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Autore: Zobeyde    17/10/2021    7 recensioni
New Orleans, 1933.
In un mondo sempre più arido di magia, il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley si sposta attraverso l’America colpita dalla Grande Depressione con il suo baraccone di prodigi e mostri. Tra loro c’è Jim Doherty, l’unico a possedere capacità straordinarie: è giovane, irrequieto e vorrebbe spingere i propri numeri oltre i limiti imposti dal burbero direttore.
La sua vita cambia quando incontra Solomon Blake, che gli propone di diventare suo apprendista: egli è l’Arcistregone dell’Ovest e proviene da un mondo in cui la magia non ha mai smesso di esistere, ma viene custodita gelosamente tra pochi a scapito di molti.
Ma chi è davvero Mr. Blake? Cosa nasconde dietro i modi raffinati, l’immensa cultura e la spropositata ricchezza? E soprattutto, cosa ha visto realmente in Jim?
Nell’epoca del Proibizionismo, dei gangster e del jazz, il giovane allievo dovrà imparare a sopravvivere in una nuova realtà dove tutto sembra possibile ma niente è come appare, per salvare ciò che ama da un nemico che lo osserva da anni dietro agli specchi...
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ATTRAVERSO LO SPECCHIO

 
 



Come promesso, già dal mattino seguente Blake gli mostrò i primi incantesimi:
«Usiamo il termine “incantesimo” per indicare una manipolazione della materia» cominciò a spiegare non appena Jim lo ebbe raggiunto nel parco, dopo la colazione. «Attraverso precise sequenze di gesti, possiamo convogliare l’energia del Tutto e dirigerla, impartirle ordini e movimenti.»
Lo stregone sollevò le mani e tracciò un complesso disegno in aria; le fronde verdi degli alberi furono agitate da un forte vento e una pioggia di foglie cadde sul prato, formando un mulinello. Danzò, sospinto da una forza invisibile, fino ad assumere una forma a quattro zampe: un cavallo. La creatura si lanciò al galoppo, girò attorno a Blake per poi trottare verso Jim. Affascinato, il ragazzo allungò una mano per toccarlo, ma il cavallo si dissolse subito in un’esplosione di foglie.
«Un mago non può creare qualcosa dal niente» continuò Blake. «Agisce su ciò che lo circonda: gli elementi naturali, la materia organica e inorganica. Per questo motivo, deve conoscere le cause e gli effetti di ogni fenomeno.»
Un altro rapidissimo movimento e il prato sotto i piedi di Jim prese a tremare; il ragazzo indietreggiò subito, allarmato. «S-signor Blake…?»
Il terreno cedette, aprendo una frattura su un baratro di fuoco e lava.
«No!» gridò Jim.
La frattura diventò in fretta una voragine, consumandosi di secondo in secondo. Jim sentì il suolo sgretolarsi sotto i piedi e non fece neanche in tempo a urlare… ma subito dopo crollò in ginocchio e si ritrovò a fissare le sue mani aperte sull’erba. Per lo stregone, invece, sembrava non fosse successo proprio niente.
«Ciò che hai appena visto era un’illusione» spiegò infatti, mentre Jim si rimetteva in piedi con cautela. «In questo caso ho agito sulla materia di cui è composto il tuo cervello: ogni sensazione che proviamo è tale solo perché è la mente a dircelo. Tramite le illusioni possiamo alterare la percezione che un avversario ha della realtà, fargli vedere ciò che vogliamo, convincerlo di provare dolore o piacere. Di morire, anche.»
«Ma è sleale!»
Il sorriso che Blake gli restituì aveva un che di sinistro. «La magia è sleale per natura, lasciamo agli eroi gli squilli di trombe e le spade sguainate: un mago agisce nell’ombra, non si sporca mai le mani se può evitarlo.»
«Va bene, ma se qualcuno dovesse convincermi che sto morendo… morirei davvero? Anche se è solo nella mia testa?»
Blake si lisciò i baffi. «In effetti è un argomento dibattuto: secondo alcuni basta convincere il cuore che non sta più battendo, per altri l’arresto cardiaco è dovuto allo shock. Per saperlo con certezza occorrerebbe fare dei test.»
