ho pure buttato i romani in mezzo! Hurrà!

Scherzi a parte, mi rendo conto che su alcuni punti non sono stato chiarissimo riguardo la società giapponese. Chi sono gli “eroi” del Giappone? Chi sono i samurai? Chi sono le kunoichi? Come funziona il loro mondo, rispetto a quello occidentale riordiano? Beh, amici miei, ho lasciato indizi qua e là che spiegano come funziona la società giapponese (visto che comunque, vivendoci, Naito già la conosceva e non volevo fare spiegoni vari perché trovo che sia l’approccio sbagliato alle cose, non abbiamo visto un Percy, per esempio, che viene introdotto nel mondo greco per la prima volta e quindi per lui è tutto nuovo) ma temo che per un quadro più completo occorrerà aspettare ancora, magari un… viaggio in Giappone per trovare lo specchio perduto? Chissà, chissà.

Come finale ammetto che è un po’… “sottotono”? Però davvero non sapevo come altro farlo hahaha, mi dispiace. Spero, però, che la tappa nell’Olimpo giapponese vi sia piaciuta! Così abbiamo visto sia lo Yomi che il Takama-ga-hara.

E spero anche che il resto del capitolo vi sia piaciuto, come avrete potuto notare, un mortale ha “visto” Naito. E a quanto pare, Naito è diventato virale per aver salvato quel bambino. Heh, buffo eh? Chissà quali conseguenze ci saranno!

Ora, note un po’ più dolorose: sono un po’ indietro con la storia sui romani, vorrei scrivere almeno altri cinque o sei capitoli prima di iniziare a pubblicare e so già che ci vorrà un po’, quindi per un po’ da me ci sarà silenzio radio. Leggerò e recensirò, questo sì, ma per il Velo Invisibile, o anche la raccolta, ci vorrà un po’ di tempo. Ho anche notato che l’interesse per le storie è un po’ calato, quindi forse devo un attimo mollare il colpo e lasciar respirare un po’ le storie perché in effetti ho scritto moltissima roba e magari a qualcuno farebbe piacere recuperare tutto in questo periodo di silenzio radio. 

Le visite sono calate, certo, ma non i recensori! Ed è a voi che mi rivolgo ora: grazie mille a Fenris, Farkas, Roland (grazie in particolare per il disegno di Hachidori) e Nanamin (grazie anche a te in particolare per il disegno di Tsukuyomi, e poi un mega grazie gigantesco per aver mandato la segnalazione per le storie scelte, e soprattutto per aver betato, se non si dice così pazienza, un bel po’ di capitoli!). 

Quindi, grazie di cuore per le recensioni, grazie di cuore a chi ha letto ed è arrivato fino a qui, grazie Roland e Nanamin per aver preferito la storia, e niente, se non l’avete ancora fatto vi consiglio di leggere l’ultimo capitolo della raccolta, dove abbiamo iniziato la partita di cattura (o caccia) la bandiera, in cui i nostri vecchi eroi hanno fatto ritorno (e in cui vediamo in azione anche altri volti nel Campo Mezzosangue).

Bene, ho detto tutto, un ultimo immenso grazie a tutti voi e ci vediamo in futuro, spero presto, per prima cosa nella raccolta, che intendo finire prossimamente, e poi quando tutto sarà pronto comincerà l’avventura dei romani (in cui spero di rivedervi e/o leggervi)! In ogni caso posterò aggiornamenti vari ed eventuali nel prossimo capitolo della raccolta, su cui lavorerò a breve.

Fino ad allora, statemi tutti bene! Alla prossima!

   
 
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