«Preferisco non saperlo allora» disse Jim, orripilato.
«A ogni modo si tratta di casi limite» lo rassicurò lo stregone. «Possiamo confondere solo un senso per volta, perciò è abbastanza semplice riconoscere un’illusione. Anche se alcuni sostengono di essere in grado di creare Illusioni Totali.»
«Lei ne è in grado?»
«Confesso di averci provato, ma è una materia che non mi ha mai attratto.»
«Allora qual è la sua specialità?»
Gli occhi azzurri dello stregone mandarono uno scintillio. «La malia, una forma di manipolazione ben più sofisticata.»
«Cioè?»
«Si tratta di esercitare una forte influenza sulle decisioni altrui, tramite il tocco, lo sguardo, una particolare modulazione della voce: indolore, elegante ed efficace.»
Jim deglutì a vuoto. «Intende…controllare le persone? Come fossero marionette?»
Blake inclinò la testa. «È un po’ più sottile di così. Se ci pensi, l’illusionismo da palcoscenico si basa su questo: sedurre il pubblico, suggestionarlo al punto di credere che ciò che ha di fronte sia vera magia non è forse parte dello show?»
Con riluttanza, Jim dovette convenire. «Credo di sì.»
Trascorse il resto della giornata a esercitarsi in quella che Blake chiamava “Arte delle Mani”, a memorizzare sequenze di gesti e schemi e cercare di riprodurli in maniera più sciolta possibile, ma non era affatto semplice come sembrava; c’erano un’infinità di combinazioni diverse e bastava la minima imprecisione, anche solo non riuscire a far toccare perfettamente gli indici, per cambiare totalmente gli effetti di un incantesimo.
Col passare delle settimane, però iniziò a vedere i primi miglioramenti; quegli incantesimi che gli erano da sempre costati un sacco di energia non sembravano più tanto impossibili, ora che aveva chiaro il loro funzionamento.
Le lezioni di magia ormai scandivano regolarmente le sue giornate; in principio, Blake gli assegnò compiti abbastanza semplici, ma che richiedevano controllo e precisione: spostare oggetti via via sempre più pesanti solo col pensiero, attraverso un percorso segnato. Oppure, raccogliere le minuscole particelle incendiare presenti nell’aria per accendere una candela e poi sottrarle ossigeno fino a spegnere lentamente la fiamma. O ancora, riassemblare vasi e bicchieri rotti un coccio alla volta, far aderire perfettamente ogni bordo affilato come quando erano integri.
Intanto, continuava con lo studio teorico, ma, se prima roteava gli occhi ogni volta che Blake gli dava libri da leggere, adesso era Jim a chiedergliene di nuovi: gli sorgevano un’infinità di domande ed era sempre affamato di risposte.
Inoltre, scoprì che i viaggi in astrale erano molto utili per studiare; poteva lasciare il suo corpo a dormire e portarsi avanti con le letture tutta la notte, riuscendo a essere fresco e riposato il mattino seguente.  Interessante fu una scoperta che fece a proposito dei famigli: 
 
“Gli Spiriti Primordiali (detti anche famigli), sono le emanazioni più pure del Tutto: sono in grado di spostarsi fra i mondi in virtù del loro essere multiformi e di presentarsi al cospetto di un mago sotto sembianze animali. Secondo il Principio della Corrispondenza, il famiglio si lega indissolubilmente al suo Signore, diventandone servo fedele per la durata della sua vita mortale.”

Una sera, invece, durante una delle misteriose partenze di Blake, Jim si imbatté in un termine nuovo. Il Vuoto.
 
“Il Vuoto è separato dal Tutto, dunque in esso i concetti precedentemente espressi non hanno alcun valore.”

Jim aggrottò la fronte e lesse il paragrafo fino alla fine: 
 
“S’intende Magia Vuota l’insieme dei riti per attingere potere dal Vuoto e dagli abomini che esso genera e contiene. Secondo certi teorici del Vecchio Mondo, la Magia Vuota realizza ciò che per la magia comune è impossibile, rendendo chi la pratica al pari di una divinità. Ciononostante, è dimostrato che nel Vuoto non esistano leggi e domini il caos; perciò, la Magia Moderna aborra questo genere di pratiche e le considera oggigiorno la più deplorevole forma di eresie.”

Questo era tutto ciò che l’autore aveva da dire sull’argomento. Jim chiuse il libro, perplesso, poi ci ripensò e decise di appuntare quelle righe sul suo grimorio: al ritorno del maestro avrebbe cercato di saperne di più.
 

Il mattino seguente, Jim raggiunse la magione dopo aver pedalato nel fango sotto una pioggia fitta e tenace, che non smise un secondo di cadere per il resto della giornata. Gli incantesimi atmosferici erano ancora fuori dalla sua portata, ma Jim avrebbe dato qualunque cosa per poter uscire nel parco ed esercitarsi; grazie alle sue letture notturne in astrale, poi, aveva già terminato tutti i libri in programma e non aveva idea di come ammazzare il tempo.
Così, scivolò fuori dalla biblioteca e fece un giro del pianterreno, passando dalla sala da pranzo a quella della musica e nei vari salottini; sperava che familiarizzare con la casa lo avrebbe aiutato a conoscere un po’ di più il suo maestro, di cui continuava a non sapere nulla. Di norma, l’abitazione di una persona dovrebbe riflettere la sua personalità, il suo passato, ma non era questo il caso: Solomon Blake era uno spettro, che transitava per quelle stanze senza lasciare traccia di sé.
La maggior parte delle porte erano comunque aperte, tranne una a due battenti che conduceva a una zona della casa dove non era mai stato. L’ala ovest, che il maestro gli aveva vietato.
Una parte di lui moriva dalla voglia di scoprire cosa ci fosse laggiù. Dai, solo una sbirciatina, lo incitava una vocina nella sua testa. Chi vuoi che se ne accorga? Blake non ha mica occhi e orecchie ovunque!
Il ragazzo provò a girare le maniglie. Chiusa, ovviamente. Allora sbirciò oltre i vetri smerigliati, ma non riuscì comunque a distinguere niente. Deluso, si convinse a lasciar perdere.
Finì invece nel giardino d’inverno, convertito a serra: pareti di vetro e acciaio su cui scivolavano le gocce di pioggia, un pungente odore di fiori, terra umida e alberi carichi di strane tipologie di frutti.  Blake lo aveva introdotto proprio in quei giorni all'impiego delle erbe nelle pozioni, e sul tavolo da lavoro erano ancora sparpagliati i suoi attrezzi. Li sciacquò nel lavandino e li ripose con cura nella valigetta che conteneva il suo kit da alchimista, quando gli parve di sentire un miagolio. Chiuse il rubinetto e si volse verso un cespuglio di rose argentee. «Chi c’è lì?»
Il cespuglio si mosse. Poi, dal fogliame, fece capolino un musetto nero di un gatto.
Jim sorrise. «E tu come sei entrato?» Si accorse solo poi che una delle finestre a vetro era rimasta socchiusa. «Be’, ti capisco, con questo tempaccio.»
Si accovacciò e allungò una mano verso la bestiola. «Vieni, non ti faccio niente.»
Il gattino uscì con un paio di passetti aggraziati. Quando Jim gli accarezzò il dorso, tutti i suoi sensi formicolarono e si risvegliò in lui una sorta di riconoscimento. Guardò la piccola, elegante creatura dal manto nero come la notte, che gli stava facendo le fusa con la confidenza di un vecchio amico. «Sei un famiglio tu, vero?»
Il gatto lo fissò intensamente coi suoi occhioni di giada e Jim sondò con prudenza la sua coscienza. Fu come camminare rasentando il ciglio di un abisso, misterioso e profondo: quella creatura aveva vissuto centinaia di anni, forse migliaia e conosciuto altrettanti mondi diversi.
«Scusami» disse Jim. «Non avevo capito che fossi una lei
La gatta emise un miagolio contento e continuò a strusciarsi avvolgendo la coda attorno alla sua gamba.
«Hai fame? Vado a vedere se trovo qualcosa.»
Lasciò la gattina nella serra e si mise in cerca della cucina; la trovò dietro una porta a vetri, un vasto locale voltato a botte, con pavimento a maioliche e un grande focolare in ghisa sopra il quale pendevano pentole di rame.
Jim aprì la dispensa e ne passò in rassegna il contenuto, quando all’improvviso il pavimento tremò; Valdar entrò da una porta di servizio completamente zuppo, con in spalla un sacco con dentro qualcosa che si agitava.
«Ehilà!» lo salutò, Jim sforzandosi di sembrare più amichevole che terrorizzato.
L’orco non lo considerò neanche; issò invece il sacco sul tavolo, e ne estrasse una gallina ancora viva, che starnazzava e sbatteva le ali. Poi, Valdar afferrò un coltello da macellaio e, proprio sotto gli occhi agghiacciati di Jim, decapitò il pennuto. Il ragazzo indietreggiò di alcuni passi.
«Vedo che hai da fare. Magari ripasso dopo…»
«Fame?» biascicò Valdar, il coltellaccio insanguinato e pieno di penne ancora in pugno.
«Adesso proprio no» disse Jim, reprimendo un conato. «Mi chiedevo solo se avevi del latte.»
L’orco sollevò le enormi arcate sopraccigliari e Jim si affrettò ad aggiungere: «Insomma, se non ti crea disturbo…»
«Tu aspetta» intimò lui, e Jim non pensò di contraddirlo nemmeno per un secondo. Lo vide aprire una grossa botola sotto il pavimento della cucina e sparire. Valdar rimase giù diversi minuti e Jim sentì un gran trambusto di pentole e barattoli, insieme a una serie di brontolii e ruggiti. Poi, vide riemergere la sua manona che reggeva una bottiglia di vetro.
«Ehm, grazie.»
In risposta gli arrivò solo un altro ruggito che fece tremare le pareti e Jim si levò di torno prima di fare la fine del povero pollo. Quando rientrò nella serra però, della gatta non c’era più traccia. La cercò dietro ogni vaso e sotto ogni pianta, provò a chiamarla.
Di nuovo nell’atrio, si convinse che doveva essere semplicemente andata via: aveva sentito dire che i gatti erano animali lunatici. Ci rimase un po’ male, gli piaceva l’idea che il demone fosse venuto lì appositamente per lui. Un miagolio alle sue spalle interruppe quei pensieri e Jim si voltò; le porte che conducevano all’ala ovest erano socchiuse.
Merda.
I battenti mostravano solo lo scorcio di un corridoio buio, identico a tutti gli altri. Jim evocò in una mano un fuocherello fatuo affinché illuminasse i suoi passi e trattenne il fiato come se dovesse tuffarsi in mare; aveva letto di certi incantesimi che erano costati la vita ai maghi che li avevano praticati, addirittura la distruzione di intere città. E l’esperimento di Blake che cosa aveva provocato? Aveva generato qualche creatura mostruosa? O magari reso avvelenata l’aria che stava respirando…
«Qui, micio micio.»
Nonostante il fuoco fatuo, i suoi occhi richiesero un po’ di tempo per abituarsi all’oscurità. Sembrava che nessuno avesse messo piede laggiù da anni; il pavimento era coperto di polvere che scricchiolava sotto le suole, i mobili nascosti sotto lenzuoli bianchi e uno strano odore dolciastro permeava l’aria.
«Miaooo.»
La gatta lo stava aspettando di fronte a un’altra porta chiusa, intenta a leccarsi una zampina.
«Ti sei goduta il giro?» disse Jim. «Forza smorfiosetta, torniamo di là.»
Lei emise un altro miagolio flautato e raschiò la porta.
«Vuoi andare lì?» Jim provò ad aprirla. «Spiacente, accesso negato. Andiamo, ti ho trovato uno spuntino…»
In quel momento, la porta si aprì con un cigolio. Jim si mise a ridere. «Cosa sei, una scassinatrice di porte magiche?»
Senza esitazione, la gatta s’infilò dentro. Riluttante, Jim posò su un tavolo impolverato la bottiglia di latte e la seguì.
Dovette reprimere un’esclamazione di sorpresa; era finito in una stanza lunga e stretta, come una galleria completamente vuota, fatta eccezione per le pareti tappezzate da specchi. Ce n’erano di ogni forma e dimensione, specchiere psiche, medaglioni…
Tutti gli specchi che Blake aveva fatto rimuovere.
Per quale motivo una persona dovrebbe possedere una stanza del genere? Si domandò Jim, turbato. O è l’uomo più vanesio che esista oppure c’è sotto qualcosa.
Si avvicinò a uno specchio ovale, dalla cornice intarsiata. Con sua enorme sorpresa però, si rese conto che la superficie non stava restituendo il suo riflesso, ma l’immagine di una stanza sconosciuta.  Ma che diamine..?
Jim esitò, poi allungò una mano; le sue dita incresparono il vetro e vi si immersero come se fosse la superficie di uno stagno. Ritrasse immediatamente la mano, sconcertato.
«Ok» disse fra sé. «Questo è strano.»
Ci riprovò con cautela; infilò prima il braccio fino al gomito, poi prese un altro bel respiro e fece lo stesso con la testa. Per fortuna la stanza dall’altra parte era vuota, perché lo spettacolo di una faccia e di un braccio che spuntano da uno specchio avrebbe fatto venire un infarto a chiunque. Si trattava di una camera da letto semplice ma pulita, ricavata da una vecchia soffitta illuminata da una finestra a ghigliottina.
La cornice dello specchio sembrava abbastanza larga da far passare le sue spalle, ma quando Jim inserì anche il ginocchio inciampò e capitombolò in avanti. Lo specchio era affisso sopra una cassettiera e fu un bel volo fino al pavimento; Jim si massaggiò il gomito su cui era atterrato con tutto il peso, mentre si rimetteva in piedi e gettava uno sguardo attorno. Sull’attaccapanni riconobbe il trench nero di Blake e alcuni dei suoi libri impilati sullo scrittoio, segno che lo stregone doveva essere stato lì di recente. Ma la vera sorpresa fu avvicinarsi alla finestra, aspettandosi di vedere il parco dei Winters bagnato di pioggia, e finire invece per contemplare un paesaggio urbano con la Tour Eiffel che si stagliava in lontananza.
Jim strabuzzò gli occhi, incredulo. Aprì la finestra e fu investito da una folata di vento pregno di smog misto al profumo di pane appena sfornato; Margot gli aveva mostrato diverse cartoline, la città che stava guardando non poteva che essere Parigi. Che razza di storia è questa?
Un paio di colpi decisi alla porta lo fecero sobbalzare.
«Monsieur Blanc, c’est vous?» disse una rauca voce femminile. «J’ai entendu des bruits!»
Merda.
Dato che la donna alla porta continuava a bussare insistentemente, Jim si decise ad andare ad aprire. «Ehm, salve.»
Si trovò di fronte una signora di mezza età bionda, con piccoli occhi azzurri che lo fissavano con sorpresa. Poi, attaccò con le domande.
Margot gli aveva insegnato un po’ di francese, per cui Jim riuscì a capire grossomodo cosa voleva: la signora Bernard era la governante della palazzina a Montmartre in cui si trovavano e dove il signor Blake – o le professeur Blanc, come era noto da quelle parti – affittava regolarmente una stanza.
«Sono suo nipote» azzardò il ragazzo, quando lei pretese di sapere chi fosse e cosa ci facesse lì. «Sono arrivato da poco, speravo di trovarlo qui…»
Purtroppo, la camera a soqquadro e la finestra spalancata erano tutti indizi che si fosse intrufolato come un ladro e la signora Bernard borbottò qualcosa su una telefonata da dover fare. Alla polizia, con tutta probabilità.
Non sapendo come togliersi dai guai, Jim pensò di rituffarsi nello specchio e sparire. Ma come avrebbe reagito la donna? E che avrebbe raccontato poi a Blake? Provò a dissuaderla, la scongiurò, ma la governante si stava già precipitando per le scale e Jim, nel panico, l’afferrò per un braccio.
«Ferma.»
La donna si congelò e i suoi occhietti slavati si fissarono nei suoi. Non si era mai rivolto così a nessuno, di sicuro non a un adulto: non era una richiesta, non era un invito. Era un ordine.
«Non chiamerà la polizia» disse Jim, aumentando appena la presa sul suo braccio; ogni parola usciva dalle sue labbra vibrando, chiara e decisa. «Non dirà a nessuno di avermi visto qui. Annuisca se ha capito.»
La donna annuì, remissiva. Jim la lasciò andare. La guardò mentre scendeva le scale senza una parola, sicuro che avrebbe obbedito. Si richiuse nella stanza.
Era la prima volta che provava a usare la malia, la prima volta che piegava la Volontà di qualcuno. E mentre lo faceva aveva provato una sensazione di onnipotenza, di pieno controllo ed era stato inebriante… ma adesso che il pericolo era passato, si sentiva mortalmente in colpa.
“Imparerai che quelli come noi sono al di sopra di certe strutture”
Ma quanto al di sopra si stava spingendo Blake? Che usava gli specchi per spostarsi da un paese all’altro, che si serviva di identità fasulle, inafferrabile come fumo.
Quando tornò nella galleria degli specchi, Jim trovò la gattina nera immobile come una sfinge davanti a una grande specchiera appoggiata alla parete.
«Perché mi hai portato qui?» le domandò. «Cosa stai cercando di dirmi?»
In risposta, la gatta entrò nello specchio, attraversando il vetro come se fosse liquido. Il ragazzo sospirò, rassegnato al fatto che per capirci qualcosa dovesse continuare ad assecondarla.
Quando tutto il suo corpo ebbe oltrepassato la cornice, Jim sbucò in un corridoio a scacchiera invaso da foglie marce e sormontato da arcate piene di ragnatele; sembrava che fosse finito in una specie di maniero. La gattina gli fece strada attraverso sale immense, piene di sculture in marmo e bronzo, quadri –c’era persino una copia estremamente fedele della Gioconda – armature d’epoca e mobili lussuosi. Sale che un tempo dovevano essere state magnifiche, ma che ormai versavano in un profondo stato di abbandono. L’intero palazzo era una sorta di museo in rovina.
Lasciò che il felino lo conducesse oltre un grande portone che si schiudeva su un giardino incolto, disseminato di altre statue ricoperte di muschio disidratato.
Il palazzo si affacciava, con le sue cupole e torrette, su un grande lago che rifletteva il verde dei boschi circostanti e il cielo azzurro.
Con la mente che lavorava in fretta, Jim attraversò il giardino e a un certo punto vide, in piedi sulla sponda erbosa, davanti a un cavalletto, una donna vestita di bianco intenta a dipingere.
Jim rimase immobile a fissarla, senza sapere cosa fare. La gattina invece lo superò con sicurezza, infilandosi tra le caviglie della donna.
«Lily! Sei tornata finalmente.»
Quando però si accorse della presenza di Jim, lanciò un mezzo strillo e il pennello le volò di mano.
«Oddio![1] » esclamò. «E tu chi sei? Come sei entrato?»
Imbarazzato, lui sollevò le mani e provò a rassicurarla. «Scusa, non ti volevo spaventare. Stavo seguendo il gatto e…»
La donna assunse un’espressione scettica. Era davvero bella, sulla trentina, con occhi scuri e lunghi capelli castano ramati, a eccezione di un’unica ciocca bianca sul davanti; probabilmente era per questo che a una prima occhiata le aveva attribuito molti più anni.
«Non hai risposto alla mia domanda» disse, chinandosi per raccogliere il pennello. «Come sei entrato?»
«Ecco, credo di essere passato da uno specchio.»
Lei inarcò le sopracciglia. «Da uno specchio?»
«Lo so che detto così non ha senso…»
«Aspetta, sei uno stregone?»
Jim si interruppe. «Ehm, sì. Anche tu..?»
A quelle parole, il bel viso della donna si illuminò. «In tal caso sei il benvenuto! Scusa per la brusca accoglienza ma…ecco, non ricevo molte visite. Eccetto Lily, ovviamente.» Aggiunse, facendo un cenno alla gattina.
«Non sapevo fosse tua.»
«Oh, no! Lei va e viene quando vuole, è un demone indipendente.» La maga studiò volto di Jim con interesse. «Da dove vieni?»
«Stati Uniti, lo specchio da cui sono passato era a New Orleans.»
«Però capisci l’italiano.»
«Un po’» rispose lui, facendo un gesto vago con la mano. «Nel circo dove lavoro c’è un lanciatore di coltelli di Messina. Qui dove siamo invece?»
La rossa fece un giro su se stessa, osservando il paesaggio. «Vicino Frascati. Credo che questa un tempo fosse la residenza estiva di un qualche papa.»
«E tu come sei arrivata qui?»
«Ci vivo da un po’.»
«Credevo che questo posto fosse disabitato» fece Jim, sorpreso. «Chi altro c’è oltre te?»
«Nessuno, ci sono solo io.»
«Sul serio?» si sbalordì lui. «E alla tua famiglia sta bene che tu viva in un posto così isolato…?»
Lei si incupì all’istante. «Non ce l’ho una famiglia. E non ho mai avuto bisogno dell’aiuto di nessuno, grazie per l’interessamento.»
Raccolse tela e cavalletto e un lembo del vestito e si incamminò per la sponda a piedi nudi; spiazzato, Jim la seguì.
«Scusa, non ti volevo offendere» si affrettò a dire. «È solo che mi è parso un po’ strano, tutto qui…»
«Che una donna possa stare bene da sola?»
«No, non intendevo…»
Inaspettatamente, la maga si mise a ridere. «Tranquillo, non mi sono offesa. È solo che... le persone tendono a rendermi nervosa, ecco. Qui invece posso coltivare i miei poteri in tranquillità.»
«E non ti manca avere qualcuno con cui parlare?»
Le ciglia di lei ebbero un fremito. «Qualche volta.»
A un certo punto si fermò e si volse a guardarlo negli occhi. «Potresti rimanere per cena. Così magari mi racconti questa faccenda degli specchi e come riesci ad attraversarli.»
«Non credo di averlo capito bene nemmeno io» ammise lui con un mezzo sorriso. «E poi ho disubbidito al mio maestro venendo qui, dovrei tornare prima che se ne accorga.»
«Chi è il tuo maestro?»
«Solomon Blake.»
«Ah» fece lei dopo un momento. «L’uomo dei libri.»
«Lo conosci? È stato qui anche lui?»
«È venuto solo una volta» rispose lei. «Anche lui è sbucato dal nulla, proprio come te. Mi è sembrato gentile, ha chiesto di poter esaminare la biblioteca e io gliel’ho lasciato fare: questo posto è così grande che nemmeno io so per certo quante stanze ci siano. Da allora, non l’ho più visto: credo stesse cercando qualcosa in particolare, ma non so se l’abbia trovata.»
Jim ripensò alla galleria degli specchi. «Me lo chiedo anche io.»
«Sicuro di non voler rimanere?» domandò la donna, una luce speranzosa negli occhi. «Di solito non mi piace avere gente intorno, ma se Lily è venuta da te significa che le hai ispirato fiducia.»
Titubante, Jim lanciò un’occhiata al maniero alle sue spalle. Blake poteva rientrare da un momento all’altro e per quel giorno credeva di aver trasgredito abbastanza le sue regole. «Mi piacerebbe davvero, ma non posso.»
Dopo un breve momento di delusione, lei tornò a sorridergli. «Non importa. Però, magari un giorno di questi puoi tornare a trovarmi, Attraversaspecchi.»
«Ci proverò» promise Jim, divertito dal soprannome. La salutò con la mano mentre camminava verso il portone, con Lily che gli trotterellava dietro.
«Ah, aspetta» fece poi, tornando a voltarsi. «Non ci siamo neanche presentati: io mi chiamo Jim. Jim Doherty.»
La donna, ferma di fronte al lago, gli rivolse un gran sorriso. «Piacere di conoscerti, Jim. Il mio nome è Lucia.»
 
[1] In italiano, nel testo.
  
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